affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

03 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 3

 

Xian Zhang torna sul podio della sua Orchestra per il terzo concerto della stagione, ancora tutto russo, anche se questa volta non tutto Ciajkovski.

Il primo dei due pezzi è infatti di Prokofiev, il Secondo concerto per pianoforte, che ci viene offerto da una conterranea del compositore, la scatenata Valentina Lisitsa.

Il concerto, composto originariamente nel 1912-13, venne completamente riscritto da Prokofiev nel 1923, essendo la partitura originale andata persa (pare finita in una stufa) durante la Rivoluzione d’Ottobre. Sembra che Prokofiev, a 10 anni di distanza, abbia un filino smussato certi... spigoli che avevano fatto rizzare i capelli in testa a pubblico e critica alla prima esecuzione. Il concerto è (à la Brahms-2) in quattro movimenti.
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Proviamo a seguirlo – seguendo una dettagliata analisi contenuta in una tesi di laurea di quasi 50 anni fa! - suonato da un’altra giovane interprete: Yuja Wang.

Il primo movimento è un Andantino in SOL minore e RE minore, che ha una struttura abbastanza semplice: A-B-A’, preceduti da una breve Introduzione e da una più corposa Coda. A’ è in realtà occupato da una colossale cadenza del pianoforte solo, una delle cose più apocalittiche (stra-smile!) che siano mai state composte.

40”. Due battute orchestrali fanno da Introduzione: il  motivo discendente ivi esposto verrà ripreso solo nella Coda.

50”. Il solista introduce il primo gruppo tematico A, costituito da due motivi, a1 e a2: due battute introduttive di arpeggio e poi (55”) 8 battute dove il  motivo a1 viene reiterato e variato 4 volte.

1’30”. Il solista attacca il motivo a2 di 11 battute, scindibile in tre frasi (3-4-4).

2’09”. Mentre il pianoforte continua ad arpeggiare è l’orchestra (strumentini) a riproporre il gruppo tematico A (prime due ricorrenze di a1) raggiunta poi dal solista (2’24”) che espone il resto di a1.

2’41”. Ancora l’orchestra (archi in primo piano, con intervento successivo dei clarinetti) torna ad esporre a2, chiuso da una rapida salita di flauti e clarinetti che porta al secondo gruppo tematico.

3’30”. Il quale (B) è in tempo Allegretto e si compone di 2 motivi così disposti: b1-b2-b1. Viene introdotto da 4 battute dei legni (una frase ripetuta 4 volte) prima che il pianoforte (3’38”) attacchi il motivo b1, costituito da due frasi (b1a e b1b) di 4 battute ciascuna.

3’52”. Adesso è il solista a riprendere (su 3 invece di 4 battute) l’introduzione, dopodiché (3’59”) l’orchestra (flauti e oboi) e il solista riespongono il motivo b1, di cui i legni reiterano (4’06”) la frase b1a innalzandola di una quarta e introducendo la tonalità di RE minore (dominante del SOL di impianto, come da sacri canoni). A 4'15” ecco ripresa la frase b1b, che porta al secondo motivo.

4’22. Sono ancora flauto e clarinetto ad esporre per due volte b2, un motivo di 5 battute il cui incipit è mutuato da quello di b1. b2 chiude con un crescendo che sfocia a 4’37” in un accordo di RE minore sul quale viene riproposta dall’orchestra l’introduzione a b1. Il quale è poi esposto (4’43”) dal solista accompagnato da impertinenti incisi dei legni.

5’05”. Qui il solista attacca una transizione, interrotta (5’13”) da un intervento di clarinetti e fagotti, che porta (5’28”) ad un criptico ritorno del tema A nell’orchestra (violoncelli, sulla minime discendenti di flauto e oboe) che prepara la massacrante cadenza solistica.

Essa inizia (5’53”) con la riproposizione del primo tema (a1) che poi continua ad essere sviluppato fino a 7’37”, dove appare vagamente l’introduzione iniziale, poi ecco (8’02”) la seconda parte del tema (a2) presentato nelle sue tre frasi componenti, ma in ordine diverso (3-1-2). Qui si entra in una vera e lunghissima orgia sonora, che si conclude (9’58”) con un pesante accordo di RE minore, che dà inizio alla Coda. Mentre il pianoforte accompagna con veloci arpeggi, l’orchestra vira a SOL minore riproponendo, in forma dilatata, il motivo dell’introduzione, chiudendo con un pesante accordo di SOL minore.

10’28”. Qui il solista riprende il primo tema, mentre clarinetto e archi bassi lo contrappuntano un paio di volte con il motivo dell’Introduzione. Poi il movimento si spegne su un SOL in pianissimo (11’12”).

Il secondo movimento è uno Scherzo in tempo Vivace, RE minore, una specie di toccata in moto perpetuo. Prima di addentrarci nell’analisi, facciamo una constatazione di tipo… atletico: si pensi che il movimento è costituito da 186 battute (più quella finale, occupata da una sola croma) di cui 181 in 2/4, 3 in 3/4 e 2 in 1/4. Tutte contengono, per la parte solistica, 4 semicrome per ciascuna semiminima, in entrambe le mani. Ciò significa, in tutto, esattamente 1500 semicrome. Qui la Wang impiega a suonarle 2’12”, il che significa che lei suona con ciascuna mano ben 11,36 semicrome al secondo! Per 132 volte di fila, senza una sola presa di respiro!

