nuovo pacchetto di sanzioni

dazi al 200% sui dvd di gergiev

17 marzo, 2013

Sposalizi a Torino


Mentre segnalo con soddisfazione una nuova buona prova del Regio, che si conferma teatro di qualità per livello artistico e gestionale, non posso non restare allibito per le notizie invero raccapriccianti che arrivano da un altro nostro glorioso teatro (forse vittima della moda imperversante delle rottamazioni, chissà…)

Oggi ricorreva il 152° anniversario dell’Unità d’Italia e il Regio aveva i palchi imbandierati di tricolore (scommetterei l’occhio malato di Berlusconi che nel resto della penisola la data sia passata praticamente sotto silenzio…) Il soprintendente Vergnano ha approfittato dell’occasione per diffondere al pubblico, prima dello spettacolo, un indirizzo giustificatamente enfatico, in cui non ha mancato di ricordare i due nuovi Presidenti delle Camere (ma avessero eletto Schifani? …smile!) e il Presidente (ormai) uscente della Repubblica. OK, viva l’Italia e viva Torino!

Dunque, Il matrimonio segreto, questo gioiello che rivaleggia nientemeno che con le ultime opere italiane del sommo Teofilo e che aprì la strada a quel Rossini che doveva venire al mondo precisamente tre settimane dopo la prima viennese del capolavoro di Cimarosa.  

Lo spettacolo - realizzato 10 anni orsono da Michael Hampe in collaborazione con MonteCarlo e ripreso qui da Vittorio Borrelli - è precisamente di quelli da museo, ma nel senso più nobile del termine. La scena di Jan Schlubach è (ovviamente, dato il libretto) fissa, mentre bellissimi sono i costumi d’epoca di Martin Rupprecht. Efficaci le luci di Andrea Anfossi.

La regìa è assolutamente sobria, evitando facili sguaiatezze da avanspettacolo, assai raffinata ed efficace. Insomma, tutto al servizio della mirabile musica di Cimarosa, che dopo 220 anni ancora è in grado di soddisfare sia lo spirito che la carne di noi schizzinosi del terzo millennio.

E la musica è stata servita a dovere da Francesco Pasqualetti (un giovine cresciuto sotto l’ala dell’attuale padrone di casa, Gianandrea Noseda) che ha guidato con mano ferma i bravissimi professori del Regio.

Di buon livello tutto il cast vocale, dove si sono distinti particolarmente i due buffi Paolo Bordogna (il padrone di casa, Geronimo) e Roberto de Candia (il nobile in decadenza Robinson) e il Paolino di Emanuele D'Aguanno.

Ma anche le tre femmine di casa - Barbara Bargnesi (Carolina), Chiara Amarù (Fidalma) ed Erika Grimaldi (Elisetta) hanno più che dignitosamente tenuto botta.

Alla fine tutto il pubblico si è stretto, come al solito, sotto il palco per tributare meritatissimi applausi ai suoi beniamini.
___
Procedendo con la pubblicazione di estratti della defunta rivista Musica&Dossier, allego qui un breve ma acuto saggio di Piero Mioli sul Matrimonio, inquadrato nel più ampio scenario dell’evoluzione dell’opera buffa di fine ‘700; scritto comparso sul numero di luglio-agosto 1989.

15 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.26


Ancora John Axelrod sul podio de laVerdi per un concerto dal taglio ultra-tradizionale: protagonista Brahms, e tutto in RE maggiore!

Dapprima la 42enne col fisico da bambina che risponde al nome di Midori Gotō si presenta per suonarci il Concerto Op.77.

Ecco cosa ne pensava il 36enne Mahler nel 1896: Come si può ancora scrivere una cosa così antidiluviana come un concerto per violino? Pensavo proprio che, grazie a Dio, avessimo definitivamente chiuso con questo genere di opere!

Busoni era ancora più caustico: Un pezzo letteralmente scippato a Beethoven (…) nonostante tutte le arie che si dà, è un’accozzaglia di cose insignificanti.

Beh, con tutto il rispetto per quei maestri, non siamo poi così alla canna del gas; al solito, si tratta di giudizi emessi da (giovani) contemporanei insofferenti di chi appariva – in quel momento - eccessivamente legato alla tradizione: ma il tempo si è incaricato di restituire al Concerto il ruolo che gli compete.

Splendida l’esecuzione di Midori, con perle riscontrabili nella cadenza del primo movimento e nel delizioso duetto con l’oboe di Luca Stocco nel secondo. 

Successo grande e grande bis con il Preludio della Terza Partita di Bach

Ecco poi la Seconda Sinfonia, che viene registrata (come accaduto per la quarta qualche settimana fa) per farne un CD con l’integrale delle sinfonie brahmsiane.

