affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

07 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 4




È Dvorak il protagonista del 4° concerto, preceduto da una presentazione del maestro Aldo Ceccato (più vicino ormai agli 80 che ai 70, ma con lo spirito di un ragazzo!) diventato una vera e propria autorità in merito, e di Enzo Beacco.


L'impaginazione sembra quella di una sessione di prove dell'orchestra: prima suonano soltanto gli archi, poi soltanto i fiati (più alcuni archi bassi, per il vero) e infine tutto il pacchetto.

La prima parte del concerto è infatti occupata dalle due Serenate: l'Op.22, che chiama in causa esclusivamente violini, viole, violoncelli e contrabbassi, seguita dall'Op.44 per 10 fiati (flauti esclusi!) violoncello e contrabbasso. Composte a tre anni di distanza l'una dall'altra (1875-1878) hanno in comune una caratteristica strutturale: nell'ultimo movimento (il 5° per la prima, il 4° per la seconda) ricompare ciclicamente il tema principale del movimento iniziale. Insomma, una specie di marchio di fabbrica - o se preferite: di pisciatina di cane (fate voi, smile!) - che Dvorak ha apposto a queste due composizioni. Un'altra caratteristica delle due serenate è il rifarsi (vagamente) al modello brahmsiano: anche il burbero amburghese, di cui il boemo era diventato pupillo ed epigono, aveva composto due serenate, di cui la seconda (op.16) per fiati (flauti inclusi, peraltro) viole, violoncelli e contrabbassi.
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L'Op.22 è in 5 movimenti e si apre con un Moderato, in MI maggiore, dove i violini secondi ci fanno subito ascoltare il delicato tema principale, che si muove adagiato sulla mediante SOL:
Il tema è ripreso dai violini primi, che lo conducono verso la dominante SI, come pretenderebbero i canoni della forma-sonata. Ma dal SI ridiscende tosto al MI di impianto, e ancora i violini secondi espongono il tema principale, che essi stessi nuovamente portano, con modulazione più complessa e increspandolo, per così dire, con piccole acciaccature, al SI maggiore. Siamo arrivati quindi al secondo tema, da esporre sulla dominante? Nemmeno per sogno, poiché qui siamo in una serenata, non in una sinfonia o concerto e nemmeno in un quartetto, e il compositore si prende tutta la libertà che vuole, in questo caso di modulare rapidamente a SOL maggiore, dove sono sempre i violini secondi a presentare il secondo tema, assai più mosso del primo, ma pur sempre leggero e delicato:

Lo sviluppo del tema comporta una modulazione al SI (quasi un richiamo della foresta della forma-sonata…) ma è cosa effimera, e subito si torna al SOL e poi, passando fugacemente dalla sottodominante DO, si torna a casa, attraverso quartine discendenti in semicroma. Tocca ai violini primi la ripresa del tema principale in MI maggiore, che dopo la seconda esposizione sfocia in una cadenza (passando sul LA e sul SOL) da cui si arriva alla chiusa, dove ancora i violini primi esalano in pianissimo il tema, con due increspature sulla mediante prima dell'accordo finale di MI. La struttura di questo movimento era quindi assai semplice: A-B-A, ma quanti piccoli dettagli la impreziosiscono!

Segue un Tempo di Valse, strutturato in realtà come un classico scherzo+trio. In chiave ci sono 3 diesis invece di 4, ma la tonalità della prima sezione (con ritornello) è DO# minore. Il tema è esposto inizialmente dai violini primi:
Si inerpica di un'ottava dalla dominante, sfiora la sesta e scende sulla tonica, dove riposa per 4 battute e poi si ripete, anche nei violini secondi. Viene ancora ripetuto due volte, un'ottava più in alto. Dopo il ritornello ecco la seconda sezione (anch'essa col da-capo) che giustifica i tre accidenti in chiave, essendo in LA maggiore. È la prima cellula del tema iniziale che viene elaborata e ripetuta più volte fino a sfociare sulla tonica LA e da qui chiudere in DO# per il ritornello. Eseguito il quale, dal LA si modula quasi alla chetichella sul DO# per la terza sezione, dove si riprende il tema principale, che chiude su due accordi (dominante-tonica) in fortissimo di DO# minore. Ecco ora il Trio, che per enarmonia modula a REb maggiore, su un tema che degrada due volte per un'ottava, prima dalla mediante, poi dalla tonica:


Tema ripetuto un'ottava più in alto (anche questa sembra una costante del brano) prima di modulare brevemente a MI maggiore per poi tornare sul REb, per il da-capo. Dopo del quale una transizione di 8 battute (ripetute) ci porta verso la tonalità di DO minore, dove udiamo un frammento del primo tema. Da qui altra modulazione a LAb che diventa dominante del REb con cui il tema del Trio viene ripreso e riesposto due volte, su due ottave diverse. Si torna quindi all'inizio e si ripetono, senza ritornelli, le tre sezioni dello scherzo, che stavolta però chiude – sorprendentemente – in DO# maggiore.

Il terzo movimento è propriamente lo Scherzo, 2/4 in FA maggiore. il tema iniziale è esposto da violoncelli e violini primi, a canone:
Anche qui abbiamo l'immancabile processo consistente nel riprendere il tema un'ottava più in alto. Poi il movimento procede quasi come un moto perpetuo, con veloci quartine in sedicesimo, fino ad una prima stasi (le semicrome – che ricordano il finale della quarta beethoveniana - diventano crome e poi semiminime) dove compare nei violini secondi un tema dolce, che sale a piccoli balzi dalla sopratonica alla sottodominante, e viene anch'esso ribadito all'ottava superiore dai violini primi (proprio una manìa, questa!):
Lo sviluppo di questo tema porta ad una modulazione a LA minore, tonalità nella quale viene esposto ora il tema iniziale, che introduce un passaggio in LA maggiore che porta alla reiterazione del tema in questa tonalità e poi in altre ascendenti, fino al ritorno a casa, al FA maggiore. Da qui in pratica si ricapitola tutto quanto esposto in precedenza, fino alla chiusa, fortissimo, in FA.

Abbiamo ora il Larghetto, in LA maggiore, il cui tema non può nascondere una chiara ascendenza con quello del Trio del terzo movimento:
Il tema viene sviluppato con diverse modulazioni, fino alla chiusa in pianissimo, con il LA dei violini primi in armonico.

Il Finale è un Allegro vivace, che attacca in FA# minore, con un tema di danza, questa volta esposto già sull'ottava alta, come quella della ripetizione:
Un secondo motivo dal metro giambico appare poco dopo, sempre in FA# minore:
Dopo la riesposizione del primo tema si passa a MI maggiore con l'entrata di un terzo motivo di danza:
Che ha uno sviluppo vorticoso di semicrome che poi si placa, portando ad un intermezzo languido in cui viene riesposto il tema del Larghetto, qui in SI maggiore. In questa tonalità torna il tema principale, seguito dal secondo motivo giambico, ancora in FA# minore e poi dal terzo, in MI maggiore. Quest'ultimo si sviluppa in una lunga serie di semicrome, poi sfuma lentamente per lasciar posto al ritorno del tema principale del primo movimento (Moderato) della serenata, che cadenza come a chiudere in pianissimo, ripetendo le ultime 3 misure del movimento iniziale. Invece, sull'ultima, riattacca (Presto) il primo tema del Finale, che chiude in gloria con un triplice accordo perfetto di MI maggiore.
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Ceccato chiama sul palco non più di 30 professori, per dare proprio l'impronta cameristica al brano. Esecuzione impeccabile, accolta da grandi applausi e dai complimenti – a gesti e a parole - che lo stesso Maestro fa ai ragazzi, guidati da Luca Santaniello.
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L'Op.44 è in 4 movimenti e si apre con un Moderato, quasi marcia, in RE minore, dove pare di sentire e vedere una banda di Giannizzeri in parata:
La prima sezione del tema è in RE minore, mentre la seconda sfocia nella relativa FA maggiore. Dopo la prima esposizione in forte, il tutto viene ripetuto una prima volta in piano, poi una seconda ancora forte, con strumentazione più ricca. La parte centrale del movimento è in FA maggiore, caratterizzata da melodie per terze di classico stampo boemo e da veloci semicrome:

Una transizione di cui sono protagonisti i corni porta poi ancora al tema iniziale, sempre in RE minore, che però subito modula a ripetizione (LA, SOL, FA, MIb, RE, DO, SIb, SOL, FA) fino a tornare al RE, dove troviamo una cadenza che pare di musica spagnolo-gitana, sulla dominante LA, che ci guida poi alla chiusura in RE maggiore.