La macro-struttura del movimento non si discosta da quella del primo: A-B-A’. I motivi sono presentati dall’orchestra, e si stagiano su una specie di strada ferrata stesa dal solista con le sue folli semicrome, che si muovono prevalentemente per gradi congiunti.

11’19”. La sezione A consta di tre diversi motivi: a1 (11’21”) a2 (11’30”) e a3 (11’35”). Essa viene interamente riproposta (11’41”) in DO# minore. A 12’03” si torna a RE minore per una breve coda, che porta all’esposizione della sezione B.

Questa, in SIb maggiore, è costituita da due motivi disposti come: b1 (12’16”) ripetuto 4 volte, poi b2 (12’27”) in LAb maggiore, ripetuto, quindi ancora b1 (12’39”) in DO maggiore.

A 12’50” viene riproposta, tornando a RE minore, la breve coda che aveva chiuso la sezione A e si passa (12’55”) alla A’, che ripropone due dei tre motivi di A: partendo da a3, in FA maggiore, poi (13’01”) a2 variato e infine (13’07”) ancora a1 variato.

Ora si passa alla Coda, dove si riprende (13’12”) A’, e poi (13’18”) anche B fino alla rapida conclusione (13’33”).

Il terzo movimento è intitolato Intermezzo, in Allegro moderato, SOL minore. Come i due precedenti, ha una struttura ternaria, questa volta rappresentabile come A-A’-B-B’-A”.

Si apre (13’43”) con un’Introduzione dove si distinguono tre motivi: il primo è un pesante passo di marcia, il secondo (14’01”) nei corni, una melodia ascendente accompagnata da discese in staccato nei clarinetti e il terzo (14’12”) che sulla melodia dei corni innesta una frase staccata ascendente di oboi e clarinetti.

14’24”. Entra il solista che, accompagnato da crome in staccato negli archi, espone il tema A, che si estende per 8 battute compiendo un arco di salita-discesa. Poi (14’48”) eccone uno sviluppo, che include (14’53”) un inciso per terze. A 15’08” una coda chiude l’esposizione di A.

15’23”. Il solista espone ora una tranquilla transizione, chiusa con l’intervento dei clarinetti che ripetono le discese in staccato dell’Introduzione. La tonalità è salita a SIb minore.

15’56”. Qui abbiamo l’esposizione di A’, una versione variata del primo tema (a 16’24” torna l’inciso per terze), che si chiude a 16’48” in RE minore, per far posto ad una transizione verso la sezione B.

La quale inizia a 17’05” con l’esposizione del tema nell’oboe e (arpeggiato) nel pianoforte, tema ripetuto in inversione (17’24”). A 17’43” eccoci alla variante B’, sempre in RE minore, aperta dal solista raggiunto poi (18’02”) dall’orchestra, dapprima in staccato e poi in modo pesante (18’18”).

18’27”. Le terzine dei clarinetti annunciano il ritorno, in DO minore, del tema A”, forma variata di A. A 19’16” inizia la Coda che ci riporta a SOL minore, impiegando motivi dell’Introduzione, e chiude il movimento a 19’54”.

Il Finale (20’06”) è marcato come Allegro tempestoso in SOL minore ed è in forma-sonata, pur liberamente interpretata (specie nella ricapitolazione). Il tema principale A consta di tre motivi: a1, a2 (20’20”) che modula spesso e a3 (21’00”) in SIb minore. Un SIb in fortissimo (21’08”) dà luogo ad una transizione caratterizzata da cupi interventi degli ottoni, che poi modula a RE minore (in vista del secondo tema!) ed è chiusa (21’31”) da una coda in cui agli accordi lugubri del solista fanno eco spettrali incisi degli archi bassi.

22’11”. Inizia qui un’introduzione orchestrale al secondo tema (B) che il solista presenta a 22’31”: è una mesta melodia di sapore slavo che viene poi ri-esposta altre tre volte. Dopo la seconda esposizione da parte del solista (23’13”) con l’inversione del tema, ecco l’orchestra che lo presenta (23’55”) nei fagotti, poi nei flauti, cui il pianoforte regge bordone, per poi riprenderlo in prima persona. A 24’32” ancora l’orchestra ci presenta per la quarta volta il tema (forma invertita), col solista a contrappuntarlo nella forma canonica.

Arriviamo così allo sviluppo (25’08”) costituito da tre sezioni in cui i due temi A e B vengono continuamente manipolati. Dopo la prima sezione dove solista ed orchestra dialogano continuamente, chiusa da due pesanti accordi (25’59”) ecco la seconda (26’04”) riservata ad una cadenza del pianoforte. A 27’54” inizia la terza sezione dello sviluppo, ancora in dialogo fra orchestra e solista. Sviluppo chiuso dal pianoforte e dai trilli del clarinetto con un languido diminuendo.