Axelrod pare propendere per la concezione serena e perfino magniloquente ed euforica della Sinfonia (che peraltro Brahms medesimo dipingeva, ma forse per scaramanzia, come una composizione dimessa e listata a lutto…) non lesinando sulle sonorità più nette e persino sui fracassi. E nemmeno sulla durata, avendo meticolosamente rispettato il da-capo nel movimento iniziale (poi magari ci penseranno in laboratorio a …tagliarlo sul CD, smile!)

In ogni caso un’esecuzione trascinante e brillantissima, trionfalmente accolta dal folto pubblico.

Vecchia URSS (o quasi…) nel prossimo concerto di Grazioli.
___
Reliquie

Ho deciso di cogliere l’occasione per cominciare a pubblicare in rete (in formato pdf, da scannerizzazione degli originali cartacei) materiale proveniente dall’ormai da tempo defunta, ahinoi, rivista mensile (poi bimestrale) Musica&Dossier, che l’Editore Giunti pubblicò negli anni 1986-1993, per un totale di 70 numeri, che custodisco ancora gelosamente. Non credo sia materiale coperto da copyright ed anzi penso che sarebbe fare un buon servizio alla cultura musicale pubblicarlo integralmente sul web (…ma certo non è impresa che possa sobbarcarmi io).

Per questa inaugurazione ecco una parte del corposo saggio su Brahms La forma come disciplina di Massimo Mila, apparso sul numero del Giugno 1988: si tratta della sezione intitolata Il sinfonista. E poi una scheda di A.Riccardo Luciani sulla Seconda Sinfonia, apparsa sul numero del Novembre 1991, dove in forma grafica è contenuta una sommaria analisi della struttura e dei contenuti dell’opera.

13 marzo, 2013

Sulla Scala un olandese che vola basso


Una regìa più ridicola che velleitaria; una compagnia di canto tendente al mediocre; un podio francamente deludente. Così questo Olandese abbassa ancora la media dei voti della Scala in questa stagione che doveva essere di livello storico
___
Andreas Homoki, ahilui, non può nemmeno accampare la scusa di essere un giapponese che non conosce bene il tedesco (smile!) per giustificare le sciocchezze della sua regìa. Lui è un intelligentissimo crucco di origine controllata e garantita e oggi è addirittura il Lissner del Teatro dell’Opera di Zurigo (al che ho realizzato quale immensa fortuna abbiamo noi milanesi ad avere un soprintendente che non si diletta – perlomeno ancora – di regìa…)   

Il suo soggetto è a dir poco sconvolgente e meriterebbe di vincere premi letterari in quantità industriale. C’è dentro di tutto: un po’ di Conte di Montecristo, poi l’epopea del capitalismo, forse anche lo spread; la crisi del colonialismo e persino l’avvento di Bokassa (smile!)

Il problema non sta certo nell’ambientare la vicenda in qualche sede londinese di società di trading: quanto poco, anzi nulla, a Wagner importasse dove la vicenda materiale si svolge lo testimonia il fatto che cambiò lui per primo l’ambientazione, spostandola dalla Scozia (teatro dell’azione nei racconti che ispirarono l’opera) alla Norvegia (forse in ricordo della personale esperienza colà vissuta sul barcone Thetis).

Invece il problema sta nella società che il regista ci presenta a far da sfondo alla vicenda centrale dell’opera - rappresentata dal rapporto peccato-redenzione, alias Holländer-Senta - e nei personaggi che in questa società si muovono.

Non siamo più in un ambiente sostanzialmente familiare, da economia autarchica, dove i rapporti umani sono improntati a un vago socialismo paesano; dove Daland, per dire, non sarà propriamente uno stinco di santo, ma neanche un bieco e truce capitalista sfruttatore (Dev’essere comico, prescriveva Wagner, come conferma la musica che lo sorregge, perdinci, da tutti bollata come scopiazzatura di Auber, una cosa da donnicciuole o da invertebrati…); dove Mary è la tata di Senta che fa anche da chioccia alle ragazze del paese riunite in casa sua a filare allegramente all’arcolaio, cantando simpatiche filastrocche. Insomma, un ambiente magari fin troppo sereno e ricco di arcaica poesia nordica, della quale fanno parte anche i fenomeni naturali più preoccupanti, come gli uragani e le tempeste di mare.

No, invece il regista ci trasporta in pieno sistema capitalistico-colonialistico, quello che si stava consolidando, o cominciava a sperimentare qualche crisi, a fine ‘800; Daland è il CEO di una grande società mercantile con traffici planetari e stuoli di impiegati e impiegate trattati con metodi tayloristici: è un brutale sfruttatore di manodopera e forse anche un trafficante di schiavi negri, almeno a giudicare dalla presenza del personaggio – del tutto inventato! – del servo di colore. Ecco, per il Daland di Homoki ci vorrebbe, come minimo e per restare a Wagner, la musica che caratterizza Hagen, o Klingsor, o Alberich!

