affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 59


C’è ancora molta Russia in Auditorium. Il concerto di questa settimana, diretto da John Axelrod, dopo le divagazioni di Campogrande sull’Inno dell’Oman, e una novità assoluta di Boccadoro, presenta due lavori del primo ’900, che per diverse ragioni hanno lasciato il segno nella storia della musica. 
   
Lavoro commissionato da laVERDI, Orbis tertius si struttura in cinque aforismi, dichiaratamente ispirati al modello di Webern. Ma, certifica l’Autore, completamente diversi (e ‘tte credo!) Devo dire che… si lasciano ascoltare volentieri, ecco. Quando capiterà di ascoltarli ancora, altra questione è.
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La parte russa del concerto inizia con Scriabin e il suo Prométhée, o Poema del Fuoco, o 5a Sinfonia, del 1909-11. Un lavoro impregnato di simbolismo e teosofismo, come ben lascia capire la stessa illustrazione pubblicata a fronte della partitura, commissionata al simbolista belga Jean Delville:


Vi compaiono: la lira, che nasce da un fiore di loto (la vagina o mente dell’Asia); poi i due triangoli intrecciati (materia e spirito, ma anche la stella di Davide, simbolizzante Lucifero); al centro il volto di Prometeo, con i penetrantissimi occhi, contornato dalle fiamme e con la fiamma grande centrale al posto del terzo occhio e in corrispondenza della quarta corda della lira; all’esterno l’intero Universo, con stelle e galassie; in alto i raggi promananti dal trascendente.

Un lavoro tanto ambizioso quanto ambiguo, in tutti i sensi: non è propriamente una Sinfonia (ha un solo movimento e rispetta in modo assai vago e contorto la forma-sonata); non è un Concerto (a dispetto della presenza del solista al pianoforte); e non è una Cantata, anche se prevede (ma non sempre viene impiegato) un coro.

Il lavoro prevede(rebbe) piuttosto l’impiego (ma anche qui è raro che ciò avvenga) di un particolarissimo strumento, notato sul rigo più alto della partitura col nome Luce:


Uno strumento che – unico fra tutti – non smette mai di suonare per tutte le 606 battute dell’opera! In realtà i suoi suoni sono appunto… luci colorate: nella mente fervida e mistica del sinestetico Scriabin suono e luci vanno insieme e ad ogni suono si associa un colore, secondo questa tabella di corrispondenza, che segue il circolo delle quinte:

nota
colore


DO
rosso
SOL
arancione
RE
giallo
LA
verde
MI
azzurro verdastro
SI
blu
FA# - SOLb
blu scuro
DO# - REb
violetto
SOL# - LAb
lilla
RE# - MIb
blu metallico
LA# - SIb
grigio metallico
FA
rosso scuro

Uno speciale strumento a tastiera (tipo organo) si dovrebbe incaricare di illuminare uno schermo, o meglio ancora di avvolgere tutto l’ambiente, con la luce del colore indicato dalla nota in partitura. Come si può osservare dall’esempio riportato sopra, lo strumento Luce può suonare contemporaneamente due note, permettendo con ciò di realizzare combinazioni diverse di colori. Ad esempio l’incipit (FA#-LA) deve produrre una luce blu con riflessi verdi. Ecco come si può presentare il tutto in questa esecuzione (successivamente montata in film) della premiata coppia Abbado-Argerich, con i Berliner nella Philharmonie.

Sul fronte musicale, il brano ha fatto assurgere a fama imperitura (quasi quanto quella del Tristanakkord) il cosiddetto accordo mistico, formato da sei note che (nella forma poggiante sul DO) sarebbero DO-FA#-SIb-MI-LA-RE:


Le sei note sarebbero (liberamente) ricavate dalla serie degli armonici naturali (dall’ottavo in su): come si vede si tratta di una successione di quarte di tre specie: aumentata (=tritono), diminuita (=terza maggiore) e giusta. Ora, che un accordo definito mistico comprenda non uno ma ben due tritoni (il diabolus!) sembrerebbe a prima vista una presa in giro bella e buona, se non proprio una bestemmia in piena regola, ma in realtà la cosa si spiega filosoficamente, e pure religiosamente, con le credenze che attribuiscono pari dignità a Dio e a Lucifero, ecco.