29’48”. Qui irrompe la ricapitolazione, che per la verità segue assai poco le sacre regole, in quanto presenta semplicemente porzioni del tema A ed ignora totalmente il B. A 30’34” ecco la Coda che porta a rotta di collo verso la conclusione.
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La giunonica Valentina, che si è presentata abbigliata come… Barbie (smile!) non ha tradito le attese, mettendo a dura prova le corde e i tasti dello strumento sotto le autentiche mazzate prescritte da Prokofiev. Qualche piccola imperfezione (come evitarle, con una simile partitura?) non ha per nulla inficiato la sua grande prestazione, salutata da ripetute chiamate, cui lei ha risposto non con uno, ma con due dei suoi classici bis.


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Chiude il programma la Sinfonia Manfred di Ciajkovski. Rimando i perditempo a queste mie note scritte quasi tre anni addietro in occasione dell’ultima comparsa dell’opera qui in Auditorium. Allorquando venne proditoriamente (ma è una fissazione di Caetani… e non solo sua) mutilata del finale religioso, sostituito da uno di carattere nichilista (quindi… bayroniano!) Al Manfred, con il pretesto che l’Autore stesso ne era rimasto scontento (in effetti, è tutto tranne che un capolavoro) sono stati inflitti, e ancora si infliggono, cervellotici tagli o cut&paste… Uno dei primi responsabili di tutto ciò fu Arturo Toscanini, che pure si dichiarava entusiasta dell’opera, oltre che paladino del rispetto delle partiture (?!): poi tagliò una parte cospicua del finale, ben 116 battute, più o meno 5-6 minuti di musica, compresa la tanto vituperata fuga. (Ma siamo proprio sicuri che il taglio non fosse invece legato alla capienza delle facciate degli allora rivoluzionari LP? Guarda caso i 47 minuti di Toscanini sono proprio il massimo consentito a quei tempi… e ri-guarda caso i primi due movimenti, integri, durano 23’25”!!!)  

Ecco invece la trionfale esecuzione de laVERDI con Xian ai PROMS 2013, dove sentiamo il 100% delle note di Ciajkovski e il finale autentico, con il possente (e forse esagerato, rispetto alla volontà dell’Autore) intervento – a 58’20” - dell’organo della sterminata RAH.

E invece, ieri come è andata? Sembra quasi una presa in giro, o una maledizione dell’Auditorium, ma la Xian, se ha conservato l’armonium e il finale originale, ha però inferto alla partitura dell’ultimo movimento un taglio peggio di quello di Toscanini! Insomma, per questo povero Manfred non c’è proprio pace…

01 ottobre, 2014

Mehta creatore alla Scala

 

La stagione concertistica del Teatro è stata aperta Iunedi da Zubin Mehta con l’esecuzione dell’oratorio Die Schöpfung (La creazione) di Josephus Haydn. Ieri sera la prima delle due repliche (oggi l’ultima) in un Piermarini che presentava più di un vuoto qua e là.


A Milano quest’opera era ultimamente risuonata un paio d’anni fa nella Sala grande del Conservatorio, proposta in chiusura del MITO-2012 da Helmuth Rilling con i suoi complessi orchestrali e vocali di Stoccarda. Nell’occasione avevo scritto alcune note, focalizzate principalmente su quell’autentico gioiello che è l’Ouverture.

Rispetto a Rilling, Mehta ha messo in campo una squadra un po’ più nutrita: il coro SATB di Casoni era di 60 elementi (17-17-14-12) rimasti in 59 proprio alla fine per la defezione di un soprano (speriamo per lei non si sia trattato di nulla di grave…) e gli strumentisti erano 50 (51 nella terza parte, dove si aggiunge un terzo flauto) più timpani e tastiera.

Ai tre interpreti principali - il soprano Julia Kleiter, il tenore Peter Sonn e il basso Thomas E.Bauer - si è aggiunta Lilly Jørstad, mezzosoprano dell’Accademia scaligera, per cantare 4 Amen (neanche una quarantina di note…) nell’Andante conclusivo (di solito per questa incombenza si fa avanzare una componente del coro). La Kleiter non mi è parsa impeccabile, soprattutto negli acuti e nelle volate di semicrome che costellano la sua parte. Meglio han fatto il tenore e il basso.

Con scelta (per me) infelice, anche se non rara, si è fatto dopo la seconda parte un intervallo in piena regola, che finisce per rompere l’unità dell’opera e la concentrazione del pubblico: credo che un’ora e cinquanta minuti filati dovrebbero essere più che sopportabili sia per gli interpreti che per il pubblico.

Ad ogni buon conto, il successo è stato pieno e meritato.  

27 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 2

 

Il compianto Rudolf Barshai – che per anni fu Direttore principale dell’Orchestra - è il protagonista del secondo concerto de laVERDI, condotto da uno degli attuali Direttori principali ospiti, Gaetano D’Espinosa.

In programma due lavori di cui Barshai è stato, come dire, il secondo padre: non li ha messi al mondo lui, ma li ha svezzati e allevati con grande cura e amore.

