affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 ottobre, 2010

L’ur(ca)-Boris a Torino



 
Ieri pomeriggio sesta rappresentazione, al Regio di Torino, del Boris Godunov di Modest Musorgski per la regìa di Andrei Konchalovsky. Sul podio Gianandrea Noseda.

 
Come già ampiamente desumibile dalla presentazione dell'Opera da parte del Teatro, si tratta di una sedicente versione (ma meglio sarebbe chiamarla collage) della prima stesura (1869) del capolavoro di Musorgski. Riprendo – con qualche dettaglio in più, e lo metto in appendice, così chi non vuole annoiarsi lo può ignorare più comodamente – il discorso sulle fonti e sulla struttura del Boris di Konchalovsky-Noseda, già sommariamente fatto qualche giorno fa, e passo direttamente alle mie impressioni sulla recita, interpretata ieri dal cosiddetto secondo cast.

 
Che vedeva nel ruolo principale il venerabile Vladimir Matorin, ultrasessantenne già protagonista di innumerevoli Boris, che rimpiazzava il giovine Orlin Anastassov, ricoprendo invece accanto a lui il ruolo – non proprio secondario - di Varlaam nelle recite col primo cast. Orbene, senza poter fare confronti, mi pare di poter dire che la sua interpretazione sia stata di buon livello vocale, ma di livello attoriale non meno che straordinario. Un Boris davvero grande: nell'imponenza, anche fisica, della sua figura, come nella tragica schizofrenia che emana dal suo animo esacerbato. Da notare qui un particolare: il famoso monologo Ho il potere supremo era quello della seconda versione (1872) del Boris! (Ma qui siamo nel pieno bailamme delle fonti, e quindi per il  momento non insisto).

 
Sergej Aleksaškin è stato un efficacissimo Pimen, una parte che sembra in certi momenti precorrere nientemeno che il wagneriano Gurnemanz. Detto di passaggio, in effetti fra Musorgski e Wagner ci sono innumerevoli punti di contatto, anche se i due conobbero assai poco delle rispettive opere. Ricordava il compianto Teodoro Celli che proprio la scena del convento dei Miracoli, dove appare Pimen per la prima volta, si apre con misteriose quartine delle viole che richiamano in modo stupefacente le sestine del mormorìo della foresta del Siegfried (io ci aggiungo anche l'introduzione mahleriana al Der Einsame im Herbst). E che la melodia che sostiene l'ultima parte del duetto fra Marina e Grigorij-Dimitri (che qui a Torino ovviamente non si è ascoltato) ha una incredibile rassomiglianza con lo starnberg-iano tema della Pace, sempre dal Siegfried, atto terzo!
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Grigorij (poi falso Dimitri) è Ian Storey. Al solito, come in Tristan, grande presenza scenica – però nessuno gli potrebbe dare solo 19 anni, smile! - accompagnata da una prestazione vocale non più che discreta.
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La coppia Misail-Varlaam è interpretata da Luca Casalin (la parte meno in vista) e da Vladimir Baykov il quale ultimo rimpiazza qui il Matorin del primo cast e devo dire che ci fa un'ottima figura, soprattutto nella sua aria (lo so che Musorgski si arrabbierebbe moltissimo a chiamarla così…) nella quale descrive con realismo misto a compiacimento il simpatico scherzetto – costato 43mila vite, una bazzecola - che il terribile Ivan fece agli sbifidi Tatari di Kazan.
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Evgenij Akimov è l'Idiota (in termine politically correct, l'Innocente). Direi più che buono sia sul piano della gestualità che su quello del suo canto lamentoso e strappalacrime, che nella sua cantilenante languidezza esprime il fatalismo di un intero popolo.
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Ščelkalov è impersonato da Juri Laptev (2° cast). Imponente la sua figura fisica ed efficaci i suoi interventi (nei due quadri estremi). L'inaffidabile Šujskij è affidato (smile!) ad un dignitoso Peter Brondy, voce chiara e sottile (come il carattere del personaggio).

 
Tutti gli altri su uno standard più che onorevole. Un'ultima e doverosa citazione per Pavel Zubov, il ragazzo che recita, e canta benissimo, la parte del giovinetto Fëdor, rampollo di Boris.

 
Non ci sarebbe quasi bisogno di elevare peana ai Cori di Gabbiani e Fenoglio, tanto superbi nel canto, quanto efficaci nei movimenti in scena.

 
Noseda, si sa, ha un feeling particolare con i russi. Forse già innato, ma di certo irrobustito dal suo lungo sodalizio con il Mariinskij. Direzione di assoluto rilievo la sua; che – a mio sentire – si è sempre mantenuta entro limiti di sobrietà, pur non celando tutte le spigolosità e le ruvidezze dell'orchestrazione di Musorgski.

 
Konchalovsky ha chiesto a Graziano Gregori delle scene spartane e minimaliste (in pratica un piano inclinato in sei sezioni che si possono unire o separare in modo da farle alzare ed abbassare alla bisogna. Quindi uno scenario monotono dove, tanto per fare un esempio, non si nota alcuna differenza fra i due monasteri: Novodevici, che era più che altro un rifugio in cui si ritiravano a meditare (o una specie di prigione in cui venivano di fatto rinchiusi) dei personaggi scomodi o complessati, e Chudov, che era invece un classico e rinomato centro di studi e di cultura e – trovandosi proprio dentro il Cremlino – era meta di frequenti visite degli zar, Ivan in primo luogo, come ricorda il vecchio Pimen a Grigorij. Scenario ravvivato però dalle irruzioni delle masse. I cui costumi (di Carla Teti) sono invece di una grande ricchezza (anche gli stracci della povera gente, smile!) e verosimiglianza. Il regista ha fatto muovere bene i personaggi, prendendosi qualche libertà (per giustificare la parcella, al solito): come il figlioletto che, all'incoronazione di Boris, invece di seguirlo, come da copione, gli si abbarbica ad un fianco e viene poi preso in braccio; o come il feroce accoltellamento delle guardie da parte di Grigorij, al momento di scappare dalla bettola. Discutibile anche il cambio di scena, a sipario alzato, fra SanBasilio e Kromy, che in pratica ci mostra un teletrasporto della stessa gente da un luogo all'altro, cosa abbastanza in contrasto con la logica (la seconda folla era appena stata descritta dalla prima) oltre che con il libretto. Di effetto notevole, e pure pacchiano, lo scivolone del trono sul piano inclinato, al momento del redde-rationem per lo zar. Nel complesso, una regìa dignitosa, che come minimo non crea scandalo (ed è già qualcosa).

 
Quindi uno spettacolo sicuramente all'altezza di un importante Teatro, quale il Regio è. Peraltro non destinato – credo io – a fare storia, anche per le ragioni che spiego nel tormentone che segue.
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Musorgski lasciò due versioni, assolutamente compiute e precisamente strutturate, del Boris. Va però notato che la prima (1869) non venne mai eseguita, vivente l'Autore, essendo stata bocciata dai censori estetico-politici del Mariinskij, quindi rimase in uno stato teoricamente modificabile e perfettibile, poiché l'Autore - avesse avuto la possibilità di metterla in scena - di certo vi avrebbe apportato ritocchi e cambiamenti piccoli e grandi, cose che già aveva in mente, o addirittura già scritto, e che utilizzò nella costruzione della seconda versione (1872, che per sua fortuna potè vedere autorizzata e rappresentata) in cui impiegò gran parte dei componenti della prima.

 
Ma allora una domanda viene subito spontanea: se la seconda versione è un passo avanti rispetto alla prima, e a differenza di questa potè essere curata nei dettagli da Musorgski, che cosa cavolo ce ne facciamo oggi della prima, se è solo un abbozzo di quella definitiva?

 
La risposta è semplice: le due versioni non sono affatto una l'abbozzo dell'altra, ma – pur avendo, com'è comprensibile, molte parti in comune – sono nondimeno strutturalmente, drammaturgicamente ed esteticamente assai diverse fra loro. E non solo per i tre quadri aggiunti (e uno tolto) ai sette della prima per costruire la seconda, ma per il diverso focus drammaturgico (e quindi anche musicale) che le due versioni presentano: la prima prevalentemente incentrata sulla complessa figura e sui drammi esistenziali dello zar; la seconda che mette in primo piano il popolo russo, all'interno del cui perenne e quasi disperato fatalismo si inquadra la tormentata figura di Boris. Ecco perché è (ma devo purtroppo dire sarebbe) oggi così interessante poter ascoltare, e vedere in scena, anche la prima versione: perché è di fatto un'opera diversa – pur se con lo stesso soggetto e molto materiale in comune – dalla versione definitiva.