Abbassando il LA a LAb si avrebbero note della scala a toni interi. Per i patiti del metodo di analisi di Allen Forte, si tratta dell’insieme di suoni 6-34 che può essere visto come un sottoinsieme spurio della scala ottotonica. Nelle prime battute assume la forma LA-RE#-SOL-DO#-FA#-SI (il colore verdognolo…) Ecco qui, sempre percorrendo il famigerato circolo delle quinte, le sue 12 trasposizioni - con i relativi colori della nota-base:

    
Scriabin parlò del suo accordo mistico come di accordo del pleroma (occhio, da non confondersi con perizoma, perchè sappiamo che la musica del nostro è assai infarcita di… sesso): un accordo che ci dovrebbe far intravedere (anzi… intrasentire!) ciò che i nostri comuni sensi non ci permettono di afferrare: date voi i connotati che preferite a quest’oggetto misterioso. In effetti la parentela con le scale a toni interi e ottotonica toglie alla musica basata (verticalmente ed orizzontalmente) su quelle note gran parte dell’attrazione tonale, conferendole un che di arcano e… metafisico. Insomma, anche Scriabin si era inventato – come i tre viennesi e Debussy - una sua personale via verso l’atonalità.

Si diceva della struttura del brano in relazione alla forma-sonata: gli analisti sono abbastanza concordi nell’individuare (ma non in modo unanime) le classiche sezioni di esposizione-sviluppo-ricapitolazione-coda (più magari un‘introduzione). Che hanno a che fare con la comparsa e i ritorni dei motivi principali e magari rispecchiano vagamente la struttura del programma filosofico dell’opera: i sette passi del cammino involutivo-evolutivo della razza umana, mutuato da La dottrina segreta di Helena Blavatsky (vedi qui a pag. 300)


Come si vede, le note del rigo Luce sono quelle della scala a toni interi, mentre le sezioni della (spuria) forma-sonata più o meno corrispondono alle macro-fasi evolutive della Blavatsky.

Invece la concatenazione tonale è del tutto avulsa dai principi classici, proprio in forza dell’atonalità di fatto del brano. È il FA# che apre con l’accordo mistico e chiude con una imperiosa quanto inaspettata triade perfetta: insomma, parrebbe che il FA# (che sta precisamente al centro, o al culmine, della nostra scala cromatica) rappresenti, per l’Uomo ancora acerbo (all’inizio del poema) la placenta, il brodo di coltura per la sua successiva evoluzione; e poi, alla fine, si ripresenti (con la triade perfetta maggiore, dove il SI# dell’accordo mistico, il diabolus, sale al consonantissimo e dominante DO#) come manifestazione sensibile del pleroma.
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Esploriamo ora nei tratti principali la citata esecuzione di Abbado-Argerich, seguendone il percorso filosofico-cromatico.

I - Luce: blu-verde (FA#-LA). A 33” l’accordo mistico introduce l’universo al tempo dell’alba dell’Uomo, dove (52” e poi 1’10”) arriva Prometeo (corni) ad innescare la miccia che porta poco dopo all’affermazione (nelle trombe) dell’Io (2’01”, i tritoni) e poi della volontà (2’03”, la scala ascendente). A 2’15” è la ragione (o la consapevolezza) a presentarsi nei flauti prima che esploda (2’29”) l’Uomo (tema mutuato da quello della volontà) le cui gesta sono affidate al pianoforte, sempre contrappuntate dal motivo della ragione. A 3’04” ecco un motivo gioioso, ancora seguito da quello della ragione. Il solista (Uomo) continua la sua opera (3’58”) ora in modo scintillante, fino a raggiungere…

II - Luce: lilla con sfumature rosso scuro (LAb-FA). (4’19”) la voluttà, poi la delizia (riferimento erotico, 4’38”) e infine il desiderio (4’45”, violino solo).

III - Luce: grigio (SIb). Dopo un colpo di timpano, ancora la volontà in evidenza (4’56”) nella tromba, seguita da momenti di emozione e rapimento (nei legni) alternata a squarci di abbandono nel violino solo (il primo a 5’22”). Ora il pianoforte (maestoso, a 5’33”) espone il motivo della creatività (derivato da quello di Prometeo) in un lungo passaggio che si chiude a 6’17”, dopo un tonfo minaccioso nel timpano, cui segue un nuovo intervento sognante del violino. Si continua per un po’ in un clima languido, ancora con il pianoforte e i legni protagonisti, con riapparizioni del motivo della ragione, finchè un nuovo, secco colpo di timpano (8’11”) che fa seguito a tre rintocchi dell’arpa, interrompe questo idillio.