Mary è un’acida capufficio di uno stuolo di dattilografe il cui ambiente di lavoro e il cui atteggiamento sono agli antipodi di quelli immaginati da Wagner. Per il quale scenario Homoki avrebbe dovuto casomai propinarci la musica di Nibelheim…

Quanto all’Olandese, piuttosto che un peccatore in cerca di redenzione, qui ci appare come un volgare ricettatore di refurtiva, che cerca di piazzare al capitalista Daland, facendo quindi passare quest’ultimo anche per riciclatore di denaro sporco…

Il regista poi si millanta intelligente e perspicace, mostrandoci un’enorme carta geografica dell’Africa, evidentemente oggetto dei traffici di merci dell’armatore-capitalista Daland. Ora, che l’Africa fosse una meta dell’Olandese, che si era venduto l’anima al diavolo pur di passare il Capo di Buona Speranza, è un’illazione plausibile (quantunque il libretto taccia assolutamente che il Capo fosse proprio quello, lo sappiamo solo dalle storie che ispirarono Wagner – ma non dal principale ispiratore, Heine, attenzione! - per il resto potrebbe pure essere Capo Horn o Capo Passero…) ma mi dice Homoki che centra l’Africa con il povero Daland, che invece al massimo faceva la navetta (smile!) fra Norvegia (o Scozia) e Danimarca? E la trasformazione dello schiavo di colore in Bokassa, con l’Africa che brucia, è proprio la ciliegina su questa improbabile torta!

Gli unici due personaggi che Homoki non sfregia più di tanto sono, a dir il vero e per fortuna nostra, Senta ed Erik: lei una schizofrenica visionaria (il suo mezzo spogliarello è gratuito, ma in fondo non è la cosa peggiore dello spettacolo) e lui un sempliciotto di provincia. Ma è un po’ poco per la verità. 

Essendo stato Homoki aiutante di Willy Decker, dal maestro ha preso alcune idee più o meno plausibili o criticabili per la sua messinscena (il Regio di Torino ha aperto la stagione 12-13 proprio con la produzione di Decker, peraltro assai più rispettosa dell’originale, va detto): fra le prime citerei il grande quadro a soggetto marino, sul quale a un certo punto si vede transitare un veliero; fra le seconde la scena del suicidio di Senta.  

La cui fine – una auto-fucilata sotto il mento, così come la auto-pugnalata di Decker - è quanto di più lontano, ma proprio agli antipodi, dell’idea di Wagner. Per il quale la donna si sacrifica per l’uomo che sente di dover redimere, e lo fa con un gesto ben preciso: il lanciarsi dalla rupe verso il mare dove l’Olandese si sta allontanando, il che rende anche visivamente l’idea di un estremo tentativo di ricongiungersi a lui, tentativo che sarà (secondo Wagner, manco a dirlo) coronato da successo, come testimoniano le didascalie e soprattutto la musica del finale!

Qui invece noi assistiamo ad un volgare e spregevole gesto suicida, dettato da mera disperazione e follia nichilista. E nulla di nulla ci vien mostrato della redenzione del peccatore!

Ma quando la smetteranno questi registi da strapazzo di pensare di apportare valore aggiunto alle scelte originali di autentici geni, come Wagner?
___
Sul piano sonoro, più ombre che luci, mi vien da dire.

Terfel avrà anche il fisico adatto per fare l’Olandese, ma la voce, ahilui, spesso trasforma il personaggio in un hooligan arrabbiato e imbottito di birra: forse in omaggio alla concezione del regista, chissà…

La Kampe, come Terfel, ha una voce piena di decibel, discreta nella zona centrale, ma sguaiata negli acuti: i suoi LA e SI naturali li spara in modo piuttosto volgare, spalancando a dismisura le sue enormi fauci. Discreta invece nei momenti più intimistici, ad esempio nella sezione Più lento della Ballade.  

Anger è - anche lui in omaggio al regista? - un Daland piuttosto deficitario, spesso vociante e stonato e le sue esternazioni non hanno proprio nulla della prosaica e affettata banalità volutamente appioppatagli da Wagner. 

La Plowright è una Mary censurabile, che canta proprio in negativa sintonia con l’acidità del personaggio impostale dal regista.

Chi fa in fin dei conti una figura almeno discreta è il nemorino (smile!) Vogt, che perlomeno canta come dio comanda e non stravolge l’essenza musicale del personaggio. Certo che sarebbe più adatto a far la parte del timoniere…

Il quale timoniere è impersonato mediocremente da Wortig, assai impacciato nel suo Lied di apertura.   