 
Dal punto di vista della struttura del dramma, nella prima versione del 1869 (7 quadri) abbiamo una serie di zoom sulla figura dello zar (Quadro-2, all'incoronazione; Quadro-5 nella dimora di Boris e Quadro-7, al Cremlino) alternata a scene di popolo (Quadro-1, al monastero di Novodevici e Quadro-6, sul sagrato di SanBasilio) e alla presentazione del monaco Pimen e di Grigorij, che diverrà il falso Dimitri (Quadro-3, nel monastero dei Miracoli di Chudov e Quadro-4, in una bettola al confine lituano); e non a caso l'opera si chiude con la morte di Boris, estremo culmine della sofferta esistenza dell'uomo.

 
La versione messa definitivamente in partitura nel 1872 è in 9 quadri, organizzati in un prologo e 4 atti: quelli della prima più tre (i due polacchi e l'ultimo della seconda, di Kromy) meno il penultimo della prima (SanBasilio). Quindi la nuova versione ha una struttura assolutamente (e mirabilmente) simmetrica: agli estremi due scene di popolo (Prologo-scena-1, a Novodevici e Atto4-scena-2, a Kromy); subito all'interno di queste, due quadri con monologhi di Boris (Prologo-scena2, all'incoronazione e Atto4-scena-1, quello della sua morte, al Cremlino); all'interno ancora due coppie di scene – per così dire - di contorno (Atto1, Pimen, Grigorij e i monaci al confine lituano e Atto3, quello polacco, con Marina, il gesuita Rangoni e Dimitri-Grigorij); perfettamente al centro (Atto2) il quadro famigliare dello zar.

 
Si noti che in entrambe le versioni Musorgski segue quasi pedestremente – pur con sue aggiunte o variazioni – la sequenza dei fatti come esce dalla tragedia di Pushkin, che ispirò direttamente la composizione. Si noti anche che, elaborando la seconda versione, oltre ai macro-interventi (aggiunte ed espunzioni di scene) Musorgski operò anche una miriade di modifiche (come detto le aveva già in buona parte in testa o anche scritte) ad almeno 4 dei 6 quadri superstiti: ad esempio espunse dal terzo il racconto di Pimen sull'uccisione, a Uglich, del piccolo Dimitri, erede al trono; aggiunse la canzone dell'anatroccolo all'inizio del quarto quadro (la scena nella bettola al confine lituano); in quella di Terem, gli appartamenti dello zar (quinto quadro, divenuto secondo atto) modificò ampiamente il celebre monologo di Boris Ho il potere supremo; sempre lì, cambiò parecchio le parti dei figli di Boris, in particolare ampliando quelle del piccolo Fëdor e della nutrice; riprese dal sesto quadro (di SanBasilio, espunto nella seconda versione) la scenetta dell'Idiota schernito e derubato dai monelli e la infilò nel nuovo quadro (l'ultimo, presso Kromy) aggiunto come conclusione dell'opera (quadro sulla cui più opportuna collocazione - se cioè non dovesse precedere la morte di Boris - ebbe inizialmente più di un dubbio, accogliendo alla fine i consigli di suoi zelanti amici e propendendo quindi per la collocazione estrema, simmetrica). Insomma, la versione seconda è proprio un'opera diversa.

 
Rimsky rimaneggiò (splendidamente e per due volte, 1896 e 1906) questa seconda versione. Oltre ad apportarvi alcuni tagli (parzialmente ripristinati nel 1906) in parti più o meno secondarie (tolse dei brani, come l'appello di Ščelkalov all'inizio del quadro della morte di Boris) Rimsky fece un primo proditorio attentato alla struttura dell'Opera, scambiando gli ultimi due quadri (dando quindi credito all'idea primitiva, ma successivamente scartata, di Musorgski) e con ciò distruggendo la perfetta simmetria dell'originale; e distorcendone anche il significato complessivo, col riportare in primissimo piano la figura di Boris, la cui morte - e non il perenne e fatalista fluire della vita del popolo russo - torna a chiudere l'opera, come nella prima versione. E questo surrogato di Rimsky, come spesso accade (vedansi Carmen e Medea) è quello che ha fatto la fortuna del Boris per più di 50 anni. Poi arrivò anche Shostakovich a trastullarsi col giocattolo, ri-orchestrandolo, ma in pochi ne hanno fatto un punto di riferimento; stessa fine han fatto per fortuna altre velleitarie revisioni.

 
Quanto alle edizioni critiche, Pavel Lamm a fine anni '20 e – 50 anni dopo – David Lloyd-Jones, ne pubblicarono due di entrambe le versioni, ma in effetti strutturate come una versione che accorpa tutti i quadri (10) delle due originali, contenendo di fatto tutto ciò che Musorgski produsse sul Boris: in sostanza prendendo la seconda versione del 1872 e re-inserendovi tutti i tagli operativi dal compositore, incluso l'intero quadro (il penultimo della prima versione, quello ambientato davanti a SanBasilio) che l'Autore aveva espunto dalla seconda. Dovendo però a questo punto fare i conti con l'Idiota: il quale compare nel quadro di SanBasilio della prima versione (dove incrocia anche Boris) e poi ancora – proprio con le stesse parole e con la stessa musica - nell'ultimo, che lo sostituì, della seconda (a Kromy, dove ovviamente non può incontrare Boris, principalmente perché lo zar a quel momento è già defunto, ma anche perché un Boris che passeggia laggiù farebbe ridere). In queste versioni sedicenti complete, in 10 quadri, l'Idiota compare dapprima nel quadro di SanBasilio, mentre in quello di Kromy si limita ad apparire alla fine, e solo per ripetere il suo lamento fatalista sulle tristi sorti della Russia. Ma – dato che questa versione non è autografa, ma è invenzione di Lamm e Jones – è chiaro che chiunque può decidere e nella realtà ha deciso (ma è solo un esempio fra le tante possibilità combinatorie) di presentare prima Kromy (con/senza l'Idiota) e poi SanBasilio (senza/con l'Idiota) eccetera, eccetera.

 
Come si vede, una storia intricata e infinita. Oggi addirittura si teorizza (lo ha fatto lo stesso Jones, forse per vendere meglio la sua edizione critica) che il Boris sia un'opera aperta, una specie di gioco del meccano da cui registi e direttori possono liberamente divertirsi a prelevare pezzi da montare e smontare a loro piacimento! E, conoscendo la smania di protagonismo di registi e direttori (e aggiungiamoci pure i cantanti) non ci si può meravigliare che tutto questo guazzabuglio di fonti abbia immancabilmente dato la stura a innumerevoli colpi di mano e ad invenzioni più o meno strampalate. Presentate trincerandosi dietro l'alibi che tutta la musica del Boris è grande e che quindi, comunque confezionata, l'Opera farà sempre un gran figurone. (Come quello che immagino farebbe la Nona di Mahler eseguita con l'Andante in testa, i movimenti lenti al centro e il Rondò-Burleske come finale… o no?)