IV - Luce: rosso (DO). Si passa infatti alla fase conflittuale e dopo due richiami in quarta giusta (MI-LA) di tromba e corno, la nuova entrata del pianoforte (8’36”) segna di fatto la fine dell’esposizione e l’inizio dello sviluppo. Vi troviamo la riproposta del tema della volontà in forma quasi tonalmente armonizzata, che anticipa ciò che udremo nelle trombe proprio in chiusura d’opera. Lo sviluppo è assai lungo e articolato, persino bellicoso (sic) e caratterizzato a frequenti ritorni del richiamo della volontà: a 9’18” lo udiamo nei corni e poi nella tromba; quindi più avanti ancora (dopo comparse del tema della ragione) nei tromboni, poi (da 11’02”) per quattro volte, sempre più in alto, nella tromba; quindi ancora (11’23”) colossale, nei corni, poi nuovamente in tromba e corni, con un poderoso crescendo che si smorza (11’54”) lentamente, seguito da un nuovo languido intervento del violino solo.

V - Luce: giallo (RE). Inizia qui (12’05”) la fase ascendente dell’evoluzione umana. È un passaggio pieno di mistero, affidato ai legni, poi ancora al violino, languidamente, a 12’28”. Si riode i tema della ragione, il pianoforte interviene per ora molto discretamente, ancora il violino, quindi ecco iniziare un crescendo di tutta l’orchestra che conduce alla fine dello sviluppo e all’inizio della ricapitolazione (14’40”) con il tema della ragione, esposto ora con grande enfasi dai corni. È il pianoforte a riproporre i motivi già uditi nell’esposizione: il primo che richiama la volontà (14’55”); poi quello danzante (15’29”).

VI - Luce: azzurro verdastro (MI). A 15’45” procede ancora, proprio a passo di danza, il cammino verso la trascendenza che vede l’irruzione improvvisa (16’31”) del coro: qui sono contralti (metà a bocca chiusa) e bassi (tutti a bocca chiusa) che emettono per ora vocali apparentemente inarticolate ispiranti beatitudine.  

VII - Luce: blu scuro (FA#). Ancora il richiamo della volontà (16’49”) esposto dalla tromba sottolinea l’ingresso dell’Uomo nella trascendenza. A 17’03” rientra il coro al completo che questa volta espone un testo apparentemente bizzarro, precisamente Eaohoaoho, che probabilmente deriva da Oeaohoo, l’eterna unità vivente secondo la Blavatsky. L’orchestra ora ribolle in un crescendo (tema di Prometeo) che si interrompe (17’47”) per far spazio al violino solo, prima che un prestissimo (18’05”) dia inizio alla sezione di coda, dove pianoforte e orchestra dialogano spasmodicamente.

E veniamo così alla conclusione, davvero bizzarra, date le circostanze: perchè (19’00”) assistiamo all’insediamento di un retorico LA#(=SIb) maggiore, con le trombe in particolare a riproporre il tema tonalizzato della volontà, scalando in arpeggio quasi due ottave: DO-FA-SIb-RE-FA-SIb (quarte giuste e terze). Che succede? Si sta per caso chiudendo sul grigio di LA#?! Non sia mai detto, ed allora (19’11”) ecco che nelle ultime 5 battute – fermo restando il LA#(=SIb) di quelle principali – le voci interne si muovono, da FA e RE, su FA# e DO#: un’incredibile, pacchiana e melodrammatica cadenza ottocentesca (un tale Bruckner, al culmine dell’Adagio della sua Ottava, aveva fatto precisamente la stessa cosa: grande arpeggio di MIb sfociato in un colossale DOb!) che chiude, come da copione, sul blu scuro del FA# maggiore.
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Inutile dire che chi ascolta questa musica senza nulla conoscere dei retroscena filosofici rischia di sopportarla a malapena come si fa con un’insipida brodaglia, che solo negli ultimi 20 secondi (su 20 minuti!) si trasforma in un (peraltro stomachevole) cacao meravigliao!   