Il coro di Casoni ha dato una prova sufficiente, ma mi è parso perdere qualche colpo (ad esempio le ragazze nel concitato passaggio Sie sind daheim del secondo quadro). Meglio i maschi, compreso il gruppo degli olandesi, dislocato in buca e munito, come da partitura, di rudimentali megafoni.

Il Direttore Haenchen non mi ha particolarmente impressionato e per di più si è permesso indebiti elastici nei tempi.

L’Orchestra ha pure mostrato parecchie pecche, a cominciare dalla maldestra entrata di oboe e clarinetti nell’Andante dell’Ouverture. Soprattutto – ma qui ne va chiesto conto al Kapellmeister – mi è parso deficitario il corretto amalgama fra le sezioni. È vero che questa partitura non è stata scritta per l’Orchestergraben di Bayreuth, ma nemmeno per lasciare ciascun strumentista libero di suonare come pare a lui.

Alla fine tiepido successo per una prestazione di ordinaria routine, a proposito di tempio sacro della lirica…

12 marzo, 2013

Noseda porta in Scala le due anime di Rachmaninov


Evidentemente per non dimenticare quella lingua (da lui appresa durante gli anni di gavetta c/o Gergiev) il mio concittadino Gianandrea Noseda ha scelto un programma tutto russo per il suo ritorno in Scala.

È un russo non… sovietico, trattandosi del traditore (smile!) Rachmaninov, di cui si eseguono il concerto più famoso e la sinfonia più sfigata. Per la verità il programma è un pochino diverso e più scarno di quello che il sito-web del Direttore presenta ancor oggi (con L’isola dei morti e il quarto, anziché secondo, concerto).

Meglio… informata è la pianista medesima, che è la 26enne Kathia Buniatishvili (la desinenza del suo cognome basta ed avanza per identificarla come conterranea di tale… Stalin!) che si cimenta con uno dei concerti - il secondo - più eseguiti (non necessariamente più nobili) del repertorio pianistico.

Ma per inquadrare il Rachmaninov che Noseda ci propone sarà però opportuno invertire la sequenza della locandina, e partire dalle vicende che accompagnarono la malnata Prima sinfonia. Scopriremo come le due opere eseguite oggi stiano su due opposti versanti della produzione del russo, il cui indirizzo estetico mutò drasticamente nei tre anni che le separano.  

La sinfonia, composizione di un Rachmaninov 22enne (siamo ancora nell’ottocento, pur se verso la fine) subì un fiasco totale alla prima esecuzione del 1897 a Leningrado (era il 15 marzo, mai sfidare le idi… d’altronde lui era nato al pesce d’aprile). Disastro probabilmente dovuto a tutt’altro tipo di fiasco, quello di vodka che il direttore Glazunov aveva ingurgitato prima di salire sul podio (smile! però ad altri direttori, tipo Barbirolli, pare che una buona dose d’alcol in corpo facesse effetti musicalmente strabilianti…)

Tutto ciò fu causa di una tremenda frustrazione e depressione, che portò Rachmaninov praticamente sull’orlo della pazzia, dalla quale depressione fu guarito grazie ad una robusta cura a base di ipnosi praticatagli da uno psichiatra russo specializzatosi a Parigi (tale Nikolai Dahl) cui il compositore dedicò per riconoscenza proprio il concerto – la sua prima opera post-choc - che ha aperto qui la serata.

E così la sinfonia venne del tutto abbandonata da Rachmaninov, che se ne disinteressò per il resto della sua vita, al punto tale da lasciarla in un cassetto a Mosca, al momento di emigrare in occidente, e mandarne così perduta la partitura. Solo a metà del secolo scorso (1945, due anni dopo la morte del compositore in California) questa fu ricostruita dalle singole parti strumentali ritrovate al Conservatorio di Leningrado, ed eseguita a Mosca dove, cosa apparentemente inconcepibile in un mondo staliniano che opprimeva e umiliava i patrioti Prokofiev e Shostakovich, ottenne un successo strepitoso!

A me la vendetta, sono io che ricambierò (Paolo, Lettera ai Romani): profetiche parole vergate da Rachmaninov in calce alla partitura! Ma che forse erano dirette più prosaicamente a tale Anna Lodyzhenskya, la dedicataria della sinfonia, una bella gitana moglie di un suo amico, colpevole di non avergliela data (!?)

