affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 febbraio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°20

 

Un’autentica scorpacciata verdiana caratterizza questo appuntamento in Auditorium, dove le masse strumentali e corali de laVerdi si cimentano per la terza volta nella stagione (era già accaduto altre due volte con Bignamini) con il… Verdi operistico!

Zhang Xian guida l’Orchestra in tre Preludi/Sinfonie e nei ballabili di Macbeth. Erina Gambarini guida (virtualmente, causa indisposizione, sostituita dal suo vice Luigi Ripamonti) il suo coro in cinque celebri pagine, fra cui il Tetto natìo e Và pensiero. E tutti insieme presentano per intero L’Idolo infranto del Nabucco.

Questi sconfinamenti nel lirico da parte dell’Orchestra (nata e cresciuta a pane-e-sinfonico) non sono certo una novità: basti pensare all’ormai stagionato Chénier della premiata coppia Armiliato-Dessì, oltre che alle recenti esecuzioni concertate della medesima opera, nel 2012, e della Cavalleria nel 2013, più la Carmen del Golfo. Nel caso di Bignamini (ormai pienamente avviato sulla strada del… melodramma) hanno tutta l’aria di un trampolino di lancio; mentre per la Xian sembrano rappresentare un progressivo avvicinarsi ad un mondo che si intende esplorare davvero con-i-piedi-di-piombo (il che è tutto fuorchè un rimprovero, sia ben chiaro!)   

Della prima parte della serata ho personalmente apprezzato il Patria oppressa, il primo Preludio di Traviata e il coro dei Lombardi. Oneste prestazioni nella Sinfonia della Giovanna e nei Ballabili del Macbeth.  

Dopo l’intervallo, tutto Nabucco, a partire dalla Sinfonia, la cui esecuzione è stata un filino sporcata (almeno ciò e apparso alle mie orecchie) dagli attacchi non perfetti di oboe e clarinetto nell’Andantino che anticipa il Và pensiero. Poi il coro, assai bene, nell’iniziale Gli arredi festivi.

Ecco quindi i due protagonisti, con il recitativo della seconda parte Ma chi s’avanza, seguito dal duetto. Lucio Gallo per la verità non (mi) ha incantato: voce piuttosto opaca, che appare scurita forzatamente, acuti piuttosto precari. A Elena Lo Forte (proprio qui cantò Lola lo scorso anno) si potrebbe applicare il vecchio slogan con quella bocca può dire ciò che vuole, però sostituendo bocca con… tette (stra-sbav-smile!) A parte le battute di bassa lega, la sua mi è parsa una prestazione dignitosa, coronata da un buon Su me morente esanime finale: certo, Abigaille non è solo questo…

Dopo un pregevole Và pensiero, è stata eseguita l’intera quarta parte dell’opera, dove - a fianco dei due protagonisti principali - ha avuto modo di mettersi in luce anche Erika Fonzar, una discreta Fenena (era stata Mamma Lucia in Mascagni lo scorso giugno). Buona impressione mi ha fatto anche Hong Shin Kil nella pur smilza parte di Zaccaria: chissà che non sia destinato a continuare la recente serie dei grandi bassi e baritoni coreani, nella scia degli Youn

A parte Francesco Frasca (vecchia conoscenza dell’Auditorium, qui in Abdallo) che qualche verso lo canta da solo, gli altri tre interpreti (Salvo Guastella come Ismaele, Massimiliano Catellani come Gran Sacerdote di Belo e Federica Vitali come Anna) si limitano ad accompagnare il coro a cappella e quello finale, quindi francamente si potevano anche… risparmiare, mettendo magari al loro posto tre baldi rappresentanti del coro. 

In complesso una serata piacevole, che ha chiuso degnamente le celebrazioni verdiane.

04 febbraio, 2014

La Russia in Auditorium


Un’Orchestra quasi coetanea (nata 3 anni prima) de laVerdi è stata ieri ospite in Auditorium: si tratta della Russian National Orchestra, diretta dal suo fondatore, Mikhail Pletnev.

Il concerto si collocava nel programma delle iniziative culturali italo-russe legate all’Anno del Turismo 2013-2014 e per l’occasione il proscenio era addobbato con i due tricolori realizzati da splendide composizioni floreali. Dopo i dovuti pistolotti del padrone di casa Cervetti e dei suoi due ospiti dei ministeri della cultura italiano e russo, ecco la musica, con due celeberrimi lavori di Rachmaninov e Ciajkovski: insomma, tutta Russia, ma con un importante ingrediente italico, il sempre più convincente Roberto Cominati.

Ed è stato il pianista nostrano ad aprire il programma con il più eseguito ed inflazionato dei Concerti di Rachmaninov, il Secondo. Era il suo primo incontro con questa orchestra, ma il nostro non sembrava affatto preoccupato della novità, come si evince da questa sua presentazione. Ed in effetti tutto è (mi pare proprio) filato liscio: Cominati ha sfoggiato la sua grande sicurezza e sensibilità, in questa partitura che comporta facili rischi di scivolate sul miele o sulla marmellata; e l’Orchestra, che Pletnev ha guidato con gesto scarno ed essenziale, lo ha supportato nel migliore dei modi.

Ne è uscita un’esecuzione trascinante e lungamente applaudita dal foltissimo pubblico, cui non è seguito alcun bis, per dovere – credo proprio – di ospitalità.   

Dopo l’intervallo, ecco la travolgente Quinta ciajkovskiana. Pletnev - sempre compostissimo e quasi flemmatico - e i suoi ragazzi (disposti alla alto-tedesca, violini secondi al proscenio e bassi al centro-sinistra) devono conoscerla non a memoria, ma proprio a… cromosomi, così ne cavano tutte le preziosità nascoste. Da incorniciare l’Andante cantabile, con alcuna licenza, dove il corno del biondino Alexey Serov si guadagna una lode. Sempre emozionanti le irruzioni del protervo tema del destino e davvero enorme la chiusa, con le quattro semiminime scandite quasi a seppellire tutte le disgrazie sotto una pesante lapide!       