Bene, adesso (dopo tutto ‘sto pedantesco tormentone…) chiederete: ma com’è andata qui in Auditorium? Ecco: niente coro (forse costava troppo scomodare i discepoli della Gambarini per così poco?) ma soprattutto niente luci: ora, ammesso che con le luci ci si possa forse divertire (mah…) se restano in ballo solo i suoni non ci si diverte per nulla, almeno questo è il mio schietto parere.

Certo: l’Orchestra, Axelrod e Maria Perrotta han fatto di tutto per… indorarci a pillola, tanto che il pubblico qui accorso in modica quantità ha mostrato di gradire: meglio così!
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Dal misticismo di contrabbando di Scriabin (seghe mentali, perdonate la definizione aulica…) alla straordinaria barbarie del Sacre di Stravinski! Tra le due opere e i due autori non ho personalmente dubbi sul come assegnare le palme di modernità e di rivoluzionario.

Axelrod, che deve averla imparata direttamente da Lenny Bernstein (uno che la conosceva come le sue tasche) rinuncia alla bacchetta e sfodera gesti secchi da vigile urbano che dirige il traffico in un incrocio caotico. Il risultato (grazie ovviamene ai ragazzi) è superlativo e… peggio per gli assenti, che però hanno ancora due possibilità per rimediare.

07 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 58


L’EXPO ha chiuso i battenti, ma non Campogrande, che prima di dedicarsi al prossimo MITO si sofferma ancora sugli inni nazionali (Vietnam, questa volta).

Poi programma tutto sovietico, diretto da Stanislav Kochanovsky, che torna dopo nemmeno un mese sul podio dell’Auditorium, rimpiazzando l’originariamente designato Aziz Shokhakimov (che in compenso è appena stato nominato Direttore Principale Ospite de laVERDI).

Dapprima per supportare il rampante Yuri Revich (anche per lui un ritorno qui dopo due anni) nel Concerto di Aram Khachaturian, azero-armeno di Georgia, presto trasferitosi a Mosca - proprio come il suo conterraneo Stalin - e pienamente e convintamente integratosi nell’establishment musicale dell’URSS, scalandone la piramide fino al top. A parte una fugace e tardiva (1948) accusa di formalismo mossagli da un ormai moribondo Ždanov - accusa presto rientrata più a causa della scomparsa del censore che per merito della deliberatamente ipocrita autocritica del musicista – il nostro potè poi girare il mondo in lungo e in largo a spese del regime per farne l’apologia.

Il concerto qui eseguito è del 1940, periodo in cui il patto Molotov-Ribbentrop aveva illuso Stalin e compari di poter continuare indisturbati il consolidamento del loro potere assoluto, fatto di purghe e fucilazioni per i dissidenti e di premi in natura per gli artisti vessilliferi del regime. Regime che – attraverso l’Unione dei Compositori Sovietici, del cui comitato organizzativo Khachaturian era allora vice-presidente! - aveva fatto sorgere a Ruza (100Km a ovest di Mosca) una specie di villaggio del riposo e della creatività per musicisti, dove il nostro trascorse proprio l’estate del ‘40 con la moglie Nina incinta e dove compose di getto il concerto per violino, poi sostanziosamente rivisto dall’amico e dedicatario Oistrakh, che lo tenne quasi subito a battesimo a Mosca e di cui ecco un’esecuzione con l’Autore sul podio.

Oistrakh, oltre a fornire apprezzati consigli a Khachaturian sulla parte solistica, scrisse anche, per l’iniziale Allegro con fermezza, una sua cadenza (che si ascolta nella registrazione citata, da 8’06”) più brillante e classica nel contenuto di quella originale (che si può ascoltare invece da Haik Kazazyan, da 7’56”). 