Tanto per inquadrare l’opera nel contesto storico, essa è più o meno coeva delle prime sinfonie di Mahler e dei poemi sinfonici di Strauss; è di poco più giovane della Patetica e della sinfonia Dal nuovo mondo. Personalmente la trovo piuttosto velleitaria, ma per nulla affettata e dolciastra come molte delle composizioni successive di Rachmaninov, che fra l’altro le sono debitrici di varie idee musicali. È invece un’opera interessante, assolutamente innovativa, per non dire di più, rispetto al pur adorato Ciajkovski; ostica da digerire anche per noi che abbiamo le orecchie allenate ed assuefatte al noise del novecento, e quindi figuriamoci per gente di più di un secolo fa.

E proprio in queste sue positive qualità sta l’aspetto più singolare e inquietante di tutta la vicenda legata al suo originario fallimento: l’aver convinto (o magari spinto a livello inconscio) Rachmaninov ad abbandonare – ahilui e ahinoi - la strada dell’innovazione per rifluire istintivamente (o furbescamente?) nella bambagia di un’anacronistica tradizione tardo-ciajkovskiana (che anni dopo in USA gli consentirà di fare palate di proseliti e soprattutto di… dollari!) Più o meno il contrario di ciò che succederà sul piano artistico (non certo economico!) ad un altro fuoruscito dalla Russia, Igor Stravinski, anche lui svezzatosi alla mammella di Ciajkovski, ma poi trasformatosi in un radicale (a suo modo) innovatore.
___
Tutti i quattro movimenti della sinfonia sono introdotti da una cellula motivica (un veloce gruppetto) che vi ricompare qua e là e che si incaricherà anche di chiuderla:

Invece il motivo ispiratore della sinfonia, dove viene impiegato in modo abbastanza intelligente, è il Dies Irae, che diventerà purtroppo negli anni successivi una insopportabile manìa del compositore. Lo intravediamo già nell’introduzione (Grave) di 7 battute, dove il RE (tonalità d’impianto, in minore) in realtà si muove come dominante di SOL minore: l’introduzione si chiude infatti con un accordo di SOL, addirittura maggiore, che degrada subito a minore, anticipando chiaramente il motto della sesta mahleriana (!) Già questa apparentemente gratuita trovata testimonia di un approccio originale e innovativo nei confronti di una forma che con Brahms pareva aver esaurito tutte le sue potenzialità.

La discesa da SI a SIb (che ha determinato la virata da maggiore a minore) continua nei fiati fino al LA, dominante del RE minore sul quale viene esposto dal clarinetto il primo tema (Allegro ma non troppo) la cui derivazione dal canto gregoriano è palese, quanto la rassomiglianza con il motivo dell’Allegro vivace del finale della quinta di Ciajkovski:


Segue un controsoggetto in SIb, esposto da viole, celli e bassi:

Poi il tema principale riprende con gran vigore e crescendo, per acquetarsi in prossimità dell’entrata del secondo tema (siamo ovviamente nel regno della forma-sonata) Moderato, in SOL minore e SIb maggiore, esposto inizialmente dai violini:


Un tema dal sapore gitano (come la dedicataria dell’opera…) che sfocia in un controsoggetto lamentoso, in 7/4 negli oboi, prima di una enfatica e pesante reiterazione del secondo tema, in SIb maggiore, che chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è aperto da una velocissima quartina di biscrome che riporta l’atmosfera un semitono sotto, sul LA, dominante del RE minore in cui viene ripresentato il primo tema, in Allegro vivace e in un interessante contrappunto, prima nei soli archi, poi arricchito dai fiati. Il secondo tema si fa udire, piuttosto storpiato, negli strumentini, modulando sul MI minore, dove si adagia momentaneamente anche il primo tema. Il quale viene ancora poderosamente sviluppato, fino a rimodulare a RE minore in vista della ricapitolazione.  

La quale canonicamente ripropone il primo tema nella tonalità d’impianto, poi il controsoggetto in SIb e poi ancora il secondo tema e relativo controsoggetto portati nella tonalità del primo (RE). Una transizione porta poi alla Coda, improntata al primo tema, che ora scopertamente presenta la sua origine chiesastica.

Pur con qualche aspetto di immaturità e acerbezza, si tratta di un movimento assai bene strutturato, che coniuga lodevolmente il rispetto delle regole classiche con il tentativo di innovarle dall’interno.

Segue l’Allegro animato, con funzione di Scherzo. Già le primissime battute ci riportano i due chiodi fissi della sinfonia: la cellula iniziale e il Dies Irae, qui esposto inizialmente in FA maggiore, per terze, dai primi violini:

I fagotti rispondono con un motivo sincopato discendente, contrappuntato da un richiamo dei corni:

Questi motivi sostengono l’intero movimento, il primo comparendo in tonalità diverse e spesso in inversione, l’altro manifestandosi qua e là in archi e strumentini. Veloci terzine fanno da sottofondo agitando l’atmosfera, e sottolineando folate ascendenti negli archi, dove il Dies Irae compie anche diverse spettrali irruzioni.