Dal maestro e amico Dimitri Shostakovich Barshai ebbe l’autorizzazione a trascrivere per orchestra d’archi il famoso quanto controverso Quartetto n°8 op.110, divenuto quindi Sinfonia da camera op.110a. Nel marzo di 4 anni fa un malanno improvviso gli impedì di dirigerla personalmente in Auditorium (lo sostituì Grazioli) dove purtroppo non mise più piede, essendo venuto a mancare nel novembre di quello stesso anno: questo concerto è quindi anche un doveroso tributo alla sua grande figura di musicista. 

Dell’ottavo Quartetto si è scritto di tutto, date le circostanze in cui fu composto e le (pseudo?) rivelazioni che dopo la morte del compositore ne misero in nuova e diversa luce la figura di uomo e i rapporti con il potere sovietico.

In memoria delle vittime di fascismo e guerra: questa la dedica (che peraltro Shostakovich annunciò, solo a voce, un paio di mesi dopo la composizione) del quartetto, composto in soli tre giorni (12-14 luglio) nel 1960 a Dresda, dove ancora erano evidenti i segni lasciati dai terribili bombardamenti alleati che in 2 notti (13-15 febbraio, 1945) avevano ridotto la splendida Firenze dell’Elba ad un cumulo di macerie.

Ma quello era anche il periodo in cui il compositore, avendo accettato pochi mesi addietro la nomina a Primo Segretario dell’Unione Compositori della Repubblica Russa, aveva di conseguenza dovuto far richiesta di iscrizione al Partito Comunista (iscrizione che lui aveva prima di allora categoricamente rifiutato e che verrà confermata pochi mesi dopo): un atto di cui Shostakovich non poteva non valutare (e subire!) portata e conseguenze.

Nella famosa lettera scritta all’amico Isaak Davydovich Glikman nemmeno una settimana dopo la composizione del Quartetto, Shostakovich vi getta una luce assai lontana da quella della dedica pseudo-ufficiale (che annuncerà posteriormente!): arrivando a definirlo ideologicamente riprovevole e in realtà pensato come un auto-epitaffio! In effetti cosa c’entrino con le vittime di fascismo e guerra le auto-citazioni da alcune sinfonie (1, 5 e 8), un trio (2), un concerto (cello) e la Lady, più quelle della Patetica, del beethoveniano Muß es sein? e un po’ di Wagner – il tutto infarcito da massicce dosi della propria sigla DSCH! - è arduo da comprendere. Però è pur vero che le citazioni (nel secondo movimento) di un tema ebraico composto nel ’44 in pieno Olocausto e (nel quarto) di un canto di prigionia (Oppresso da duro servaggio) parrebbero testimoniare della sincerità dell’approccio di Shostakovich. 

In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale. 

Un corposo, acuto (e pure pedante…) saggio di Peter J. Rabinowitz propone invece una intrigante spiegazione per le origini del Quartetto: partendo dall’osservazione di un parallelo/precedente, che ha come soggetto Richard Strauss. Come Shostakovich, anche il bavarese era stato (in musica) un focoso rivoluzionario ad inizio carriera, per poi mutarsi in conservatore ed assumere un atteggiamento compiacente (ma non servile) verso il Terzo Reich; aveva composto da (abbastanza) giovane un brano smaccatamente autobiografico (Ein Heldenleben, infarcito di auto-citazioni) e poi, a WWII finita e con Monaco in macerie, aveva apposto il sigillo In Memoriam alle sue costernate meditazioni delle Metamorphosen, citando la marcia funebre dell’Eroica. Ecco, perché non ipotizzare che Shostakovich, in questo suo ottavo quartetto, abbia inteso condensare il suo curriculum di artista e allo stesso tempo abbia inteso esternare il suo stato d‘animo di uomo disilluso e tradito nei suoi ideali dalla dura realtà?

La rapidità della composizione (che i maligni potrebbero obiettare essere solo un affrettato affastellamento di citazioni, proprie e altrui, senza alcunché di originale…) può far pensare ad uno Shostakovich in realtà disimpegnato e perfino ipocrita; però va riconosciuto che quella splendida compiutezza della forma (definizione usata dal compositore nella lettera a Glikman) non è proprio una millanteria, e se si ascolta il Quartetto senza far troppo caso ai riferimenti (musicali ed extra-) non si può non rimanerne ammirati. 
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La macro-struttura del Quartetto è di tipo, diciamo, tardo-mahleriano: ai due estremi i movimenti lenti (1/4-5) e al centro quelli allegri (2-3). Tutti sono connessi senza soluzione di continuità. L’impianto tonale (tutto in minore) presenta pure una certa qual simmetria: DO-SOL#-SOL-DO#-DO (notare il tritono che separa il movimento centrale dal successivo). E anche la durata dei movimenti è abbastanza uniforme, mantenendosi fra 3 minuti e mezzo e cinque e mezzo, per un totale di circa 20-23 minuti.

Seguiamo ora la musica sulla registrazione originale della prima, tenutasi a Leningrado il 2 ottobre 1960, interprete il Quartetto Beethoven.

