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27 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 2

 

Il compianto Rudolf Barshai – che per anni fu Direttore principale dell’Orchestra - è il protagonista del secondo concerto de laVERDI, condotto da uno degli attuali Direttori principali ospiti, Gaetano D’Espinosa.

In programma due lavori di cui Barshai è stato, come dire, il secondo padre: non li ha messi al mondo lui, ma li ha svezzati e allevati con grande cura e amore.

Dal maestro e amico Dimitri Shostakovich Barshai ebbe l’autorizzazione a trascrivere per orchestra d’archi il famoso quanto controverso Quartetto n°8 op.110, divenuto quindi Sinfonia da camera op.110a. Nel marzo di 4 anni fa un malanno improvviso gli impedì di dirigerla personalmente in Auditorium (lo sostituì Grazioli) dove purtroppo non mise più piede, essendo venuto a mancare nel novembre di quello stesso anno: questo concerto è quindi anche un doveroso tributo alla sua grande figura di musicista. 

Dell’ottavo Quartetto si è scritto di tutto, date le circostanze in cui fu composto e le (pseudo?) rivelazioni che dopo la morte del compositore ne misero in nuova e diversa luce la figura di uomo e i rapporti con il potere sovietico.

In memoria delle vittime di fascismo e guerra: questa la dedica (che peraltro Shostakovich annunciò, solo a voce, un paio di mesi dopo la composizione) del quartetto, composto in soli tre giorni (12-14 luglio) nel 1960 a Dresda, dove ancora erano evidenti i segni lasciati dai terribili bombardamenti alleati che in 2 notti (13-15 febbraio, 1945) avevano ridotto la splendida Firenze dell’Elba ad un cumulo di macerie.

Ma quello era anche il periodo in cui il compositore, avendo accettato pochi mesi addietro la nomina a Primo Segretario dell’Unione Compositori della Repubblica Russa, aveva di conseguenza dovuto far richiesta di iscrizione al Partito Comunista (iscrizione che lui aveva prima di allora categoricamente rifiutato e che verrà confermata pochi mesi dopo): un atto di cui Shostakovich non poteva non valutare (e subire!) portata e conseguenze.

Nella famosa lettera scritta all’amico Isaak Davydovich Glikman nemmeno una settimana dopo la composizione del Quartetto, Shostakovich vi getta una luce assai lontana da quella della dedica pseudo-ufficiale (che annuncerà posteriormente!): arrivando a definirlo ideologicamente riprovevole e in realtà pensato come un auto-epitaffio! In effetti cosa c’entrino con le vittime di fascismo e guerra le auto-citazioni da alcune sinfonie (1, 5 e 8), un trio (2), un concerto (cello) e la Lady, più quelle della Patetica, del beethoveniano Muß es sein? e un po’ di Wagner – il tutto infarcito da massicce dosi della propria sigla DSCH! - è arduo da comprendere. Però è pur vero che le citazioni (nel secondo movimento) di un tema ebraico composto nel ’44 in pieno Olocausto e (nel quarto) di un canto di prigionia (Oppresso da duro servaggio) parrebbero testimoniare della sincerità dell’approccio di Shostakovich. 

In realtà, senza necessariamente dar credito assoluto alle teorie di Solomon Volkov, il cui libro su Shostakovich del 1979 fece scalpore, presentando del compositore un’improbabile immagine di eroico paladino dell’anti-stalinismo e dell’anti-comunismo, si può plausibilmente immaginare che il buon Dimitri vivesse e soffrisse sulla sua pelle le contraddizioni in cui si era cacciato avendo deciso di… non decidere che ruolo giocare fino in fondo (servo del regime – fiero dissidente). E l’ottavo quartetto sembra proprio uno specchio di queste contraddizioni, di questa faticosa e stressante, oltre che inconcludente, ricerca di una terza via esistenziale. 