Una sezione centrale, una specie di abbozzo di trio, è affidata a due violini soli, che intonano, sulla struttura della cellula iniziale, una melodia di sapore prettamente gitano. Riprende lo Scherzo in tutto il suo vigore, ma sempre caratterizzato dalla leggerezza delle terzine di archi e strumentini.

Per finire i violini presentano il Dies Irae, ora in chiaro (RE minore) seguito dalla cellula iniziale, prima delle 6 battute conclusive, siglate dal clarinetto sul REb (sesta minore, perdendosi) che sfocia nel DO, dominante del FA maggiore con cui gli archi in pizzicato pppp chiudono il movimento. Che va lodato per la mirabile capacità che Rachmaninov mostra a livello di intelligente manipolazione dei semplici motivi di base.

Ecco poi il delicatissimo Larghetto, immancabilmente aperto dalla cellula iniziale che introduce – qui assai languidamente - il dolce tema in SIb esposto dal clarinetto:

Tema che si sviluppa subito in una lunga melodia, che verrà poi ripresa e variata anche da oboe, flauto e archi, che le imprimono anche inflessioni gitane.

Una sezione centrale, sostenuta da cupi accordi sincopati dei corni, con successivi pesanti interventi di tromboni e tuba e dall’agitarsi degli archi, porta un’improvvisa oscurità, che però si dirada presto per far posto al sereno, col ritorno del tema principale nei due violini e violoncelli solisti; tema che riprende la sua ampia dimensione - contrappuntato nei corni da un austero motivo che richiama con discrezione il solito Dies Irae - prima di sfumare in una cadenza in SIb maggiore, per terze, dei clarinetti, sul pizzicato degli archi.

Il finale è un classico Allegro con fuoco. La struttura è riconducibile ad un’introduzione, all’esposizione di un gruppo di due temi in RE (maggiore e minore) e di un secondo gruppo di due temi in LA maggiore; segue una sezione centrale (DO#) prima della ricapitolazione, dove torna il secondo dei temi del primo gruppo e il secondo gruppo di temi. Chiude il tutto una lenta transizione all’enfatica coda.

È sempre la cellula iniziale ad aprire il movimento introducendo, dopo tre schianti dell’orchestra, una fanfara delle trombe ritmata dal tamburino, trombe che arpeggiano per terze sulla triade di RE maggiore. Archi e legni espongono in questa tonalità un primo tema, di vaga rassomiglianza ciajkovskiana, ancora una volta derivato dal Dies Irae, tutto scandito da crome alternate a pause, con andamento irregolarmente sincopato, mentre i fiati e il tamburino continuano a scandirne il ritmo marziale:

Chiusa l’esposizione del tema, torna la cellula iniziale, che introduce un nuovo soggetto, negli archi con i corni a interloquire con le prime tre note del Dies Irae; si oscilla fra maggiore e minore, finchè un crescendo dei legni non porta alla plateale esposizione del Dies Irae da parte del contrabbasso-tuba:

Ora i violini presentano un secondo tema (Con anima) canonicamente sulla dominante LA maggiore; un’atmosfera che tornerà nel finale della seconda sinfonia, una lunga melodia dal sapore zingaresco:

La contrappuntano poi i corni, con portamento invero maestoso, prima che un nuovo soggetto, ancora mutuato dal Dies Irae (in tempo Più vivo) faccia la sua comparsa negli archi e si sviluppi in modo concitato ed enfatico - in cui si riconosce nelle trombe un inciso (terza minore discendente-ascendente) che troveremo nella Coda - fino a chiudere la sezione con poderosi accordi di LA maggiore dell’intera orchestra.

Gli archi bassi tengono quel LA per altre tre battute, dopodichè (in 3/4) inizia un lungo Allegro mosso (che poi diviene Più vivo) in tonalità DO# minore-maggiore. Ne è protagonista inizialmente l’oboe, poi è tutta l’orchestra a svilupparlo con inflessioni zingaresche e atmosfere un po’ decadenti, che richiamano certo Ciajkovski sdolcinato. Questa è forse la parte meno robusta della sinfonia, almeno a mio parere.

L’Allegro con fuoco riprende ora il sopravvento per la ripresa dei temi principali: si parte dall’introduzione, ora assai ampliata, poi è il secondo motivo del primo gruppo di temi a fare capolino, virando temporaneamente dal RE al SOL, su cui riudiamo nella tuba il Dies Irae; segue il secondo gruppo di temi, trasposto in RE (in piena obbedienza alle classiche regole) col Dies Irae che imperversa, fino alla chiusura su un terrificante accordo di RE minore seguito da un perentorio colpo di tam-tam.