Il primo dei cinque movimenti (Largo, DO minore) si apre con l’esposizione della firma dell’Autore, quella sigla DSCH (Dimitri SCHostakowitsch, alla tedesca) che in musica si traduce in RE-MIb-DO-SI: è il violoncello ad attaccarla, seguito a canone stretto dagli altri tre archi, con la seconda e la quarta voce sul quinto grado:


A 40” il primo violino, dopo aver reiterato (col secondo) la firma, attacca un motivo, poi ripreso dal secondo e dalla viola, che cita – in modo mesto – l’apertura impertinente (là affidata a tromba e fagotto) della Prima Sinfonia:

A 55” è sempre il primo violino a chiudere questa sezione con la firma dell’Autore, sulla quinta vuota nel grave (DO-SOL) degli altri tre strumenti; e sempre lui (a 1’04”) si imbarca in un lugubre recitativo di 18 misure che si muove prevalentemente per gradi congiunti e che sembra alludere alla Patetica (secondo soggetto del primo movimento) chiuso (a 1’40”) dalla firma nel violoncello; cui segue nel primo violino un breve passaggio che ne ricorda uno dall’Andante della mozartiana Sinfonia Concertante per violino e viola, chiuso da un inciso (DO-SOL-SOL-DO-SI) che tornerà alla fine del movimento e alla fine del quartetto. A 1’56” ecco una nuova auto-citazione, dalla Quinta Sinfonia (la più famosa ed eseguita di Shostakovich): è la melodia esposta dai primi violini a battuta 6 del Moderato di apertura dell’Op.47:
Il motivo viene reiterato altre due volte, prima di sfociare, in tutti gli archi (2’37”) in un perentorio ritorno della firma, in tempo dilatato. Ora un passaggio con qualche sprazzo di luce (come un fugace DO maggiore a 2’55”) porta ad una ripresa della firma (3’24”) e ancora (3’35”) della citazione dalla Prima Sinfonia. Un’ultima (per ora…) ricomparsa della firma (3’51”) porta alla mesta chiusura su un lungo SOL# di 3 dei 4 archi (il violino primo tacetpreceduto dall’inciso udito prima del richiamo alla Quinta.

A 4’09” inizia bruscamente l’Allegro molto, uno dei caratteristici, indiavolati e martellanti scherzi di Shostakovich, che si rifà chiaramente all’Allegro non troppo dell’Ottava Sinfonia, ma correndo a velocità ancor doppia! Sono semiminime che si inseguono in volate vertiginose, sulle quali arriva puntuale quanto trafelata e ansimante la firma dell’Autore, dapprima nei quattro strumenti (dal grave all’acuto, da 4’37”) e poi nel solo violino primo, che la reitera 3 volte e mezza (da 4’40”). La corsa a rotta di collo prosegue fino a sfociare, modulando a DO minore (5’06”) nella perorazione del tema ebraico che Shostakovich aveva già impiegato nel finale del suo secondo Trio con pianoforte:



Restando in DO minore riprende il motivo principale (5’20”) e a 5’30”, poi a 5’36” si fa immancabilmente risentire, nel primo violino e sempre in tempo dilatato, la firma. Che ricompare poco dopo nel violoncello (5’51”) e subito nella viola.

A 5’59” si torna a SOL# minore per l’inizio della seconda parte del movimento, che in pratica ripercorre il cammino della prima. A 6’21” è ancora il DO minore a farla da padrone, recandoci, a 6’27” e poi a 6’30”, altre due firme, sempre nel primo violino; viola e violoncello (6’38”) ripropongono ora il motivo ebraico che letteralmente… scompare come in un pof! su una dissonanza MIb-FA# seguita da una corona puntata. È la fine del movimento (6’49”) che lascia ora spazio al SOL minore dell’Allegretto.

A 6’51” il primo violino attacca… con cosa? La firma! A 6’56 si passa da 4/4 al walzer! Ed è un walzer davvero spiritato (qualcuno ci vede somiglianze con la Danse macabre) che gioca con la firma come un gatto col topo! A 7’05” violoncello e viola danno smaccatamente il tempo, sul quale il primo violino attacca il tema costruito sulla sigla DDSCH, che si può leggere come Dimitri Dimitrevich SCHostakovich… quindi una cosa fra il presuntuoso e l’affettato:


Dopo che il tema è stato riproposto, abbiamo un nuovo soggetto (7’40”) dove la firma compare di sfuggita nel secondo violino (7’50”). A 8’06 riprende il motivo conduttore che poco dopo (8’16”) lascia spazio ad una transizione dove udiamo per quattro volte la firma normale, che ci porta alla sezione centrale del movimento. Qui (8’36”) il primo violino cita il tema che il violoncello espone proprio all’inizio del Concerto op.107:

A 8’45” troviamo un nuovo motivo, un comodo recitativo esposto dal violoncello nel registro acuto sulle ondeggianti crome dei violini, che ci porta (9’13”) alla parte conclusiva del movimento, che è una ripresa condensata della sezione iniziale, quindi vi risentiamo il DDSCH e il secondo soggetto. A 10’12” inizia una coda che il solo primo violino completa con una vaghissima reminiscenza della Patetica e chiudendo poi su un LA# grave.    