Meritato trionfo finale, che chiama il bis, adesso invero dovuto, con un irresistibile Trepak!
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Qui un saggio su Ciajkovski di Aldo Nicastro, pubblicato nel febbraio 1988 su Musica&Dossier.

31 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°19

 

Ancora Mahler a riempire di suoni lo splendido ambiente dell’Auditorium. Dopo la trionfale Seconda di Axelrod, ecco la cosiddetta Tragica. A proporre la quale si aspettava con grande interesse e simpatia il ritorno di Vladimir Jurovsky, che con laVerdi anni fa compì importanti passi verso la notorietà, ma purtroppo un acciacco di stagione gli ha rovinato la rimpatriata. A sostituirlo, comunque degnamente, è arrivato un sollevantino itinerante, il 57enne Eiji Oue (di cui dovrò purtroppo… sparlare).    
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La sesta è una sinfonia su cui ancora gravano incrostazioni di varia natura, sia di carattere estetico (create a suo tempo, queste, dai ripensamenti dell’Autore su aspetti peculiari della partitura) che extra-musicale, alimentate da Alma più per tornaconto proprio che per illustrare la memoria del marito. Lo stesso nick affibbiato al lavoro è assai discutibile, benché abbia radici in espressioni usate dall’Autore in persona: se bastasse la conclusione in minore a spiegarlo, allora bisognerebbe chiamare tragica anche la K550 di Mozart e la Abschied di Haydn.  

Come io personalmente la vedo, l’ho scritto  già anni fa, in occasione di una memorabile performance della LSO con Harding alla Scala. Ma assai meglio e più autorevolmente ne parla Ugo Duse, in questo passo del suo fondamentale testo su Mahler:


Ad ulteriore integrazione informativo-culturale, ecco qui un interessante lavoro di Paolo Petazzi su Mahler, comparso a settembre 1989 su Musica&Dossier.
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In questa esecuzione si torna, quanto a successione dei tempi, all’ultima metà del secolo scorso (la contestata Edizione critica di Erwin Ratz, basata sulle inaffidabili dicerie di Alma, che Mengelberg si era bevuto): lo Scherzo è infatti eseguito in seconda posizione e l’Andante in terza (questa fu la primissima decisione di Mahler, peraltro revocata già prima della prima, poi forse, ma non è affatto certo e comunque mai fu dall’Autore ufficializzato, ripensata ancora…) In questa configurazione la struttura della sinfonia si avvicina abbastanza a quella della precedente Quinta, con due poderose sezioni esterne (35-40 minuti la prima, 30 la seconda) separate da quella centrale più leggera e (relativamente alle usuali dimensioni mahleriane) più breve, circa 15 minuti.

Ad un ascoltatore medio, poco addentro a questioni di filologia e di estetica musicale, che effetto fanno queste diverse scelte? Per dire, se un pazzo rappresentasse la Bohème invertendo l’ordine fra secondo e terzo quadro, anche un neofita della lirica darebbe in escandescenze e chiederebbe il rimborso del biglietto, e pure i danni… ma qui? Cosa cambia nel profondo significato della narrativa, se si invertono i due movimenti interni della sinfonia? E chissà quale profonda riflessione filosofica ci sta dietro? Visto che l’Autore non ce l’ha esplicitamente chiarito, dobbiamo allora concludere che anche i filosofi in circolazione si dividono (come sempre) in opposte correnti di pensiero…  

Quanto alla supposta e sbandierata tragicità, nel Finale Mahler arriva alla battuta 772 (sulle 822 totali) con una scala di LA maggiore che potrebbe benissimo chiudere la Sinfonia in gloria, invece che in tragedia. In fin dei conti lo stesso Mahler conclude la sua Seconda in MIb maggiore al posto dell’iniziale e funerario DO minore… Ah già, lì c’è il testo di Klopstock che spiega tutto, parlando di resurrezione e non di morte, ma che dire della Quinta e della successiva Settima, aperte in minore (DO# e SI) e chiuse in maggiore (RE e DO)? Per non parlare della tradizione, della Quinta di Beethoven, che parte in DO minore e chiude in maggiore, precisamente come la Quarta di Schubert e la Prima di Brahms. E la Nona beethoveniana, la Terza di Bruckner, la Quarta di Schumann e l’unica di Franck: non partono forse in RE minore per chiudere in maggiore? E la mendelssohniana Scozzese principia in LA minore e finisce in maggiore, giusto? Così come la Nona di Dvorak si apre in MI minore per chiudere in maggiore.

In analogia alla Sesta mahleriana troviamo invece, oltre alle due sinfonie citate all’inizio, anche la Quarta di Brahms, che nasce e muore in MI minore (senza che a nessuno venga in mente di chiamarla tragica); così come la Patetica ciajkovskiana, con il SI minore. Ma qualcuno si sarebbe sentito imbrogliato se fossero state chiuse da due code rispettivamente in MI (o SOL) e SI (o RE) maggiore?