 
Invece ci sarebbe un punto (almeno uno) da tenere ben fermo, poiché di una chiarezza incontestabile: l'incompatibilità fra SanBasilio e Kromy. Certificata proprio dal procedimento tecnico che Musorgski impiegò per costruire la sua seconda versione: eliminare SanBasilio e recuperare da esso ciò che gli tornava utile (la scenetta dell'Idiota) nella costruzione di Kromy. Ciò è la più chiara e convincente dimostrazione dell'impossibilità di coesistenza dei due quadri. E il bello è che – in teoria – ciò viene riconosciuto anche da eminenti studiosi. Come il prof. Richard Taruskin, un cui scritto apre il volumetto del programma di sala del Regio. Peccato che, subito dopo aver riconosciuto la validità dell'assunto logico, il nostro si affretta a dichiararsi entusiasta della convivenza fra i due quadri. E in base a quale ragionamento? Che la cosa piace al pubblico! Grandiosa davvero, questa affermazione, pari alla sua bizzarrìa. Chè allora, visto che sicuramente al pubblico piacerebbero, si potrebbero presentare infinite versioni delle sinfonie di Beethoven, costruite recuperando la montagna di schizzi, appunti e idee che il genio di Bonn ci ha lasciato in eredità. Rob de matt, bisogna avere una cattedra a Berkeley per sfornare simili idee…

 
Apro una piccola e irriverente parentesi, a proposito di professori. L'oggetto è la diatriba riguardo la morte del piccolo Dimitri (figlio di Ivan) che è all'origine di tutti i problemi esistenziali di Boris: morte accidentale, come sentenziò l'inchiesta ufficiale (addomesticata da Boris?) o assassinio commissionato proprio da Boris? Il citato Taruskin scrive che, per Pushkin, la colpa di Boris nell'uccisione dell'erede al trono era un dato di fatto: cosa che oggi nessuno storico crede. Tre pagine dopo la professoressa Caprioglio dell'Università di Torino sostiene che la versione della colpevolezza di Boris è ancor oggi la più accreditata, anche se non mancano gli storici (ndr: i colleghi di Taruskin? smile!) che sostengono la morte accidentale.

 
Tornando a bomba, si fosse coerenti con l'elementare assunto dell'incompatibilità fra quei due quadri, automaticamente le versioni del Boris si ridurrebbero a 3: le due originali dell'Autore più quella, che possiamo tranquillamente – per tutta una serie di buone ragioni - aggettivare come authoritative, di Rimsky. La quale oltretutto accontenta allo stesso tempo gli amanti della bella musica e quelli del finale in REb maggiore (una specie di Götterdämmerung ante-litteram).
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Adesso torno al Regio per chiedermi: cosa hanno combinato Konchalovsky-Noseda? Ecco: come altri, un pasticcio che non è né carne, né pesce, ma è un minestrone cucinato mettendo insieme ingredienti delle due versioni originali, e buttandoli in pentola e sul fuoco con una sequenza diversa da entrambe. Hanno preso come base la versione del 1869, ma poi l'hanno smontata e ricostruita a loro discrezione (vedi il citato arioso di Boris al Terem). Non contenti, strada facendo hanno pure cambiato idea – cosa di cui è bene rallegrarsi, come delle conseguenti modifiche apportate al riassunto dell'opera sul sito del Teatro e parzialmente sul programma di sala (ma non sulle locandine cartacee distribuite gratis) - rinunciando ad un paio di cervellotiche trovate. Sulle quali è comunque utile fare qualche considerazione, sia pure a reato non consumato.

 
La prima idea, falsamente innovativa e sufficientemente strampalata, era l'inversione della sequenza dei quadri 2 e 3. Che avrebbe creato due artificiose fratture all'interno del corpo della prima parte (i primi 4 quadri) oltretutto sovvertendo la cronologia degli avvenimenti: il Quadro-3 (Pimen e Grigorij nel monastero di Chudov) è chiaramente datato (da Pushkin, fonte diretta di Musorgski) nel 1603, quindi con Boris imperante da ben 5 anni, mentre il Quadro-2 è proprio quello che ci mostra Boris appena incoronato, nell'autunno del 1598. Invertirli avrebbe fatto cambiare non poco, o addirittura perdere del tutto, il senso dell'intera vicenda, chè la gravissima ed aperta accusa - abbiamo accettato quale sovrano l'assassino di uno Zar! - che Pimen muove a Boris (di aver soppresso il piccolo Dimitri, erede al trono) perderebbe parecchio di consistenza, se mossa ad un Boris che ancora sovrano non è, ed anzi – da ciò che si è appena udito nel Quadro-1 (Il Boiardo è irremovibile) - sembrerebbe riluttante a diventarlo! E attenzione: Pimen non sta facendo quattro chiacchiere al bar, ma sta scrivendo la Storia della Russia!

 
L'altra trovata – poi rientrata, forse dopo le prove in scena, quindi tuttora presente sul programma di sala - di Konchalovsky-Noseda era la ricomparsa del personaggio dell'Idiota proprio alla fine dell'opera, a lanciare il suo lamento. Col che si sarebbe scimmiottato – non certo ripristinato nella sua valenza drammatica - l'epilogo della seconda versione originale!

 
Delle trovate di regista-direttore è quindi rimasto in piedi l'inserimento (tanto caro a Taruskin) dopo SanBasilio e prima dell'ultimo quadro (morte di Boris) del quadro di Kromy, prelevato dalla versione 1872, recupero giustificato dal regista con la motivazione di voler mostrare al pubblico – soddisfacendone la morbosa curiosità? - dov'era finito Grigorij dopo la fuga in Lituania! Trattasi in verità di motivazione assai labile – pur se addotta già in origine da qualche zelante consigliere dell'Autore - dal momento che ciò è già stato spiegato a josa – poco prima - dai discorsi che la gente fa sul sagrato di SanBasilio e dall'anatema urlato dal pingue diacono contro Grigorij Otrepyev (poi anche dall'oggetto della riunione di Boiari al Cremlino) senza che ci sia bisogno di mostrare Grigorij/Dimitri in carne ed ossa (cosa invece necessaria – si badi bene - a Musorgski nella versione 1872, in conseguenza dell'espunzione di SanBasilio!) E come hanno risolto, regista e direttore, il problema dell'Idiota? Secondo l'approccio della versione di Lamm/Jones in 10 quadri, presentandocelo per il 90% a SanBasilio (scena con i monelli e incontro con Boris, senza il lamento) e per il restante 10% spedendolo in gita-premio a Kromy, solo per esalarvi il suo lamento fatalista sulle misere sorti e regressive della povera madre Russia.

 
Peraltro, dal recuperato quadro di Kromy sono spariti (anche se permangono sulla carta del programma di sala) oltre al 90% dell'Idiota (per i motivi già spiegati) anche i due gesuiti polacchi, quelli che se ne vanno in giro, quasi fossero un'avanscoperta del falso Dimitri, recitando litanie in lingua latina e inneggiando al pretendente-zar. Trovandosi quindi in una imbarazzante situazione, che rischia di fargli fare una brutta fine, poi evitata dal provvidenziale arrivo dello stesso Dimitri: essere dalla parte della folla anti-Boris, ma contemporaneamente invisi, in quanto cattolici, a quella medesima folla di ortodossi, che li tratta come fastidiosi pipistrelli da impiccare. Regista (e direttore?) devono essersi accorti (un po' tardi!) che la presenza a Kromy dei due gesuiti polacchi è una diretta conseguenza (logica, drammatica ed estetica) dell'inserimento nell'opera dell'atto polacco! Quindi si attaglia perfettamente alla versione 1872, mentre ci sta come i cavoli a merenda in quella del 1869, dove di tutte le vicende polacco-gesuitiche di Grigorij-Dimitri nulla viene presentato! Ci voleva proprio quest'altra dimostrazione dell'incompatibilità di Kromy con la versione 1869? Mamma mia…

 
In definitiva: Konchalovsky-Noseda, forse - e senza forse - presi dalla smania di strafare, o illudendosi addirittura di passare alla storia, hanno scelto il peggio degli approcci – già di per sé discutibili - di molti loro predecessori: compiendo quindi un'operazione cervellotica e falsamente innovativa. Il risultato è che lo spettatore non assiste a nessuna delle due – splendide, nella loro diversità – versioni di Musorgski, né a quella musicalmente eccelsa di Rimsky, ma ad un pasticcio che certo accontenterà gli spettatori à-la-Taruskin, ma che lascia un po' di amaro in bocca a chi ha un minimo-minimo di conoscenza degli originali (fatta ad esempio ascoltando le due versioni registrate da Gergiev negli anni '90, che pure avranno qualche pecca, ma sono di certo il meno-peggio in circolazione, in fatto di rispetto dell'Autore). In definitiva, a me pare trattarsi di una – ennesima, e ahinoi non sicuramente ultima - versione-usa-e-getta, non certo destinata a proporsi come pietra miliare nella storia dell'interpretazione del Boris.
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11 ottobre, 2010

La Salome di Carsen al Maggio



Il Maggio fiorentino ripropone la Salome nell'allestimento di Robert Carsen (già ospitato un paio di stagioni or sono dal Regio di Torino). Ieri teatro quasi al completo. Sul podio non c'è Mehta, contrariamente a quanto risultava dal primissimo annuncio della stagione autunnale, e nemmeno il sostituto Carignani. Ma il veterano mestierante Ralf Weikert.
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Quanto alla messinscena, Carsen è uno di quei registi perennemente in cerca di novità interpretative e con la testa che è un vulcano di idee, quasi sempre geniali, ma di un genio cui spesso si accompagna la sregolatezza. E questa sua Salome è proprio un classico esempio di uso solerte e perverso al tempo stesso della materia grigia: insomma, un Carsen in versione dr. Jekyll e mr. Hyde.
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Cominciamo con l'ambientazione: alla trita cartapesta del palazzo di Palestina, Carsen preferisce enormi pareti di latta di un caveau di LasVegas (forse siamo al CaesarPalace, a giudicare dai costumi di alcune comparse, a metà fra l'egizio, l'assiro-babilonese e il carnevalesco). La cosa non deve scandalizzare, caso mai ci si può chiedere perché proprio LasVegas e un caveau. Chissà, dato che il regista è uso fare scavi sociologici e psicologici, può darsi che il suo subconscio abbia fatto emergere l'avversione di un canadese per la (in)civiltà dei merdosi cugini yankee, di livello assai prossimo a quella di Erode&C. Quanto all'oro che scorre a fiumi nel caveau, bisognerà tener conto che Salome comporta la presenza di ebrei, notoriamente stereotipo di padroni della finanza globale.
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E a proposito di ebrei, oltre al dileggio – ma sopraffino, proprio à la Wagner – che Strauss gli riserva con la sua musica che imita la cantilena yiddish, Carsen rincara la dose, presentandoci due dei cinque giudei nelle vesti di trans. Per la verità, ne ha anche per i cristiani (i due Nazarener) che appaiono vestiti da becchini, forse ministri di qualche più o meno nota setta nordamericana.
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Per restare alle piccolezze, ai dettagli, Carsen infila qua e là qualcosa a metà fra il becero e il goliardico, come Herodes che si strofina sul …ehm (cavallo dei pantaloni) la mela che offrirà a Salome. O Herodias che copula con un paggio durante la bevuta del marito con i compari, oppure uno dei trans giudei che si butta a pesce sullo smeraldo invano offerto dal tetrarca alla figliastra in cambio della testa di Jochanaan. Ma Carsen mostra anche di saper essere – quando vuole – fedelissimo al testo: il povero Narraboth, al momento di suicidarsi, invece di spararsi un colpo in bocca con la 45magnum di ordinanza che porta alla cintura, estrae un pugnale e se lo conficca nel ventre!
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Bella e nobile, invece, la scena dell'incontro di Salome con il profeta: sparisce la latta di LasVegas e Jochanaan appare su un appropriato sfondo desertico (che sia il Nevada o il Negev ci importerà poco). Lui e la ragazza restano soli, sulla scena assolutamente vuota, in modo da lasciare tutto lo spazio disponibile per… la musica del mago Strauss!
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Bando all'esteriorità, veniamo ai personaggi. Devo dire che qui Carsen è maestro, seriamente: tutti assolutamente centrati, a cominciare proprio da Salome, una ragazza che ne ha addosso di tutte: vizi, perversioni, turbe sessuali, ingenuità incredibili, paure, superbia, instabilità psichica; insomma, tutto quello che da millenni ormai l'immaginario collettivo associa a questa Lolita ante-litteram. Che è però, in fondo, ancora una ragazzina, se è vero che entra in scena emozionata, confessando di non capire perché Herodes la guardi così! E il Carsen – quello in versione dr. Jekyll - ce ne dà un'immagine oserei dire perfetta.
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Peccato che poi il nostro si trasformi, per circa un quarto d'ora, in mr. Hyde. E trasformi con sé, temporaneamente, anche la ragazza, affibbiandole i tratti – materiali e comportamentali – della madre. Facendone cioè – per la scena-madre dell'opera - una laida puttanona. Abbigliata ed acconciata (colore dei capelli incluso) come quella baldracca di sua madre. Che lei sia, come dirà, dopo la danza, Herodes: in Wahrheit ihrer Mutter Kind! (tutta sua madre) è vero, ma ciò riguarda esclusivamente la cocciutaggine e l'ostinazione del suo carattere. Invece è del tutto falso se si confrontano le personalità di madre e figlia, descritte – in primis – dalla musica di Strauss. Ed è persino inverosimile anche dal punto di vista dei desideri sessuali di Herodes, che di certo non saprebbe che farsene di una Herodias-due-la-vendetta!

Ma è sommamente disdicevole sul piano estetico, chè questa (provvisoria, onirica) identificazione trasforma la più straordinaria Tanz mai musicata in uno spogliarello di quart'ordine, di quelli che si vedevano anche a fine '800 in qualche scantinato di New York, con tanto di divaricazione di gambe, arieggiamento di passera a mezzo veletta, e strusciamenti vari addosso ad una coorte di altrettanto bavosi maschiacci, che non trovano di meglio che denudarsi e masturbarsi davanti a lei, e di fronte al pubblico in sala. Il tutto mentre alle orecchie di detto pubblico giungono suoni come questi:

Insomma, invece di un'enorme carica erotica, ciò che questa scena sprigiona è puro e semplice, e schifoso sesso venduto un-tanto-al-kilo. E davvero, poche volte una così forte divaricazione tra ciò che la musica esprime e ciò che il regista ci mostra è stata realizzata in un teatro. Proviamo a farci una semplice e banalissima domanda: se a Richard Strauss fosse stata presentata questa scena e gli fosse stato chiesto di musicarla, ci avrebbe scritto quella musica della sua Salome? Non sarà superfluo ricordare ciò che lo stesso Strauss – non so se mi spiego – scrisse testualmente, a proposito della sua creatura: …Salome (…) deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti (…) invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore. Ecco, questo è ciò che suscita appunto la scena-madre dell'opera, selon Carsen.

Conclusa la quale scena, il nostro rientra nei panni del dr. Jekyll e Salome in quelli di… Salome. Prima della fine c'è però ancora tempo per una goliardata: una partita di palla-prigioniera in cui i compari e le comari del tetrarca si lanciano la testa mozzata di Jochanaan.
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Poi Salome chiude davvero in modo straordinario ed emozionante - pienamente in linea con il suo carattere e con i risvolti necrofili della sua personalità - con il voluttuoso, liberatorio bacio sulla bocca del profeta, finalmente tutto suo, come aveva testardamente desiderato. Dopodichè esce di scena – e da quel mondo per lei invivibile - dal fondo, verso il deserto, prima ancora che Herodes ordini ai suoi scherani di sopprimerla.
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Musicalmente?

Una grande (grandissima?) Janice Baird, voce potente, calda, chiara, espressiva. Le perdoneremo un paio di piccoli cali, ma davvero è stata eccellente, fino all'ultimo LA# dell'ultimo geküsst. Per lei un trionfo in piena regola.
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Mark S.Doss è ormai un punto di riferimento per Jochanaan. Non avrà – causa eccessiva abbronzatura, direbbe il nostro simpatico P.M. – la pelle bianca come le nevi di Giudea, ma la voce c'è tutta, e anche più. Personalmente – ma non glie ne faccio certo una colpa! – trovo il timbro della sua voce un tantino cupo per rappresentare un profeta che – contrariamente all'immaginazione nostra, e all'idea iniziale della stessa Salome – non è affatto un vegliardo, ma è addirittura giovanissimo. Grandi applausi anche per lui.
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Herodes era l'albionico Kim Begley: più che discreto, mi sento di dire, sul lato vocale, e davvero eccellente su quello attoriale.
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Alla Herodias di Irina Mishura darei un'ampia sufficienza: la musica che Strauss le affibbia non è delle più comode, ma lei vi ha tenuto dignitosamente botta. Eccellente anche lei nella recitazione.
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Narraboth era Mark Milhofer, vocina piuttosto debole e spesso superata dall'orchestra (colpa di Weikert?) Anche Jennifer Holloway (paggio en-travesti della regina) ha faticato a farsi sentire già a metà platea. Tutti più che all'altezza dei rispettivi compiti gli altri del cast.

Il povero Ralf Weikert è stato l'unico a beccarsi due o tre buh all'uscita. Per me francamente ingenerosi e forse più motivati dal disappunto per le defezioni di Mehta prima e Carignani poi, che da effettivo demerito. Del resto, dovendo sostituire il Kapellmeister a pochi giorni dalla prima di una simile opera non si poteva – credo io – far di meglio che ricorrere ad uno che almeno la Salome l'ha già diretta più e più volte e – vista l'anagrafe – deve essere anche rotto a tutti gli imprevisti.
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In conclusione: grazie al Maggio per averci ancora regalato, Bondi funestante, uno spettacolo di alto livello e di averci permesso di provare emozioni che certa musica non cessa mai di suscitare.
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09 ottobre, 2010

La Medea lombarda passa da Brescia

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Il Circuito Lirico Lombardo, che riunisce alcuni Teatri di tradizione della Regione, in questo mese di ottobre sta portando in quattro città (nell'ordine: Cremona, Brescia, Pavia e Como) la Medea di Cherubini. L'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, diretta da Antonio Pirolli, con il coro di Antonio Greco e la regìa di Carmelo Rifici. Dopo le due applaudite recite al Ponchielli, ieri sera è stata la volta dell'apertura di stagione del bi-secolare Grande di Brescia, non proprio esaurito (ma con scarsissime defezioni nei due intervalli, meno male) per questa prima assoluta, nel teatro che lanciò la Butterfly, dell'opera del fiorentino che fece fortuna a Parigi, a cavallo fra '700 e '800.
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L'originale di Cherubini è in francese (Médée, testi di François-Benoit Hoffmann) ed è un Singspiel (detto alla tedesca) in piena regola e non per nulla tale Beethoven ne fu entusiasta. La versione che viene qui presentata è però quella in italiano (testi di Carlo Zangarini, dei primi del '900) e soprattutto ha i recitativi musicati da Franz Lachner a metà '800, il che significa che un buon 20% della musica che si ascolta non è precisamente farina del sacco di Cherubini (clamoroso in proposito il recitativo Numi, venite a me, di Medea e poi Neris, all'inizio del terzo atto, che dura più di 5 minuti, tutta merce contraffatta, che però continua ad essere spacciata per Cherubini!) E, a proposito di gusti del pubblico, certo che anche nell'800 erano ben strani: se, pur di avere meno parlati e più musica, si ricorreva a far musicare i parlati dal primo musicista che passava per strada (con tutto il rispetto per Lachner!) Di questa moda, oltre a Cherubini, fu vittima illustre – anni dopo – Georges Bizet con la sua Carmen. Ma, chiedo io, che cosa ci guadagna un'opera di un grande ad essere inquinata da qualche mestierante? Tanto varrebbe (come si è fatto) eseguire solo i numeri musicati dall'Autore. E poi, perché di questi scempi non furono vittime – tanto per esemplificare, che io sappia - Mozart (Die Entführung, Die Zauberflöte) e Beethoven (Fidelio)? Forse perché per essi (al contrario di un Cherubini o di un Bizet) vigeva il reato di lesa maestà?

Però la cosa paradossale – vedi un po' come va il mondo… - è che la versione inquinata è proprio quella che diventa celebre ovunque: vale per la Carmen adulterata da Guiraud, e vale per Medea, che con i testi di Zangarini e i recitativi di Lachner è divenuta (quasi) celebre anche in Italia, soprattutto dall'ultimo dopoguerra e grazie ad un'interprete straordinaria: la Callas dei primi anni alla Scala. Ed è quindi fatale che ogni soprano che si cimenti oggi nel ruolo debba in qualche modo passare sotto le forche caudine del confronto a distanza con la grande Maria, di cui ci sono rimaste diverse registrazioni, dirette da Gui, Serafin, Bernstein, Schippers, Rescigno. Maria Billeri ha affrontato l'impari sfida con gran coraggio e non solo non ha demeritato, ma è stata la trionfatrice della serata, ricevendo un'interminabile ovazione all'uscita singola. Ma (quasi) tutte le arie sono state applaudite a scena aperta, e tutti gli interpreti accolti calorosissimamente alla fine della lunga fatica.

In effetti tutti - singoli e Coro - si sono attestati su uno standard più che dignitoso. Eleonora Buratto è stata una brava Glauce (Dircé) cui tocca l'arduo compito di rompere il ghiaccio con la prima, lunga e difficile aria O Amore vieni a me: voce calda e pulita, ben adatta per la parte della giovane figlia di Creonte, presa tra la dolce prospettiva dell'amore e i cupi presentimenti di disgrazie. Luca Tittoto era Creonte, e ha tenuto la scena con grande autorità (proprio come si conviene ad un sovrano…) Il Giasone di Lorenzo Decaro ha una voce tenorile in alto e baritonale nella zona centrale-bassa, comunque si è ben portato, cantando in modo convincente la sua aria Or che più non vedrò, e sostenendo dignitosamente i confronti con Medea. Così come la Neris di Alessandra Palomba, bravissima nell'aria – mirabilmente introdotta dal fagotto obbligato - Solo un pianto con te versare del secondo atto. Le due Ancelle, Adriana Ballotta (vocina un poco tendente al metallico) e Maria Letizia Grosselli (voce più rotonda e gradevole) e Pasquale Amato (capo delle guardie del Re) coprono particine secondarie, che hanno comunque sostenuto al meglio. Come detto, il Coro di Antonio Greco ha mostrato grande compattezza e sicurezza, sia nelle scene serene – una delle quali sembra anticipare Lohengrin, nientemeno - che in quelle drammatiche.

Quanto a Pirolli, ha diretto con fiero cipiglio, senza mai abbandonarsi a slentatezze, sdolcinature o gigionerìe, e quindi nel pieno rispetto dell'austera e severa dottrina musicale cherubiniana (di quella di Lachner… meglio non far cenno). L'orchestra dei Pomeriggi, del resto, lo ha ben assecondato, sia nei sempre impervi passaggi strumentali (come i preludi dei tre atti) che nell'accompagnamento delle voci.

La messinscena di Rifici si muove nel filone – diciamo moderno, senza il post – del Regietheater, inteso come rivendicazione per il regista di libertà di ambientazione e di caratterizzazione di opere musicali. Una tipica scelta registica, ed è quella che Rifici compie, è di ambientare l'opera all'epoca in cui fu composta, quindi a cavallo fra '700 e '800 a Parigi. Un appiglio neanche troppo labile per scelta siffatta è costituito precisamente dallo scenario politico in cui Cherubini compose Médée, quello del post-rivoluzione, con tanto di richiami neo-classici al mondo della tragedia greca. Quindi non siamo in Corinto – comunque difficile a rappresentarsi adeguatamente in cartapesta – né in un indefinito tempo mitologico, ma in una specie di Louvre ai tempi di Napoleone. Dove i personaggi mitologici – ma anche gli oggetti della vicenda, vedi il vello d'oro - escono dalle relative rappresentazioni (pittoriche o scultoree) che la modernità ne ha dato. Insomma, un'idea non rivoluzionaria, men che meno dissacrante (penso già alla Salome di Carsen che vedrò domani al Maggio) ma nello stesso tempo per nulla banale. Il secondo e terzo atto sono forse meno efficaci, o forse troppo cerebrali: il museo che sbaracca e poi il museo che cambia destinazione, orientandosi alle scienze naturali (forse in omaggio ai serpenti che Medea vede nei figlioletti?) Però alla fine un quadro ritorna, nel generale sbigottimento: è quello che imprigiona l'immagine della sanguinante Medea, fresca assassina dei due figli: un'icona assai forte ed efficace.

È comunque una regìa intelligente, assecondata da collaboratori cui va il merito di aver saputo materializzare al meglio le idee del regista: Guido Buganza per le scene, Margherita Baldoni per i costumi di impronta napoleonica, Paolo Calafiore per le luci e Alessio Maria Romano per le non banali coreografie.

All-in-all, uno spettacolo degno in assoluto; e più ancora degno di approdare a ben più nobili lidi, dove ultimamente non si sta producendo granchè di meglio.
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08 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 5

 
Salvatore Accardo, in veste anche di Kapellmeister, ha presentato due opere di Mozart, nel quinto concerto all'Auditorium.

Senza podio né bacchetta per l'intero concerto, ha dapprima eseguito la Serenata Haffner. Imbracciando anche il violino - à la Boskovsky – nel secondo, terzo e quarto brano degli otto che costituiscono questa lunga e mirabile opera di un Mozart ventenne, e quindi già avviato verso il periodo della piena maturità. Complesso ridotto agli archi o poco più: i fiati classici. Esclusi invece i clarinetti, come pure i timpani (che un refuso del programma di sala cita nell'organico).

La prima parte della serenata comincia con l'Allegro maestoso, in RE maggiore, dove fa subito capolino, in corni e oboi, un frammento che anticipa scopertamente il Se vuol ballare delle Nozze.

Il secondo tempo (Andante, in SOL maggiore) chiama per la prima volta in causa il Violino principale, e qui Accardo comincia ad esibire la sua alta maestrìa, culminante nella cadenza, quasi concertistica, posta a 5 battute dalla conclusione.

Il terzo brano è un Menuetto in SOL minore, il cui incipit ci fa già intravedere quello – celeberrimo - della Sinfonia n°40. Emozionante qui il Trio, col Violino che guida la melodia, e i fiati – corni in evidenza - che lo accompagnano con garbo e delicatezza. Un gioiellino!

Ecco poi lo straordinario Rondò (Allegro) in SOL maggiore, col suo tema principale di semicrome in staccato. Sulle corone puntate che separano il tema principale da quelli secondari Accardo non manca di infilare delle mini-cadenze. Al termine depone lo strumento, e da qui in poi si limiterà a dirigere. Il pubblico - chi sa se per ammirazione o perché giudica finita la Serenata (che invece è solo a metà) - applaude calorosamente e Accardo ringrazia.

La seconda parte inizia con un nuovo Menuetto, aggettivato galante, in RE maggiore, con Trio in RE minore (e FA maggiore). Poi segue il secondo Andante in LA maggiore. Quindi il terzo Menuetto, che è in RE maggiore, con ben due Trii (SOL e RE).

Da ultimo, il Finale (Adagio, Allegro assai) in RE maggiore, tonalità d'impianto (come usano dire gli accademici). Qui è il fagotto che ha modo di mettersi in luce, chiamato a esaltanti, quanto difficili svolazzi di semicrome.

Esecuzione davvero impeccabile da parte del Maestro, ma anche di tutti i componenti dell'Orchestra, specie i fiati, qui a suonare, in pratica, come solisti. E meritati consensi da parte del (non proprio oceanico) pubblico.

Chiude il concerto la Sinfonia Linz (n°36, K425). Dove Mozart sposa il modello Haydn-iano, che prevede una introduzione in Adagio, prima dell'Allegro spiritoso, rigorosamente in forma-sonata. L'orchestra è ancor più leggera che nella Serenata: oltre ai clarinetti, qui vengono espulsi anche i flauti, ai cui leggìi si trasferiscono i fagotti, lasciando i loro posti alle trombe, per compattare l'ottetto dei fiati. In compenso appaiono i timpani, ma quella della brava Viviana Mologni è una presenza assolutamente discreta.

Nel Presto finale compare il secondo tema, nella tonalità di SOL maggiore (dominante del DO di impianto) che risentiremo nel Larghetto dell’ultimo concerto mozartiano, ma che sarà citato alla lettera – consciamente? - da Beethoven in una delle sue Sonatine per pianoforte:

Brillante e fresca – e rispettosa di tutti i ritornelli - l'esecuzione di Accardo, che trascina il pubblico in un lungo e strameritato applauso.

Prossimamente si torna all'accoppiata Schumann-Mahler, con un appuntamento tragico.

06 ottobre, 2010

Lo stomaco del maeschtro

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Mangiare a Chicago fa venire la gastrite.
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Mangiare a Roma la fa passare, però costa due milioni!
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Un Elisir per chiudere in gloria il 2009-2010 della Scala

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Ultimo titolo della stagione 2009-10 alla Scala: l'Elisir. Al centro dell'attenzione il redivivo Ronaldo... ah no, scusate l'anagramma, Rolando. Che pare intenzionato a passare dall'altro lato della barricata - un po' come ha fatto da tempo il suo semi-connazionale Topone, e come si appresta a fare la Ceci - dedicandosi all'ippica (ops... alla regìa del teatro d'opera). Forse perché la voce se ne sta andando per sempre? Ecco il tragico dubbio che assilla i melomani di mezzo mondo!

Sabato scorso, alla prima, pare che le cose fossero andate così-così, anzi benino, insomma meno peggio del temuto. Ieri sera è stato un autentico trionfo, per lui in particolare, ma con lui per tutti i protagonisti (incluso il simpatico cagnolino che per due volte ha attraversato il palco). Personalmente mi associo ai complimenti – anche se sono sempre abbastanza largo di maniche con gli interpreti, posto che non siano appunto dei… cani – dato che le mie orecchie (che sono quelle dell'uomo della strada, e non certo quelle di un esperto delle tecniche di vocalizzazione tramandate da tale Garcia) hanno ricevuto dal mexicano impulsi sonori sempre gradevoli e piacevoli, e assai coerenti con l'oggetto del canto medesimo. E non solo nella fatidica lagrima, accolta da ovazioni da stadio, ma già da subito, col pubblico ancora freddo e contratto, con la cavatina Quanto è bella, quanto è cara! Che ha evidenti somiglianze con un'altra, che pure si cala in uno scenario tutt'affatto diverso:


(Sì, perché ogni compositore si porta dentro dei cromosomi che poi affiorano qua e là, anche in contesti fra loro lontanissimi.)
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Anche la simpatica Nina (scusate, ma a me chiamare Nino una bella gnocca mi fa venir l'orticaria…) si è portata più che discretamente: o è migliorata nel frattempo, oppure in loggione i buatori di sabato erano momentaneamente distratti. Forse negli acuti ha una voce un po' chioccia, ma nella fattispecie adatta al contesto di una fattoria (smile!)
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Ambrogio Maestri è stato un Dulcamara divertente – gigione quanto basta, ma anche quanto si deve – e il suo vocione ha piacevolmente riempito l'enorme massa d'aria del Piermarini.
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Belcore, al secolo Gabriele Viviani, forse un po' sotto la media, ma non gli tolgo per questo la sufficienza. Così come alla Giannetta di Barbara Giannesi.
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Sempre all'altezza il coro di Casoni (colpevolmente omesso – vergogna! - dalla locandina web) e buone notizie anche dalla buca, che con questo Donizetti forse si ritrova meglio che con Bruckner. Immagino anche per merito del navigato Renzetti.
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Alla fine interminabili applausi e ripetute chiamate. L'ultimo tocco strappalacrime lo dà proprio Villazon con un furtivo… bacio al sipario, al momento del definitivo rientro.
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Quanto alla regìa, Laurent Pelly ci propina uno spettacolo assolutamente gradevole, fatto con intelligenza, gusto e humor. È chiaro che qui siamo all'Elisir, mica al Tannhäuser! E quindi poco o nulla a noi importerà se l'ambientazione è nella bassa padana e non – selon Scribe – nella bassa navarra, in un paesino che ha – toh! – lo stesso nome del protagonista Rolando (che all'anagrafe fa Emilio Rolando Villazón Mauleón) E se il tutto accade nell'ultimo dopoguerra italiano e non nel '7-800 francese. Ciò che ci importa è che dell'opera emergano i tratti caratteristici, che vanno dalla bonaria faccia tosta del sedicente dottore, all'ingenuità del ragazzotto di campagna; dalla spocchia del solito sergente che si crede chissàcchì solo perché ha un berretto in testa, all'ambiguità della figura della possidente, che mai si capirà se sia solo una ragazza con la puzza al naso, o una verginella piena di complessi, o magari una sgualdrinella in piena regola…
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Ecco, con un raggio di luce ed un sorriso la stagione scaligera esaurisce i 12 titoli, dopo non pochi stenti e più di un buco nell'acqua (a proposito: prima di SantAmbrogio ci sarà ancora una recrudescenza di Carmen… come non bastassero le influenze autunnali). Non ci resta che sperare che le cose migliorino prossimamente (anche perché scendere sotto questa media sarebbe impresa obiettivamente ardua). Buon 2010-11!
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01 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 4


Ancora Mahler, stavolta con l'amato (fin troppo?) Schumann, per il quarto concerto de laVerdi, sempre con Xian Zhang sul podio.

Mahler è stato per Schumann ciò che Rimsky-Korsakov fu per Musorgski: il riorchestratore delle sue opere. L'intento – in entrambi – è nobile: come scrisse il boemo far emergere tutto ciò che si trova in germe dentro l'opera e ciò che ha intravisto l'immaginazione del compositore…

Naturalmente c'è sempre chi si pone alcune più che legittime domande: ma non aveva diritto Schumann (come Musorgski più avanti) di scrivere musica come la sentiva e come gli pareva? E non sono quindi gli interventi dei Mahler e dei Rimsky da considerarsi arbitrari e - in definitiva – censurabili? E ciò che si fa passare per orchestrazione carente, non è per caso un punto di forza dell'opera originale? E operazioni fatte (in perfetta buona fede?) da un Mahler o da un Rimsky, non rischiano di creare fastidiosi precedenti, aprendo le porte ad ogni tipo di cervellotico intervento in campo altrui?

In effetti, se si accettano in linea di principio ritocchi à la Mahler o à la Rimsky, allora persino un tale Beethoven potrebbe definirsi perfezionabile, e un tale Wagner potrebbe essere doverosamente sottoposto a qualche sverniciatura e maquillage! Ma soprattutto il flagello dei rimaneggiamenti potrebbe abbattersi proprio su Mahler, che quasi mai lasciò in pace una sua sinfonia, dopo averla licenziata.

Questione di principio? Di lana caprina? O più semplicemente di abitudini e/o di mode? Forse – come sempre del resto – dipende. Intanto: dalla quantità, qualità e profondità degli interventi. Quelli di Rimsky su Musorgski furono tanti e profondi, al punto da (quasi) stravolgere gli originali: anche l'orecchio più disattento si accorge della differenza fra il Boris, la Kovancina e il Monte Calvo originali e le rispettive versioni di Rimsky. Quelli di Mahler su Schumann furono assai meno drastici, più che altro indirizzati a ritoccare l'agogica o a far risaltare le linee principali della melodia: e l'orecchio dell'ascoltatore medio e non-addetto-ai-lavori può facilmente scambiarli per scelte interpretative del Direttore di turno. In ogni caso, sta sempre a noi giudicare il risultato estetico dell'operazione.

Ecco quindi la Quarta del grande Robert come ritoccata dal grande Gustav. Come nella sua prima, scritta quasi contemporaneamente (la quarta diventerà tale 10 anni dopo, e dopo… revisione!) Schumann finge di attenersi alle sacre regole dei padri fondatori della sinfonia (introduzione lenta al Vivace del primo movimento) ma poi si sbizzarrisce in innumerevoli innovazioni (non per nulla Mahler ne avrà grande considerazione): temi che ritornano ciclicamente – quello dell'introduzione riappare nella successiva Romanza e l'assolo del primo violino in questa torna nello Scherzo; l'ultimo movimento riprende il tema principale del primo, etc. – e frequenti colpi di teatro, a interrompere il regolare flusso dei temi, oltre a libertà ardite, come la conclusione imprevedibilmente zoppa dello Scherzo.
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Xian Zhang la esegue con piglio quasi espressionista, proprio mahleriano si direbbe: niente ritornelli e tempi piuttosto rapidi e nervosi. Bravi gli ottoni, impegnati alla grande, così come il Konzertmeister Luca Santaniello, negli assoli della Romanza, accanto ai quali compare un motivo che Mahler ricorderà al momento di chiudere l'ultimo dei Kindertotenlieder:

E in fatto di richiami, se non proprio di citazioni, nell'ultimo movimento troviamo il secondo tema, inizialmente esposto in LA maggiore (dominante del RE di impianto) del cui caratteristico procedere si ricorderà Bruckner nel finale della sua sesta, anch'essa in LA:
Come si vede, i rimandi e i legami – più o meno forti o labili – fra Schumann e i sinfonisti tardo-romantici sono sparsi un po' ovunque.

In complesso un'esecuzione assai pregevole ed apprezzata, quella dei verdiani, gratificata da consistenti applausi, di un pubblico (peccato) non proprio da tutto-esaurito.

Ecco poi la Quarta di Mahler, che era stata introdotta, prima del concerto, nel super-affollato foyer sotterraneo dell'Auditorium, da una fulminante ed acclamata presentazione del prof. Federico Lazzaro. Opera solo apparentemente leggera e innocente, ma in realtà zeppa di segnali e riferimenti lugubri, macabri e irriverenti. A cominciare dai sonagli dell'inizio e dalla trombetta che anticipa la marcia funebre della quinta, per continuare con il violino dis-accordato dello Scherzo (che Santaniello si tiene a portata di mano sul seggiolone del pianoforte) che è – secondo le credenze antiche –suonato nientemeno che dalla morte!
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E poi, a proposito di scenari da tocchiamoci le p…, nel terzo movimento (Ruhevoll) compare una citazione, che è allo stesso tempo un'anticipazione: un inciso dall'Aida, ultima scena (tombale, vero?) che diventerà poi il tema del secondo dei necrofili Kindertotenlieder (nb: Xian Zhang qui è stata stre-pi-to-sa!):
Da cui si conferma l'attitudine di Herr Kapellmeister Mahler (sarcasticamente biasimata dai suoi detrattori) a ricordare nelle sue opere molto di ciò che dirigeva di opere altrui; ma da cui allo stesso tempo si desume l'intima coerenza di tutta la musica del boemo, la cui intera produzione si potrebbe – in senso lato – considerare come un'unica, ininterrotta, grande opera.
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E a proposito di innovazioni, la sinfonia si chiude con un Lied, per interpretare il quale è arrivata sul palco (fra secondo e terzo movimento) la brava Inger Dam-Jensen. Una cosa da tarallucci e vino …in paradiso. Con Erode e sanLuca in veste di macellai, e non meno di undicimila vergini che si mettono a danzare con l'orchestrina della santaCecilia!

Finisce però nel più celestiale dei MI maggiore, con la Dam-Jensen (peraltro di vocina assai piccola) a spiegarci che le voci angeliche ridestano i sentimenti:

Poi tutto sfuma, in ppp, sul MI gravissimo dell'arpa, non a caso dislocata subito dietro i contrabbassi, che la rilevano per chiudere sul MI grave, morendo, su una corona puntata che Zhang prolunga religiosamente per parecchi secondi. Ma, in fondo, a noi resta sempre il dubbio (giusto, cari Arnim&Brentano?): era, o no, solo un paradiso di cartapesta?

In ogni modo, a questo paradiso il pubblico dell'Auditorium riserva un'accoglienza più da stadio che da chiesa!
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La prossima settimana un gradevole intermezzo mozartiano, ospite il venerabile Salvatore Accardo.
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27 settembre, 2010

