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28 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 14

Il settimanale appuntamento con laVerdi - Claus Peter Flor ancora sul podio - ci riserva una Carmen tutta speciale.     

Prima di un Bizet arrangiato è però la 50enne tulipana Quirine Viersen (tornata in Auditorium dopo quasi tre anni) a proporci il Primo Concerto per violoncello di Haydn. (Qui la sua incisione discografica.)

Brano (apparentemente?) facile che la simpatica Quirine ci porge con un rigore che confina con la freddezza. Ma, a parte che Haydn non è... Schubert, questa è evidentemente una sua dote innata, confermata anche dal seriosissimo bis che ci regala: il Bach della Sarabanda dalla prima Suite in SOL maggiore BWV1009. 
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Il compositore russo Rodion Shchedrin è l’autore di una particolarissima Suite della Carmen. In origine (fine anni ’60) era musica destinata ad accompagnare un balletto sulla sigaraia rubacuori, di cui era coreografo il cubano Alberto Alonso e protagonista sulle scarpine la moglie del compositore, la star Maya Plisetskaya.

La particolarità del brano sta nell’impiegare esclusivamente archi in misura... smisurata (ma chi mai ne ha 70? Flor ne dispone di metà) e una batteria sterminata di percussioni (percosse da 4 strumentisti) oltre a 5 caldaie di timpani:

Shchedrin fece un (sapiente?) taglia-e-cuci sulla partitura di Bizet, ricavandone tredici numeri di balletto. Del quale si può apprezzare qui un’edizione cubana (con replay...) I protagonisti sono, ovviamente, i vertici del triangolo: Carmen, DonJosè ed Escamillo. Al fianco dei quali compaiono Zuniga (capo del Don) e un personaggio nero: il destino.

La sequenza degli eventi diverge poco o tanto da quella dell’opera originale e di conseguenza anche la musica salta avanti e indietro (e persino fuori!) rispetto alla partitura di Bizet (si veda più sotto uno schematico sunto della struttura del brano con riferimenti all'esecuzione citata): due numeri (8-Bolero e 10-Torero-e-Carmen) vengono rispettivamente da L’Arlesienne (Farandole) e da La jolie fille de Perth (Danse bohemienne). A parziale giustificazione per questa escursione extra-moenia di Shchedrin va ricordato che quei due numeri furono pubblicati nella partitura edita da Choudens nel 1877 (due anni dopo la prima, a Bizet ormai nella tomba) come parte di un balletto (!) in tre parti da inserire all’inizio dell’Atto IV: al numero 25 (Coro À deux cuartos) erano stati appesi tre numeri presi da altre opere di Bizet e arrangiati da Ernest Guiraud: 25B (Farandole); 25C (Coro di Vaccarès, a bocca chiusa, sempre da L’Arlesienne); e 25D (Danse bohemienne).

Che dire: musica di sicuro effetto, ci mancherebbe. Ma personalmente mi sento di affermare che, eseguita senza la coreografia, perde un po’ del suo fascino. Per carità, non voglio sostenere che avessero ragione i censori sovietici che ne decretarono l’ostracismo con l’accusa di lesa-maestà nei confronti di Carmen e di Bizet... ma insomma è musica che si finisce sì per gustare (data l’indubbia maestrìa con la quale Shchedrin l’ha confezionata) ma a livello epidermico o poco più.

Naturalmente vanno elogiati i ragazzi de laVerdi per aver ancora una volta mostrato tutte le loro qualità, e il pubblico (davvero scarsino, ahinoi) non ha mancato di salutarli con applausi e ovazioni.
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Balletto Carmen