Ora, sarà un caso che la Sesta sia l’unica delle dieci sinfonie di Mahler a chiudere in minore? O c’era semplicemente il bisogno di togliere lo zero da una casellina del proprio catalogo? Mah…

Tornando alla scelta della versione, quella odierna per fortuna non si è tirata dietro anche il ripristino della terza martellata (a battuta 783 del Finale). Essa (eseguita anche alla prima di Essen) era poi stata espunta da Mahler, chi dice per ragioni estetiche (eccerto, come no!) chi per ragioni… scaramantiche (ecco, probabile). Fatto sta che nel manoscritto originale di colpi di martello pare se ne trovino addirittura cinque (ma sì, abbondiamo, con tutta la fatica che ci vuole per fabbricare l’arnese e il cassone su cui abbatterlo!) In realtà, a voler fare i pignoli e un po’ anche gli impertinenti, se le martellate rappresentassero le future disgrazie capitate a Mahler, allora dovrebbero essere quattro: alle tre elencate post-mortem da Alma (la scomparsa di Putzi, l’allontanamento dalla Hofoper e la diagnosi della disfunzione cardiaca) ne andrebbe aggiunta una quarta, e di quale importanza: la crisi del rapporto coniugale (ma certo su questa la disinvolta Alma preferiva sorvolare…)

Di nuovo, cosa dobbiamo pensare? A ridicole considerazioni e ripensamenti sul non-c’è-due-senza-tre? In una Sinfonia? E comunque, che differenza fa che le martellate siano cinque, o tre o due, quando comunque tutto finisce con quel terrificante schianto di LA minore nell’intera orchestra, seguito dai lugubri rintocchi, nei timpani, del motto che impone la… forza-del-destino?   
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Dato il dovuto spazio all’accertamento dell’identità dell’opera presentata, adesso devo ahimè sporgere denuncia contro un falsificatore di… sinfonie, che risponde al nome di Eiji Oue. Dico, non ha lasciato intatta una sola misura delle 1954 che compongono la partitura: infilandoci ad ogni piè sospinto arbitrari quanto penosi o ridicoli salti di tempo (in volgare: gigionerìe da quattro soldi) quando non addirittura modificando la lunghezza delle note, come nel caso della prima delle quattro semicrome con cui oboi e clarinetti aprono il secondo Trio dello Scherzo, da lui trasformata in una… semiminima, ottenendo così un mirabile effetto batteria-scarica (rob de matt!) E mi rifiuto di pensare che questo approccio sia stato imposto dal titolare del concerto, Jurovsky.

Insomma, già la Sinfonia si presta a facili battute e sarcasmi: figuriamoci cosa diventa se arriva uno che ne fa la parodia! Poi, magari a qualcuno piace di più il sushi che non la wiener-schnitzel, almeno a giudicare da un paio di bravo! che il mandorlocchiuto si è portato inopinatamente a casa, e vabbè…

Invece peccato per i ragazzi, che ce l’hanno messa tutta e non meritavano che la loro abnegazione venisse oltraggiata in questo modo.

27 gennaio, 2014

Clemenza in laguna


Domenica 26 alla Fenice ha avuto luogo la seconda delle cinque recite della Clemenza di Tito, nell’allestimento (ormai ultra-trentenne, 1982 LaMonnaie) dei coniugi Ursel e Karl-Ernst Herrmann, già ripreso più volte in diversi teatri, per ultimo un paio d’anni fa a Madrid.

Opera controversa, per taluni un’autentica regressione (complice lo spettro di Metastasio) su posizioni addirittura da riforma-di-Gluck, posizioni che Mozart sembrava aver superato definitivamente con Idomeneo; per altri un autentico capolavoro che nulla avrebbe da invidiare alla trilogia e alla Zauberflöte (opera cui Mozart stava lavorando in contemporanea al Tito e al Requiem).

Forse c’è un po’ di verità in entrambe le posizioni: non si può negare che il testo metastasiano (per quanto preso a mazzolate dal… Mazzolà per consentire a Mozart di farci un’opera vera) comporti fatalmente un ritorno al passato, sia come soggetto che come struttura drammatico-musicale. A partire dai recitativi secchi (interminabili e per noi davvero insopportabili, perché lì non solo non c’è proprio traccia di Mozart, essendo di Süssmayr o chi per lui, ma perchè non sono musica!) e dalle parti di Sesto e Annio affidate rispettivamente ad un castrato (oggi rimpiazzato da un soprano, o mezzo- en-travesti) e ad un soprano pure en-travesti; però ci sono pochi dubbi che la musica del Teofilo sia qui di qualità straordinaria.

In questo approfondito studio di Giuseppe Pugliese sull’opera seria mozartiana, apparso nel dicembre 1990 su Musica&Dossier, l’autore prende una posizione, diciamo… interlocutoria.

Pregevole come sempre, e ricchissimo di scienza e informazioni, il programma di sala che il Teatro ha pubblicato online già prima-della-prima! Fra l’altro vi si trovano anche i riferimenti ai testi originali di Metastasio (5 diverse edizioni della Clemenza!) editi con grande cura dall’Università di Padova. Detto di passaggio, queste – di pubblicare in rete e senza barriere di entrata, materiale di valore inestimabile – sono davvero iniziative rivoluzionarie, qualitativamente non inferiori ad altre più globali e conosciute, come Wikipedia o la Gutenberg Library, o il CVC, per citare solo qualche esempio. Ecco, chi non va all’opera solo per sfoggiare toilettes o per mettersi in mostra dovrebbe dargli almeno una scorsa.

A proposito, anche le più autorevoli strutture della cultura a volte possono incorrere in qualche (più o meno grave) svista. Quasi per caso, scorrendo la documentazione sulla Clemenza, disponibile online sul sontuoso portale-web della NMA (Neue-Mozart-Edition) ho scoperto, nella prefazione di Franz Gliegling all’edizione dell’opera, uno scambio di persona relativo agli interpreti della prima di Praga (martedi 6 settembre 1791, per l’incoronazione di Leopoldo II a Re di Boemia-Ungheria): il famoso castrato Domenico Bedini è associato al ruolo di Annio, invece che a quello di Sesto (da Gliegling attribuito al soprano Carolina Perini, che invece fu appunto Annio):

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Il plot della Clemenza è di quelli invero… indigesti (smile!) tipo Il trionfo di Clelia, per citare il primo titolo che mi viene in mente. La moglie del Re festeggiato non ebbe dubbi sul giudizio da darne (una schifezza tedesca in italiano) e anche a noi è solo la grandezza della musica che lo fa digerire. Certo, la circostanza legata alla commissione che Mozart aveva ricevuto dalla Corte asburgica – comporre un’opera per celebrare un’incoronazione - a era tale da escludere soggetti à la DaPonte o Schikaneder. Però, nei panni dell’incoronato, non mi sarei sentito troppo lusingato dal parallelo con questa specie di ingenuo sempliciotto (si noti: nel libretto, più che nella musica!) che risponde al nome del clemente Tito!     