Il Quarto movimento (10’41”) è un Largo in DO# minore. Nelle prime tre battute, sul lungo LA# grave del primo violino in pianissimo che si prolunga dal movimento precedente, si ode un duplice segnale, in fortissimo, degli altri archi. Chi vuole può sentirci il sordo rombo dei bombardieri in avvicinamento su Dresda su cui si sovrappongono i secchi richiami delle sirene (o i colpi della contraerea?) Ma già alla battuta successiva è la storia della musica a farsi largo:
Sì, un altro famoso Quartetto: l’Op.135 di Beethoven! Shostakovich aveva già impiegato il tema, senza le tre pesanti crome che lo chiudono, nella colonna sonora del film La giovane guardia, del 1948, senza contare la parentela con il motivo del concerto per violoncello citato più sopra. Forse a questo motivo fa riferimento il compositore nella sua lettera a Glikman, quando cita Wagner: in effetti una lontana parentela con l’Enigma del Destino ci può anche stare, visto che pur sempre di una domanda si tratta… 

Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.

Introdotto dal DSCH (un tono sopra) della viola e del violoncello, ecco ora (12’46”) comparire nel primo violino un canto rivoluzionario: Zamuchen tyazheloy nevoley (Oppresso da duro servaggio); un testo ottocentesco (di Grigorij Machtet) cantato persino ai funerali di Lenin, che rimanda ai campi di prigionia zaristi:



A 13’41” il primo violino propone una melodia che vagamente ricorda il Poco più mosso del 3° movimento della Sinfonia 11, e poco dopo (14’02”) è la volta di un’altra auto-citazione, ancora negli acuti del violoncello: la bellissima melodia che Ekaterina Lvovna canta a Sergei nella prigione che li accoglie lungo la via della deportazione in Siberia:


A 14’44” torna a farsi sentire il drammatico richiamo che aveva introdotto il movimento, seguito dall’incipit del canto rivoluzionario e da un’ultima apparizione del richiamo iniziale. Infine (15’16”) il primo violino ci ricorda il Dies Irae e poi appone l’ennesima firma al movimento.

Il finale Largo, in DO minore, si apre (15’31”) con la firma nel violoncello, seguita dal motivo mozartiano già apparso nel primo movimento (prima della citazione della Quinta sinfonia). Viola, violino secondo e primo ripetono la firma (seconda e quarta voce sul quinto grado) come all’inizio del quartetto, ma stavolta a canone largo. In contrappunto si ode, dapprima nel violoncello (15’48”) un motivo che viene dalla quarta scena della Lady Macbeth, quella dell’insonnia di Boris Izmailov. Curiosa la rassomiglianza di questo motivo con una parte del tema dell’Inno sovietico (composto da Alexander Alexandrov più di 20 anni dopo la Lady!)

Chissà se Shostakovich abbia voluto farci un criptico riferimento alla situazione politica (e magari alle sue segrete speranze) visto che il tema, alla fine, va praticamente a… morire. A 16’10” il primo violino chiude la quarta voce della firma e ha inizio la seconda parte dell’esposizione, dove il motivo dalla Lady contrappunta nuove apparizioni della firma da gradi diversi.

A 17’23”, come all’inizio del quartetto, si ripete la firma a canone stretto, seguita dal solo incipit della citazione della Prima sinfonia, sostituito dal motivo dalla Lady, che si spegne sommessamente; a 18’16” l’ultima firma del primo violino, poi l’inciso DO-SOL-SOL-DO-SI udito nel primo movimento porta alla mesta chiusura, sulla quinta vuota DO-SOL nel grave. 
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Anche quando autorizzata dall’Autore, e realizzata con grande cura, come in questo caso, la trascrizione di un quartetto per l’orchestra lascia sempre a desiderare, poiché fatalmente si viene a perdere quella trasparenza e pulizia di suono che costituiscono i principali punti di forza di questo genere musicale. Ad ogni modo va fatto tanto di cappello ai ragazzi e al Direttore per aver dato il meglio per trasmettere al pubblico almeno i contenuti dell’opera, se non la sua forma originale. La quale si potrà apprezzare fra poche settimane (31 ottobre) all’Auditorium SanFedele di Milano, eseguita dal Quartetto di Cremona in un concerto del 23° Festival di MilanoMusica.
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L’altro lavoro di Barshai presentato in questo concerto è la colossale, quanto spuria, Decima di Mahler, che era in programma già lo scorso marzo, ma di cui allora si era inopinatamente eseguito solo il tradizionale Adagio.

Essendo rimasta allo stato di abbozzo, per quanto abbastanza completo (come abbozzo) la sinfonia fu oggetto di un prima edizione da parte di Deryck Cooke nei primi anni ’60 del secolo scorso. Dopo la liberatoria di Alma del 1963, diversi altri musicisti/musicologi si sono cimentati nell’impresa e Barshai si è aggiunto nel 2000 (ma altri sono seguiti). Più di tre anni fa abbiamo ascoltato qui in Auditorium la versione Cooke (stampata da Faber) sulla quale scrissi qualche nota.