Khachaturian si attiene scrupolosamente alla struttura classica: tre movimenti (due veloci ad incastonare quello lento) e impiego della forma-sonata nel primo e del Rondo nel finale; praticamente… fine ‘700! Certo, i temi sono tutt’altro che sinfonici, ispirati come sono a melodie popolari vagamente orientaleggianti, che il compositore aveva assimilato nelle sue terre caucasiche; ma sono magistralmente elaborati e danno al brano quella brillantezza che ne ha garantito il successo fin dalla prima esecuzione.
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Seguiamo la citata interpretazione di Oistrakh. Non ci sono accidenti in chiave, ma l’Allegro con fermezza (che occupa quasi il 40% dell’intera durata) è in RE minore, introdotto da 9 robuste battute orchestrali, dopo le quali (15”) il solista espone il primo tema, di sapore maschio e nervoso, suddiviso in due sezioni, subito rimbeccato dall’orchestra; tema poi ripetuto (1’03”) un’ottava più in alto e ancora sviluppato con il concorso orchestrale. Una transizione lenta (1’51”) conduce al secondo gruppo di temi (2’12”, Poco meno mosso) più elegiaco, vagamente ambientato sulla dominante LA e caratterizzato da un secondo motivo (3’27”) quasi lamentoso. Una breve cadenza (3’54”) conduce al corposo sviluppo, introdotto ancora rumorosamente (4’09”) dall’orchestra, dove il solista ripropone assai variati i temi principali, dialogando con l’orchestra fino ad adagiarsi su trilli di FA acuto. Qui (7’40”) violino e clarinetto si rimbeccano un veloce motivo di biscrome che scende e risale di un’ottava per sfociare (8’06”) nella lunga cadenza principale del solista. Dopo la quale(10’45”) ecco la ricapitolazione dei temi, nelle stesse tonalità dell’esposizione, ma con qualche variante: il primo (10’54”) e poi (12’00”) il secondo. Infine ecco (13’51”) una veloce coda conclusiva, basata sul primo tema.

Il centrale Andante sostenuto è permeato di… Caucaso: le lunghe melodie del solista sono un omaggio ai canti dei bardi armeni (gli ashug). La macro-struttura è di pseudo-rondo: A-B-A-B-A-B, dove sia A che B vengono però continuamente variati e sviluppati. È il fagotto ad introdurre l’embrione del motivo A (14’56”) intercalato dal clarinetto, prima dell’entrata del solista (16’21”) con il tema B, una lunga emozionante melopea. Dopo una breve parentesi orchestrale (18’16”) il solista riprende (18’27”) il tema A, che sviluppa ampiamente e al quale fa seguire (19’24”) il tema B, anch’esso sviluppato con un’accelerazione (20’10”) ad Allegretto, che l’orchestra ulteriormente accentua con un movimentato Allegro (20’30”) che introduce, tornando ad Andante (20’58”) il tema A, variato e ripreso successivamente con nuove variazioni (22’13”) dal solista. Altro siparietto orchestrale (24’02”) con cadenza del fagotto sul tema A e alcuni strappi con intervento dei piatti, quindi (24’34”) il solista riespone B all’ottava inferiore rispetto alle altre due entrate, contrappuntato dal clarinetto. A 25’22” l’orchestra interviene a completare B con una perorazione grandiosa, che porta (26’06”) alla coda conclusiva del solista.

Il finale è un Rondo Allegro vivace con il ritornello in RE maggiore. La macro-struttura è A-B-A-C-A-B-A’, più Introduzione e Coda. È l’orchestra (27’13”) ad aprirlo con una spettacolare fanfara introduttiva. Il ritornello A (il cui tema è vagamente mutuato dal secondo del movimento iniziale) viene esposto dal solista a 27’49” ed è seguito da un breve controsoggetto. Nuova esposizione di A (28’13”) seguita da una sua seconda sezione (28’23”) che attacca in minore per poi riproporre il tema in maggiore. L’episodio B (28’34”) presenta un tema dolce, esposto dal solista con interventi dell’orchestra (28’54” e 29’18”) che sfociano nella riproposizione delle due sezioni di A (29’29” e 29’41”). Una nuova fanfara (29’58”) orchestrale porta all’episodio principale (il più lungo) caratterizzato dall’agogica cantabile appassionato: a 30’10” il solista ne espone una prima sezione, seguita, dopo un intervento dei corni (30’11”) da una seconda e quindi, dopo altro intervento orchestrale (32’31”) da una terza assai virtuosistica (32’57”). L’orchestra (34’07”) e il solista (34’23”) preparano il ritorno di A (34’28” e 34’37”) seguito subito (34’50”) da B. Ancora l’orchestra (35’13”) introduce l’ultima apparizione di A (35’18”) qui virante a minore. A 36’06” ecco la virtuosistica coda, chiusa dalla fanfara che aveva introdotto il finale.        
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Revich ci mette tutto l’impegno per trasmetterci la vitalità del concerto. Peccato che (forse causa penuria di prove) l’intesa con Kochanovsky non sia stata perfetta: non tanto sugli attacchi, ma sul peso degli strumenti dell’orchestra, che hanno spesso e volentieri coperto (per eccesso di volume) il suono pur gagliardo del violino solista. 