Già il suo approccio al matrimonio lascia a dir poco esterrefatti: cambia tre potenziali candidate, come in un lista-e-spunta, in un solo atto d’opera (smile!) Poi, senza aver sospettato alcunchè (nemmeno quando gli incendiano la casa, il Campidoglio…) perdona come nulla fosse tutti i golpisti che lo volevano far secco. Insomma, un esempio di dabbenaggine, prima ancora che di clemenza.
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L’Ouverture (DO maggiore) è ripartita fra temi enfatici e solenni, legati alla regalità, e temi più agitati e sfuggenti, evocanti i diversi moti dell’animo dei protagonisti.

La buona parte del primo atto presenta vicende più adatte a costruirci una farsa, che un dramma. Ciò a causa di una serie incredibile e sostanzialmente ridicola di colpi di scena e di conseguenti contrattempi.

Si inizia con la principessa Vitellia (figlia viziatella anzichenò di un precedente imperatore di pari nome, al maschile, ovvio) che si lamenta con il suo spasimante Sesto nientemeno che della mancata attuazione di un golpe contro Tito, ohibò! Veniamo a sapere che la vivace signorina ce l’ha con l’Imperatore che lei (antistoricamente) considera l’usurpatore del trono di suo padre (detronizzato invece dal padre di Tito) e che per di più le ha preferito per moglie un’extracomunitaria (Berenice, vecchia conoscenza mediorientale del Tito spietato saccheggiatore di Gerusalemme). Sesto si mostra subito indeciso sul golpe, è troppo amico di Tito e non lo vorrebbe proprio nemmeno sfiorare. Si preoccupa più della gelosia di Vitellia per Berenice che della strumentalizzazione cui viene fatto oggetto dall’amata (roba da chiodi!)

Ora però ecco iniziare la musica.

1. Duetto Sesto-Vitellia (Come ti piace imponi): i due protagonisti principali si presentano, lui elegiaco e già sottomesso, lei superba e dominatrice. È stabilito che il golpe si faccia al più presto. Poi entrambi manifestano la loro comune ansia e le diverse lacerazioni che dilaniano le rispettive psiche.

Ma Vitellia ha appena finito di convincere Sesto ad agire, quando viene a sapere da Annio che Tito ha rinunciato alla cilicia, quindi lei torna a sperare e richiama indietro il suo spasimante che già stava a malincuore partendo per il golpe.

2. Aria Vitellia (Deh, se piacer mi vuoi): dopo aver revocato l’ordine di golpe, la principessa ha anche il coraggio di deridere Sesto e di rimproverarlo, prendendosi gioco dell’innamorato, dapprima con ammiccamenti e adulazioni, poi con severità mista ad ipocrisia.

Ora Annio e Sesto ci mostrano quanto è saldo il loro legame d’amicizia: il primo chiede in sposa al secondo la sorellina Servilia, e Sesto subito si rende disponibile ad accontentarlo, in un delizioso…   

3. Duettino Annio-Sesto (Deh, prendi un dolce amplesso): meraviglioso cammeo, questo, in cui i due en-travesti cantano la loro incrollabile amicizia e fedeltà reciproca.

Ora abbiamo la scena dei festeggiamenti a Tito, che si materializza in…

4-5. Marcia-Coro (Serbate, oh dèi custodi): è la presentazione di Tito, musica ricca di solennità senza retorica, di carattere nobile e massonico, proprio adatta alla circostanza mondana cui è dedicata.

Publio (il Ministro dell’Interno) e Annio tessono le lodi dell’Imperatore, che mostra la sua magnanimità devolvendo i fondi, che il popolo aveva raccolto per erigergli un tempio, al soccorso alle popolazioni colpite dall’eruzione del Vesuvio (e ciò è storicamente accertato). Dopodichè, conclusa una ripetizione della Marcia, rimane solo con Annio e Sesto: è il momento in cui Sesto dovrebbe chiedere, come promesso all’amico, il nulla-osta per le nozze della sorellina Servilia con Annio. Sesto però la prende alla larga, chiedendo a Tito particolari riguardo la sua rinuncia alla cilicia (Berenice) col risultato di spingere l’Imperatore a dichiarare la sua volontà di sposare… indovina chi? Servilia!

Bella frittatona hai combinato, caro Sesto! Ma Annio è ancor più sottomesso di lui al sovrano, arrivando addirittura (e masochisticamente) a lodarne ed approvarne la scelta! Come riconoscimento per avergli preso la sorellina, Tito promette a Sesto promozioni ai più alti gradi, al che il povero si schermisce, chiedendo addirittura a Tito di moderare i benefici (!) Al che il sovrano canta la sua prima…

6. Aria Tito (Del più sublime soglio): aulica e nobile, un’aria col da-capo, come da tradizione, quasi ad evocare l’autorità illuminata e la magnanimità del sovrano, la cui prima premura è di sollevar gli amici

Adesso Annio comunica la novità alla ormai ex-fidanzata, cercando – ma col cuore in gola - di farla passare per una gran notizia. Invece la ragazzina mostra le unghie, non gliene frega un fico secco di sposare l’Imperatore, lei vuole il suo Annio (dico: ma ‘sto Annio quali risorse le deve aver fatto intravedere? stra-smile!) Insomma, i due si riconciliano presto in un…

7. Duetto Annio-Servilia (Ah, perdona al primo affetto): una vera e propria scena d’amore, di sublime innocenza e soavità. Beh, insomma… innocenza fino a un certo punto, a giudicare dalla comune esternazione Più che ascolto i sensi tuoi, in me cresce più l'ardor (stra-mega-smile!) Oh, questa è del Mazzolà da Longarone, mica del cesareo!