Un corposo, acuto (e pure pedante…) saggio di Peter J. Rabinowitz propone invece una intrigante spiegazione per le origini del Quartetto: partendo dall’osservazione di un parallelo/precedente, che ha come soggetto Richard Strauss. Come Shostakovich, anche il bavarese era stato (in musica) un focoso rivoluzionario ad inizio carriera, per poi mutarsi in conservatore ed assumere un atteggiamento compiacente (ma non servile) verso il Terzo Reich; aveva composto da (abbastanza) giovane un brano smaccatamente autobiografico (Ein Heldenleben, infarcito di auto-citazioni) e poi, a WWII finita e con Monaco in macerie, aveva apposto il sigillo In Memoriam alle sue costernate meditazioni delle Metamorphosen, citando la marcia funebre dell’Eroica. Ecco, perché non ipotizzare che Shostakovich, in questo suo ottavo quartetto, abbia inteso condensare il suo curriculum di artista e allo stesso tempo abbia inteso esternare il suo stato d‘animo di uomo disilluso e tradito nei suoi ideali dalla dura realtà?

La rapidità della composizione (che i maligni potrebbero obiettare essere solo un affrettato affastellamento di citazioni, proprie e altrui, senza alcunché di originale…) può far pensare ad uno Shostakovich in realtà disimpegnato e perfino ipocrita; però va riconosciuto che quella splendida compiutezza della forma (definizione usata dal compositore nella lettera a Glikman) non è proprio una millanteria, e se si ascolta il Quartetto senza far troppo caso ai riferimenti (musicali ed extra-) non si può non rimanerne ammirati. 
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La macro-struttura del Quartetto è di tipo, diciamo, tardo-mahleriano: ai due estremi i movimenti lenti (1/4-5) e al centro quelli allegri (2-3). Tutti sono connessi senza soluzione di continuità. L’impianto tonale (tutto in minore) presenta pure una certa qual simmetria: DO-SOL#-SOL-DO#-DO (notare il tritono che separa il movimento centrale dal successivo). E anche la durata dei movimenti è abbastanza uniforme, mantenendosi fra 3 minuti e mezzo e cinque e mezzo, per un totale di circa 20-23 minuti.

Seguiamo ora la musica sulla registrazione originale della prima, tenutasi a Leningrado il 2 ottobre 1960, interprete il Quartetto Beethoven.

Il primo dei cinque movimenti (Largo, DO minore) si apre con l’esposizione della firma dell’Autore, quella sigla DSCH (Dimitri SCHostakowitsch, alla tedesca) che in musica si traduce in RE-MIb-DO-SI: è il violoncello ad attaccarla, seguito a canone stretto dagli altri tre archi, con la seconda e la quarta voce sul quinto grado:


A 40” il primo violino, dopo aver reiterato (col secondo) la firma, attacca un motivo, poi ripreso dal secondo e dalla viola, che cita – in modo mesto – l’apertura impertinente (là affidata a tromba e fagotto) della Prima Sinfonia:

A 55” è sempre il primo violino a chiudere questa sezione con la firma dell’Autore, sulla quinta vuota nel grave (DO-SOL) degli altri tre strumenti; e sempre lui (a 1’04”) si imbarca in un lugubre recitativo di 18 misure che si muove prevalentemente per gradi congiunti e che sembra alludere alla Patetica (secondo soggetto del primo movimento) chiuso (a 1’40”) dalla firma nel violoncello; cui segue nel primo violino un breve passaggio che ne ricorda uno dall’Andante della mozartiana Sinfonia Concertante per violino e viola, chiuso da un inciso (DO-SOL-SOL-DO-SI) che tornerà alla fine del movimento e alla fine del quartetto. A 1’56” ecco una nuova auto-citazione, dalla Quinta Sinfonia (la più famosa ed eseguita di Shostakovich): è la melodia esposta dai primi violini a battuta 6 del Moderato di apertura dell’Op.47:
Il motivo viene reiterato altre due volte, prima di sfociare, in tutti gli archi (2’37”) in un perentorio ritorno della firma, in tempo dilatato. Ora un passaggio con qualche sprazzo di luce (come un fugace DO maggiore a 2’55”) porta ad una ripresa della firma (3’24”) e ancora (3’35”) della citazione dalla Prima Sinfonia. Un’ultima (per ora…) ricomparsa della firma (3’51”) porta alla mesta chiusura su un lungo SOL# di 3 dei 4 archi (il violino primo tacetpreceduto dall’inciso udito prima del richiamo alla Quinta.