(*) L’Arlesienne
(**) La jolie fille de Perth

22 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 13

La cosiddetta Tragica di Gustav Mahler occupa tutto lo spazio del 13° appuntamento in Auditorium (domenica pomeriggio la replica). Come già accaduto a settembre 2020 - Quarta - e a novembre 2021 - Nona - per ragioni legate alle perduranti regole di distanziamento (parliamo qui degli occupanti del palcoscenico) l’orchestra è necessariamente ridotta nei ranghi e quindi la sinfonia viene eseguita nella trascrizione di Klaus Simon per ensemble cameristico (Qui la registrazione della prima del 2019).
Sulla Sinfonia è stato scritto un fiume di parole (e anch’io mi sono permesso di aggiungere la mia goccia). Le più autorevoli restano per me quelle scritte da Ugo Duse, che personalmente reputo il più convincente studioso di Mahler, e che già ho riportato in un post di commento all’ultima esecuzione (2014) della Sinfonia (originale) qui in Auditorium.
Sul podio il Direttore Musicale, al quale la sinfonia pone un problema prima ancora di iniziare le prove: quale sequenza dei movimenti scegliere fra le due possibili, entrambe a suo tempo proposte dallo stesso Autore, la cui volontà definitiva non è mai stata chiarita fino in fondo (forse perchè Mahler per primo non la chiarì mai nemmeno a se stesso...)

Simon prescrive un organico di 1 flauto, 1 oboe, 2 clarinetti, 1 fagotto, 2 corni, 1 tromba, 2 percussionisti, arpa, armonium, pianoforte e il quintetto base degli archi, estendibile a 20 esecutori. Flor lo rimpolpa assai: negli archi (portati ben oltre il massimo suggerito); e nei fiati (tutti - salvo tromba e fagotto - incrementati di un’unità). Quanto alla vexata-quaestio della sequenza dei movimenti, Flor (come Simon peraltro) resta fedele alla versione originale, quindi con lo Scherzo in seconda posizione (e anche con due sole martellate nel finale).

Come ho già avuto modo di osservare in occasione delle precedenti esperienze con le partiture arrangiate dal musicista tedesco, la decisione di rinforzare l’organico previsto presenta evidenti pro e contro: se consente, da un lato, di avvicinare di più (ma purtroppo mai di raggiungere!) il suono dell’orchestra a quello immaginato da Mahler, dall’altro priva in parte l’ascoltatore di quella interessante esperienza consistente nello scoprire da vicino la rete dei reconditi e intricatissimi componenti della musica del compositore boemo (un po’ come vedere, al di sotto dell’involucro epidermico di un corpo, oltre allo scheletro osseo, anche il sistema venoso, la rete muscolare e nervosa).

Detto ciò resta l’elogio incondizionato da fare agli esecutori (soprattutto ai fiati, comunque ridotti a presenze solistiche, in particolare alla tromba di Alex Elia) per aver saputo ricreare in modo apprezzabile quel sesquipedale mondo sonoro che è la Sesta mahleriana! Manco a dirlo - date le caratteristiche del brano e questa modalità esecutiva - è stato l’Andante (a mio giudizio) ad aver convinto di più.

Grande successo per tutti e ripetute chiamate per Flor, da parte di un pubblico non oceanico ma entusiasta.

19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

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Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

14 gennaio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 12

Dopo le feste di fine-inizio anno riprende la stagione principale de laVerdi con un concerto tutto russo. Causa restrizioni Covid e acciacchi di stagione direttore e solista al pianoforte sono diversi da quanto annunciato nel programma originario della stagione (Axelrod e Zilberstein): sul podio c’è (per la prima volta con l’Orchestra milanese) il 32enne Vincenzo Milletarì e alla tastiera la rediviva (in Auditorium, dopo più di 8 anni) Valentina Lisitsa.