Quanto alla cadenza, Revich ha deciso di mettere tutti d’accordo creandone una sua personale, che parte da quella di Khachaturian e poi mutua qualcosa da Oistrakh e un po’ anche da… lui medesimo! In ogni caso il successo è garantito e le chiamate del pubblico vengono ricompensate con un Bach assai spigliatamente proposto.
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Infine la Quinta di Shostakovich, che torna in Auditorium dopo 17 mesi (allora diretta da Xian). Opera che andrebbe apostrofata come Sinfonia ipocrita: ciò a voler prestar fede alle dichiarazioni pubbliche e private dell’Autore; le prime di aperte scuse per i passati errori (la Lady) e di apologia del regime staliniano (la realizzazione dell'uomo); le seconde che smentiscono clamorosamente le prime (Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione) denunciando la mancanza di libertà che quel regime imponeva a sudditi e compositori.

Ovviamente basta ignorare del tutto sia le une che le altre esternazioni per poter godere di questa musica, una sinfonia tardo-romantica composta quasi a metà del ‘900, e chi se ne importa. Allo Höhepunkt del Largo c’è sempre da rabbrividire a quel passaggio dal SOLb maggiore al FA maggiore dove i violoncelli – sul tremolo degli altri archi e il tappeto di semicrome dei clarinetti - espongono un motivo davvero sbudellante (anticipato poco prima dall’oboe e poi dal flauto e ripreso in armonici dall’arpa alla fine):



Inutile dire che l’Orchestra ha splendidamente suonato, facendo fare un bella - ma tutto sommato anche meritata - figura al giovane Kochanovsky!

04 novembre, 2015

laVERDI annuncia la stagione 2016 – alla faccia di Nastasi


Mancano ancora gli ultimi 7 dei 64 concerti della lunghissima (causa EXPO) stagione 14-15 e laVERDI ha annunciato, nella bellissima sede del MAC, la stagione 2016, che coprirà quindi l’anno solare, da gennaio a dicembre.

La stagione principale consta dei tradizionali 38 concerti e vedrà parecchie interessanti presenze. Cito, per tutte, quella di Jader Bignamini, che ascolteremo in 6 concerti, perché il Maestro cremonese, cresciuto come strumentista nell’orchestra di cui è Direttore Associato, sta ormai prendendo il largo in fatto di repertorio: che spazierà da Prokofiev (Romeo) a Wagner (tre preludi) a Shostakovich, Ciajkovski, Stravinski, Rossini (un gala) e Dvorak, oltre alla ripresa del Requiem verdiano e ad un nuovo approccio a Brahms (la prima).

Anche le altre iniziative sono confermate, ad eccezione, per ora, della stagione de laVERDI BAROCCA. E qui entra in ballo tale Salvo Nastasi: che sarebbe l’autore materiale del crimine perpetrato nei confronti de laVERDI, consistente nel suo declassamento istituzionale con conseguente dimezzamento dei fondi pubblici (da due a un milione) che impedisce – per ora – alla Fondazione di garantire anche la stagione barocca.

Il D.G. Corbani non è stato tenero con Nastasi (simpaticamente apostrofato come malvagio). A precisa domanda su quale sia il movente che spinge le pubbliche istituzioni a penalizzare regolarmente (fin dalla sua nascita) l’Orchestraverdi, Corbani ha usato toni politically-correct, dicendosi semplicemente stupito che in Italia iniziative che dovrebbero essere benemerite (come questa) vengono invece boicottate alla grande.

Ciò che Corbani non dice esplicitamente lo scrivo allora io: perchè laVERDI, a differenza di (quasi) tutte le altre fondazioni lirico-sinfoniche italiane, non ha mai accettato, non accetta e (speriamo!) mai accetterà di trasformarsi in un carrozzone inefficiente ma assai funzionale alle razzìe di politici e politicanti di ogni risma (i vari Nastasi e i loro mandanti, appunto); di diventare uno dei tanti orti e orticelli funzionali al voto-di-scambio e alla distribuzione di privilegi e prebende.

Se alla testa della Verdi, invece di Corbani-Cervetti-Jais ci fosse gente prona al potente di turno e disposta ad ogni compromesso, state pur certi che di milioni non ne riceverebbe 2 ma 10: che però, invece che in cultura, finirebbero in colture di ogni specie di clientelismo, sprechi e inefficienze.