Torniamo a casa di Tito, sul Palatino, dove il suo fido Publio gli porta una lista di sbifidi pipistrelli che tramano contro di lui. Ma l’Imperatore è clemente per natura (e per titolo d’opera!) per cui ignora e perdona ogni affronto. Arriva invece l’impertinente Servilia (mai nome fu più dissociato dalla personalità!): la sbarazzina osa comunicare all’Imperatore che qualcuno ce l’ha più lungo di lui possiede ormai il suo cuore, però se proprio l’Imperatore lo ordina, lei è disposta anche a… (vabbè). Tito è un pesce-lesso, ormai lo sappiamo, e così, invece di provare a convincerla che lui ne ha più di Annio, la esalta e la benedice, addirittura chiedendole di essere d’esempio per tutte! Poi si cimenta in una nuova…

8. Aria Tito (Ah, se fosse intorno al trono): altra aria regale, tripartita, dove l’Imperatore esalta la verità (il franco atteggiamento di Servilia) contro l’inganno.

Nel frattempo Vitellia (ancora non conosce gli ultimissimi sviluppi) è venuta a sapere che l’imperatore ha scelto in moglie Servilia e allora… contrordine del contrordine: Sesto, cazzo, stai ancora qui a poltrire, perché non ti dai una mossa e ti decidi una buona volta a fare ‘sto golpe? E questa volta Sesto parte per davvero, oddio, non senza aver prima e per fortuna nostra cantato – accompagnato ai tempi dal clarinetto del grande Anton Stadler - la più strabiliante aria di tutta l’opera e forse di tutta la produzione mozartiana…

9. Aria Sesto (Parto; ma tu ben mio): come detto, uno dei passi  più ispirati; l’incipit è deciso, ma subito la musica volge all’elegiaco. Il clarinetto obbligato accompagna i mutamenti di umore di Sesto: ora eroico e combattivo, poi subito addolcito (l’accenno allo sguardo di Vitellia). Insomma, tutto un continuo turbillon, che si chiude con arditi virtuosismi richiesti all’interprete.

Sesto è appena uscito per fare un golpe, quando Annio e Publio annunciano a Vitellia che l’imperatore la vuol vedere subito per sposarla! (ma dai…) La povera fedifraga è così interdetta da aprire un celestiale terzetto con una strofa dal testo quasi comico (Vengo… aspettate… Sesto!… Ahimè!… Sesto!… è partito?…) che solo e ancora una volta la mirabile vena del Teofilo riesce a nobilitare (chiedendo al soprano anche un RE sovracuto) prima di slanciarsi all’inseguimento del suo povero burattino per tentare (invano) di fermarlo.

10. Terzetto Vitellia-Publio-Annio (Vengo… aspettate…): mirabile evocazione dello stato confusionale che invade la psiche di Vitellia, all’annuncio della sua prossima elezione a imperial-consorte, mentre Sesto è in viaggio per sistemare per le feste… il futuro consorte! Con i due uomini che ne equivocano l’origine, addebitandola alla gioia per il privilegio ricevuto, e non alla disperazione per aver messo in moto l’infernale e ormai inarrestabile macchina del complotto. Adesso le cose si fanno però maledettamente serie, anche nel testo. Ma soprattutto nella musica.

11. Recitativo accompagnato Sesto (Oh dèi, che smania è questa!): drammatica tempesta che si scatena nell’animo di Sesto, totalmente dissociato fra la necessità dell’impresa, legata al suo folle amore per Vitellia, e la vergogna per il vile tradimento.

E così il Campidoglio brucia e Tito viene trafitto dalla spada del povero Sesto, uno sfigato a cui per la verità non ne va bene una che è una (in cambio Mozart lo gratifica della sua musica più sublime!) Il finale dell’atto – lontano le mille miglia da quelli consueti, allegri o comici o bombastici - è una vera delizia, evocando un generale stato di preoccupazione, di tristezza e (per i responsabili del disastro) di colpa: inoltre non è, come tradizione, un fermo-immagine, ma un vero film d’azione.

12. Quintetto con coro Sesto-Annio-Servilia-Coro-Publio-Vitellia (Deh, conservate, oh dèi, a Roma il suo splendor): un concertato tutta azione, tutto dramma, che ci fa vivere la fase decisiva del complotto: (Allegro in MIb maggiore) Annio che incontra Sesto senza poterne fermare la corsa verso il delitto, Servilia e Publio che sospettano la congiura, il coro in lontananza con disperate grida; (Allegro in DO minore) Vitellia che accorre in cerca di Sesto, lo stesso Sesto che torna dopo aver colpito quello che crede Tito e lo confessa a Vitellia, che gli impone il silenzio per salvare se stessa; (Andante in MIb maggiore) tutti piangono Tito, con l’atto che si chiude (su tradimento e giorno di dolor) con due sommessi accordi.

Nel secondo atto gli eventi precipitano: Annio comunica a Sesto che l’individuo infilzato durante l’incendio non era Tito, e Sesto, incredulo, gli confessa di esser lui l’autore del golpe. Vorrebbe fuggire chissà dove, ma Annio lo trattiene:

13. Aria Annio (Torna di Tito a lato): è una serena manifestazione di amicizia per Sesto, che l’amico fatica a credere responsabile del complotto  e di cui ancora non comprende fino in fondo le ragioni di tanto dolore per la morte (ora smentita) di Tito.  