Ora subentra un ampio Largo, che riprende invariabilmente il motivo del Dies Irae (qui in SI minore) e lo sviluppa in modo enfatico, con salite e successive discese cromatiche (a mo’ del wagneriano tema del Sonno) e prepara l’arrivo della coda (Con moto).

Essa è occupata da ben nove reiterazioni, in tutti gli archi e con enfasi incredibile, di un motivo costituito inizialmente da una terza minore discendente-ascendente (RE-SI-RE) già udita in precedenza, seguita dal gruppetto comparso fin dall’inizio della sinfonia. Alla quinta reiterazione l’intervallo discendente-ascendente diventa una terza maggiore (RE-SIb-RE) e il tam-tam fa sentire, per quattro volte, il suo metallico fracasso; alla sesta ripetizione (e poi per le restanti tre) l’intervallo è di quarta (RE-LA-RE, tonica-dominante-tonica). L’ultima reiterazione del motivo, invece del gruppetto, si limita ad esporre, in fff, due crome dell’accordo perfetto di RE maggiore, nell’intera orchestra.
___
Ora, pur non risparmiando qualche critica agli aspetti meno convincenti della sinfonia, devo dire che la trovo personalmente rimarchevole, per essere praticamente la prima esperienza del genere di un giovane di 22 anni. Pur nel rispetto sostanziale dei canoni classici (struttura dell’opera e dei singoli movimenti) essa mostra grandi qualità innovative, che solo raramente sfociano in velleitarismo o presunzione.

Ed è un vero peccato che il clamoroso (e del tutto immeritato) insuccesso dell’opera abbia poi materialmente compromesso l’intera produzione successiva dell’autore che, viceversa, avrebbe verosimilmente potuto rivaleggiare, in quanto a progressismo, con i connazionali Prokofiev, Shostakovich e (sull’altro fronte) Stravinski.
___
Noseda, che diresse tre anni orsono la prima esecuzione a Chicago della Sinfonia con la CSO e che ieri l’ha fatta risuonare per la prima volta dentro il Piermarini, ne ha interpretato lodevolmente lo spirito, mettendone in risalto le migliori qualità, caso mai eccedendo fin troppo nei contrasti e nei chiaroscuri.

Difficile immaginare perché – contrariamente alle indicazioni in partitura - nella sezione centrale del secondo movimento, abbia fatto suonare soltanto uno dei due primi violini, e analogamente, nella ripresa del terzo movimento, abbia fatto suonare solo un violino e un violoncello, invece di due coppie…

L’orchestra ha comunque risposto bene, in tutte le sezioni, mostrando un buon affiatamento col maestro: tutti accolti da calorosi applausi.
___
Torniamo ora al Secondo concerto, che apriva la serata. Come detto, quest’opera, composta precisamente a cavallo del secolo, segnò la riscossa – fisica, morale e musicale (ma a modo suo piuttosto regressiva) – del compositore, dopo il penoso stato di depressione legato al flop della sua Prima Sinfonia.  

Qui purtroppo la fanno da padroni: un’ispirazione prosaica, zuccherosità e affettazione in quantità industriale, cedimenti continui al patetico, o al kitsch. Insomma: roba da romanzi di Harmony… E non sarà un caso se da subito e fino ai giorni nostri il concerto sia diventato oggetto di abbondanti saccheggi da parte di autori di colonne sonore di film, sigle di trasmissioni tv o canzonette.

La simpatica Kathia Buniatishvili ce la mette ovviamente tutta per valorizzare la mappazza, compreso qualche rubato (del suo amato Chopin) nel centrale Adagio sostenuto, ma ahilei aggiungere del cioccolato ad una melassa finisce per renderla ancor più indigeribile! E anche Noseda non va purtroppo indenne da colpe, per il volume esagerato con cui tiene l’orchestra, che spesso e volentieri riduce il pianoforte a strumento muto. Comunque gli applausi non mancano: voglio pensare indirizzati agli esecutori per la loro abnegazione, e non all’autore per la qualità della sua opera…  

Meno male che la bella Kathia (presentatasi con un lungo nero che le lasciava scoperto anche il fondo schiena, smile!) ci riconcilia con la musica… seria (ri-smile!) regalandoci una versione abarth della proibitiva trascrizione de La valse (qui un suo indimenticabile precursore).

08 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.25


Dopo la sterminata Terza di Mahler, un altro mastodontico corpus musicale ci viene proposto, come ormai da anni consuetudine, dalla stagione de laVerdi: quest’anno, dopo Xian (09-10 e 10-11) e Ceccato (11-12), è John Axelrod a cimentarsi con il Requiem verdiano, in un Auditorium ancora una volta piacevolmente gremito, a dispetto dell’uggiosità del tempo.