E allora, che Dio ci conservi laVERDI contro tutti i Nastasi. E siccome anche Dio può non bastare, tocca a tutti coloro che hanno a cuore la cultura far sentire la propria voce (e il proprio portafoglio!) a sostegno di questa realtà unica nel desolante panorama nazionale. 

Wozzeck in Scala per i soliti quattro gatti

 

Ieri Wozzeck è arrivato alla terza recita. Per fortuna non siamo più alle clamorose contestazioni del 1952, ma viene il sospetto che la ragione risieda nel fatto che i potenziali contestatori oggi si guardano bene dal venire a teatro. Dico, le vendite dei biglietti sono aperte dal 30 maggio (!) ed ancora è possibile acquistare – cosa inaudita - posti di loggione, che normalmente vanno esauriti in pochi minuti! Deprimente davvero lo spettacolo della sala semivuota…  

Purtroppo siamo sempre lì: ancora a distanza di quasi un secolo, certa musica – allora rivoluzionaria – non ha sfondato, quali ne siano le ragioni, e rimane appannaggio di una ristretta cerchia di melomani che almeno si sforzano un po’ di capirla, non dico di andarne entusiasti. Sono le poche decine di spettatori che ieri sera hanno prolungato di 5 minuti, non di più, la già breve presenza in teatro per applaudire l’intera compagnia. Per il resto del pubblico, quello dedito alla fruizione passiva, questa rimane una musica largamente incomprensibile e quindi di scarsissimo appeal… e poi c’era ancora tutto il secondo tempo della Juve da godersi!

Ingo Metzmacher torna dopo l’esperienza positiva (per lui e i soliti pochi intimi) di Soldaten dello scorso gennaio; direzione precisa la sua, salvo che gli si deve essere incantata la manopola del volume sul fondo-scala: forse sarà colpa delle voci a scartamento ridotto (Wozzeck e Marie esclusi) ma sta di fatto che i suoni dalla buca hanno spesso e volentieri coperto alla grande le emissioni dal palco.

Nel ruolo del protagonista Michael Volle, unico con la Merbeth a farsi udire, ma unico anche a convincere pienamente sul lato interpretativo, Sprechgesang in particolare.

Wolfgang Ablinger-Sperrhacke impersona - come nel 2008, unico superstite di quell’edizione scaligera - Hauptmann, un ruolo musicalmente modellato su quello del wagneriano Mime, di cui non a caso il tenore è interprete di spicco (lo fu anche nel Rheingold di Cassiers-Barenboim del 2010). Fatico a ricordare la sua prestazione del 2008, ma temo che i 7 anni trascorsi stiano pesando assai sulle sue spalle. Il Doktor è un onesto Alain Coulombe, che però fatica (causa Direttore?) a far passare tutta la sua prosopopea di aspirante al Nobel. Roberto Saccà si cala nell’uniforme del Tambourmajor, e tutto sommato ne esce con merito, a dispetto del suo non essere un Heldentenor. Michael Laurenz è un dignitoso Andres, che pare addirittura intonato nel cantare la sua canzoncina nella seconda scena!

La protagonista è Ricarda Merbeth, con Volle l’unica a passare sopra i fracassi orchestrali: però il pathos che dovrebbe caratterizzare Marie mi è parso assai smunto. Margret è impersonata da Marie-Ange Todorovitch: direi senza infamia e senza lode, il suo Lied del terz’atto non è stato proprio entusiasmante.

Rudolf Johann Schasching è il pazzo, che Flimm tiene sempre in scena, affidandogli anche l’incarico di dare al bimbo la ferale notizia (Dein Mutter ist tot). Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius sono discreti interpreti dei due garzoni, insieme all’altro accademico Sascha Kramer (soldato). Il bimbo di Marie e Wozzeck è Tito Comoglio. Cori (grandi e piccoli) di Casoni su livelli di onestà professionale.
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Lo spettacolo di Jürgen Flimm (oggi ripreso da Giovanna Maresta) fa sempre la sua dignitosa figura a quasi 20 anni di distanza e la potrebbe fare ancora nel 2037, se la Scala nel frattempo non sarà stata venduta (more-Smeraldo) ad un Oscar di passaggio che ne faccia un luogo di happening, più accogliente e divertente di quanto non sia oggi, per i turisti orientali.