Allievo di Riccardo Muti, il tarantino Milletarì (sì, con l’accento sulla ì) è ormai lanciato nel panorama internazionale, ed evidentemente si merita il successo per la sua preparazione e il suo entusiasmo, che sono testimoniati da questo esempio bolognese dello scorso anno, dove lo ascoltiamo e vediamo presentare e dirigere famosi brani del repertorio classico e romantico. Dirige con gesti ampi ma mai affettati o gigioneschi e usa la mano sinistra (à-la-Abbado) per dettare le sfumature espressive: è piacevole anche solo da vedere e - a giudicare da ciò che si è udito - deve anche essere efficace nella preparazione dell’orchestra.
Ad aprire il programma è la pochissimo eseguita Overture su temi russi e circassi, composta nel 1963 da Dmitri Shostakovich per celebrare il centenario dell’incorporazione volontaria (ma forse meglio sarebbe dire annessione, 1864) del Kirghizistan nell’Impero russo. Il compositore era proprio reduce da un viaggio (fatto anche per ritemprare lo spirito oltre che il corpo...) in quel remoto paese asiatico ed aveva preso l’impegno di comporre qualcosa per l’occasione. Così in poche settimane scrisse il brano, che ebbe la prima esecuzione a Mosca giovedi 10 ottobre, 1963 e la prima in Kirghizistan nella capitale Bishkek (allora Frunze) sabato 2 novembre dello stesso anno.
Musica quindi di circostanza, ma pur sempre di mano di qualcuno che sapeva il fatto suo e come sfruttare al meglio il materiale musicale disponibile: nella fattispecie un paio di temi popolari kirghizi (Tyryldan, creatura mitologica e Op Maida, canzone della trebbiatura) e uno siberiano (Ekh, brodyagi vy, brodyagi, O voi vagabondi) della regione di Omsk, che Shostakovich orchestra da par suo, costruendo un brano godibile e peraltro scevro da facili trionfalismi (non tutti i kirghizi erano stati entusiasti della Russia un secolo prima ed erano entusiasti dell’URSS del ‘900). 
Shostakovich non fa economia di risorse e prescrive (come minimo!) un pacchetto di archi di 66 (18+14+12+12+10) esecutori (neanche Strauss...) che da soli riempirebbero tutto il palco dell’Auditorium (qui laVerdi ne schiera praticamente la metà).

Il brano (meno di 10’) si muove sulle tonalità vicine di DO maggiore e della dominante SOL. Presenta una lunga introduzione di 41 battute in tempo Moderato, chiusa un assolo del primo flauto; poi ecco la corposa parte centrale, in Allegro non troppo, aperta dal primo corno. Dopo che l’orchestra si è sbizzarrita nella presentazione dei temi popolari, ecco arrivare una pausa di riflessione (Adagio) con 4 battute dei soli archi; quindi segue in tutta l’orchestra una progressiva accelerazione del tempo, che passa da Allegro a Presto per la brillante chiusura.

Per essere la prima volta che laVerdi la affronta, devo dire che l’esecuzione è stata vibrante e convincente: un brano che merita di certo maggior presenza nei programmi concertistici.
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Ecco poi la Suite (seconda delle tre, del 1919) da L’Uccello di Fuoco di Stravinski. (Rimando ad un mio commento sulla struttura del balletto e delle Suite). Anche qui non si scherza con la prescrizione relativa agli archi (60) ma i ragazzi si fanno in... quattro e rimediano alla grande.

Questo è poi uno dei brani che l’Orchestra conosce a menadito ed anche ieri l’esecuzione è stata impeccabile. Merito certamente anche di Milletarì, che ha ben interpretato soprattutto le dinamiche stravinskiane (emozionante l’attacco dell’Introduzione, con il magma sonoro degli archi bassi dal quale emergono gli spettrali incisi di tromboni, fagotti e clarinetti). Come sempre spettacolare il finale e in particolare quelle ultime 8 battute dove i fiati (ottoni in primo piano) creano un muro di suono di abbagliante luminosità.

Ma tutta l’esecuzione è da apprezzare e giustamente alla fine il Direttore ha fatto alzare una ad una tutte le prime parti, che qui hanno compiti anche solistici di grande spessore; poi tutta l’orchestra ha meritato convinti applausi e ovazioni.
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La serata si chiude con l’inflazionato Primo Concerto per pianoforte di Ciajkovski. La sempreverde (48 appena compiuti!) ukraina trapiantata in USA, ma ormai cittadina-del-mondo, si presenta con uno dei suoi proverbiali abiti lunghi e... larghi, questo con una fantasia floreale multicolore. Lei che è regina del web (milioni e milioni di accessi solo al suo canale youtube...) dove la possiamo apprezzare in questa esecuzione del concerto in terra mexicana, ne dà una lettura piuttosto sobria e contenuta, ma senza risparmiare alla tastiera qualche salutare mazzata negli enfatici passaggi in ottave dell’Allegro iniziale e del finale del concerto.

Le si potrà perdonare qualche sbavatura (ha l’attenuante della chiamata all’ultimo momento...) ma il fraseggio e le sfumature sonore che sa cavar fuori dallo strumento sono da favola. Successo travolgente ricompensato con due encore: un indiavolato Chopin e un marziale Rachmaninov.