A 4’09” inizia bruscamente l’Allegro molto, uno dei caratteristici, indiavolati e martellanti scherzi di Shostakovich, che si rifà chiaramente all’Allegro non troppo dell’Ottava Sinfonia, ma correndo a velocità ancor doppia! Sono semiminime che si inseguono in volate vertiginose, sulle quali arriva puntuale quanto trafelata e ansimante la firma dell’Autore, dapprima nei quattro strumenti (dal grave all’acuto, da 4’37”) e poi nel solo violino primo, che la reitera 3 volte e mezza (da 4’40”). La corsa a rotta di collo prosegue fino a sfociare, modulando a DO minore (5’06”) nella perorazione del tema ebraico che Shostakovich aveva già impiegato nel finale del suo secondo Trio con pianoforte:



Restando in DO minore riprende il motivo principale (5’20”) e a 5’30”, poi a 5’36” si fa immancabilmente risentire, nel primo violino e sempre in tempo dilatato, la firma. Che ricompare poco dopo nel violoncello (5’51”) e subito nella viola.

A 5’59” si torna a SOL# minore per l’inizio della seconda parte del movimento, che in pratica ripercorre il cammino della prima. A 6’21” è ancora il DO minore a farla da padrone, recandoci, a 6’27” e poi a 6’30”, altre due firme, sempre nel primo violino; viola e violoncello (6’38”) ripropongono ora il motivo ebraico che letteralmente… scompare come in un pof! su una dissonanza MIb-FA# seguita da una corona puntata. È la fine del movimento (6’49”) che lascia ora spazio al SOL minore dell’Allegretto.

A 6’51” il primo violino attacca… con cosa? La firma! A 6’56 si passa da 4/4 al walzer! Ed è un walzer davvero spiritato (qualcuno ci vede somiglianze con la Danse macabre) che gioca con la firma come un gatto col topo! A 7’05” violoncello e viola danno smaccatamente il tempo, sul quale il primo violino attacca il tema costruito sulla sigla DDSCH, che si può leggere come Dimitri Dimitrevich SCHostakovich… quindi una cosa fra il presuntuoso e l’affettato:


Dopo che il tema è stato riproposto, abbiamo un nuovo soggetto (7’40”) dove la firma compare di sfuggita nel secondo violino (7’50”). A 8’06 riprende il motivo conduttore che poco dopo (8’16”) lascia spazio ad una transizione dove udiamo per quattro volte la firma normale, che ci porta alla sezione centrale del movimento. Qui (8’36”) il primo violino cita il tema che il violoncello espone proprio all’inizio del Concerto op.107:

A 8’45” troviamo un nuovo motivo, un comodo recitativo esposto dal violoncello nel registro acuto sulle ondeggianti crome dei violini, che ci porta (9’13”) alla parte conclusiva del movimento, che è una ripresa condensata della sezione iniziale, quindi vi risentiamo il DDSCH e il secondo soggetto. A 10’12” inizia una coda che il solo primo violino completa con una vaghissima reminiscenza della Patetica e chiudendo poi su un LA# grave.    

Il Quarto movimento (10’41”) è un Largo in DO# minore. Nelle prime tre battute, sul lungo LA# grave del primo violino in pianissimo che si prolunga dal movimento precedente, si ode un duplice segnale, in fortissimo, degli altri archi. Chi vuole può sentirci il sordo rombo dei bombardieri in avvicinamento su Dresda su cui si sovrappongono i secchi richiami delle sirene (o i colpi della contraerea?) Ma già alla battuta successiva è la storia della musica a farsi largo:
Sì, un altro famoso Quartetto: l’Op.135 di Beethoven! Shostakovich aveva già impiegato il tema, senza le tre pesanti crome che lo chiudono, nella colonna sonora del film La giovane guardia, del 1948, senza contare la parentela con il motivo del concerto per violoncello citato più sopra. Forse a questo motivo fa riferimento il compositore nella sua lettera a Glikman, quando cita Wagner: in effetti una lontana parentela con l’Enigma del Destino ci può anche stare, visto che pur sempre di una domanda si tratta… 

Questa specie di avvertimento viene ripetuta altre tre volte, ma l’ultima, invece che in minore, chiude (11’16”) in FA# maggiore! Ma è solo un fuoco di paglia, poiché subito l’atmosfera si rifà cupa e a 11’19” il primo violino accenna l’incipit del Dies Irae (che già era nascosto nelle ultime note del movimento precedente). A 11’30” si ode un nuovo lugubre motivo che ci accompagna fino a 12’24”, dove ritorna (per due volte) il perentorio richiamo.