Arriva Vitellia, che spinge Sesto alla fuga (più che altro per salvare se stessa dall’accusa di essere la mandante del fallito attentato. Ma in quel momento ecco Publio che annuncia che l’infilzato da Sesto non era l’imperatore, ma un altro… cospiratore (Lentulo!) che adesso, essendo sopravvissuto all’attentato (ma ‘sto Sesto allora dev’essere proprio una sega…) per salvare le chiappe sue incastra l’amico che gli aveva commissionato l’incendio.

14. Terzetto Sesto-Vitellia-Publio (Se al volto mai ti senti): Sesto viene arrestato per il fallito golpe; Vitellia si preoccupa per se stessa ma comincia a roderle dentro qualcosa che si trasformerà in pentimento più tardi; Publio ancora equivoca l’atteggiamento di Vitellia e si commuove nel dover arrestare l’amico, ma il dovere gli impone di procedere.

Siamo ora tornati alla reggia, dove ascoltiamo…

15. Coro-Tito (Ah, grazie si rendano – Ah no, sventurato non sono cotanto): coro leggero ed etereo, di ringraziamento per lo scampato pericolo. Tito come sempre sdrammatizza e si compiace del favore di cui gode presso la sua gente.

Deve iniziare uno spettacolo circense (che funge anche da esecuzione capitale, guarda un po’ l’efficienza…) e Publio sollecita Tito a recarvisi. L’imperatore però non intende farlo finchè non sarà chiarita la posizione di Sesto. Publio gli ricorda che Lentulo ha reso ampia confessione, il che coinvolge Sesto senza appello. Alle insistenze di Tito, risponde con un’aria…

16. Aria Publio (Tardi s'avvede d'un tradimento): solenne, pomposa ed enfatica, come si addice al capo dei Pretoriani, che non perde però l’occasione per un bonario rimprovero all’Imperatore, troppo portato a negare le altrui infedeltà.

Ora sopraggiunge Annio, da cui Tito spera di avere indizi sulla buona fede di Sesto, ma che si limita a chieder clemenza. Arriva invece Publio con la piena confessione di Sesto (e la conseguente condanna del Senato) il quale, accecato dall’amore per Vitellia, prende su di sé tutte le responsabilità del golpe. Annio prova a smuovere l’Imperatore, cantandogli un’aria…

17. Aria Annio (Tu fosti tradito): grave e solenne, poiché il tradimento di Sesto viene riconosciuto anche dal suo più caro amico (e… cognato); poi però la musica si addolcisce, lasciando spazio alla speranza nella clemenza dell’Imperatore.

- Recitativo accompagnato Tito (Che orror! che tradimento!): mirabile espressione della dissociazione dell’animo dell’Imperatore, fra il richiamo della giustizia e quello dell’amore per l’amico traditore.

Adesso Tito è davvero impaziente di incontrare Sesto, che sta giusto sopraggiungendo. Si canta quindi un…   

18. Terzetto Sesto-Tito-Publio (Quello di Tito è il volto!): è l’inizio del drammatico faccia-a-faccia fra attentatore e mancata vittima, con Publio che comprende e commenta lo stato d’animo di Tito. Accusato e accusatore (ma soprattutto amici!) sono in preda a tremendi moti dell’animo, che controllano a malapena.

Restati soli, i due si abbandonano allo stupore (Tito) e alla disperazione (Sesto). Segue un lungo tira-e-molla, dove Tito cerca in tutti i modi di estorcere a Sesto la verità, mentre quest’ultimo si rinserra nella sua stoica resistenza, in nome del folle amore per Vitellia.

19. Rondò Sesto (Deh, per questo istante solo): il protagonista vi canta il suo stato d’animo esacerbato, l’amore per quello che è un amico prima che sovrano, la disperazione per la propria ormai inevitabile sorte. Nasce però nelle note una lontana speranza (che risentiremo fra poco nel Rondò di Vitellia, al 23). 

Rimasto solo, Tito si risolve a condannare l’amico, in nome della legge, che non può fare sconti né differenze. Ma così bisognerebbe cambiare Titolo (smile!) all’opera e allora Tito rimedia subito e, tre secondi dopo aver controfirmato la condanna a morte comminata a Sesto dal Senato, strappa la pergamena e decide di graziare l’amico (ah, dimenticavo: Tito, Sesto, Annio, Publio, e pure Lentulo dobbiamo pensare, sono amiconi per la pelle, sembra quasi che si siano giocati il posto di imperatore con una riffa davanti a una pizza…) Publio chiama l’Imperatore per la festa circense; Tito gli nasconde la sua ultima decisione.

20. Aria Tito (Se all'impero, amici dèi): l’Imperatore espone le regole programmatiche della sua clemenza, suggellando il tutto con virtuosismi che scolpiscono le sue certezze.

Vitellia ricompare e chiede a Publio notizie su Sesto. Si convince che il suo spasimante abbia parlato, accusandola di aver tramato la congiura. Ma Servilia e Annio la convincono del contrario. Servilia in particolare la sprona ad intercedere presso Tito per il povero fratello:

21. Aria Servilia (S'altro che lacrime): la ragazzina rimprovera, con mestizia mista a dolcezza, l’insensibilità di Vitellia, che pare ancora restìa a chiedere la grazia per Sesto.

22. Recitativo accompagnato Vitellia (Ecco il punto, o Vitellia): finalmente la protagonista fa l’esame di coscienza, analizzando le possibili strade che le si prospettano. Non resisterebbe a vivere sul trono a fianco di Tito mentre Sesto si è sacrificato per colpa sua e per amor suo. Da qui la drammatica decisione: confessare.