Da sempre ci si accapiglia fra due scuole di pensiero: chi lo cataloga come un melodramma, sacro ma pur sempre melodramma, e chi gli concede caratteristiche di musica religiosa, alla Palestrina o Cherubini o Mozart, o magari alla stregua dell’esempio brahmsiano. A proposito, proprio un entusiasta di Brahms, tale Hans von Bülow, ascoltò la prima della Messa in quel 22 maggio del 1874 e ne scrisse in termini non proprio elogiativi (rivedendo però poi in positivo la sua posizione) denunciandone qualche grettezza scolastica e qualche soluzione bruttina e di cattivo gusto… forse proprio per rimarcarne alcuni lati platealmente melodrammatici.

Oltretutto sappiamo come una pur breve sezione del Dies Irae (il celeberrimo Lacrymosa) altro non sia se non uno scarto (smile!) del primo Don Carlos (atto quarto, quadro secondo - qui VanDam, con Alagna, da 2’17”) che Verdi ripescò dal recycling-bin, riadattandone la melodia, scritta per i versi francesi, al latino della Messa:

Requiem
Lacrymosa dies illa
Qua resurget ex favilla
Judicando homo reus
Huic ergo parce deus.
Philippe
Oui, je l’aimais… sa noble parole
A l’âme révélait un monde nouveau!
Cet homme fier… ce coeur de flamme,
C’est moi qui l’ai jeté dans l’horreur du tombeau!

Nel suo esaustivo saggio sul Requiem, David Rosen ha compiutamente analizzato le (piccole, sottili, ma significative) differenze fra i due brani, legate non solo al contenuto del testo, ma anche all’accentazione delle parole, oltre che ad esigenze puramente estetiche. Una delle differenze principali consiste nella rimozione della rigida anacrusi – ripetuta per ben otto volte in otto battute! - che caratterizza la melodia di Filippo, in favore di una più libera cantabilità dei versi sacri. E anche l’armonizzazione subisce alcuni modesti ma significativi ritocchi:

Ecco, mi sembra che Axelrod appartenga decisamente alla prima delle due scuole di pensiero, almeno da come ha decisamente messo in risalto proprio i tratti marcatamente melodrammatici della partitura, a cominciare dalla scelta delle voci: Victoria Yastrebova, un soprano giovane ma che ha in repertorio Elsa, Desdemona e Tosca, e Khachatur Badalyan, una robusta voce da heldentenor.

Il cast è completato da Maria José Montiel (che aveva cantato anche nelle due edizioni dirette da Xian) e da Mirco Palazzi, che personalmente sono le voci che più ho apprezzato.

Il coro di Erina Gambarini ha fornito ancora una volta una prova egregia, così come l’orchestra, compattissima nei tumultuosi passaggi del Dies Irae dove Axelrod non ha risparmiato la minima enfasi, e capace però di emozionanti pianissimo nelle sezioni di più religioso raccoglimento (forse il morendo finale degli ottoni avrebbe dovuto essere più vicino al ppp prescritto…)

In complesso un’esecuzione più che apprezzabile, accolta da un autentico trionfo.
___
John Axelrod resta sul podio anche per Il prossimo concerto dedicato a Brahms.

04 marzo, 2013

C’è del comico anche a Verona


Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di regno, che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo Stefano Ranzani.

La seconda opera composta da Verdi (dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva sorte.

Insomma, un libretto a prima vista alquanto strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800 e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti. Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con qualcosa di giocoso preferiva di gran lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.

Ma il povero Verdi, che pur si sentiva cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse a comporre questo Finto Stanislao.    

Ergo nessuna meraviglia se il 5 settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a cancellare ogni recita successiva.   

Eppure… eppure, se analizziamo le cose con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani. Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.

E sono propriamente i due protagonisti: lui, Belfiore, il finto Stanislao; e lei, la Marchesa del Poggio, sua amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità dei due vecchi intrallazzatori (il Barone e il Tesoriere) intenti soltanto a perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e reazionaria.

Belfiore e la Marchesa evidentemente rappresentano forze emergenti dall’establishment incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della società. Ecco: due individui con una visione progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.

Anche la figura di Giulietta (una ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.     

Sul piano musicale, di certo siamo di fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni (fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di metà ‘800.    

Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.      

Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano. E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.

Fra le voci si è distinto il protagonista, Filippo Polinelli, per ottima prestazione vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.

Non fosse per il timbro di voce tendente al metallico, la carioca Ludmilla Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.

Brillanti i due buffi: Filippo Fontana (Tesoriere) e soprattutto Simon Lim (il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente completato il cast.

Note di merito anche per signori e signore del coro di Armando Tasso e per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.

Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui letteralmente calamitate e condotte per mano.

Calorosissimo e per me meritatissimo successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta che avevano accolto quasi tutti i numeri musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata.