Da
qui a Pasqua l’Auditorium vedrà il Tjek protagonista di altri tre
programmi, culminanti nel rossiniano Stabat Mater della Settimana
Santa. I primi due sono dedicati ai 150 anni di Maurice Ravel: ieri e
domani il 23° concerto
della stagione principale e questo pomeriggio uno straordinario da
camera,
due
programmi in cui il Direttore Musicale sarà affiancato dal 64enne
compatriota armeno Sergei Babayan (stabilitosi in USA dopo la caduta
dell’URSS) oggi uno dei pianisti più acclamati, e già ospite qui nel 2018 con
il celebre Concerto di Ciajkovski.
L’impaginazione del concerto ha qualche rassomiglianza con quella del 9 giugno 2023 (interprete Kirill Gerstein con Wayne Marshall sul podio) per la contemporanea presenza dei due concerti pianistici (in SOL e in RE per la mano sinistra) e del conclusivo Boléro.
In un Auditorium letteralmente preso d’assalto, Babayan ha quindi aperto la serata con il Concerto per pianoforte e orchestra in Sol maggiore. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale: evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin (Rapsody in blue)!
Tutto il concerto (a parte l'Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell'iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, come qui:
Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Le prime 33 battute (3/4, MI maggiore) sono affidate al solo pianista, che con la mano sinistra scandisce un ritmo quasi di walzer in 3/8 (battere su nota singola, levare su accordi di due note, e continuerà così – con rare eccezioni - per il resto del movimento) mentre la mano destra descrive la melodia:
In
esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno
inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.
Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti (ieri Orsolya Juhasz e Andrea Magnani) sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.
Babayan
ne dà un’interpretazione trascendentale: sapiente impiego del rubato nel
movimento iniziale; tensione massima nell’Adagio, senza peraltro cadere in
eccessiva sostenutezza; tecnica stupefacente nel Presto conclusivo.
Uragano di applausi per lui, per il Direttore e tutta l’orchestra, con i suoi solisti.
- le lettere H, A e D (in blu nel seguito) sono direttamente riconducibili (notazione tedesca, dove H è SI naturale, mentre B è SIb) a SI, LA e RE;
- per decodificare le altre lettere (nel nostro caso Y e N) basta affiancare alle 26 lettere dell’alfabeto gruppi di 7 lettere (A-G) corrispondenti alla scala diatonica (LA-SOL) trovando quindi la corrispondenza fra la lettera da codificare in musica e la nota corrispondente nella notazione inglese-tedesca (e da qui a quella latina)!
Ecco quindi il risultato finale per HAYDN: H=SI / A=LA / Y>D=RE / D=RE / N>G=SOL
[Applicando questo metodo il nome RAVEL diventerebbe R>D=RE / A=LA / V>A=LA / E=MI / L>E=MI, quindi la sigla musicale sarebbe RE-LA-LA-MI-MI]
Ravel sottopone poi il tema ad alcuni classici trattamenti fiamminghi…
Insomma, un brano più… matematico che musicale! Che però Babayan ha saputo impreziosire con il suo estro.
Una curiosità: solo per questo brevissimo brano, lui si è portato dietro un tablet con lo spartito…
Qui Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.
Babayan
davvero si supera, aggredendo letteralmente questa ostica partitura, le sue
massacranti cadenze, i rari squarci di sereno: sono meno di 20 minuti tutti divorati
d’un fiato, che trascinano il pubblico ad
un entusiasmo al calor rosso.
Così ci viene servito anche il bis finale (con il Tjek accomodatosi in prima fila di platea a goderselo): quasi a voler riportare la pace in sala, Babayan ci gratifica di un autentico atto d’amore, firmato Arvo Pärt!
Qui
in Auditorium la sequenza si inverte ed è Haydn a salutare per primo noi del
pubblico proprio come salutò, in quel lontanissimo 1772, i ruvidi Esterhazy:
con la sua Abschieds-Symphonie. Rispettata sostanzialmente anche
la coreografia: niente candela lampadina da spegnere sui leggii, ma orchestrali
che si dileguano lasciando costernato il povero Kapellmeister. Che
viene lasciato solo (a far alzare le… sedie) da Lycia Viganò e Luca
Santaniello, gli ultimi a salutarlo.
Poi tutti quanti rientrano in scena per godersi il meritato trionfo.
Che dire? Che il calor rosso è diventato bianco!!!
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