La versione Barshai (stampata dalla Universal) è ovviamente diversa da quella di Cooke di cui, fosse anche solo per ragioni cronologiche, ha sfruttato l’esperienza delle numerosissime esecuzioni ed incisioni fattene (anche dallo stesso direttore russo) negli ultimi 50 anni. Le differenze fra le due versioni che vengono maggiormente in luce, almeno a fronte del semplice ascolto, riguardano il Finale, dove l’orchestrazione di Barshai appare più ricca e, in particolare, aumenta il ruolo e il peso degli archi. Per il resto si tratta di sfumature che è difficile cogliere anche ad un orecchio… allenato. 

L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:


E come par di sentire anche nella registrazione di Barshai (da 52’58”). Ecco, ci resta solo da ricordare con affetto il Maestro, che fra poco più di un mese avrebbe compiuto 90 anni.

19 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 1


Osservando il calendario della lunghissima stagione principale 14-15 de laVERDI balza subito all’occhio la presenza massiccia di opere di Piotr Ilyich Ciajkovski: il compositore russo sarà nella locandina di ben 10 dei 64 concerti e dopo aver occupato l’intero programma di quello inaugurale alla Scala chiuderà quello conclusivo (17-18-20 dicembre 2015) con la Suite dello Schiaccianoci. In pratica, se si escludono le 4 Suites, si ascolterà la gran parte della produzione orchestrale di Ciajkovski: sinfonie, concerti, ouvertures e balletti.

Questo primo appuntamento – sotto la bacchetta della Xian - si apre con il celeberrimo e trascinante Capriccio italiano (per una sommaria analisi dei principali temi rimando ad un mio commento ad una precedente esecuzione qui in Auditorium). Un pezzo di quella che si usa chiamare musica classico-leggera, tipo le ouvertures di Suppé o le marcette di Elgar… Però l’effetto è sempre quello di tirarti su il morale, soprattutto in tempi grami come questi: una cosa tipo i balli sul Titanic che affonda (smile!… mica tanto).
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Dopo il convincente debutto in Scala, torna ad esibirsi con laVERDI Giuseppe Andaloro, questa volta impegnato in uno dei concerti – quello in SIb minore - più inflazionati dell’intero repertorio pianistico (e quindi inevitabile banco di prova per chiunque voglia imporsi come solista dello strumento).

E il giovin siciliano ha confermato in pieno le sue grandi doti, non solo sul piano tecnico (un’esecuzione senza una sola sbavatura) ma anche su quello della sensibilità interpretativa: la sua resa dell’Andantino semplice ne è stato l’esempio più lampante. A lui il futuro non può che riservare successi, come quello che ha riscosso qui, ripagato con uno dei suoi encore preferiti.
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Chiude il concerto la Seconda Sinfonia, cui fu dato il nomignolo di Piccola Russia, appellativo con cui ai tempi di Ciajkovski si denominava l’Ukraina centro-nord-orientale, dove la sinfonia fu composta e da cui provengono i principali temi popolari che la impreziosiscono.

Il caso ha voluto che questa parte del programma del concerto rimandi ad avvenimenti di cronaca politica di scottante attualità. Ora, lungi da me il dar ragione alle velleità del demo-dittatore (e fraterno amico del nostro ex-aspirante-demo-dittatore) Putin, ma bisogna pur ricordare che per secoli l’Ukraina è stata da Mosca considerata (ed in effetti trattata come) una provincia dell’impero russo (poi sovietico). Non solo, ma il termine Piccola Russia aveva assunto anche una sfumatura dispregiativa (o tale era recepito dagli ukraini): un po’ come lo spocchioso les petits belges con cui in Francia si apostrofano i vicini. E ciò spiega, per reazione, la quasi unanimità ottenuta nel 1991 dal referendum per l’indipendenza! Tanto per chiarire quanto forte e radicata fosse la presenza russa in Ukraina ai tempi di Ciajkovski, basti pensare che la tenuta della sorella Sasha (del cognato Davydov, in realtà) dove il compositore si tratteneva spesso e dove, nell’estate del 1872, trovò ispirazione per la sinfonia, si trovava a Kamenka (frequentata anche da Pushkin) in un distretto dipendente da Kiev, a ovest del Dnieper e a quasi 400Km dall’attuale confine con la Russia e a 1000 da Mosca. Per dire, assai più ad occidente di Donetsk (città natale di un certo Prokofiev!) che oggi è roccaforte dei separatisti filo-russi dell’Ukraina orientale (a sua volta parte di quella che si chiamava Novorossiya, strappata dai russi all’Impero Ottomano alla fine del 1700):


E la benefattrice di Ciajkovski, Nadezhda vonMeck, possedeva una vastissima tenuta a Brailov, con una dépendance a Simaki, ancor più a ovest di Kamenka, vicino al confine settentrionale dell’odierna Moldova: lì il compositore soggiornò più di una volta e lì – per puro caso e solo di sfuggita – i due incrociarono i loro sguardi nel 1879.