23. Rondò Vitellia (Non più di fiori vaghe catene): è la rinuncia all’egoismo e la preparazione alla pena. Il corno di bassetto accompagna il suo canto, ma improvvisamente esplode in un tema allegro, con appoggiature, un tema che ricorda quello del Rondò di Sesto (19) e che rappresenta un barlume di speranza, ancora coltivata in fondo all’anima.  

Torniamo a Tito, che è già sul luogo della festa circense.

24. Coro (Che del ciel, che degli dèi tu il pensier): altra musica da gran cerimonia, con caratteri massonici, per onorare l’augusto sovrano.

Adesso c’è la serie di colpi di scena finale, sospesa fra il drammatico e il comico. Tito dapprima si diverte a deludere Annio e Servilia, che invano ancora cercavano di intercedere per Sesto. Poi, proprio mentre l’Imperatore si appresta a concedere platealmente e sorprendentemente il perdono a quello che considera, e pure controvoglia, l’unico traditore, riceve invece la visita di Vitellia (che lui ha convocato nientemeno che per sposarsela!) La quale, finalmente pentitasi - o chissà, sperando che la clemenza di Tito non solo le porti il perdono, ma le conservi pure il trono - gli comunica di aver scoperto il vero colpevole, gettando il povero imperatore nella costernazione (E quanti mai, quanti siete a tradirmi? Ma che giorno è mai questo! al punto stesso che assolvo un reo, ne scopro un altro!) Sembra… Totò (smile!)

25. Recitativo accompagnato Tito (Ma che giorno è mai questo!): di fronte all’inaspettata confessione della sua futura moglie, l’Imperatore rimane interdetto ed ingenuamente sorpreso.

Naturalmente tutto finisce in gloria, col generale perdono del clemente e le lodi sperticate dei sudditi.

26. Sestetto con coro Sesto-Tito-Vitellia-Servilia-Annio-Publio-coro (Tu, è ver, m'assolvi): dopo un ultimo sfogo di Sesto, che davvero fatica a ritrovare serenità, ecco il lieto fine, con i classici tre colpi in unisono sul DO dell’intera orchestra.

Insomma, una materia che se già faceva sorgere dubbi (e reazioni scomposte) persino ai tempi suoi, oggi ci fa un filino sorridere. Per fortuna il Teofilo sapeva cavar sangue dalle rape! Anzi, più che sangue… ambrosia. Non altrimenti si spiega come, di tutte le 40 e più intonazioni del testo (di Metastasio) soltanto questa di Mozart abbia resistito all’azione demolitrice del tempo e non sia sprofondata nell’oblio.   
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L’allestimento dei coniugi Herrmann fece scalpore non solo alla sua comparsa, ma anche successivamente, in particolare nel 1992 a Salzburg, dove provocò nientemeno che la reazione sdegnata, con relativo sbattimento di… porta, da parte di Riccardo Muti, come ci ricorda Amfortas nella sua sempre brillante recensione dello spettacolo.

Oggi, da una parte, ci siamo giocoforza assuefatti a certe deplorevoli proposte registiche (ce n’è di davvero orripilanti in giro) e ciò non è affatto un bene; dall’altra siamo però più aperti a giudicare in base alla sostanza e non all’apparenza, in base alla concezione che il regista porta avanti, piuttosto che da scene o costumi più o meno stravaganti. E quindi siamo (forse) più attrezzati di qualche decennio fa a valutare se l’allestimento sia coerente almeno con lo spirito, se non con la lettera dell’originale, e in particolare se sia funzionale a valorizzarne ed apprezzarne la musica, che nel teatro musicale è – val la pena ribadirlo perché non sempre ci se ne ricorda - l’ingrediente di gran lunga più importante.

Tutto ‘sto tormentone per concludere cosa? Che magari sbagliava Muti a prendersela così platealmente con gli Herrmann… Ma anche che non hanno ragione a priori tutti quei registi che si prendono le libertà più assurde.

Venendo a questa Clemenza, ho avuto l’impressione che i coniugi registi abbiano scartato le due possibili strade estreme (tradizione assoluta o rivisitazione radicale) per imboccarne una abbastanza originale. Quella della parodia: mi spiego subito, non una parodia becera e goliardica, ma sufficientemente raffinata e sottile (beh, su questo la mia vicina di posto in galleria era tutt’altro che d’accordo, al punto da prodursi in un’esternazione piuttosto colorita, alla fine del primo atto). In sostanza caricando in modo evidente (ma non smaccato, sempre secondo me) certi tratti dei protagonisti.

Ecco quindi Sesto mostrato come un povero invasato, del tutto alla mercè di Vitellia, che dal canto suo appare come un ibrido fra la carognetta e la… civetta: per dire, canta il suo Larghetto iniziale in faccia a Sesto nel mentre che riempie di moine lo stupefatto Annio, che da parte sua ha tutta l’aria di un gay (smile!) Tito a sua volta non pare proprio così… regale e papale, mostra diversi tic e complessi. Gli unici personaggi quasi normali sono il finto-truce (in realtà una pasta d’uomo) di Publio e quella gattina-morta che risponde al nome di Servilia (lei arriva in… gondola, beh siamo in laguna, ma chissà se anche a Bruxelles e Salzburg usava lo stesso mezzo di locomozione, o invece aveva la barchetta col cigno alla Monnaie e uno slittino in Austria).

Tutto il primo atto, proprio perché si presta (come ho piuttosto canzonatoriamente scritto sopra) a interpretazioni, diciamo così, leggere, scorre fra una simpatica gag e l’altra fin quasi alla fine, cioè fin quasi al quintetto conclusivo. Parlo più che altro delle parti in recitativo secco, dove la stretta e apollinea aderenza al testo rischierebbe di far addormentare, o di esasperare, o magari proprio di suscitare ilarità sguaiate. Non a caso il giro-di-boa dell’impostazione registica cade in corrispondenza del primo dei tre recitativi accompagnati, quello di Sesto sul finire della prima parte.    

Più impegnato, in ossequio al dramma, l’atto secondo, dove i registi hanno abbandonato i toni parodianti per passare a quelli seriosi, ben caratterizzando le diverse psico-crisi che esplodono nell’io-profondo di almeno la metà dei personaggi.

Efficaci e centrate le scene minimaliste, con quel tocco di neoclassico di ordinanza; belli i costumi, appropriate le luci e tecnicamente raffinata la direzione del livello attoriale degli interpreti.  

Ergo non posso personalmente che plaudire qui, come applaudito ho in loco.
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Applausi altrettanto convinti (attenzione: non tali da produrre lacerazioni cutanee!) ho riservato agli addetti ai suoni. A partire dall’orchestra (dove Vincenzo Paci non ha fatto rimpiangere… Stadler!) e dai maestri Dantone e Ferrari, il primo autore di una lettura sufficientemente rigorosa della partitura (gli perdono quelle impercettibili pause che ha infilato rispettivamente prima delle minime MI e SOL nelle battute iniziali dell’Ouverture - e nella relativa ripresa - la classica pisciatina di… Dantone, smile! perché si sappia che di lì c’è passato lui). La Ferrari va lodata per lo stoicismo dimostrato nel supportare adeguatamente quegli interminabili recitativi secchi che costringono fatalmente i registi a inventarsi trovate di ogni genere, per mantenere alta l’attenzione del pubblico.

Monica Bacelli sostituiva un… castrato (stra-smile!) e devo dire che non lo ha fatto rimpiangere (tanto chi ha mai sentito un castrato cantare, al giorno d’oggi?) Per insistere con le battute, mi è parsa ben in palla (aridaje…) con questa parte tormentata al massimo. Non parliamo poi di come ha assecondato a meraviglia le direttive registiche.

Carmela Remigio non ha ovviamente difficoltà a spiccare i sovracuti (come il suo RE) e bene ha fatto in generale, salvo qualche difficoltà a far udire chiaramente i LA e SOL gravissimi che Mozart le infligge.

Il Tito di Carlo Allemano ha la positiva caratteristica di una voce quasi da baritenore, il che conferisce al personaggio quel peso musicale che la coppia Metastasio-Mazzolà aveva stentato a dargli nel testo. L’imperiale presenza fisica non lo ha salvato da qualche gag impostagli dai registi. 

Su livelli dignitosi Raffaella Milanesi, brava a rivestire il carattere di Annio della modestia (in senso positivo) che lo contraddistingue. Servilia era Julie Mathevet, anche lei adattissima alla parte, nel canto un po’ pigolante come nelle mosse da educanda. Publio era Luca Dall’Amico, che ai miei orecchi ha meritato assai, così come il coro di Claudio Marino Moretti.
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All-in-all, come dicono i bocia in laguna, uno spettacolo meritevole di plauso.

25 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°18

 

Ancora Axelrod sul podio dell’Auditorium per un altro appuntamento di quelli (in senso nobile) pesanti. Dopo il colossale Heldenleben straussiano della scorsa settimana, ecco la monumentale Seconda mahleriana.   

Concerto dedicato alla memoria di Claudio il Grande, autentico alfiere della renaissance mahleriana (iniziando proprio dalla Auferstehung) qui a Milano, alla Scala, come nel mondo intero.  

Opera composta a rate addirittura lungo 6 anni (1888-94) e quindi coeva dei primi poemi sinfonici di Strauss (Don Juan è dell’89 e Till del ’95): un po’ a somiglianza della prima, nacque come poema sinfonico (la Totenfeier) e poi fu promossa, tramite aggiunte successive di altri quattro tempi (di cui due mutuati da precedenti Lieder) al rango di sinfonia. Ma non sto qui a ripetere cose già scritte, per cui se qualche masochista vuol sapere cosa pensavo (e penso tuttora) di quest’opera può leggere le mie elucubrazioni, scritte proprio in occasione della sua ultima (ma ormai vecchia di più di 3 anni) esecuzione da parte de laVerdi.

Più interessante può essere sapere come l’ha diretta Axelrod: per me in modo assolutamente convincente. Intanto per il pieno rispetto dei tempi: lui, che pure fu allievo di Lenny Bernstein, evidentemente non ne condivide gli… eccessi, e ciò gli fa onore. Poi per la squisita leggerezza con cui ha proposto l’Andante moderato, prosciugandone al massimo i suoni fino a ridurlo quasi ad un quartetto. E la magistrale resa dell’aspetto parodistico della Predica di SantAntonio.

Una piccola libertà se l’è presa in Urlicht, facendo imbracciare a Santaniello un violinetto di strada (proprio quello che Mahler prescriverà, accordato più in alto del normale, per il secondo movimento della sua quarta) ad accompagnare la seconda strofa del Lied: una trovata tutto sommato abbastanza intelligente, dato il contesto.

Impeccabile anche il Finale, impreziosito dalla prestazione del coro di Erina Gambarini, meraviglioso nell’incipit sulla soglia dell’udibilità dell’Auferstehung. Onorevoli le prestazioni delle due soliste, la veterana dell’Auditorium Maria Josè Montiel (con cui Axelrod ha condiviso… un bicchiere d’acqua, smile!) e la siberiana Eteri Gvazava.

Successo trionfale con minuti e minuti di applausi per i ragazzi, per i quali ormai gli elogi si sprecano, e ripetute chiamate per i protagonisti.