affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

24 agosto, 2012

ROF-33 – Tancredi


Il Tancredi ha concluso ier sera il ROF numero 33, con un’esecuzione in forma di concerto al teatro Rossini, diffusa in video – cosa che sta diventando tradizione - nella vicina Piazza del Popolo.

La prima domanda che viene spontanea, a proposito di Tancredi, è quale versione del finale si rappresenti: quella originale di Venezia, col vissero tutti felici e contenti, oppure quella (di poche settimane successiva e più fedele alla tragedia in versi a rima incrociata di Voltaire) di Ferrara, con la morte eroica e nobile del protagonista?



Vediamo un po’… Dunque, Tancredi ha fatto secco lo sbifido Orbazzano (liberando Amenaìde della sua disgustosa presenza) ed è appena uscito dal drammatico confronto con la medesima Amenaìde (che ha invano cercato di convincerlo della sua fedeltà); si è messo a girovagare solitario, con propositi suicidi, sui monti sovrastanti Siracusa ad occidente, i cui torrenti vanno (poeticamente) a formare lo specchio d’acqua dell’Aretusa e, dopo la mirabile introduzione orchestrale in MIb, ha cantato il suo recitativo accompagnato (Dove son io?) e la sua cavatina in DO (Ah! che scordar non so colei che mi tradì...)

A questo punto le versioni Venezia e Ferrara cominciano a divergere e lo specchietto qui sotto riporta i due testi, con i relativi allineamenti (pochi) e le molte divergenze. In realtà qualche scostamento fra le due era visibile anche in precedenza, come ad esempio il diverso numero di scena, 16 e 14 rispettivamente. 

La prima divergenza non è nella musica, ma solo (e parziale) nel testo (Regna il terror nella città): a Venezia è Tancredi che ascolta un coro di Saraceni, che pregustano la definitiva conquista di Siracusa; a Ferrara sono invece i siracusani che lo stanno cercando per porlo alla loro testa in difesa della città. Nella versione-Venezia Tancredi canta ora un recitativo secco (Fra saraceni io dunque son?) espunto conseguentemente in quella di Ferrara. 

Poi abbiamo differenze sostanziali, nell’episodio dell’incontro di Tancredi con i siracusani, fino alla sua partenza per la battaglia contro Solamir, dove le due versioni torneranno - per poco - a riunificarsi. Nella versione-Venezia l’incontro fra Tancredi, Amenaìde e Argirio è più corposo, e comprende anche la rivelazione (fatta dalla stessa Amenaìde) che la famosa sua lettera compromettente era diretta a lui, Tancredi, e non a Solamir. Ma Tancredi non ci crede (strano: crederà solo - toh! - a… Solamir!) poi pare convincersi, poi ancora resta lì come un ebete e infine tutti sono sorpresi dall’arrivo di emissari saraceni (Qual suon? che miro! e Marcia) che recano l’ultimatum di Solamir: Amenaìde-for-peace! Tancredi prende l’iniziativa (Sì, la Patria si difenda) e impone il rifiuto della capitolazione, preparandosi alla battaglia. La versione-Ferrara è più sbrigativa: i siracusani chiedono a Tancredi di difenderli; lui non sta nemmeno ad ascoltare le implorazioni di Amenaìde ed Argirio e muove verso la battaglia, non prima di aver cantato il bellissimo (e nuovo) Rondo in FA maggiore Perché turbar la calma di questo cor, perchè?  

Le versioni si riunificano in prossimità della battaglia Tancredi-Solamir: sono due scene in cui assistiamo alle preoccupazioni di Argirio, Amenaìde e dei siracusani e alla loro ansia per l’esito della pugna.

Terminata la quale, ecco i due finali totalmente diversi: a Venezia Tancredi torna vincitore e rassicurato sulla fedeltà di Amenaìde da… Solamir (che però era l’ultimo a poter avere le prove riguardo alla lettera incriminata, sequestrata dal malvagio Orbazzano prima che arrivasse a destinazione a... Tancredi!) e l’opera termina - su un RE maggiore di ordinanza - in gloria, amore e… fedeltà. A Ferrara invece Tancredi torna vincitore sì, ma mortalmente ferito (coro Muore il forte, in LA minore - DO maggiore): solo allora gli viene rivelata la verità sulla lettera e così lui chiede scusa ad Amenaìde e chiede ad Argirio di benedire le loro nozze in punto di morte. L’ultima sua parola, accompagnata dal solo quartetto d'archi, sul SOL, dominante di DO maggiore, è …addio!

Versione Venezia (16/2/1813)
rivista per Milano (18/12/1813)
Testo di Gaetano Rossi

(Intanto da' burroni, dalla selva compariscono gruppi di soldati saraceni, che s'avviano al campo)

N. 16 (II) Coro di saraceni
CORO DI SARACENI
Regna il terror
nella città;
dell'ombre fra l'orror
si assalirà:
vinta cadrà.
La ricca preda allor
nostra sarà:
s'esulterà.
Gloria, e valor
n'accende il cor,
il saraceno ognor
trionferà.
(vanno disperdendosi)

N.16 (III) Recitativo secco
TANCREDI
Fra saraceni io dunque son? ~ le tende
quelle di Solamiro!... del rivale. ~
In periglio fatale
è la mia patria, e l'abbandono! ~ almeno,
giacché scelsi morir, utile a lei
si sacrifichi il fin de' giorni miei.
(s'incammina)

Scena XVII
(Argirio, e Amenaìde, con séguito di Cavalieri e Soldati.)

AMENAÌDE
Ah! eccolo.
(chiamandolo)
Tancredi!...

ARGIRIO
Tancredi!...

TANCREDI
(colpito)
Il nome mio! ~
Tu qui? ~ Perfida! ~
(con amarezza)
e vai
di Solamiro al campo?

AMENAÌDE
(con passione)
Ingiusto!

ARGIRIO
Omai,
Tancredi, esci d'errore:
la mia figlia è innocente.

TANCREDI
(con emozione)
Ah! ~ no: quel foglio
troppo avvera la colpa.

AMENAÌDE
A te, ingrato, quel foglio a te fu scritto.

TANCREDI
A me? ~ né pria il dicesti!

AMENAÌDE
Eri proscritto.

TANCREDI
E tu non ami Solamir?

AMENAÌDE
L'aborro.

TANCREDI
(come sopra)
(Ciel! che pensar?...)
(ad Argirio)
E tu, padre!...

ARGIRIO
A lei credi.

TANCREDI
Ma poi... se...

AMENAÌDE
(con tutta passione)
Mio Tancredi;
per questa man che mi salvò, ch'io stringo...
per il primiero amor... guardami...

TANCREDI
(agitatissimo)
Oddio!...

ARGIRIO
Cedi...

AMENAÌDE
A tuoi piè...
(si getta a' di lui piedi)

TANCREDI
(commosso)
Che fai!... (Dove son io!)
Ah sì...
(è per alzarla, ed abbracciarla, in questo si ode da lunge musica barbara marziale che viene avanzando: tutti ne restano colpiti)

N. 16 (IV) Marcia e aria
TANCREDI
Qual suon? ~ che miro!...
Quelle di Solamiro
le insegne son!...
(ad Amenaìde)
Ti turbi?
(ad Argirio, e cavalieri)
Voi fremete?
(poi a saraceni che avanzano)
Dove andate, superbi, e che volete?

Scena XVIII
(Saraceni che portano un ramo d'olivo, e una corona, e detti.)

CORO DI SARACENI
Solamir d'Amenaìde
vuol la man di pace in pegno:
ecco il segno ~ d'amistà;
ecco il serto che l'amore
offre al merto, ~ alla beltà.
Ma paventi Siracusa
se ricusa:
su voi tutto il suo furore
l'odio suo piombar farà.
(sdegno, disprezzo dei siracusani)

TANCREDI
(fiero, e con amarezza)
(ad Argirio)
Or che dici? ~ or che rispondi? ~
(ad Amenaìde)
Ammutisci? ~ Ti confondi? ~
Va' ~ palese è troppo omai
la tua nera infedeltà.

CORO DI SARACENI
Vieni al soglio!

TANCREDI
Quale orgoglio!
Padre, e voi!...

CORO DI SARACENI
(ad Argirio, e cavalieri)
Non più: scegliete.

TANCREDI
No: capaci non sarete
di sì orribile viltà.
(poi ad Amenaìde con pena, ed ira)
E questa è la fede
che un dì promettesti?
Tradirmi potesti,
scordarti di me? ~
E tanto è spietato
l'acerbo mio fato,
che ancora t'adoro,
e moro ~ per te! ~
Sì, la patria si difenda:
Solamir me al campo attenda.
Poi dell'ombre nella pace
cesserò di sospirar.

CORO DI SARACENI
Vieni: all'armi; il fasto audace
Solamir saprà domar.

TANCREDI
Sì cadrà il rivale audace
io vi guido a trionfar.
(I saraceni partono. Tancredi alla testa de' cavalieri parte seguìto da Roggiero)

Scena XIX
(Amenaìde, Argirio, Isaura, Scudieri, Guerrieri.)

Recitativo secco
AMENAÌDE
Ah! ch'ei si perde! padre, Isaura, ei corre
nel suo furor a ricercar la morte.

ARGIRIO
Infausto dì! ~
(a' guerrieri)
Voi mi seguite,
(ad altri, e scudieri)
e voi
su lor vegliate.

AMENAÌDE
(per seguirlo)
Anch'io...

ARGIRIO
Rimanti: al braccio mio
accordi il cielo, il prisco suo vigore.
Di gloria in sen mi avvampa ancor l'ardore.
(parte)

Scena XX
(Amenaìde, Isaura, Scudieri, Guardie.)

AMENAÌDE
Quanti tormenti in un sol giorno! ~ ah! Senti
Ferve la pugna: d'armi, di guerrieri
odi il fragor, le grida...

ISAURA
Oh! Quale orrore
spargesi intorno!

AMENAÌDE
Come trema il core!
Che palpito affannoso? ~ Quai funeste
immagini tremende? ~ Forse adesso
il genitor... l'amante... esangue... oppresso...
Oh Isaura! ~ io più, no, non resisto.

ISAURA
Ascolta.
Cessò il tumulto.

AMENAÌDE
Ah! forse!

ISAURA
A questa volta
stuol d'armati...

AMENAÌDE
Gran dio! ~

Scena XXI e ultima
(Argirio, Tancredi, Roggiero, Saraceni, Prigionieri, Guerrieri, Popolo.)

ARGIRIO
Figlia...

AMENAÌDE
Oh padre!...

TANCREDI
Idol mio!...

AMENAÌDE
Tu! mio Tancredi? ~

TANCREDI
Pentito, amante, e vincitor mi vedi.

AMENAÌDE
Ah, dunque!...

TANCREDI
Solamiro
da me trafitto, all'ultimo respiro
svelò la bella tua innocenza, e rese
l'error comune, e il tuo gran cor palese.

AMENAÌDE
(tenerissima)
Fedel mi credi?

TANCREDI
(affettuoso)
Mi perdoni!

ARGIRIO
Oh figli!
A Siracusa ~ omai da suoi perigli
è libera la patria: vieni, regna,
trionfa.

TANCREDI
(ad Amenaìde)
Sul tuo cor regnar voglio!
Questa da te desio sola mercede.

AMENAÌDE
Trionfano così l'amor, la fede!...

N. 17 - Finale II
AMENAÌDE
Tra quei soavi palpiti
brillar mi sento il core!
Un delizioso ardore
gioir; languir mi fa...
No, non vi posso esprimere
la mia felicità.

ARGIRIO
Ah del piacer quest'anima
respira omai nel seno:
tra voi felice appieno,
figli, il mio cor sarà...
No, non vi posso esprimere
la mia felicità.

TANCREDI
Sì grande è il mio contento,
sì dolce è tal momento,
che tanta gioia ancora
credere il cor non sa...
No, non vi posso esprimere
la mia felicità.

TUTTI
Sì ~ tutto spiri intorno
piacer felicità:
trionfano in tal giorno
amore e fedeltà.
Versione Ferrara (21/3/1813)
Testo di Luigi Lechi


(Intanto da' burroni, dalla selva compariscono i cavalieri, che vanno in traccia di Tancredi) 
                
N. 16 (II) Coro di cavalieri
CORO DI CAVALIERI 
Regna il terror
nella città:
Tancredi di dolor
dunque morrà...
Ove sarà
egli col suo valor
ci guiderà:
trionferà.
Gloria e valor
n'accende il cor;
Il saraceno ognor
spento cadrà.
S'esulterà.











Scena XV
(Amenaìde, Argirio e detti)

N. 16 (III) Recitativo secco

AMENAÌDE
Ecco, amici, Tancredi.

ARGIRIO
Tancredi...

TANCREDI
Il nome mio...
Tu qui? ~ Perfida! E vai
di Solamiro al campo?

AMENAÌDE
Oh! Mio Tancredi,
esci d'errore omai...

TANCREDI
Taci! È vano quel piano, orror mi fai. ~
(ai cavalieri)
Sì con voi pugnerò, con voi; la patria
salverò col mio sangue. Il mio destino
si compia allor; t'invola!
Penai, piansi per te, lo sai, lo vedi:
vanne, infedel, morto è per te Tancredi.

N. 16 (IV) Rondo

TANCREDI
Perché turbar la calma
di questo cor, perchè?
Non sai che questa calma
è figlia del dolor!
Traditrice, io t'abbandono
al rimorso, al tuo rossore;
vendicar saprà l'amore
così nera infedeltà.
Ma tu piangi... forse?... Oh dio!

CORO
Vieni al campo.

TANCREDI
Ove son io!

CORO
Gloria, amore il cor t'accenda,
Solamir per te cadrà.

TANCREDI
Sì, la patria si difenda,
io vi guido a trionfar.
Non sa comprendere
il mio dolor
chi in petto accendersi
non sa
d'amor.

CORO
Gloria, amore il cor t'accenda,
Solamir per te cadrà.



































































































 Scena XVI
   (Amenaìde, Argirio, Isaura, Scudieri.)      

                                    Recitativo secco
AMENAÌDE
Ah! Ch'ei si perde! Padre, Isaura ei corre
nel suo furor a ricercar la morte.

ARGIRIO
Infausto dì!
(ai guerrieri)
Voi mi seguite,
(ad altri, e scudieri)
e voi
su lor vegliate.

AMENAÌDE 
Anch'io...
(per seguirlo)

ARGIRIO
Rimanti: al braccio mio
accordi il cielo il prisco suo vigore:
di gloria in sen m'avvampa ancor l'ardore.
(parte)

Scena XVII
(Amenaìde, Isaura, Scudieri, Guardie.)

AMENAÌDE
Quanti tormenti in un sol giorno! Ah! Senti...
Ferve la pugna: d'armi, di guerrieri
odi il fragor, le grida...

ISAURA
Oh! Quale orrore
spargesi intorno!

AMENAÌDE
Come trema il core!
Che palpito affannoso? - Quai funeste
immagini tremende! - Forse adesso
il genitor.. l'amante... esangue... oppresso...
Oh Isaura! Io più no, non resisto.

ISAURA
Ascolta.
Cessò il tumulto.

AMENAÌDE
Ah! Forse...

ISAURA
A questa volta
stuol d'armati...




Scena XVIII e ultima
(Argirio, alcuni Cavalieri con Tancredi e detti.)

AMENAÌDE
Gran dio! Qual suon, quai grida!

ARGIRIO
Figlia...

AMENAÌDE
E Tancredi? Il mio Tancredi?

ARGIRIO
Piena
vittoria egli ebbe sul nemico... oh! dio
ma funesta vittoria... ei la sua patria
salvò... col proprio sangue...

AMENAÌDE
È morto?...

ARGIRIO
Appena
regge il fianco trafitto...
nell'angoscia di morte il nome tuo
sospirando ripete...

AMENAÌDE
Oh! Mio Tancredi!

N. 17

CORO
Muore il forte,
il vincitor;
ahi qual sangue!
Quale orror!
   
Recitativo secco

AMENAÌDE
Barbari! È vano ogni rimorso... oh dio!
Tancredi! Sventurato...
E puoi tu udirmi ancora... e puoi tu ancora
su me fissar le moribonde luci?
Conoscimi, Tancredi,
il mio dolor conosci... la tua sposa. ~
Dunque l'ultimo sguardo or su me volgi?
M'odi ancor? ~ Rea mi credi?

TANCREDI
(sollevandosi)
Ah! ~ M'hai tradito! ~

AMENAÌDE
Io!...

ARGIRIO
Sventurata figlia! Essa t'amava,
e fu l'amarti il suo diletto. Ingiuste
fur le leggi, il senato... a te fu scritto
quel foglio, a te...

TANCREDI
M'inganno! ~ Amenaìde,
ed ami il tuo Tancredi?

AMENAÌDE
Io mille morti
avrei mertate in non amarti: pensa
se rea...

TANCREDI
Tu m'ami? ~ A questi detti io sento
che m'è grave il morir.

AMENAÌDE
Dunque, gran dio,
così mia fé...

N.18 - Recitativo e cavatina finale

TANCREDI 
Quel pianto
mi scende al cor... ma... oh dio... lasciarti io deggio.
Già la morte s'appressa... io già... la sento.
Argirio, ascolta, ecco de' voti miei...
di mia fede l'oggetto... a quella mano
or la mia destra insanguinata unisci;
di sposo... il nome io porterò alla tomba...
e tu sarai mio padre? - A vendicare...
la mia patria... la sposa...
vissi... d'entrambe degno... amato, io spiro
ora d'entrambe in seno...
ogni mio voto... è già... compito... appieno.
Amenaìde... serbami
tua fé... quel... cor ch'è mio,
ti lascio... ah! Tu di vivere
giurami... sposa...addio.

Beh, bisogna pur ammettere che la versione-Ferrara chiude (testo e musica) in modo davvero mirabile, e non solo perché rispetta di più – non del tutto, chè nel Tancrède anche Amenaìde si lascia morire - Voltaire! Roberto Abbado ha inciso entrambi i finali, così ciascuno può liberamente giudicare e scegliere…  

E guarda caso proprio qui a Pesaro si opta (non è una novità) per una versione – curata da Philip Gossett, oggi separato - che sta a metà strada fra le due: si inizia con quella di Ferrara (Coro di Cavalieri e Rondo di Tancredi) ma poi si torna al finale lieto di Venezia. In più sono operati tagli abbastanza consistenti ai recitativi (e fin qui… poco male) e viene annunciato sul programma di sala anche il taglio di quasi l’intera seconda scena dell’Atto II (compresa l’aria di Argirio – Ah! segnar invano - in DO-SOL-DO, dove il tenore può arrivare fino al RE sovracuto…) Poi si scopre per fortuna che trattasi di un refuso (o retaggio di precedenti esecuzioni).   

Il manoscritto del finale di Ferrara fu riportato alla luce nel 1974 dai discendenti di Luigi Lechi, autore dei testi. A proposito del quale Lechi, era amante della Adelaide Malanotte (o Malanotti) che fu la prima interprete di Tancredi. Si sa che ai tempi di Rossini era costume che le opere venissero manipolate ad uso e consumo dei cantanti (o che peculiari qualità dei cantanti condizionassero la composizione stessa). Si dice (almeno così racconta Stendhal) che la Malanotte abbia reclamato da Rossini una nuova aria d’esordio, al posto di Dolci d’amor parole: ebbene, aspettando un risotto in un ristorante veneziano, proprio alla vigilia della prima, Rossini scrisse per lei una cosuccia da nulla: Di tanti palpiti !!! Gossett però sostiene che le cose andarono esattamente al contrario e che l’aria divenuta celebre a livello universale – e simpaticamente, splendidamente citata da Wagner nei Meistersinger, a sottolineare l’inventiva, l’eroismo e l’arte di un… sarto - sia proprio quella inizialmente rifiutata dalla schizzinosa cantante… La quale, insieme con l’amante, mise di sicuro lo zampino nell’ideazione del finale-Ferrara, il cui testo fu redatto appunto da Lechi. I due si stabilirono più tardi sull’Isola del Garda e la cantante fu seppellita nel cimitero di Salò (a un tiro di schioppo da una delle mie 18 residenze, smile!

Come divenne sua abitudine Rossini non si sforzò di scrivere un’Ouverture per Tancredi e quindi riciclò (termine aulico: si auto-imprestò) quella dell’opera La pietra del paragone, composta pochi mesi addietro per la Scala. E chi se ne frega se quella era un melodramma giocoso…  

Invece, a proposito di manipolazioni, curiosa fu quella di tre francesi (dai nomi tipo la-contessa-serbelloni-mazzanti-viendalmare): Edouard Hubert Scipion d’Anglemont e Jean-Pierre-François Lesguillon (librettisti) e Jean Frédéric Auguste Le Mière de Corvey (arrangiatore musicale, non nuovo a francesizzare opere rossiniane) che predisposero e fecero stampare un’edizione in lingua francese e in tre atti del Tancrède, la cui prima rappresentazione ebbe luogo al Thèatre royal de l’Odéon il 7 settembre 1827.



Come Ouverture scelsero quella di Eduardo e Cristina, che effettivamente meglio si attaglia alle caratteristiche drammatiche del Tancredi (e che Rossini, nel 1813, non aveva ancora scritto, ma aveva già nel 1821 riciclato, con poche modifiche, come Sinfonia della Matilde di Shabran!) Quanto alla struttura dell’opera, è una specie di Singspiel, con molti e verbosi parlati al posto dei recitativi secchi; si rifà vagamente alla tragedia di Voltaire, ad esempio ritardando l’ingresso in scena di Tancredi. Il primo atto ricalca più o meno l’originale fino alla cavatina di Amenaìde, poi salta l’entrata di Tancredi (con i Palpiti) che viene spostata in apertura del secondo atto. Al posto dell’entrata di Tancredi c’è il coro di guerrieri (non quello precedente dei nobili, né quello successivo, generale, ripresi dall’Intorno fumino del Ciro) poi un’aria di Argirio e quindi l’ensemble del finale atto primo senza Tancredi. Il quale compare all’inizio del secondo atto, con l’introduzione (abbreviata l’apertura orchestrale) e la cavatina trasportate in RE e SOL maggiore rispettivamente (da DO e FA) poiché, come  si deduce dalla contro-copertina della partitura, il protagonista poteva benissimo essere un tenore, in luogo del contralto. Segue il duo Argirio-Tancredi (Ah se de’ mali mieiuna marcia, il duo Tancredi-Amenaìde (Fiero incontroe quindi il finale con Tancredi, Orbazzano, Argirio e Amenaìde. Il terzo atto inizia col coro (Plaudite o popoli) e Tancredi; poi il duetto Tancredi-Amenaìde e quindi segue direttamente la scena finale (finale che è comunque quello lieto di Venezia). 

Insomma, un arrangiamento più o meno plausibile dell’originale rossiniano, che fra l’altro pare non abbia avuto gran successo presso i parigini. Oggi poi – a parte la traduzione in francese - impiegando diavolerie tipo i-Tunes chiunque può divertirsi ad assemblare il suo Tancredi come meglio gli aggrada (smile!
___
Vengo finalmente alla recita di ieri. Accolta con gran favore dal folto pubblico, che non ha mancato di applaudire ogni numero a scena aperta, per poi tributare un autentico trionfo all’intera compagnia, al termine dell’esecuzione.

Su tutti la (ormai) veterana Daniela Barcellona (presentatasi con abbigliamento ed acconciatura incredibili, una cosa a metà fra un gigantesco spaventapasseri e un nero pipistrellone, smile!) che ha letteralmente occupato la scena con l’imponenza della sua figura, del suo gesto enfatico e solenne e soprattutto della sua voce: i Palpiti e il Rondo sono stati accolti da autentiche e interminabili ovazioni dal pubblico (che le ha evidentemente perdonato qualche sbavatura sui suoni gravi).    

Piacevole sorpresa (almeno per me) della serata è stata Elena Tsallagova (Amenaìde) che ha una voce davvero bella e potente (spiccante su tutti nei concertati) in tutta la gamma. Le manca ovviamente dell’esperienza, ma le premesse per un futuro di successi non mancano. Anche lei lungamente applaudita dopo le sue arie.

Antonino Siragusa era Argirio e non si è sottratto – a tutti i costi – al difficile impegno della parte, presentando anche l’aria del second’atto, dove tocca due RE sovracuti e chiude con un DO sparato davvero sputando l’anima. Va lodato come minimo per l’abnegazione! 

Chi mi è piaciuto senza riserve è stato Mirco Palazzi (Orbazzano): un basso dalla taglia atipica (piccolo e magrolino, tipo Kwangchul Youn, per intenderci) dalla bella voce e dal gran portamento.

Bella figura han fatto le due comprimarie Chiara Marù (Isaura) e Carmen Romeu (Roggiero) cui Rossini dedica anche arie solistiche, oltre che parti in duetti e concertati.

Bene il coro (maschile) di Lorenzo Fratini e l’Orchestra del Comunale di Bologna, sia come insieme che come parti solistiche e come specialisti al continuo

Nonno Alberto Zedda pare ancora un ragazzino. Soprattutto dà proprio a vedere di divertirsi un mondo a dirigere il suo Rossini: non smette nemmeno per un momento il suo sorriso e alla fine viene dal suo pubblico ricompensato con un autentico trionfo, sotto l’occhio compiaciuto del patron Gianfranco Mariotti, seduto in barcaccia. 
___
Ecco quindi archiviato anche questo ROF-33, cui personalmente darò un voto tra il buono e l’ottimo. Già si parla, si fantastica e si mitizza (altro che bicentenario verdi-wagneriano!) del ROF-34, quello dell’impossibile Guillaume Tell, dove il divo JDF cercherà di entrare nella leggenda, entrando per intanto nei panni di Arnold. Auguri, e restiamo in ansiosa aspettativa!



Parlando di bilanci, chissà se anche il ROF-33 confermerà a consuntivo i dati economici che un autorevole studio condotto da teste d’uovo universitarie ha determinato per le recenti edizioni: per ogni Euro di vendite di biglietti, c’è un indotto (di business turistico) di 7 Euri! Io mi sono personalmente fatto i conti in tasca: c’è da vergognarsi come un verme, ma nel mio particolare caso temo che il rapporto sia precisamente invertito: ogni 7 Euri da me spesi per i biglietti hanno indotto 1 Euro di business turistico. Apologies.

18 agosto, 2012

ROF-33 – Matilde di Shabran


Per la Matilde il ROF si trasferisce all’Adriatic Arena, dove ieri sera – tutto esaurito, strapuntini compresi - è andata in onda la terza recita. 

Opera della piena maturità di Rossini (1821): in Italia verranno ancora Zelmira e Semiramide, quindi… il lento cammino verso l’auto-pensionamento a Parigi (costellato da altre grandissime imprese, peraltro). Opera piena zeppa di musica strepitosa, tre ore e mezza che vanno via d’un sol fiato, dove la verve del compositore sembra proprio sprizzare da tutti i pori! Evidentemente Rossini non vedeva l’ora di godersi questa (ultima) parentesi di giocoso, di parodia, dopo tante opere serie!    

Opera nata sotto una stella non esattamente propizia: oltre alla gran fretta che costrinse Rossini a subappaltare qualche brano all'amico Pacini, nell’immediata vigilia della prima di Roma diedero forfait il primo violino (e concertatore) e il primo corno. Trovandosi per caso a Roma, fu Niccolò Paganini a sostituire entrambi: ok per il violino, ma… il corno? semplice: per il bellissimo obbligato sull’aria di Edoardo Ah perché, perché la morte, il grande genovese imbracciò la viola!   

Dopo pochi mesi Rossini presentò la Matilde a Napoli (col titolo Bellezza e Cuor di Ferro e la definizione piuttosto fuorviante, ma evidentemente più gradita all’ambiente partenopeo, di dramma per musica). Oltre ad apportare, come di consueto, modifiche ed aggiunte qua e là alla struttura dell’opera, in omaggio al pubblico di laggiù rivestì il personaggio del contastorie itinerante Isidoro di panni partenopei: primo fra tutti, la parlata, mutata da un aulico toscano ad un sanguigno napoletano.

Questo personaggio, apparentemente secondario, rappresenta invece, con la sua onnipresenza, quasi la spina dorsale del melodramma giocoso: al suo naturale ruolo di poeta e filosofo (da strapazzo) si aggiungono durante l’azione anche quello di condottiero spirituale delle truppe di Corradino (memorabile il suo patatim-patatam-patatùm al termine del primo atto) e addirittura quello di sicario (il cui servizio finirà in… licenza poetica) incaricato dal nobile misogino di far secca la troppo intraprendente Matilde.   

La trama di Jacopo Ferretti, come sempre liberamente mutuata da diversi preesistenti lavori, ci presenta il pluri-complessato tenore Corradino Cuor di Ferro (nobile castellano spagnolo) la cui patologica e insieme comica visione del mondo (massima crudeltà e disprezzo totale per il genere femminile) viene lentamente ma scientificamente demolita dalle irresistibili arti di seduzione della bella soprano Matilde. La quale alla fine sottometterà il povero macho, ma rimanendo in certo qual modo vittima di se stessa, avendo iniziato un’impresa forse più per gioco, o puntiglio, o scommessa che per sincero amore, ma restando a sua volta impigliata, insieme al misogino addomesticato, nella sua stessa rete. Sua rivale nella corsa alla conquista del metallico cuore è un mezzosoprano, la Contessa d’Arco, che perderà la gara, pur avendo tentato di truccarla con i soliti mezzucci tipo calunnia e false lettere. Il personaggio destinato a spargere sul melodramma giocoso una spruzzatina di opera seria è Edoardo, contralto en-travesti, fierissimo nemico del castellano e di lui prigioniero, perché testardamente restio a riconoscerne il valore. Oltre al basso Isidoro, vero stereotipo del napoletano vulcanico quanto inaffidabile, hanno parti significative i due (altrettanto inaffidabili) reggiborse del castellano: un baritono (il medico-psicanalista Aliprando) e un basso (Ginardo, guardia-torre). Completano la compagnia un altro tenore (Egoldo, portavoce dei contadini) un basso (Raimondo, nemico di Corradino e padre di Edoardo) e ancora un tenore (Ruggiero, capo della guarnigione del castello). La parte del carceriere Udolfo è puramente mimica.

Sul fronte musicale, stante le circostanze di urgenza in cui fu composta per Roma, anche la Matilde ha beneficiato di imprestiti, oltre che dell’apporto del Pacini. Per Napoli però Rossini mise in buona misura le cose a posto, riscrivendo le parti non sue e apportando ritocchi migliorativi.

La Sinfonia invece rimase quella presa di peso da Eduardo e Cristina, il centone (opera messa insieme raccattando pezzi all’interno della sua già sterminata produzione) che Rossini aveva presentato a Venezia nel 1819. Qualcun altro la impiegherà poi per un particolare Tancredi (ma avremo modo di parlarne a suo tempo…) Come altre della sua produzione, la Sinfonia presenta un’introduzione lenta (qui assai lunga, 42 misure in Moderato) che apre la strada all’esposizione dei due temi, in RE maggiore il primo e canonicamente in LA maggiore il secondo. Qui però Rossini introduce una leggera modifica rispetto all’Eduardo, precisamente alle battute 93-116 della partitura (ripetuta a 207-230) per introdurre un tema che apparirà (in DO maggiore) nel finale (Matilde-Corradino, da Ah! capisco: non parlate…) Dopo l’esposizione segue subito la ripresa dei due temi. Anche qui il primo termina su una poderosa sesta napoletana, da cui si arriva all’esposizione del secondo nella stessa tonalità (RE maggiore). Un classico crescendo porta alla conclusione.

Curiosamente, il protagonista maschile non ha nemmeno un’aria tutta per lui, anche se i suoi interventi in duetti, quartetti e concertati richiedono il massimo impegno sul piano tecnico. Stesso dicasi per Matilde, che ha un suo spazio dedicato nel rondò (Ami alfin) del finale. In compenso altri personaggi meno importanti godono di trattamento speciale: Isidoro con una cavatina e un’aria, all’esordio di entrambi gli atti; ed Edoardo, con due cavatine. In effetti l’opera poggia su un gran numero di brani d’insieme, arricchiti sovente dalla presenza del coro.

La star di questa produzione – ripresa dal 2004 – è ovviamente il grande JDF, nei panni di Corradino, accolto con qualche battimano già alla sua… discesa in scena (da una delle due scale a chiocciola di Sergio Tramonti). Il quale conferma le sue grandi qualità, negli spiritati interventi con salite al DO acuto come fossero noccioline, ma anche nelle scene della sua crisi di identità, provocata dalle arti seduttive di Matilde.

La quale Matilde è Olga Peretyatko - prossima signora Mariotti-jr - perfetta nel portamento scenico, ed efficace in quello canoro (confesso che sabato scorso per radio mi era piaciuta un filino meno… la vocina è piccola, ma sempe intonata e senza urletti).

Isidoro  è un convincente Paolo Bordogna: complimenti anche per la parlata partenopea.

Brava anche Anna Goryachova nei panni en-travesti di Edoardo, meglio sulle note alte che su quelle gravi. 

Chiara Calli ha ben meritato nei panni della gelosa e invidiosa Contessa d’Arco.

Ottimi i due aiutanti in campo del padrone di casa: Nicola Alaimo come Aliprando e Simon Orfila nei panni di Ginardo, cui spetta l’onere di rompere il ghiaccio.

Oneste le prestazioni di Marco Filippo Romano (Raimondo Lopez) e Giorgio Misseri (Egoldo) due particine proprio di contorno.

Sempre all’altezza il Coro di Lorenzo Fratini.
Michele Mariotti (qui davvero profeta in patria, anzi più che mai… in famiglia!) ha diretto per me in modo assolutamente convincente: già da come ha attaccato la non facile sinfonia, e soprattutto per come ha tenuto in pugno orchestra e voci negli impervi ensemble che caratterizzano l’opera. In particolare il quintetto (Questa è la dea) ha ricevuto un’accoglienza da stadio. Ma tutti i brani sono stati applauditi a scena aperta.      
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La regìa di Mario Martone è del tutto tradizionale, ma molto curata sul lato recitazione. Tradizionali anche i costumi di Ursula Patzak. Le due scale elicoidali di Tramonti sono l’unico, o quasi, elemento scenico, ma vengono impiegate in modo assai efficace per animare quest’opera che è del tutto priva di azione
Al termine – è quasi mezzanotte - tifo da stadio e un interminabile applauso ritmato tributato a tutta la compagnia da un pubblico quasi in delirio.
Serate che fan bene alla salute!

16 agosto, 2012

ROF-33 – Il Signor Bruschino


Dopo il Ciro, ecco il Bruschino, in seconda recita ieri al Rossini. Opera presentata da sola, mentre data la sua relativa brevità (75’ circa) di solito la si abbina ad altre dello stesso genere (quindi farse, normalmente). Una volta però (1938, alla Fenice) fu propinata quasi come antidoto (smile!) ad una tragedia: nientemeno che l’Elektra di Strauss!


E forse per… allungare un po’ i tempi l’opera viene qui introdotta da una simpatica presentazione di RossiniLand, un parco divertimenti tematico, le cui attrazioni sono i vari capolavori del maestro pesarese di cui udiamo, registrati, spezzoni di brani famosi. Addetti all’organizzazione degli eventi del parco stanno dando gli ultimi ritocchi al padiglione dove sta per iniziare la recita del Bruschino; arrivano gli interpreti che, nei loro camerini, indossano i loro pacchiani costumi di scena; qualche visitatore si aggira curiosando qua e là; arrivano anche gli ultimi orchestrali, che prendono posto nella buca e infine… ecco giungere di corsa Daniele Rustioni che scende sul podio e attacca la Sinfonia.

La quale – un vero gioiellino - è costruita su un modello assai semplice, già impiegato da Rossini in precedenza, come ad esempio ne L’inganno felice (1812) imprestato poche settimane dopo al Ciro: struttura bitematica (anche qui RE e LA maggiore, tempo Mosso) con breve introduzione (Allegro). Esposizione dei due temi, poi ripresa degli stessi, dove il primo tema chiude su una sesta napoletana e prepara la strada al ritorno del secondo – variato nella strumentazione, con oboe al posto del flauto - nella tonalità d’impianto (RE). Quelli che diventeranno i famosi crescendo rossiniano non mancano anche qui di farsi vivi a chiudere temi e sinfonia.  

Famola strana, sembra aver pensato Rossini, che ci infilò quegli impertinenti colpi di archetto picchiato sul leggìo (qui sul paralume) dai secondi violini: una trovata che non piacque molto al pubblico della prima (27/1/1813) che accolse malissimo l’opera, subito ritirata dal Teatro San Moisè di Venezia (ma si dice fosse un fiasco preparato a tavolino, motivato da contrasti fra Rossini e l’impresario e non certo da intrinseche deficienze dell’opera; Rossini, solo 10 giorni più tardi, trionferà alla Fenice con Tancredi).

La trama della farsa giocosa (di Giuseppe Foppa) è di quelle classiche quanto improbabili: il tenore è un giovane (Florville) innamorato (corrisposto) di un soprano (Sofia) affidata alle cure di un basso (il ricco tutore Gaudenzio). Costui ha però promesso Sofia ad un altro tenore (Bruschino-junior) solo perché figlio di un altro basso (Bruschino-senior) che evidentemente pagava bene… Altri tre personaggi di contorno sono il locandiere Filiberto, la cameriera Marianna e il Delegato di Polizia.

Riuscirà il simpatico Florville a sposare la dolce Sofia? Ovviamente sì, come in tutte le storie a lieto fine, ma solo attraverso una serie di fortuite combinazioni e l’impiego di trucchi, millanterie, scambi di persona, manovre di corruzione e… falso ideologico!    

Una curiosità: il tenore che interpreta Bruschino-junior entra solo nel finale cantando, anzi balbettando, non meno di 15 battute di musica, con una linea di 5 sole note (LA-RE-SIb-LA-RE) sui versi Padre mio! Sono pentito! (Peggio dell’aria del SIb di Argene nel Ciro, smile!) Ecco perché, per fare economie-di-scala, qui al ROF come anche alla prima di Venezia la parte è cumulata con quella del Delegato di Polizia (anche se nell’originale quest’ultimo sarebbe un basso… ma tanto deve a sua volta cantare poche note da solo, più un concertato e qualche frase di recitativo.)

Torniamo al ROF: questo allestimento è opera di un collettivo registico fiorentino, Teatro Sotterraneo, che si avvale delle scene dei ragazzi della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino.


Premesso che una farsa si presta per definizione a qualunque tipo di trattamento, va dato merito ai gruppi di regìa e scene-costumi di averci cucinato un piatto assai gradevole. L’ambientazione in un parco-divertimenti comporta l’interazione di comparse che impersonano turisti in visita alle diverse attrazioni, che salutano i protagonisti, scattano con loro foto-ricordo o gli chiedono autografi, o vivaci scolaresche con relative maestre, che creano un minimo di animazione in uno scenario che altrimenti più statico non potrebbe essere. Talvolta servono anche come didascalia, ad integrare simpaticamente ciò che si recita: ad esempio entrano due ragazzi che si mettono ad amoreggiare dietro un divano, mentre Gaudenzio tiene a Sofia la sua improbabile lezione sulle delizie del matrimonio… Celebrato il quale in fretta e furia da Gaudenzio, la bella Sofia volta le spalle alla platea e vi lancia il suo bouquet!

A metà dell’opera, dopo il terzetto Bruschino-Florville-Gaudenzio, c’è ancora una piccola pausa dove passano in scena altri addetti del parco, uno dei quali inalbera un cartello con la scritta Guillaume Tell, chiaro messaggio pubblicitario in vista del ROF-34.

Insomma: uno spettacolo godibile, costruito con intelligenza e buongusto. Al successo del quale ha contribuito tutta la compagnia di canto e suono: su tutti Carlo Lepore (Gaudenzio) accolto da un’autentica ovazione; poi Roberto DeCandia, un divertente Bruschino. Maria Aleida nei panni di Sofia ha sciorinato la sua gradevole vocina (compresi alcuni sovracuti degni di Zerbinetta) e David Alegret è stato un Florville più che discreto. Così come Chiara Amarù (Marianna) e Andrea Vincenzo Bonsignore (Filiberto). Francisco Brito ha impersonato degnamente il Delegato di Polizia e la macchietta del Bruschino-figlio.

Daniele Rustioni ha condotto con piglio e verve (compresi i saltelli sul podio) i bravi ragazzi dell’Orchestra Rossini, lodevolmente affiancati da Carmen Santoro al fortepiano.

A tutti il folto pubblico – direi a maggioranza decisamente straniera - che assiepava il Rossini ha tributato un successo caloroso. 

14 agosto, 2012

ROF-33 – Ciro in Babilonia


Ieri sera seconda recita, al Teatro Rossini, del Ciro, sbarcato a Pesaro dopo l’esperienza sulla east-coast americana. La ripresa televisiva della prima (RAI5) ci aveva già dato una consistente idea dell’allestimento e una più o meno vaga sensazione sull’interpretazione musicale: originale (o bizzarra?) la regìa; di buon livello il lato sono-canoro.

Rossini, nelle lettere alla mammina, parlava di quest’opera (la sua seconda seria, dopo il giovanilissimo Demetrio) chiamandola oratorio, forse perché doveva rappresentarsi (1812, a Ferrara) durante la Quaresima (quindi in forma magari semi-scenica?) In realtà, a parte un labile riferimento biblico, poco o nulla ha delle caratteristiche strutturali degli oratori.

Secondo il costume del tempo, oltre ad auto-imprestarsi musica da un’opera all’altra (la Sinfonia, per dire, è quella della farsa (!) L’inganno felice, composta poche settimane prima del Ciro) Rossini era solito adattare le sue opere alle possibilità tecniche dei cantanti chiamati ad interpretarle (quando addirittura non le avevano direttamente ispirate). Così, saputo che il personaggio di Argene sarebbe stato affidato a tale Anna Savinelli, che secondo lui cantava ancor peggio di quanto fosse brutta (smile!) e aveva di passabile solo il SIb centrale, il ventenne Rossini (che doveva avere già il pelo sullo stomaco e la simpatica perfidia di un uomo navigato) per sfruttare al meglio quella peculiare qualità ed evitarle figuracce le affidò per tutta l’opera soltanto dei recitativi secchi e poi le scrisse un’aria (Chi disprezza gl’infelici, prima del finale dell’opera) poggiante esclusivamente su quella nota: 


(Va da sé che il pregio dell’aria sta tutto nell’accompagnamento orchestrale, smile!

Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti  e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!  

Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano. 

A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).

Di azione quasi non esiste ombra, e anche l’unico (e classico) espediente dell’arrivo a Babilonia di Ciro sotto le mentite spoglie di un suo portavoce non crea alcuna suspence né ha sostanziali effetti, venendo presto smascherato e trasformandosi, come un boomerang, in un nuovo strumento di ricatto di Baldassare nei confronti di Amira. Ancora: la scena all’inizio del second’atto – che sembra mutuata da Fidelio, compresa la mirabile introduzione orchestrale – dell’incontro fra Amira e Ciro nella prigione in cui questi è segregato e dove arriva a sorprenderli Baldassare, si conclude senza colpi di teatro (nessuno squillo di trombetta che metta in allarme il despota babilonese…) e rimane un puro pretesto per farci ascoltare due grandi pagine di musica: il duetto Ciro-Amira (Nello stingerti al mio petto) e il successivo terzetto con Baldassare (Fiero nell’anima terror si desta).

In sostanza: l’intera vicenda si riduce al lungo braccio di ferro psicologico fra Baldassare e Amira, con Ciro a recitare la parte di un marito e padre tanto amorevole quanto impotente, cui non resta che affidarsi alla provvidenza. E tutta la musica (arie e cabalette) non fa che supportare questo scenario, con il contorno di qualche coro e di pochi numeri (tra cui la citata aria del SI bemolle…) riservati ai comprimari.   

Sul lato puramente strumentale, oltre ad alcune splendide introduzioni ad arie, sono da incorniciare alcuni brani di obbligato: primo fra tutti quello in LA maggiore del violino sull’aria di Amira (Deh! per me non v’affliggete) veramente degno di quello che Beethoven scriverà per accompagnare il Benedictus della sua Missa! Ma anche fagotto e corno hanno modo di mettersi in bella mostra in più di un’occasione.

Insomma, non sarà proprio un capolavoro, ma adesso che ne esiste una versione sufficientemente stabilizzata (grazie al lavoro sulle fonti compiuto dagli esperti della Fondazione Rossini, Ilaria Narici e Daniele Carnini) il Ciro è opera che merita senz’altro di entrare nel repertorio dei teatri (meglio se con parecchie sforbiciate ai recitativi secchi…)
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Vengo ora a questa nuova produzione del ROF. Intervistato da Radio3, il patron Gianfranco Mariotti ha ribadito che il ROF è un Festival e come tale è tenuto a fare allestimenti che portino novità e che facciano discutere; la routine viene lasciata ai teatri di repertorio. (Deduco che Mariotti non frequenta quei teatri da qualche decennio, smile!) Quanto a Davide Livermore, nelle sue apparizioni in radio e tv, durante le dirette, non ha mancato di ribadire il suo personale approccio alla regìa operistica: attualizzare i soggetti da mettere in scena, pur preservandone (bontà sua) la trama originale (!) E ha ovviamente citato a supporto di ciò la sua (censurabile, per me) interpretazione dei Vespri verdiani, da lui ambientati attorno alla strage di Capaci.

Ora bisognerebbe chiedergli dove stia, nel suo Ciro qui al ROF, l’attualizzazione… Perché cosa vediamo noi in scena? Ambientazioni e costumi pseudo-storici, tanto belli quanto inverosimili. La prima reazione che viene spontanea è: vuoi vedere che Livermore è stato colpito da improvvisa zeffirellite acuta? (smile!) E ha deciso di smentire clamorosamente il patron Mariotti, con un allestimento più tradizionalista di quelli dei teatri di repertorio (di 50 anni fa)? Ovviamente non può essere, e quindi ci dev’essere sotto qualcosa d’altro…

E questo qualcosa pian piano viene alla luce (lo si era del resto intuito da alcuni fuori-scena durante l’esecuzione della Sinfonia): acconciature, trucco e movenze degli interpreti sono tipiche da cinema muto (!) e noi del pubblico stiamo assistendo appunto alla proiezione di un film di un secolo fa, più o meno, come testimoniano tutte quelle classiche striature che scorrono verticalmente davanti ai nostri occhi, così tipiche delle pellicole di quei tempi (già, stiamo attualizzando, smile!)

Quindi ecco la trovata: dato che il-teatro-nel teatro, ed anche il-cinema-nel-cinema sono già stati da tempo inventati, usati ed abusati, il buon Livermore si spinge fino ad inventare il-cinema-nel-teatro.

Ma non è ancora tutto: ci accorgiamo che sulla scena, oltre ai protagonisti principali del dramma rossiniano, bardati nei loro costumi zeffirelliani, ci sono anche componenti del coro (e forse alcune comparse) che vestono invece abiti borghesi di un secolo fa, e assistono al film (muto, ma… cantato!) accomodati su scomode seggiole. Dopodichè questi particolari spettatori cominciano ad alzarsi, a muoversi e a… mescolarsi con i protagonisti del film, diventandone a loro volta interpreti (ma il pubblico che diventa protagonista dell’opera è un… copyright che da anni è stato registrato da tale Robert Carsen, o sbaglio?) In alcuni momenti sullo sfondo compare proprio l’immagine dei palchi di un teatro, ottenuta con semplici proiezioni, invece che facendo scendere giganteschi specchi che riflettano la sala vera, dove stiamo noi spettatori (ma al ROF non ne avevano uno di specchi, già impiegato anni fa per Zelmira? Forse era stato solo noleggiato… smile!) Insomma, oltre al cinema-nel-teatro abbiamo adesso anche il teatro-nel-cinema!

Mah: viene il sospetto che Livermore con questo allestimento si sia proposto (anche) di mettere alla berlina le regìe cosiddette tradizionali, e per far ciò abbia usato uno strumento ben preciso: la parodia. L’idea sarà anche brillante, ma il rischio che il regista corre è di parodiare, insieme al concetto di regìa tradizionale, anche l’oggetto medesimo della rappresentazione. In sostanza, quello cui assistiamo è un Ciro in Babilonia che assomiglierà pure a grandi e secolari pellicole, quali Cabiria o Intolerance, ma a volte finisce per scadere al livello di Ridolini o di Stanlio&Ollio! Beh, come risultato del principio di attualizzazione non mi sembra male davvero (!) In ogni caso e dati i precedenti, ci consoliamo pensando che ci poteva capitare di molto peggio: Ciro trasformato in Khomeini e Baldassare in Saddam, ai tempi della guerra Iran-Iraq (ma evidentemente questo soggetto è stato ritenuto di scarsa attualità, smile!)

Quello che ha lasciato pochi dubbi è invece il lato-suoni, di livello davvero ragguardevole (accade raramente che l’ascolto dal vivo appaia migliore di quello microfonato delle riprese audio-tv): a partire dall’inossidabile 60enne Ewa Podleś, un Ciro eccezionale che ha letteralmente stregato il pubblico. Voce da vero contralto, che si spinge giù fino al MIb centrale della chiave di… basso (!)

Per continuare con Michael Spyres, perfettamente a suo agio nei panni di Baldassare: gran voce da bari-tenore, canto aperto, con ampia estensione (qui, dal SIb sotto il rigo al DO sovracuto). Interminabile l’applauso che ha accolto la sua Abbian morte e Ciro e figlio.

Ma su tutti ha brillato, secondo me, Jessica Pratt (Amira): voce sempre calda e intonata, ottimo legato e mai una sbavatura o un urlo.

All’altezza gli altri interpreti: Mirco Palazzi, autorevole Zambria, Robert McPherson come Arbace e Raffaele Costantini, nella parte piccola ma importante di Daniello. Carmen Romeu (Argene) ha sciorinato assai bene il suo SI bemolle: si spera che non abbia solo quello (smile!) Compatto e preciso il coro bolognese di Lorenzo Fratini.

Will Crutchfield – oltre che accompagnare personalmente i recitativi al fortepiano - ha guidato con autorità l’Orchestra del Comunale di Bologna, sempre più di casa al ROF, con un’interpretazione rigorosa, forse a volte un filino troppo… compassata (ma siamo quasi a cercare il pelo nell’uovo).

Si potrebbero invece criticare i pochi (!) tagli ai recitativi secchi (tagli limitati più che altro al finale) il che ha comportato inevitabili rallentamenti del flusso musicale (oltre ad una durata della recita che ha sfiorato le tre ore nette!) senza peraltro aggiungere gran valore allo spettacolo. Ma in complesso si è trattato di un’esecuzione che ha reso giustizia a questo Rossini giovane ma ormai avviato sulla strada che lo porterà lontano.

Grandissimo – e assolutamente meritato - successo per tutti.

01 agosto, 2012

È in arrivo il ROF-33


Venerdi 10 agosto prenderà il via a Pesaro la 33ma edizione del Rossini Opera Festival.

La novità assoluta di quest’anno è il Ciro in Babilonia (che pochi mesi fa ha festeggiato i suoi due secoli di vita!) coprodotta con il Festival di Caramoor e colà già rappresentata lo scorso luglio, con lo stesso Direttore (Will Crutchfield) e gli stessi interpreti principali che rivedremo a Pesaro: Ewa Podleś, Jessica Pratt e Michael Spyres. La regìa – con ampio impiego di immagini - è di Davide Livermore, accolta con qualche perplessità dal pubblico americano, ma difesa a spada tratta dal Concertatore. Qui abbiamo un flash del clima simpaticamente godereccio che sta regnando nei giorni di preparazione dello spettacolo…   

La prima del 10 potrà essere seguita in video – leggera differita, alle 21:15 - su RAI5. In audio, in diretta alle 20:00, su Radio3, che trasmetterà (sempre alle 20:00) anche le prime delle altre due opere del cartellone principale: sabato 11 Matilde di Shabran (Mariotti sul podio e Martone alla regìa, ripresa dal 2004) e domenica 12 il nuovo allestimento de Il Signor Bruschino (direttore Rustioni).


La chiusura del Festival, giovedi 23 alle 20:30 (con diffusione in Piazza deI Popolo, ma non in etere) come è recente consuetudine sarà affidata ad un’opera – Tancredi - eseguita in forma di concerto, sotto la direzione di papà Alberto Zedda e con la specialista Daniela Barcellona nel ruolo-titolo.