Adesso abbiamo un Menuetto, 3/4 in FA maggiore. Richiama una tipica danza boema, la Sousedská, ma qui pare proprio di ascoltare Brahms, in particolare la Seconda sinfonia, che aveva visto la luce da pochissimo, quando Dvorak componeva questa serenata:
Il tema del Minuetto, che si caratterizza poi per la presenza di una scala discendente (4 semicrome che si appoggiano ad una semiminima) che torna incessantemente, viene ripetuto altre due volte, prima che i clarinetti, con veloci quartine di semicrome, armonizzate per terze, introducano il Trio in SIb, sul ritmo della Furiant, altra danza ceca:
Qui oboi, clarinetti e fagotti sono chiamati a grandi virtuosismi, con continue volate di crome, sottolineate da larghi accompagnamenti dei corni. Chiuso il Trio, si passa alla riesposizione del tema principale del minuetto, in FA maggiore. La figura della scala discendente di 4 semicrome si ripete qui da svariate altezze, fino alla chiusa in pianissimo.

Segue l'Andante con moto, 3/4 in LA maggiore (i clarinetti prendono lo strumento adeguato, posando quello in SIb). È un movimento praticamente monotematico, introdotto dai clarinetti (dominante-tonica) e dagli oboi (tonica-dominante) poi esposto ancora dai clarinetti, salita dominante-tonica e quindi discesa di un'ottava, con risalita plagale alla quarta e appoggio sulla mediante:
Il tema è riesposto dal primo oboe, ma ben presto sarà un motivo, semplice quanto penetrante, a prendere il centro dell'attenzione. È il primo clarinetto a presentarlo per la prima volta, ma poi lo sentiremo nell'oboe, anche nel fagotto, ma soprattutto nel corno:


Si muove fra mediante (e sopratonica), sesta e dominante, prima in maggiore, poi in minore. A me ricorda irresistibilmente l'accompagnamento di una sezione dell'aria di Tatiana dell'Onegin (in realtà si tratta di pura e semplice coincidenza, chè il primo atto dell'opera di Ciajkovski e la serenata di Dvorak furono composti praticamente nelle stesse settimane…) È comunque questo motivo che prende decisamente il sopravvento, sottoposto a un complesso trattamento e variamente contrappuntato. E dopo un breve ritorno del tema iniziale, è ancora lui a condurre il movimento alla delicata conclusione. 
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Il Finale è un Allegro molto, una specie di Rondò, che si apre subito con l'introduzione del tema principale:


Tema ripreso e variato nei suoi diversi ritorni, che verso la fine lasciano posto ad un ritorno del tema giannizzero che aveva aperto la serenata, in RE minore. Ma poi si torna al maggiore e si vola verso la conclusione. Davvero strepitosa la cadenza finale dei tre corni, prima dell'accordo conclusivo di RE maggiore:
Insomma, un pezzo che definirei quasi un gioiello. Peccato sia eseguito così di rado!
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Ceccato lascia a casa il controfagotto (è un optional) e al suo posto rinforza gli archi, aggiungendo due violoncelli. La prestazione dei verdiani è eccezionale, in effetti devono suonare tutti come fossero dei solisti. E quindi tutti indistintamente meritano una lode, cosa che il pubblico non ha mancato di fare.

Dopo l'intervallo, l'inflazionata Sinfonia Dal nuovo mondo. Qui francamente Ceccato mi è parso voler persino strafare, esagerando un po' con il mettere in eccessiva evidenza dettagli che converrebbe lasciare più in background, come semplice accompagnamento. Poi, più che dirigere, ha mimato la sinfonia, con atteggiamenti magari simpatici, ma un po' troppo gigioneschi. Però l'orchestra ha suonato splendidamente, senza una sbavatura, e il trionfo finale è stato completo.

Fra un paio di settimane il 5° concerto, con un Ciajkovski leggero e Shostakovich.
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05 ottobre, 2011

Un Cavaliere della rosa (con spine) alla Scala


Ieri sera Der Rosenkavalier ha avuto la sua seconda recita alla Scala, tutto sommato accolta assai favorevolmente da un pubblico non foltissimo, e con parecchi… disertori lungo il cammino delle quasi 4 ore e mezza di spettacolo.

Ecco invece come Bruno Walter (il 13 aprile 1911) descrisse la prima viennese dell'opera (avvenuta 5 giorni avanti) ad un Mahler che si trovava a Parigi, arrivato ormai ad un passo dalla fine:

Caro amico! Vi volevo raccontare della prima del Rosenkavalier, che si è appena tenuta qui. Il mio parere riguardo a Strauss non è cambiato. Di fatto, sono ancora più disgustato di prima. L'opera è in tutto e per tutto un fallimento. L'insincerità assoluta del libretto, la fuga da quelle rare qualità che Strauss ancora padroneggiava: arguzia, estro e un certo qual gusto. Si tratta di un tentativo penoso e mancato di inventare melodie e walzer degni di Lehar, un lurido ammasso di sentimento, o piuttosto di sentimentalismo (…) in breve: una penosa e macchinosa volgarità (…) Ma questi walzer! Queste 'melodie' di terze! Queste dolcezze nauseabonde! Nessun cognac al mondo potrebbe rimettere a posto lo stomaco di chi le ha ingurgitate!

Una decina d'anni o poco più tardi lo stomaco di Walter si doveva essere parecchio irrobustito, visto che a Londra il nostro diresse alcune recite dell'opera rimaste memorabili, con la grande Lotte Lehman nella parte della Marescialla.

La quale è la protagonista assoluta dell'opera, pur essendo in scena soltanto (si fa per dire) per un atto e un quarto: tutto e tutti in fondo si muovono in funzione sua, come pianeti e satelliti di una stella di prima grandezza. Inoltre – e la cosa potrebbe sembrare paradossale, parlando di una signora sposata che se la fa con un cuginetto di quasi 20 anni più giovane – lei ha una moralità profonda, che le deriva in primis dalla presa di coscienza della sua stessa condizione e della sua propria vicenda esistenziale. E di conseguenza possiede anche – a suo modo – una certa religiosità, magari ereditata dalla passata vita monastica, che non soltanto si materializza nel suo andare in chiesa e nel suo far visita al vecchio zio paralitico, ma che tocca il punto più alto quando la Bichette spiega al suo Quinquin che il crudele tempo proviene, come tutto, dallo stesso e unico creatore:

Però non dobbiamo neppure averne timore. Anche il tempo è una creatura del Padre che tutti noi ha creato.(Parli come un prete, l'ammonirà di lì a poco l'ingenuo, acerbo Quinquin…)

Certo, qualche complesso di colpa lo deve avere anche lei se, mentre dorme accanto al giovane amante, sogna il ritorno improvviso del marito! E se ancora ne sospetta l'arrivo, sentendo un trambusto in anticamera, mentre fa colazione con Quinquin:
Ma sono poche battute dell'Introduzione, riprese poi letteralmente nella prima scena (dopo Ich hab' dich lieb) a descrivere - meglio di pagine e pagine di parole - lo stato d'animo della Marescialla, combattuta fra la lancinante prospettiva dell'invecchiamento (e quindi della perdita dell'amore di Octavian) e la serena rassegnazione di una donna che ha capito i misteri dell'esistenza:
Sono quattro battute in cui sono evocati: il settimo cielo dell'amore (carnale e spirituale insieme) raggiunto con quel salto di ottava ascendente sulla dominante di MI (SI-SI) che ha il coraggio di spingersi ancora più in alto, fino alla sesta (DO#) ma che subito ricade per più di un'ottava (sul DO naturale sottostante) a mostrarci lo strazio di chi vede sempre più vicina l'ineluttabile fine (lo stesso intervallo discendente sottolineerà l'ebete constatazione del povero Ochs, nel terzo atto, di fronte alla rivelazione dell'identità Octavian=Mariandel); ma poi ecco una caparbia ripresa – il ritorno alla sesta giusta e la risalita alla quarta superiore – per dar luogo infine ad un rientro nella normalità delle leggi fisiche, musicali ed… esistenziali, con la discesa sulla dominante. Che porta, nelle battute successive, ad un sereno ritorno a casa (la tonica MI). Qui pare davvero condensarsi l'intera vicenda dell'opera e l'intera vicenda umana della protagonista, che passa dall'estasi amorosa alla depressione sconfortata, per poi imboccare il suo viale del tramonto nella serena rassegnazione ed accettazione di ciò che il buon Dio (Der liebe Gott) deciderà. E il motivo, carico di significati, torna (abbassato di un semitono, tonalità MIb) nei primi violini e nel violoncello solo alla chiusa del primo atto, a sottolineare l'ordine che la Marescialla impartisce a Mohammed di consegnare la rosa d'argento al Conte Octavian.


Sappiamo che la vicenda narrata nell'opera è tutta un'invenzione, e a prima vista ci pare fuori luogo che la Vienna della nobiltà del 1740-45 sia musicalmente caratterizzata dal walzer, cento anni prima del dovuto. Ma dietro queste apparenze c'è parecchia sostanza. Perché in realtà Hofmannsthal e Strauss hanno voluto individuare in quella Vienna alcuni caratteri, ancora in nuce, della Vienna dei giorni loro.


E non solo nella musica (a metà del '700 il ballo dei nobili era il casto menuetto, ma il ländler, poi walzer, cominciava a farsi largo, anche fra le classi non plebee, come ci dimostra il nobile buzzurro Ochs) ma anche nei rapporti sociali: quale differenza fra la vicenda personale di Marie-Theres, mandata prima in convento (ed è difficile pensare ad una genuina vocazione, in una donna come lei!) e poi tolta da lì per essere data in sposa ad un nobile sconosciuto (per quanto ricco) e la vicenda di Sophie (che non pare proprio un modello di ragazza pia e arrendevole) e Octavian (che è quello che oggi chiameremmo un figlio-di-papà, piuttosto viziato e facilitato nei suoi vizi dall'avere anche un aspetto attraente… ricco e pure bello, insomma). Il fatto nuovo, rispetto alle consuetudini di quella civiltà - tanto felice quanto decadente - è che i due ragazzi si uniscono perché – toh! - si sono innamorati (quanto poi fallace o duraturo sia questo sentimento conta relativamente) e non perché qualche architetto-di-interessi o ingegnere-di-pedigree abbia così deciso in laboratorio! Il duetto che sottolinea il loro primo incontro, nel second'atto, è – parole e soprattutto musica – la più straordinaria espressione di questo new-deal nel campo dei rapporti personali e sentimentali all'interno delle classi dominanti.

Interessante notare che, poco prima, al momento delle presentazioni, Sophie aveva cantato Ich kenn' Ihm schon recht wohl, mon cousin! (ti conosco già molto bene, mio cugino) su un motivo che arriva direttamente dalla quarta sinfonia di Mahler, primo verso del Lied dell'ultimo movimento Wir genießen die himmlischen Freuden (noi godiamo le gioie celestiali) persino nella stessa tonalità di SOL maggiore:
Un riferimento – testuale oltre che musicale - per nulla peregrino.

Invece la figura invereconda che vien fatta fare ad Ochs (davvero un bue) è quella che tutta la nobiltà retriva e parassitaria farà qualche decina d'anni più tardi. Mentre l'uscita di scena di Marie-Theres al braccio di Faninal rappresenta mirabilmente il feeling nascente fra la nobiltà illuminata e la borghesia produttiva.

Insomma, dietro l'apparente frivolezza e vacuità del soggetto si celano contenuti di una certa profondità, e soprattutto una visione positiva e apologetica (magari patetica e ottusa… nel 1910) della società viennese e mitteleuropea, in cui gli autori peraltro erano inseriti con grande successo, non dimentichiamolo: da qui l'idea di rappresentare con una commedia leggera i fermenti e i sommovimenti che avevano portato la società settecentesca ad evolversi verso quella di cui loro vedevano e godevano ancora gli aspetti positivi.

Invece l'ormai ammuffita regìa di Herbert Wernike – scomparso da qualche anno – purtroppo non fa che riproporci il vecchio e piuttosto cervellotico stereotipo del Rosenkavalier come opera decadente e pessimista, in cui si prefigurerebbe l'imminente tracollo di una civiltà della quale sarebbero messi in evidenza tutti gli aspetti grotteschi e farseschi.

Di questa visione (per me) distorta è testimonianza l'ambientazione nella Vienna del primo '900 (quando l'opera venne composta e rappresentata) dove quei fenomeni - che 150 anni prima erano solo in gestazione – avevano avuto ormai il loro sviluppo e dove casomai se ne preparavano di completamente diversi e non certo rassicuranti. Un esempio minuscolo, ma significativo: nell'atto conclusivo ha – o dovrebbe avere – una certa importanza la parrucca che Ochs si è tolto per iniziare i suoi approcci amorosi con Mariandel, e che non riesce più a trovare dopo l'acciaccapesta in cui è stato coinvolto. Di quello speciale tipo di copricapo lui avrebbe un bisogno assoluto per convincere l'Unterkommissarius del suo status di nobile, ed infatti l'ufficiale di polizia gli domanda subito perché un barone non l'abbia in testa, la parrucca. Ecco, il senso di questa scena – e del testo che continuiamo ad ascoltare! - si perde irrimediabilmente se l'ambientazione è diversa, in un mondo dove la parrucca con il suo significato di classe non esisteva più ormai da un bel pezzo e dove – per supportare in qualche modo il libretto – la parrucca viene sostituita da un volgare parrucchino!

Ma anche il walzer, se viene ambientato ai tempi di Strauss, viene contemporaneamente svilito a puro simbolo di una società in via di putrefazione (da qui tutte le accuse di meschino conservatorismo rivolte da sempre al compositore) mentre in realtà ai tempi di MariaTeresa era una forma musicale che stava diventando uno dei motori del nuovo assetto sociale, nientemeno.

E anche l'uscita della Marescialla e di Faninal, che se ne vanno in direzioni opposte sullo sfondo di un viale del tramonto, ci rappresenta lo specchio della società asburgica ormai in pieno disfacimento, perdendo tutto il (positivo) significato sociologico e di costume che possiede quando correttamente ambientata e presentata come da libretto.

In più dobbiamo registrare le solite trovate pseudo-intelligenti, come l'arlecchino, che pare messo lì dal regista tedesco per rincarare la dose di sberleffi sugli sbifidi italiani. O la pletora di bambini (invece dei quattro previsti) fatti passare per figli illegittimi di Ochs (l'unico aspetto positivo qui è l'occasione data al Coro di voci bianche di Casoni per mettersi in mostra…) Non parliamo poi dello scalone da Wanda Osiris impiegato per l'arrivo di Octavian in casa Faninal. E infine dello spostamento della ferita che Octavian ha inferto ad Ochs, dall'omero alla chiappa!

Per la verità l'allestimento ha anche qualche aspetto interessante, come l'impiego degli specchi, che consente al pubblico di vedere dietro (i separé, le tende, i paraventi, dove si svolgono parti importanti della scena). In particolare, nel secondo atto questa trovata consente al regista di mostrare i movimenti dalla coppia Valzacchi-Annina che si appostano per cogliere in flagrante i due innamorati; e poco dopo anche per spiegare allo spettatore in modo esplicito (cosa non riscontrabile nel libretto) come, dove e quando avvenga il passaggio di casacca dei due faccendieri italiani dal campo di Ochs a quello di Octavian (+Marescialla.)

In definitiva, una regìa per me abbastanza deludente proprio nell'impostazione di fondo.
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Sul fronte musicale, notizie abbastanza confortanti da orchestra e direttore. I professori per lo meno non hanno combinato guai, e dati i tempi grami la cosa è già un successo. Philippe Jordan – al contrario del regista – mi è parso prendere l'opera dal verso giusto. Cito un piccolissimo, ma per me significativo particolare: l'accompagnamento del tamburo militare al walzer che chiude il secondo atto. Di solito (da 4'09") non lo si sente quasi, forse in omaggio all'idea che quello sia un walzer da nobilitare. Jordan invece ci fa sentire chiaramente (e correttamente, non come l'esagerato, oltre che pentito, Bruno Walter, qui a 5'50") quello strumento, che sottolinea con discrezione la rozzezza di quei primi walzer settecenteschi e campagnoli.

Di tutta la compagnia cantante mi sentirei di citare con ampia sufficienza la DiDonato (Octavian) dei primi due atti (nel terzo si deve essere spiritualmente trasferita al teatro Smeraldo, smile!) e Rose (Ochs) e di non censurare i comprimari. Degli altri interpreti principali, passabile Ketelsen (Faninal) con il suo vocione in fondo abbastanza appropriato al personaggio, e appena appena sufficiente la Archibald (Sophie) che non è andata esente da qualche urletto; quanto alla Schwanewilms (Marescialla) canterà anche bene, ma più che altro mi è parsa una grande attrice di film muti (smile!): a parte gli scherzi, dal loggione si faticava a sentirla. Álvarez ha sparato i suoi SIb e SI naturale senza apparente fatica, vuol dire che può ancora sostenere ruoli dove debba cantare per un paio di minuti (!)

Tirando tutte le somme – a mio modestissimo avviso – oltre ad un poco di profumo della rosa si sono sentite (ahi-ahi!) anche parecchie punture di spine.
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30 settembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 3


Preceduto dalla prima delle conferenze su Mahler e Bruckner, tenuta dal sommo Quirino, il terzo appuntamento della stagione vede ancora Zhang Xian sul podio con un programma abbastanza insolito: una sinfonia di Ciajkovski (la seconda dell'integrale prevista per la stagione) seguita da alcuni mahleriani Lieder dal Wunderhorn.

In realtà fra Ciajkovski e Mahler ci furono parecchi legami, di natura personale e artistica. I due ebbero modo di conoscersi e incontrarsi durante i viaggi del compositore russo in Germania; in particolare, il 3 gennaio 1892 Mahler dirigerà ad Amburgo la prima tedesca dell'Onegin, presente l'autore. Infine La dama di picche sarà l'ultima opera diretta da Mahler, nel 1910 a New York, prima della morte. E anche se non era propriamente entusiasta della musica di Ciajkovski, Mahler – come gli accadeva spesso – se ne portava nel retrocranio reminiscenze e spunti, che poi infilava nelle sue sinfonie. Viceversa il russo – che pure ebbe modo di ammirare il Mahler direttore – non fece in tempo ad ascoltare alcunchè della di lui musica.
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La Terza sinfonia è – per l'appunto – di struttura tipicamente mahleriana: i 5 movimenti (che soltanto e una sola volta Beethoven e poi Schumann prima di Ciajkovski avevano impiegato) diventeranno quasi una regola per Mahler, che compose sei delle sue dieci sinfonie in 5 o 6 tempi (anche la prima era originariamente strutturata così).

La lunghezza dell'intera sinfonia (dai 45 ai 50 minuti) è già mahleriana e il primo movimento (Introduzione e Allegro) ha una struttura che esonda abbondantemente dall'alveo classico della forma-sonata, proprio come accadrà in Mahler. Come nella Seconda (la Piccola Russia) anche qui abbiamo un'Introduzione, che è una Marcia funebre in RE minore; un motivo chiaramente russo, esposto prima dagli archi e poi dai corni, dove compare un inciso che a qualcuno ricorderà un'altra marcia funebre piuttosto nota in Toscana (smile!):
Si tratta di un'introduzione assai lunga, che ha un primo sussulto (Poco più mosso) che parrebbe sfociare nell'Allegro… invece ancora si attarda, finchè le viole accennano il motivo del primo tema, modulando a LA maggiore. Qui inizia la vera e propria rincorsa, ancora interrotta da una specie di finta, e che poi si conclude nella perorazione del tema principale, in RE maggiore, tonalità di impianto della sinfonia:
E subito seguito, forma-sonata prescrivendo, da un breve tema nella dominante LA, esposto inizialmente dal corno, contrappuntato da svolazzi di semicrome di strumentini e violini:
e poi ripreso dalla tromba, adesso in RE maggiore, che riconduce così alla riesposizione del primo tema, che sfocia stavolta in una pesante sesta napoletana, dopo la quale compare, nell'oboe, un terzo tema, di natura dolente, nella relativa SI minore:

Tema ripreso subito dal flauto e ampliato dai violini, tornati alla tonalità di base, per chiudere l'esposizione.

Lo sviluppo è assai corposo ed articolato, e vi compaiono sia il tema introduttivo, che i tre dell'esposizione (il primo assai dilatato nelle lunghezze) oltre ad altri incisi e motivi, diciamo così, ausiliari. Nella ripresa ritroviamo i tre temi principali (il terzo stavolta in MI minore) prima di arrivare alla coda, a sua volta molto complessa e fuori dagli schemi classici, con il primo tema a chiudere, dopo una schumann-iana rincorsa.

Il secondo movimento è un Allegro moderato e semplice, 3/4 in SIb, sottotitolato Alla tedesca. Sono flauto e clarinetto ad esporne il tema principale:
Si tratta in effetti uno Scherzo, il cui Trio sembra anticipare certo Mahler (della Seconda sinfonia, Andante moderato):
Trio il cui tema, semplice e modesto, è esposto ancora da flauti e clarinetto:

Dopo la ripresa del tema principale, è il fagotto a chiudere il movimento con una cadenza che ricorda vagamente quella wagneriana dei Meistersinger (Atto II).

Ecco ora l'Andante elegiaco, in RE minore, aperto dai flauti che espongono una struggente melodia dal sapore tipicamente russo:
Personalmente le prime cinque note mi vengono in mente ogniqualvolta ascolto la Nona di Mahler, precisamente il tema esposto quasi all'inizio dai corni (che a sua volta viene dal Klagende Lied, composto pochissimi anni dopo la ciajkovskiana polacca…) Subito rispondono prima il fagotto e poi il corno, quasi a fare da eco:
Dopo un breve inciso in LA maggiore (pare, lento, l'incipit dell'Italiana…) abbiamo la presentazione del tema principale, in SIb, che definire mahleriano è il meno si possa dire:
Il movimento procede con la riapparizione dell'inciso in LA, poi del tema iniziale e quindi, introdotto dalle terzine degli archi che imitano quelle di fagotti e corno, ecco il tema principale tornare, sontuosamente orchestrato, in RE maggiore. Poi ci si avvia alla conclusione, segnata da una cadenza morente in cui fagotti prima e poi i corni ripresentano il loro motivo, in RE minore.

Lo Scherzo è in 2/4, Allegro vivo, in SI minore. Qui è il primo clarinetto, aizzato dai violini, ad essere chiamato a grandi virtuosismi, con continui svolazzi di semicrome, ma presto anche i flauti e l'ottavino avranno la loro parte di celebrità…

Il tema, in cui appare più volte un impertinente inciso degli strumentini, viene ripetuto e qui il trombone solo interviene esponendo un pesante motivo dal sapore tutto russo:

Ora abbiamo il Trio, che ripropone, in SOL minore, una forma variata del motivo del bischero (smile!)
Esso proviene da una cantata accademica composta da Ciajkovski qualche anno prima per una Mostra del Politecnico, in occasione del secondo centenario della nascita di Pietro il Grande. Motivo che riappare in SI minore, sempre nei flauti e poi negli archi, quindi ancora negli strumentini, esplorando tonalità diverse, anche nel modo maggiore. Nella parte centrale troviamo un singolare siparietto di 17 (così numerati in partitura) arpeggi in RE maggiore degli archi:
Dopo il Trio riascoltiamo per due volte il tema principale, qui contrappuntato da flauti e ottavino e con l'intervento del trombone; quindi è il tema del Trio a riaffacciarsi sorprendentemente per portarci alla conclusione, su una cadenza costruita con spezzoni del tema principale e chiusa da un SI pizzicato degli archi e da un accordo di SI minore dei fiati.

Nell'Allegro con fuoco Ciajkovski indica, fra parentesi: tempo di Polacca ed è il nick-name che la Sinfonia si porta dietro (un'idea, questa, attribuita ad August Manns, che ne diresse la prima in Gran Bretagna). Si entra subito in medias res, con l'esposizione del tema principale, in RE maggiore:
 
La critica non è stata benevola con questo Finale, subito accusato di aridità, ma personalmente lo ritengo di ottimo livello, soprattutto nello sviluppo fugato, davvero notevole. Dopo che il primo tema è stato esposto due volte abbiamo una transizione fugata, che usa frammenti di quel tema e che ci porta alla presentazione del secondo, nella dominante di LA maggiore, come prescrivono i sacri dettami della forma-sonata. Ecco, forse è questo tema a peccare di eccessiva enfasi: 


Dopo che il secondo tema è stato ripetuto, torna il primo, in RE, ma solo nella sua prima sezione, perché poi si fa largo un intermezzo in SI minore, caratterizzato da frequenti terzine puntate di archi e strumentini, finchè le viole non riprendono in mano la situazione, riportandoci al primo tema, questa volta esposto nella sua interezza.

E qui ecco il gigantesco sviluppo fugato, introdotto da clarinetto e violini secondi: si tratta di 77 misure in cui il primo tema viene sottoposto ad un rigoroso trattamento contrappuntistico (dove si anticipa il Mahler del finale della Quinta…) che sfocia, dopo 10 misure di pesanti terzine, nella perorazione – dove davvero la retorica impera – del secondo tema, esposto nella tonalità di RE maggiore (sempre per compiacere la forma-sonata!)

La coda è riservata ovviamente al primo tema, anzi al primo frammento di esso, e ci porta – Presto – alla trionfale, bombastica conclusione.
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Zhang Xian, come suo costume, tiene tempi abbastanza stretti (l'Introduzione, fin troppo, per essere una marcia funebre!) ma nel complesso accettabili, in specie nella perorazione finale, dove sarebbe facile cedere alla retorica e cadere nel pacchiano. L'orchestra (perdoneremo un'incertezza dei corni proprio all'inizio) ha risposto alla grande, sia nei passaggi più delicati della sinfonia (movimenti interni) che nei fracassi dei tutti. Un'esecuzione che rende giustizia ad un lavoro fin troppo trascurato, per non dire dimenticato.

Des Knaben Wunderhorn è una raccolta di vecchie poesie e filastrocche popolari tedesche – risalenti prevalentemente alla guerra dei 30 anni - pubblicata nei primi anni dell'800 (1805-1808) da Achim von Arnim e Clemens Brentano. I tre volumi contengono quasi 700 poesie, inclusi 134 Kinderlieder. Mahler ne musicò 9 per voce e pianoforte, e successivamente altri 15, per voce e orchestra, tre dei quali – Urlicht, Es sungen drei Engel e Das himmlische Leben - sono poi divenuti altrettanti movimenti di sinfonia (seconda, terza e quarta). Senza le parole, anche un quarto Lied (Des Antonius von Padua Fischpredigt) è divenuto la base per un movimento della seconda sinfonia. Ma frammenti e reminiscenze di Lied pervadono letteralmente tutta la produzione sinfonica di Mahler.

In programma laVerdi ha messo i seguenti 6 Lieder, cantati dal baritono Mathias Hausmann:

Der Schildwache Nachtlied: questo è uno dei Lied che in realtà si prestano bene ad essere interpretati da due cantanti, il baritono e un soprano, ciascuno dei quali canta alternativamente tre delle sei strofe di questo testo fatto di botte e risposte fra una sentinella e la sua amata. L'esecuzione da parte del solo baritono rende il Lied piuttosto monotono (almeno per chi segue attentamente il testo…)

Rheinlegendchen: è una delicata melodia campestre, che si culla fra il LA maggiore di base, la dominante e la sottodominante, su un testo che racconta un'improbabile storia di un anellino, buttato nel fiume da un mietitore, e che arriva sulla tavola del re, dentro al pesce che lo ha ingoiato. Così una bella ragazza di corte lo riporta al contadinello.

Des Antonius von Padua Fischpredigt: Sant'Antonio predica ai pesci, che seguono il sermone con il massimo interesse; finita la predica, ognuno se ne torna alle proprie poco edificanti occupazioni. Insomma, quello che accade al 98% dei frequentatori delle nostre chiese. La musica di questo Lied è stata impiegata da Mahler, con notevoli ampliamenti, come Scherzo della Seconda Sinfonia.

Der Tambourg'sell: il povero tamburino disertore è portato al patibolo, e saluta tutti con uno sberleffo, me ne vado in ferie, lontano da voi.

Revelge: altro tamburino, morto, che risorge per guidare i compagni, morti pure loro, alla vittoria… per poi tornare a fare il morto, sotto le finestre dell'amata. Pare che Mahler abbia confessato di aver avuto l'ispirazione per la musica di questo Lied - un breve inciso del quale compare nel Finale della Quinta sinfonia - durante una lunga seduta sul… WC! Ma qui Fantozzi non avrebbe proprio nulla da eccepire (smile!)

Lob des hohen Verstandes: il cuculo vince una tenzone canora con l'usignolo, arbitro un asino. Anche questo Lied ha lasciato traccia nel Finale della Quinta Sinfonia (come frecciatina a certa critica musicale dotata di lunghe orecchie…)

Mathias Hausmann per la verità non mi ha impressionato: voce anonima e poco penetrante, un paio di note calanti, ma soprattutto atteggiamento fin troppo compassato e freddo, con scarsa espressività. Mi è parso più a suo agio in Revelge, che ha una tessitura più alta (rispetto agli altri Lied), quasi da tenore. Benissimo invece l'orchestra - qui arricchitasi di arpa e percussioni, oltre che del clarinetto piccolo - che ha reso al meglio tutte le sfumature (e gli sberleffi) di cui sono ricche queste partiture.

Il prossimo appuntamento sarà tutto dedicato ad Antonin Dvorak. Con l'occasione, il Maestro Aldo Ceccato terrà la prima delle conferenze di presentazione dell'opera del grande musicista boemo.
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29 settembre, 2011

La Marescialla torna alla Scala



Il penultimo titolo della stagione scaligera 2010-2011 è Der Rosenkavalier, il capolavoro di Richard Strauss che sarà in cartellone da sabato 1 ottobre.

In attesa di assistere allo spettacolo, qualche considerazione su libretto e trama, troppo spesso liquidati come pura (per quanto mirabile) forma senza contenuto. E l'apparenza effettivamente è quella di una commedia comico-patetica, un divertissement se non addirittura un vaudeville, che avrebbe come unico obiettivo quello di permettere a Strauss di sbizzarrirsi con i suoi walzer e i suoi temi erotico-eroici.

A me pare invece che, sotto la scorza dell'effimero, si nasconda qualcosa di serio e degno di attenzione: alludo precisamente al ruolo e alla personalità di Marie-Theres, la Marescialla. Tutta la vicenda dell'opera, a ben guardare, è da lei pilotata verso il raggiungimento di un obiettivo primario, privato ed esistenziale (potremmo chiamarlo la soluzione del problema-Quinquin) e, in subordine, di un obiettivo per così dire di civiltà (la soluzione del problema-Ochs). È l'irrompere nella sua vita del problema-Ochs che le dà l'occasione per affrontare e risolvere, con intuito geniale, anche il problema-Quinquin, che la perseguita e la tormenta da tempo, portandole qualche ora d'amore sfrenato e interminabili notti d'angoscia.

Il disgusto che prova per i comportamenti del cugino di Lerchenau e, insieme, l'incarico che lui le affida (individuare il Rosenkavalier che consegni la rosa d'argento alla giovane Sophie) fanno immediatamente balenare nella mente della Marescialla il mirabile piano – dapprima sfuocato, ma che si andrà via via precisando nei minimi dettagli – che le consentirà di pilotare, anziché subire passivamente, il pur doloroso distacco da Octavian.

Nel momento stesso in cui indica ad Ochs – mostrandogliene il ritratto – che sarà Octavian Rofrano il Rosenkavalier, lei già ha davanti agli occhi almeno il primo passo (ma il più importante) della vicenda che si svilupperà nelle ore successive: Octavian e Sophie che si innamorano a prima vista. Il resto verrà di conseguenza e sarà ancora e sempre lei a guidare le danze. Ma intanto, in quel preciso momento, il suo subconscio già le dice che la notte d'amore appena trascorsa col suo Quinquin (di cui abbiamo avuto uno straordinario riassunto in musica nell'Introduzione orchestrale) è stata anche l'ultima; se ne renderà conto compiutamente nel momento in cui Octavian si congeda da lei (che gli ha dato appuntamento per una passeggiata al Prater nel pomeriggio) e lei si dispera (sussulta appassionatamente) per non avergli dato un (ultimo) bacio: e lo schianto che sentiamo in orchestra (Heftig bewegt) ci trasmette mirabilmente tutta la pur momentanea disperazione della donna.

Un altro piccolo, ma non insignificante particolare: allorquando Ochs le consegna il cofanetto con la rosa, il buzzurro lo vorrebbe aprire per mostrargliela, ma lei glielo impedisce, e lo prega di appoggiarlo da qualche parte. Capiremo nel secondo atto che quel gesto non è casuale, né irrispettoso: sulla rosa d'argento sono state versate alcune gocce di olio persiano, il cui inebriante profumo si libera non appena si apre il cofanetto; e quel cofanetto dovrà essere consegnato da Octavian e aperto davanti alla bella Sophie, che rimarrà turbata da quel profumo non meno che dall'affascinante Rosenkavalier!

Le vicende tragi-comiche del secondo atto nel palazzo-Faninal non sono per nulla casuali: l'innamoramento a prima vista fra i due giovani e la pessima figura che lo sbifido barone fa agli occhi di Sophie non lasciano spazio a dubbi su quale sarà l'esito della cerimonia. Ma è in quello che accade dopo che ritroviamo lo zampino della Marescialla: il biglietto con cui Mariandel invita il barone ad un incontro amoroso non può non essere opera (o idea) sua! È parte del piano per la soluzione del problema-Ochs: dare una bella lezione al disgustoso barone, che tratta il sesso femminile come carne da macello e come fonte di arricchimento.

E tutta la messinscena del terzo atto non può certo essere opera esclusiva di Octavian, anzi. A cominciare dalla taverna dell'appuntamento, che non si trova in un posto qualunque, ma guarda caso in un sobborgo viennese dove il vice-commissario della Polizia è uno dei più fidati attendenti del Feldmaresciallo, marito di Marie-Theres… Per non parlare poi dell'ingaggio del duo Valzacchi-Annina, dove la mano della Marescialla si vede da lontano. Ed ancora, il tempestivo invito (a firma falsa Ochs) a Faninal e figlia di recarsi sul posto e infine l'arrivo – proprio sul più bello, e persino sorprendendo lo stesso Octavian – della Marescialla in persona ci confermano che è lei ad aver architettato il tutto.

Raggiunto abbastanza facilmente l'obiettivo secondario (annichilire lo spregevole Ochs) alla Marescialla resta da portare a termine l'impresa più difficile: risolvere nel migliore dei modi per tutti (e senza traumi per se medesima) il problema-Quinquin. Cosa per nulla facile, giacchè proprio il ragazzo, come l'asino di Buridano, si ferma a metà strada fra lei e Sophie, rendendole il compito ancor più penoso. Ma è qui che lei dimostra tutta la sua nobiltà d'animo, ricordando di aver promesso a se stessa di amare il suo Quinquin in der richtigen Weis', nel modo giusto: amando lui, ma anche chi lui avrebbe successivamente amato! E persino la sua uscita finale, al braccio di Faninal, ci lascia intravedere qualcosa del suo futuro.

Insomma, una bella lezione di autentico femminismo, non c'è che dire…
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23 settembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 2



Con il secondo concerto della stagione principale de laVerdi inizia l'esplorazione di tutte le (principali) opere di Ciajkovski: Sinfonie e Concerti (ma non solo…)


Contrariamente a quanto annunciato (e stampato sui depliant della stagione) ad interpretare il famosissimo Concerto per Pianoforte non è il vincitore del Premio Ciajkovski 2011 (Daniìl Trìfonov, nella fattispecie) ma il nostro Simone Pedroni, artista residente presso l'Orchestra. L'idea di invitare il futuro vincitore di uno dei maggiori premi internazionali era parsa allo stesso tempo geniale e avventurosa: avventurosa poiché di non facile realizzazione, diciamolo pure. Perché non si poteva certo pensare di aspettare il 30 giugno (data di assegnazione del premio) per invitare il vincitore – evidentemente conteso da ogni parte – a tenere concerti in Auditorium il 22-23-25 settembre! O allora si dovevano mettere in preallarme i 5 potenziali vincitori? Insomma, un azzardo. Peggio, o meglio a seconda dei punti di vista, è andata con il violino: il primo premio non è stato assegnato e i secondi sono due, a pari merito! Vedremo a giugno chi lo interpreterà da queste parti…

Bella e allo stesso tempo preoccupante notizia anche per la Xian. Che solo 19 ore (!?) prima dell'inizio del concerto saliva sul podio del Kennedy Center di Washington per dirigervi musiche e artisti cinesi! Sarebbe arrivata in tempo, visto che i Concorde sono ormai in pensione? E soprattutto: in quali condizioni avrebbe diretto un concerto così impegnativo? Beh, arrivata è arrivata; quanto alla prestazione, non so se è colpa del viaggio e del fuso, ma non mi è parsa delle più brillanti.
 
Nel concerto ha tenuto tempi piuttosto grevi e macchinosi, soprattutto nel primo movimento, ed anche Pedroni non è andato esente da qualche incertezza: un esito complessivamente poco più che discreto, anche se accolto calorosamente.

Nella Quarta ciajkovskiana mi è parso che mancasse un buon impasto fra le sezioni dell'orchestra: troppo spesso nel primo movimento gli ottoni (splendidi peraltro come prestazione) hanno sovrastato il resto degli strumenti e gli archi in particolare. Bravi come sempre i solisti (oboe, flauto, clarinetto, fagotto) e gli archi nel difficile pizzicato ostinato. Poi nel Finale, che però è per sua natura un fracasso quasi continuo e generale, l'orchestra ha trascinato il pubblico all'entusiasmo. Forse è mancato il tempo per qualche prova in più, chissà: rispetto alla precedente esecuzione dello stesso brano (febbraio 2010) mi sento di registrare un gran progresso degli ottoni.

In apertura di concerto (more… Abbado anni '70) una composizione contemporanea: Giga di Francesco Antonioni (presente in sala). Dieci minuti di musica varia (smile!) che al primo ascolto ti lascia piuttosto perplesso: il problema è che il secondo ascolto in questi casi non c'è quasi mai (!)

Il prossimo appuntamento, oltre a Ciajkovski, ci porterà anche qualcosa di Mahler.
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22 settembre, 2011

Ulisse torna in patria… alla Scala


Pre-scriptum…

Ieri mattina, 21 settembre, un gruppetto di persone staziona davanti al negozio della Scala, lo chic-coso Scala-shop. Sono le 10:30, orario di apertura giornaliera. Saracinesca desolatamente abbassata. Alla buonora delle 10:43 la saracinesca si alza e, un paio di minuti dopo, arriva un'impiegata ad aprire il portoncino di cristallo. Tre delle 6-7 persone in attesa sono abbonati alla stagione operistica e sono lì per ritirare il programma di sala, consegnando l'apposito tagliando ricevuto con l'abbonamento. L'impiegata – unica, sempre quella che ha aperto – cerca di qua, cerca di là, poi fa una telefonata ed infine comunica che lo Scala-shop non dispone momentaneamente di alcuna copia del programma, che potrà essere ritirato prima della rappresentazione serale.

Ecco, sono particolari minuscoli ed irrilevanti come questo che mostrano all'esterno l'immagine di una istituzione decaduta.
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Alle 20 seconda recita del monteverdiano (fino a prova contraria…) Il ritorno d'Ulisse in patria.

Un paio di consigli: tanto per cominciare, non chiedete a tale Fantozzi cosa pensi di quest'opera (smile!) E poi, prima di eventualmente entrare al Piermarini, fate diligentemente qualche compitino a casa (arrangiatevi, visto che non potete contare sul programma di sala, smile2!) Viceversa il latte rischierebbe di cadervi dalle ginocchia alle caviglie (ari-smile!) e vi trovereste costretti ad attendere l'intervallo prima di potervela squagliare, come ha regolarmente fatto il 20% dei presenti ieri sera.

A parte le facili battute di bassissima lega (nel senso bossiano) si tratta di un (capo)lavoro che difficilmente ti prende così, d'acchito, come – che so – La traviata o L'elisir d'amore. Tale e tanta è la distanza fra la nostra (in)sensibilità teatral-musicale e quella dei nostri antenati di quasi 4 secoli orsono. E pensare che c'è chi sostiene che La traviata altro non sia se non una delle nefaste conseguenze dell'imbastardimento della nostra sensibilità musicale, rispetto a quei tempi. Altri, giudicando a partire dal livello di discesa - lungo le gambe - del succitato latte, stabiliscono arditi paralleli fra Monteverdi e Wagner, nientemeno!

Eppure qualcosa di sensato ci deve pur essere in queste dicerie, se è vero, come è vero, che le opere di Monteverdi, di Cavalli, di Caccini e compagni ebbero - ai loro tempi - dei successi di pubblico addirittura superiori (misurando in termini relativi) a quelli di Verdi e Wagner, più di due secoli dopo.

Ancora oggi persistono incertezze sulla paternità dell'opera, di cui esiste il libretto di Giacomo Badoaro (in 5 atti) e una copia apocrifa della partitura (in realtà una specie di spartito per canto e accompagnamento, più qualche intermezzo – sinfonia – con pochi righi strumentali) scoperta a Vienna nell'800, con suddivisione in 3 atti e fatta stampare per la prima volta da Haas nel 1922. Una puntuale ricostruzione dell'intricato scenario in cui si dibatte quest'opera si può trovare qui.

A chi prova (Scala-shop permettendo) a fare qualche compitino a casa prima di entrare in teatro, si presenta subito un grosso interrogativo: quanti e quali tagli – rispetto al libretto e allo spartito viennese – vengono praticati in questa edizione scaligera? Sì, perché l'opera eseguita in-toto (e con i ritornelli o ripetizioni previste) dovrebbe durare più o meno 3 ore e 50 minuti (prendo ad esempio l'incisione curata da Sergio Vartolo) mentre il sito del teatro ci informa che lo spettacolo (intervallo compreso, quindi) durerà 3 ore e 10 minuti. Ma in teatro un cartello avverte che la durata totale sarà di 2 ore e 55 minuti, con un intervallo di 30! Quindi, al netto, 2 ore e 25 minuti, ben 85 minuti meno dell'originale (pari al 37%!) Forse la cosa è stata fatta per limitare la discesa del latte… (e ri-smile!) ma con scarso successo, a giudicare dalle defezioni dopo la pausa.

L'intera opera comprende un prologo e 36 scene, di cui due e parte di un'altra non presenti nello spartito viennese e un'altra ancora (con Mercurio) di cui nel libretto è prescritta l'omissione (La si lascia fuori per essere malinconica, sic!) Oltre al prologo, nella versione in 5 atti abbiamo: Atto I con 9 scene, Atto II con 7, Atto III con 7, Atto IV con 3 e Atto V con 10. In quella in 3 atti le stesse scene sono accorpate così: 13 / 13 / 10, quindi fra le due versioni c'è allineamento solo all'ultimo atto (10 scene) mentre i precedenti (4 e 2 rispettivamente) sono disallineati.

E qui, sul famigerato programma di sala abbiamo il festival dell'approssimazione e delle incongruenze. Perché ovunque (locandina, titoli del libretto, sinossi, presentazioni varie) si parla di versione in un prologo e tre atti, ma la rappresentazione è in due parti; come strutturate? Guarda caso secondo la versione in 5 atti! Con l'intervallo posto precisamente fra il 2° e il 3° atto di tale versione, quindi dopo 16 scene (il che, diciamolo francamente e rendiamone merito ad Alessandrini, è la cosa più sensata da fare). Quanto ai tagli, parecchi paiono guidati da un'estrazione a sorte dei versi e delle battute musicali da sacrificare… ma per fortuna i più corposi (ed anche l'anticipo della scena di Melanto e Penelope) sono volti a stringere l'azione drammatica, eliminando divagazioni e pleonasmi. La realizzazione dell'accompagnamento (non si può certo parlare di orchestrazione, e chi la pretendesse non avrebbe capito nulla dell'opera) è dello stesso Alessandrini, e direi che sia fatta con criteri, approccio e misura del tutto consoni al soggetto da rappresentare.

In buca abbiamo 18 strumentisti, dotati di strumenti d'epoca e diretti da un Alessandrini che alterna frequenti interventi sulla tastiera del clavicembalo che gli sta davanti. Nella buca si sistemano anche i 4 interpreti del Prologo e infine i due cori (in cielo e marittimo) che accolgono con gioia la decisione degli dèi di far felice Ulisse.

La regìa di Wilson è di quelle tipiche di… Wilson (!) che si adegua in tutto e magari fin troppo alla ieraticità ed alla lentezza del recitar cantando: scene spoglie, interpreti col volto imbiancato, costumi che forse vogliono imitare quelli del 1640 e soprattutto movimenti lentissimi, proprio al rallentatore (le uniche intemperanze sono relegate al personaggio di Iro).

Tutta la compagnia di canto va apprezzata per l'abnegazione (credo sia la qualità principale richiesta in questi casi) ma anche per la buona qualità del canto recitato. E così alla fine lo scarso ma stoico pubblico rimasto gli tributa applausi e anche parecchi bravo!

Ecco, in circostanze come questa non si può non rimpiangere l'ingloriosa fine fatta fare alla vecchia, cara, Piccola Scala, che era ambiente ideale per questo tipo di rappresentazioni, prova ne sia che là vi furono tenute 9 delle 12 precedenti (fra il '43 e il '78). E il solo fatto che si tenessero nel teatrino di via Filodrammatici bastava a qualificarle e a tener lontani gli… impreparati!
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19 settembre, 2011

Pappano con la Cecilia a Rimini


Il quarto e penultimo concerto della Sagra musicale malatestiana ha avuto come prestigiosi ospiti la migliore Orchestra italiana, guidata dal suo campione Antonio Pappano e la solista Hélène Grimaud. Accoglienza di pubblico adeguata al rango degli ospiti e Palacongressi ancora una volta stracolmo. Programma d'epoca, come d'epoca erano i bolidi che sfrecciavano ieri mattina borbottando sul lungomare, per il Gran Premio Nuvolari.


È Hélène Grimaud ad aprire la serata con il Primo concerto di Brahms. Già dalla lunga introduzione orchestrale si fa sentire il suono pulito, bellissimo, della Santa Cecilia (archi compatti come il pacchetto di mischia degli All-blacks e corni strepitosi) che obbedisce come un cagnolino al gesto – un po' sporco, se vogliamo, ma evidentemente efficace – di Pappano. Che detta un tempo per me quasi perfetto per il Maestoso (che è segnato da Brahms con 58 minime puntate) che, partendo da SIb, passando per LA e poi per RE maggiore, prepara l'ingresso in RE minore del solista. La bell'Hélène (smile!) mi è parsa voler depurare questo Brahms da ogni languidezza crepuscolare, per offrircene una interpretazione misurata e austera, cosa che personalmente condivido. Anche nell'Adagio e nel conclusivo Allegro non troppo (dove Brahms ha fornito solo indicazioni agogiche qualitative) ha staccato tempi piuttosto stretti, senza cadere in facili sdolcinature o in eccessi velocistici, rispettivamente. Calorosa accoglienza per lei, ripetutamente chiamata dal pubblico, che convince la francesina a regalarci un (in)solito bis.

Poi ecco la Scheherazade, uno dei capolavori di Rimski-Korsakov (qui qualche nota a margine di un'esecuzione de laVerdi). È la storia della bella principessa che, per sfuggire alla morte decretata dal suo sultano – un tizio poco raccomandabile, che applicava alle mogli la sbrigativa pratica dell'usa&getta - si inventa ogni notte una favola con cui distrarre il fetentone dalle sue poco simpatiche intenzioni. Anche noi oggigiorno abbiamo un pipistrello che cerca di sfangarsela – dai magistrati, nella fattispecie - inventando storielle a ripetizione: La piccola fiammiferaia Ruby, I due orfanelli tarantini, Il battello sulla Vitola, Ali Papa e i 40 spioni, I tre monti del milanese, Il segreto di bunga-bunga, Il colluttorio miracoloso di sorella Nicole, e così via fantasticando sulle 1000-e-1-notte-di-Arcore. Il celebre compositore Apicella sta scrivendo al proposito una suite, intitolata Beherluscazade

Ma bando alla deprimente attualità politica, e veniamo all'esecuzione dei ceciliani. Sugli scudi ovviamente le parti solistiche, quindi in primo luogo il Konzertmeister Carlo Maria Parazzoli, chiamato ad interpretare il ruolo della principessa; ma poi gli strumentini, che Rimski impegna spesso e volentieri in passaggi addirittura bestiali. Ma queste eccellenze non sono che diamanti incastonati in un gioiello meraviglioso, qual'è proprio l'intera compagine orchestrale. Non saprei cosa lodare di più di questa performance, che ha valorizzato al massimo tutte le bellezze di questa partitura – forse non sufficientemente apprezzata - che per me è davvero uno dei capolavori assoluti della musica. E quando Pappano, dopo aver messo a dormire prima il sultano e poi la principessa, abbassa le braccia sull'accordo perfetto di MI maggiore, impreziosito dal MI sovracuto in armonici del violino principale, è un uragano che si scatena in quel gran capannone che è il vecchio Palacongressi. Ripetute chiamate e non uno, ma due bis: l'Intermezzo pucciniano dalla Lescaut e la scatenata conclusione delle Ore ponchielliane. Insomma, una serata da tenere a memoria.

E così, dopo essere arrivati a Rimini (su un convoglio del loro socio fondatore Ferrovie Italiane, per caso guidato dall'AD Moretti? presente in sala…) sotto un soffocante garbino (32°) e con l'acqua del mare che pareva un brodo, i ceciliani se ne vanno lasciando dietro di sé temporali, acquazzoni e 10° in meno di temperatura: che l'estate stia finendo?
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16 settembre, 2011

La “Verdi” apre la nuova stagione


Primo appuntamento della Stagione 2011-2012 per laVerdi all'Auditorium. Il programma è di quelli talmente classici da sfiorare lo stomachevole, ma una certa qual sostenutezza la si può anche accettare, data la circostanza inaugurale. Del resto, che laVerdi sappia come cavarsela anche con opere ed autori meno inflazionati è stato dimostrato non più tardi di domenica scorsa, con il trionfale War Requiem alla Scala.

Però, diciamo la verità, riproporre troppo di frequente titoli come questi fa correre un serio rischio: che i direttori e/o i solisti – tanto per differenziarsi e non venire tacciati di essere custodi di musei ammuffiti – e il pubblico – per non annoiarsi e sentire qualcosa di nuovo – propongano, e rispettivamente acclamino, interpretazioni cervellotiche o gigionesche, rendendo così un pessimo servizio alla musica. Grazie a dio ieri l'abbiamo scampata, ma non sempre è così…

È il 41enne Lars Vogt a cimentarsi d'acchito con un mostro sacro, l'Imperatore di Beethoven. Soprattutto nell'iniziale Allegro ne dà una visione nervosa, secca, con poco legato, quasi cattiva (ma qui siamo all'interno dei confini della sacrosanta libertà dell'interprete). Poi nell'Adagio un poco mosso tira fuori una buona cantabilità, scatenandosi ancora nel Rondò. Bravissima Xian nell'assecondare l'interpretazione del solista, lungamente acclamato e che ci allieta con questo bis.

Dopo l'intervallo la Fantastica di Berlioz. La riascoltiamo dall'Orchestra Verdi dopo circa 18 mesi (allora guidata da quello che oggi ne è diventato il Direttore Principale) e devo dire che ha fatto la stessa impressione – ed ha avuto lo stesso successo – di allora. Xian ne coglie tutta la nevrosi che la anima, già dalle Réveries-Passions (dove ci risparmia meritoriamente il ritornello dell'esposizione). Spettrale il bal, con le due arpe in evidenza, e sempre struggente la scena campestre: qui il bravissimo Emiliano Greci si allontana momentaneamente dal palco ed esce… non per fare pipì – smile! – ma per rispondere da lontano, con il suo oboe, al richiamo del corno inglese, imbracciato dall'altrettanto bravo Luca Stocco (non per nulla alla fine i due saranno ripetutamente chiamati per un applauso speciale). Il giusto livello di fracasso viene tirato fuori dalla marcia al supplizio, e infine tornano gli spettri (qui impersonati dal clarinetto in MIb di Jader Bignamini) a riproporre per l'ultima volta l'idée-fixe, ridotta a osceno sberleffo. Il Dies-Irae ruttato dalle due tube (oggi sostituiscono i vecchi oficleidi) porta al finale assordante, con le otto tremende terzine di tutta l'orchestra che sfociano nel conclusivo accordo di DO maggiore:


Manco a dirlo, pubblico praticamente in delirio.

Il secondo appuntamento sarà (quasi) tutto di marca ciajkovskiana.
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