I temi popolari ukraini che Ciajkovski impiega nella sinfonia hanno tutti un tipico sapore russo: quello che si ascolta subito nell’introduzione (Giù lungo la Madre Volga) fa riferimento al grande fiume che l’Ukraina manco vede da lontano! E i rivoluzionari nazionalisti del Gruppo dei 5 si entusiasmarono alla Seconda proprio perché esaltava la musica del popolo della madre Russia (grande o piccola, per loro non faceva poi tanta differenza).

Bene, chiusa la parente geo-politica, veniamo alla musica. Per ricordare che la Sinfonia che si ascolta in questa occasione (e che si esegue di norma) è in realtà il risultato di un pesante rimaneggiamento cui Ciajkovski sottopose, nel 1880, l’originale del ’72, che pure era stato accolto con calore da pubblico e critica. È curioso che nel filmato di presentazione del concerto da parte di Ruben Jais venga proiettato (da 2’27”) il frontespizio della (relativamente recente) edizione della versione originale, ricostruita a metà del ‘900 a partire dalle singole parti d’orchestra conservate a Mosca: non sarebbe una cattiva idea se laVERDI decidesse prima o poi di metterla in programma (pur contravvenendo alla volontà fermamente espressa dall’Autore, che arrivò addirittura a bruciarne il manoscritto) poiché essa ha un suo fascino tutto particolare, e non pochi esperti la reputano esteticamente superiore a quella riveduta e corretta.
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Per semplificare la questione delle differenze, dirò che la prima versione 1872 era magari scarsamente strutturata dal punto di vista delle forme canoniche, tipiche del genere sinfonico. Ad esempio il primo movimento, dopo l’introduzione in Andante che non è stata modificata, presenta un Allegro comodo che assomiglia assai più ad una fantasia che non ad un tempo in forma-sonata: il motivo dell’introduzione (il canto popolare ukraino) si ripresenta ad ogni piè sospinto e lungo tutto lo sviluppo del movimento, quasi fosse un Leit-motif; i due temi che seguono sono assai simili al punto da quasi confondersi fra loro; in sostanza siamo in presenza di un fluire musicale continuo, dove manca il classico contrasto fra i temi. Questo primo movimento si può ascoltare su youtube, diretto da Pletnev.

Nella versione del 1880 (qui Gergiev) il primo movimento presenta invece una struttura più tradizionale e dai contorni meglio demarcati, con il ruvido primo tema - composto ex-novo, in Allegro vivo e che pare richiamarsi a quello famosissimo della Quinta beethoveniana - che contrasta in modo evidente con il più elegiaco secondo (che è il vecchio primo tema del 1872 riveduto e corretto) mentre il motivo dell’introduzione ritorna solo all’inizio e al termine dello sviluppo-ripresa e poi nella breve coda. Le battute passano da 486 a 368, il che comporta un accorciamento di circa 5’ dell’esecuzione.

Il secondo movimento, Andantino marziale, quasi moderato, non è stato oggetto di alcuna modifica: mantiene la forma di Rondò (A-B-A-C-A-B-A) dove A è il ripescaggio dall’abortita opera Undina di un tema di marcia nuziale e C è una seconda canzone popolare ukraina (Fila, mia filatrice) già trascritta anni addietro da Ciajkovski per due pianoforti.

Lo Scherzo (Allegro molto vivace) non fu modificato nel contenuto, salvo qualche ritocco all’orchestrazione. In compenso Ciajkovski ne ristrutturò abbastanza profondamente la presentazione: la versione originale era proprio originale poiché prevedeva un unico da-capo per l’insieme del Trio e della ripresa delle due sezioni dello Scherzo, una cosa piuttosto bizzarra, bisogna dire. Nel 1880 il compositore tornò ad uno schema assolutamente classico, inserendo i ritornelli soltanto per la prima esposizione delle due sezioni dello Scherzo. Come si evince dalla tabellina sottostante, tutto ciò ha portato a ridurre il numero di battute effettivamente eseguite da 756 a 633, accorciando quindi anche qui di qualcosina la durata del movimento:


Naturalmente ciò vale a livello teorico… Geoffrey Simon, che ha prodotto l’unica – almeno ad oggi – incisione integrale della sinfonia in versione originale, ha bellamente ignorato il segno di da-capo e così ha ridotto a 481 il numero di battute eseguite, quindi raggiungendo il minimo assoluto di durata (?!)

Nel 1880 il Finale è stato semplicemente castrato di una sezione del lungo sviluppo cui i due temi (quello saltellante della Gru e il secondo dal ritmo ballabile) vengono sottoposti dopo l’iniziale esposizione: sono 146 battute in meno, che aggiungono concisione e tolgono… musica! Qui si può ascoltare l’incisione di Simon.
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Bene, in attesa di poter ascoltare da laVERDI la versione originale della sinfonia, ci siamo goduti una convincente esecuzione di quella tradizionale, che Xian aveva già proposto con successo un paio d’anni addietro. Per rincarare la dose di accorciamenti rispetto all’originale, a quelli dell’Autore la Xian ha aggiunto di suo anche lo sconto sul ritornello della seconda sezione del Trio, così da prosciugarlo ulteriormente. E i ragazzi (con il corno di Ceccarelli in testa, smile!) hanno risposto davvero alla grande!