Il Boris (ma quale?) inaugura la stagione del Regio-TO


Martedi 5 ottobre Gianandrea Noseda dirigerà – per l'apertura della stagione del Regio di Torino - Boris Godunov di Modest Musorgski (ore 20, diretta su Radio3).
Che il Boris – inizialmente per mano dello stesso Musorgski e successivamente di Rimsky e altri, Shostakovich incluso – sia stato visto, rivisto, mutato, trasmutato, avvolto e stravolto infinite volte, è un dato di fatto, e forse nemmeno esiste un elenco esaustivo di tutte le versioni impiegate, da 130 e più anni in qua, per le rappresentazioni dell'Opera.
Però al melomane medio, quello che legge qualche libro, va qualche volta a teatro e compra qualche CD o DVD, risultano fondamentalmente: le due versioni originali dell'Autore (1869, in 7 quadri, e 1872, in 9 quadri accorpati in un prologo e 4 atti); la splendida (checché se ne dica) seconda versione di Rimsky (1908, che rimaneggia l'originale del 1872, e ne inverte i due quadri finali) e i pastiche di Pavel Lamm e poi di David Lloyd-Jones, che praticarono la fusione fredda delle due versioni, aggiungendo alla seconda il quadro espunto dall'Autore, all'inizio del quarto atto, per un totale quindi di 10 quadri.
Ma adesso arriva il creativo Andrei Konchalovsky che si inventa – in combutta con Noseda - un nuovo, ennesimo Boris, sommariamente descritto sul sito del Regio: è la prima versione, del 1869, ma rivoltata come un calzino (ordine invertito fra i quadri 2 e 3) e con aggiunta di ingredienti di quella del 1872 (il quadro di Kromy, infilato fra gli ultimi due). In tutto: 8 quadri più un …epilogo. Effettivamente può darsi che sia quindi una vera e propria prima mondiale!
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Riporto dal sito del teatro (sottolineatura mia): Gianandrea Noseda e Andrei Konchalovsky propongono una versione originale frutto di interventi drammaturgici sull'Ur-Boris con una nuova successione di scene che rispettano la cronologia degli accadimenti storici. Ecco, l'ultima frase è proprio da incorniciare, perché fa sorgere una domandina da nulla: da quando in qua il compito di un regista e di un direttore non è più quello di portare in scena un'opera come l'ha concepita il suo Autore, ma di fare della divulgazione storico-scientifica? Che il Boris (anzi, il doppio Boris) di Musorgski ci racconti vicende storiche è scontato, ma a noi che cosa importa? Vedere ed ascoltare l'Opera originale, o andare ad una lezione di storia, dove l'Opera viene stravolta? Chè, se fosse quest'ultimo il nostro obiettivo, allora dovremmo accettare, anzi reclamare, ristrutturazioni delle scene del Don Carlos, dei Vespri, dei Puritani, della Bolena e financo dell'Andrea Chénier!
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Nel caso specifico, la cronologia degli accadimenti storici – che ha determinato la struttura drammatico-musicale dei due Boris (pur tra loro così diversi) - è quella che Musorgski ha mutuato dal Boris di Pushkin, il quale a sua volta la mutuò dalla Storia dello stato russo di Nikolaj Michajlovich Karamzin. E i Boris di Musorgski dovrebbero restare quindi come furono composti, indipendentemente da qualunque ri-scoperta storica sia stata fatta in tempi successivi. Quindi sappiamo senza ombra di dubbio che l'incoronazione di Boris (quadro 2) avviene pochi mesi dopo le manifestazioni a Novodevici (febbraio 1598, secondo Pushkin, quadro 1) mentre la vicenda di Pimen e Grigori (quadro 3) è collocata da Pushkin cinque anni dopo (1603)! Orbene, come si possa ristabilire una cronologia di accadimenti storici invertendo l'ordine dei quadri 2 e 3, cioè facendo precedere il 1598 dal 1603, è cosa davvero stupefacente! Così come lo è l'inserimento del quadro di Kromy fra i due quadri finali e quindi - proprio à la Rimsky – non dopo, ma prima della morte di Boris; salvo poi spostare l'imprecazione dell'Idiota alla fine, come epilogo del dramma. Tutti questi interventi equivalgono ad un vero e proprio inquinamento (e quindi snaturamento) della versione del 1869 – quella che si dichiara di voler mettere in scena - con quella del 1872, che sappiamo essere radicalmente diversa come spirito, focus e struttura drammaturgica (hai detto niente!) Insomma, si scimmiotta Rimsky proprio mentre si dichiara di volersi rifare all'originale di Musorgski.
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Dopodichè, per carità, possiamo ben sperare che lo spettacolo regga ed abbia successo; anche se resta l'impressione di essere di fronte alla solita manìa di protagonismo di un famoso regista cinematografico – cui regge bordone, duole dirlo, Noseda – che deve per forza stupire (e giustificare la parcella) con idee intelligenti ed innovative. Mentre invece Konchalovsky-Noseda non inventano nulla che chiunque di noi non possa realizzare – o aver già realizzato – a casa propria. Un Boris che inizia con l'arioso Ho il potere supremo, e poi va in flash-back a Novodevici? Un altro che principia dall'incontro di Marina e Grigori, poi salta a Kromy, quindi in Lituania e da lì al Cremlino? No-problem: c'è iTunes che ci consente di sequenziare gli MP3 a nostro sentimento. Anzi, una interessante feature del gadget di Steve Jobs risiede nella possibilità di riproduzione random dei diversi brani: così si possono realizzare migliaia, che dico, milioni di nuovi Boris! Pane e companatico assicurati per almeno tre generazioni di registi e direttori. E del resto – taluno ragiona - se il compositore per primo ha fatto una volta strame della sua creatura, perché vietare ad altri di seguirne le orme?
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24 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 3


Capienza dell'Auditorium (sia sul palco che in sala) messa a dura prova dalla Terza di Mahler, che ha dimensioni sterminate sia come numero di esecutori – dove è superata solo dalla ottava - che come durata. Affollatissimo – gente in piedi - anche il foyer, per la conferenza introduttiva, tenuta subito prima del concerto dal professor Giacomo Albert. Preziosissimo il contributo – riprodotto sul programma di sala – dell'indimenticabile Sergio Sablich.
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Ascoltare dal vivo queste sinfonie – mettiamoci anche la seconda, non dico l'ottava – non capita tutti i giorni. E in fondo è un bene, poiché son pietanze che, ingerite troppo di frequente, finirebbero per stomacarti, e farti correre in farmacia a prendere un alka-selzer, o chiedere alla moglie una settimana di brodino caldo fatto col dado-liebig.
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Ma, diciamo, una volta l'anno – come il cappone a SanSilvestro, o il Neujahrskonzert da Vienna – ci può stare… Nel mio caso personale ho esagerato, avendo già trangugiato questa adorabile mappazza a Bologna in primavera! E ad ottobre qui all'Auditorium ci sarà la Auferstehung (mi vien da ringraziare il cielo che Abbado e Pappano ci siano stati risparmiati a giugno…)
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Dunque, la terza del boemo, che ci spiega nientemeno cosa gli raccontano le diverse manifestazioni del creato. È un interminabile (100 minuti, ieri sera!) sentiero che parte dalle montagne del Salzkammergut per arrivare fino a …Dio! Transitando magari – in un giorno di festa - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche; camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne dal defunto cuculo all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani (pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore, nella fattispecie tale Beethoven! (poi supportato qua e là da un creatore-bis, a nome Giuseppe Verdi.)
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Tardo-romanticismo, come si legge su qualche affrettata recensione, con definizione ambigua e vago compatimento. Oppure megalomania da quattro soldi. O anche retorica sesquipedale. Sarà, ma – presa in dosi ragionevoli – continua a raccontare qualcosa anche a noi, scafati post-moderni.
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Enorme trionfo per tutti: la finlandesina Monica Groop, i cori delle signore di Erina Gambarini e dei ragazzini/e di Maria Teresa Tramontin, candidi/e come angioletti, il postiglione Alessandro Caruana (che si è fatto sentire da dietro le quinte - immagino prendesse gli attacchi dalla Zhang ripresa da una telecamera) e naturalmente la cinesina dei navigli, che si proponeva di mescolare Walter e Bernstein, ma in fondo deve aver diretto come …Mahler!
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Il prossimo concerto vede ancora protagonista l'inattuale boemo, insieme a quello che ne fu di certo l'ispiratore: Robert Schumann. E sarà ancora Xian Zhang a dirigerne le quarte.
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23 settembre, 2010

L’Occasione rossiniana alla Scala


Il penultimo appuntamento della stagione della Scala è dedicato a Rossini – che così raggiunge Wagner e Verdi, come autore più eseguito nel 2009-2010 - e agli artisti dell'Accademia scaligera, interpreti di L'occasione fa il ladro con la messinscena – gallina vecchia fa buon brodo – del grande e mai abbastanza compianto Ponnelle. Teatro assai affollato (solo qualche buco in platea) per questa farsa – burletta per musica, per la precisione – di un Rossini ventenne, che sprizza genialità da tutti i pori.

Una bella vetrina per i giovani dell'Accademia, che sono il prodotto del vivaio scaligero; importante la presenza femminile in Orchestra - quasi la metà dei 50 esecutori! - e tutte interessanti le voci sul palcoscenico. Trionfo in particolare per la negretta Pretty Yende (Berenice, qui con Bocelli nel suo SudAfrica) e grandi applausi anche per Leonardo Cortellazzi (Alberto); ma anche gli altri (Massimo Cavalletti in Parmenione, Evis Mula in Ernestina, Jaeheui Kwon in Eusebio e Filippo Fontana in Martino) non hanno affatto demeritato.
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Daniele Rustioni (che ha preso lezioni da Davis, Masur e Noseda) ha diretto i giovani con bel piglio, facendo emergere i tesori di questa partitura, un gioiellino in cui si intravedono già squarci di ciò che Rossini comporrà di lì a poco, nel campo del buffo, ma anche tracce di romanticismo.
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