Introdotto dal DSCH (un tono sopra) della viola e del violoncello, ecco ora (12’46”) comparire nel primo violino un canto rivoluzionario: Zamuchen tyazheloy nevoley (Oppresso da duro servaggio); un testo ottocentesco (di Grigorij Machtet) cantato persino ai funerali di Lenin, che rimanda ai campi di prigionia zaristi:



A 13’41” il primo violino propone una melodia che vagamente ricorda il Poco più mosso del 3° movimento della Sinfonia 11, e poco dopo (14’02”) è la volta di un’altra auto-citazione, ancora negli acuti del violoncello: la bellissima melodia che Ekaterina Lvovna canta a Sergei nella prigione che li accoglie lungo la via della deportazione in Siberia:


A 14’44” torna a farsi sentire il drammatico richiamo che aveva introdotto il movimento, seguito dall’incipit del canto rivoluzionario e da un’ultima apparizione del richiamo iniziale. Infine (15’16”) il primo violino ci ricorda il Dies Irae e poi appone l’ennesima firma al movimento.

Il finale Largo, in DO minore, si apre (15’31”) con la firma nel violoncello, seguita dal motivo mozartiano già apparso nel primo movimento (prima della citazione della Quinta sinfonia). Viola, violino secondo e primo ripetono la firma (seconda e quarta voce sul quinto grado) come all’inizio del quartetto, ma stavolta a canone largo. In contrappunto si ode, dapprima nel violoncello (15’48”) un motivo che viene dalla quarta scena della Lady Macbeth, quella dell’insonnia di Boris Izmailov. Curiosa la rassomiglianza di questo motivo con una parte del tema dell’Inno sovietico (composto da Alexander Alexandrov più di 20 anni dopo la Lady!)

Chissà se Shostakovich abbia voluto farci un criptico riferimento alla situazione politica (e magari alle sue segrete speranze) visto che il tema, alla fine, va praticamente a… morire. A 16’10” il primo violino chiude la quarta voce della firma e ha inizio la seconda parte dell’esposizione, dove il motivo dalla Lady contrappunta nuove apparizioni della firma da gradi diversi.

A 17’23”, come all’inizio del quartetto, si ripete la firma a canone stretto, seguita dal solo incipit della citazione della Prima sinfonia, sostituito dal motivo dalla Lady, che si spegne sommessamente; a 18’16” l’ultima firma del primo violino, poi l’inciso DO-SOL-SOL-DO-SI udito nel primo movimento porta alla mesta chiusura, sulla quinta vuota DO-SOL nel grave. 
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Anche quando autorizzata dall’Autore, e realizzata con grande cura, come in questo caso, la trascrizione di un quartetto per l’orchestra lascia sempre a desiderare, poiché fatalmente si viene a perdere quella trasparenza e pulizia di suono che costituiscono i principali punti di forza di questo genere musicale. Ad ogni modo va fatto tanto di cappello ai ragazzi e al Direttore per aver dato il meglio per trasmettere al pubblico almeno i contenuti dell’opera, se non la sua forma originale. La quale si potrà apprezzare fra poche settimane (31 ottobre) all’Auditorium SanFedele di Milano, eseguita dal Quartetto di Cremona in un concerto del 23° Festival di MilanoMusica.
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L’altro lavoro di Barshai presentato in questo concerto è la colossale, quanto spuria, Decima di Mahler, che era in programma già lo scorso marzo, ma di cui allora si era inopinatamente eseguito solo il tradizionale Adagio.

Essendo rimasta allo stato di abbozzo, per quanto abbastanza completo (come abbozzo) la sinfonia fu oggetto di un prima edizione da parte di Deryck Cooke nei primi anni ’60 del secolo scorso. Dopo la liberatoria di Alma del 1963, diversi altri musicisti/musicologi si sono cimentati nell’impresa e Barshai si è aggiunto nel 2000 (ma altri sono seguiti). Più di tre anni fa abbiamo ascoltato qui in Auditorium la versione Cooke (stampata da Faber) sulla quale scrissi qualche nota.

La versione Barshai (stampata dalla Universal) è ovviamente diversa da quella di Cooke di cui, fosse anche solo per ragioni cronologiche, ha sfruttato l’esperienza delle numerosissime esecuzioni ed incisioni fattene (anche dallo stesso direttore russo) negli ultimi 50 anni. Le differenze fra le due versioni che vengono maggiormente in luce, almeno a fronte del semplice ascolto, riguardano il Finale, dove l’orchestrazione di Barshai appare più ricca e, in particolare, aumenta il ruolo e il peso degli archi. Per il resto si tratta di sfumature che è difficile cogliere anche ad un orecchio… allenato. 

L’esecuzione di ieri è stata di buon livello, ma non direi proprio che abbia contribuito a far crescere le azioni di questo lavoro. Parafrasando il famoso giudizio che Hans von Bülow espresse a Richard Strauss sulla ricostruzione fatta da Mahler dell’opera Die drei Pintos (wo Weberei, wo Mahlerei, einerlei…) si potrebbe dire: che sia Cooke o sia Barshai, poco Mahler ci troverai! Mi chiedo, fra l’altro, di chi sia stata l’idea di far suonare i colpi di tamburo fra il 4° e il 5° movimento in quel modo: l’esatto opposto di ciò che immaginava Mahler, un suono sordo, ottenuto coprendo completamente il tamburo, come si legge chiaramente sul manoscritto:


E come par di sentire anche nella registrazione di Barshai (da 52’58”). Ecco, ci resta solo da ricordare con affetto il Maestro, che fra poco più di un mese avrebbe compiuto 90 anni.

19 settembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 1


Osservando il calendario della lunghissima stagione principale 14-15 de laVERDI balza subito all’occhio la presenza massiccia di opere di Piotr Ilyich Ciajkovski: il compositore russo sarà nella locandina di ben 10 dei 64 concerti e dopo aver occupato l’intero programma di quello inaugurale alla Scala chiuderà quello conclusivo (17-18-20 dicembre 2015) con la Suite dello Schiaccianoci. In pratica, se si escludono le 4 Suites, si ascolterà la gran parte della produzione orchestrale di Ciajkovski: sinfonie, concerti, ouvertures e balletti.

Questo primo appuntamento – sotto la bacchetta della Xian - si apre con il celeberrimo e trascinante Capriccio italiano (per una sommaria analisi dei principali temi rimando ad un mio commento ad una precedente esecuzione qui in Auditorium). Un pezzo di quella che si usa chiamare musica classico-leggera, tipo le ouvertures di Suppé o le marcette di Elgar… Però l’effetto è sempre quello di tirarti su il morale, soprattutto in tempi grami come questi: una cosa tipo i balli sul Titanic che affonda (smile!… mica tanto).
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Dopo il convincente debutto in Scala, torna ad esibirsi con laVERDI Giuseppe Andaloro, questa volta impegnato in uno dei concerti – quello in SIb minore - più inflazionati dell’intero repertorio pianistico (e quindi inevitabile banco di prova per chiunque voglia imporsi come solista dello strumento).

E il giovin siciliano ha confermato in pieno le sue grandi doti, non solo sul piano tecnico (un’esecuzione senza una sola sbavatura) ma anche su quello della sensibilità interpretativa: la sua resa dell’Andantino semplice ne è stato l’esempio più lampante. A lui il futuro non può che riservare successi, come quello che ha riscosso qui, ripagato con uno dei suoi encore preferiti.
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Chiude il concerto la Seconda Sinfonia, cui fu dato il nomignolo di Piccola Russia, appellativo con cui ai tempi di Ciajkovski si denominava l’Ukraina centro-nord-orientale, dove la sinfonia fu composta e da cui provengono i principali temi popolari che la impreziosiscono.

Il caso ha voluto che questa parte del programma del concerto rimandi ad avvenimenti di cronaca politica di scottante attualità. Ora, lungi da me il dar ragione alle velleità del demo-dittatore (e fraterno amico del nostro ex-aspirante-demo-dittatore) Putin, ma bisogna pur ricordare che per secoli l’Ukraina è stata da Mosca considerata (ed in effetti trattata come) una provincia dell’impero russo (poi sovietico). Non solo, ma il termine Piccola Russia aveva assunto anche una sfumatura dispregiativa (o tale era recepito dagli ukraini): un po’ come lo spocchioso les petits belges con cui in Francia si apostrofano i vicini. E ciò spiega, per reazione, la quasi unanimità ottenuta nel 1991 dal referendum per l’indipendenza! Tanto per chiarire quanto forte e radicata fosse la presenza russa in Ukraina ai tempi di Ciajkovski, basti pensare che la tenuta della sorella Sasha (del cognato Davydov, in realtà) dove il compositore si tratteneva spesso e dove, nell’estate del 1872, trovò ispirazione per la sinfonia, si trovava a Kamenka (frequentata anche da Pushkin) in un distretto dipendente da Kiev, a ovest del Dnieper e a quasi 400Km dall’attuale confine con la Russia e a 1000 da Mosca. Per dire, assai più ad occidente di Donetsk (città natale di un certo Prokofiev!) che oggi è roccaforte dei separatisti filo-russi dell’Ukraina orientale (a sua volta parte di quella che si chiamava Novorossiya, strappata dai russi all’Impero Ottomano alla fine del 1700):


E la benefattrice di Ciajkovski, Nadezhda vonMeck, possedeva una vastissima tenuta a Brailov, con una dépendance a Simaki, ancor più a ovest di Kamenka, vicino al confine settentrionale dell’odierna Moldova: lì il compositore soggiornò più di una volta e lì – per puro caso e solo di sfuggita – i due incrociarono i loro sguardi nel 1879.

I temi popolari ukraini che Ciajkovski impiega nella sinfonia hanno tutti un tipico sapore russo: quello che si ascolta subito nell’introduzione (Giù lungo la Madre Volga) fa riferimento al grande fiume che l’Ukraina manco vede da lontano! E i rivoluzionari nazionalisti del Gruppo dei 5 si entusiasmarono alla Seconda proprio perché esaltava la musica del popolo della madre Russia (grande o piccola, per loro non faceva poi tanta differenza).

Bene, chiusa la parente geo-politica, veniamo alla musica. Per ricordare che la Sinfonia che si ascolta in questa occasione (e che si esegue di norma) è in realtà il risultato di un pesante rimaneggiamento cui Ciajkovski sottopose, nel 1880, l’originale del ’72, che pure era stato accolto con calore da pubblico e critica. È curioso che nel filmato di presentazione del concerto da parte di Ruben Jais venga proiettato (da 2’27”) il frontespizio della (relativamente recente) edizione della versione originale, ricostruita a metà del ‘900 a partire dalle singole parti d’orchestra conservate a Mosca: non sarebbe una cattiva idea se laVERDI decidesse prima o poi di metterla in programma (pur contravvenendo alla volontà fermamente espressa dall’Autore, che arrivò addirittura a bruciarne il manoscritto) poiché essa ha un suo fascino tutto particolare, e non pochi esperti la reputano esteticamente superiore a quella riveduta e corretta.
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Per semplificare la questione delle differenze, dirò che la prima versione 1872 era magari scarsamente strutturata dal punto di vista delle forme canoniche, tipiche del genere sinfonico. Ad esempio il primo movimento, dopo l’introduzione in Andante che non è stata modificata, presenta un Allegro comodo che assomiglia assai più ad una fantasia che non ad un tempo in forma-sonata: il motivo dell’introduzione (il canto popolare ukraino) si ripresenta ad ogni piè sospinto e lungo tutto lo sviluppo del movimento, quasi fosse un Leit-motif; i due temi che seguono sono assai simili al punto da quasi confondersi fra loro; in sostanza siamo in presenza di un fluire musicale continuo, dove manca il classico contrasto fra i temi. Questo primo movimento si può ascoltare su youtube, diretto da Pletnev.

Nella versione del 1880 (qui Gergiev) il primo movimento presenta invece una struttura più tradizionale e dai contorni meglio demarcati, con il ruvido primo tema - composto ex-novo, in Allegro vivo e che pare richiamarsi a quello famosissimo della Quinta beethoveniana - che contrasta in modo evidente con il più elegiaco secondo (che è il vecchio primo tema del 1872 riveduto e corretto) mentre il motivo dell’introduzione ritorna solo all’inizio e al termine dello sviluppo-ripresa e poi nella breve coda. Le battute passano da 486 a 368, il che comporta un accorciamento di circa 5’ dell’esecuzione.

Il secondo movimento, Andantino marziale, quasi moderato, non è stato oggetto di alcuna modifica: mantiene la forma di Rondò (A-B-A-C-A-B-A) dove A è il ripescaggio dall’abortita opera Undina di un tema di marcia nuziale e C è una seconda canzone popolare ukraina (Fila, mia filatrice) già trascritta anni addietro da Ciajkovski per due pianoforti.

Lo Scherzo (Allegro molto vivace) non fu modificato nel contenuto, salvo qualche ritocco all’orchestrazione. In compenso Ciajkovski ne ristrutturò abbastanza profondamente la presentazione: la versione originale era proprio originale poiché prevedeva un unico da-capo per l’insieme del Trio e della ripresa delle due sezioni dello Scherzo, una cosa piuttosto bizzarra, bisogna dire. Nel 1880 il compositore tornò ad uno schema assolutamente classico, inserendo i ritornelli soltanto per la prima esposizione delle due sezioni dello Scherzo. Come si evince dalla tabellina sottostante, tutto ciò ha portato a ridurre il numero di battute effettivamente eseguite da 756 a 633, accorciando quindi anche qui di qualcosina la durata del movimento:


Naturalmente ciò vale a livello teorico… Geoffrey Simon, che ha prodotto l’unica – almeno ad oggi – incisione integrale della sinfonia in versione originale, ha bellamente ignorato il segno di da-capo e così ha ridotto a 481 il numero di battute eseguite, quindi raggiungendo il minimo assoluto di durata (?!)

Nel 1880 il Finale è stato semplicemente castrato di una sezione del lungo sviluppo cui i due temi (quello saltellante della Gru e il secondo dal ritmo ballabile) vengono sottoposti dopo l’iniziale esposizione: sono 146 battute in meno, che aggiungono concisione e tolgono… musica! Qui si può ascoltare l’incisione di Simon.
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Bene, in attesa di poter ascoltare da laVERDI la versione originale della sinfonia, ci siamo goduti una convincente esecuzione di quella tradizionale, che Xian aveva già proposto con successo un paio d’anni addietro. Per rincarare la dose di accorciamenti rispetto all’originale, a quelli dell’Autore la Xian ha aggiunto di suo anche lo sconto sul ritornello della seconda sezione del Trio, così da prosciugarlo ulteriormente. E i ragazzi (con il corno di Ceccarelli in testa, smile!) hanno risposto davvero alla grande!

15 settembre, 2014

Orchestraverdi – Avvio della stagione 14-15

 

Ieri sera appuntamento ormai tradizionale alla Scala (che presentava ampi spazi vuoti nei palchi…) per il via della stagione de laVerdi, tutto improntato a Ciajkovski (che occuperà anche la locandina del primo concerto di giovedi 18 in Auditorium e sarà in cartellone spesso e volentieri in questo lunghissimo 14-15). Sul podio Xian Zhang, che ha aperto le ostilità con la Marcia slava: se questa sia più o meno esecrabile – quanto a livello estetico – della successiva Ouverture 1812 lascio a ciascuno di giudicare… Entrambe furono commissionate al compositore in occasione di ricorrenze o, come nel caso in questione, di iniziative a supporto della Serbia che era da poco entrata in guerra contro l’Impero Ottomano, e furono buttate giù in gran fretta, badando a enfasi e retorica più che ad estetica musicale.

La composizione subì un bizzarro trattamento, 85 anni dopo la stesura originale, allorquando (1961, a destalinizzazione ormai compiuta, si noti bene) tale Irina Iordan fu incaricata di produrre una versione ufficiale del brano, nell’ambito della riedizione globale delle opere di Ciajkovski. Bene, quello che Stalin non aveva chiesto in vita, fu perpetrato 8 anni dopo la sua morte: eliminare – ovunque si trovassero – riferimenti allo Zar! E così anche la Marcia slava – come pure l’Ouverture 1812 - fu purgata dalle citazioni dell’Inno Dio salvi lo Zar. Prendiamo la prima delle sue due apparizioni: come si vede dalla figura sottostante, Ciajkovski aveva introdotto qui soltanto le prime 5 battute e mezza dell’Inno; la Iordan lasciò soltanto le prime due, ma sostituendo le note dell’Inno con quelle di una specie di filastrocca:


Quando, verso il finale, riappare l’Inno, stavolta arricchito di parte della seconda strofa, la Iordan camuffa la prima e poi taglia di netto le 4 battute di Andante molto maestoso che contengono la seconda!

Non risulta – per fortuna - che alcuno abbia mai impiegato questa versione tardo-sovietica (perlomeno in registrazioni discografiche). E anche Xian l’ha accuratamente evitata, proponendoci l’originale, in cui le note dell’Inno zarista (del 1833) si aggiungono a quelle dei tre canti popolari della Serbia ed evocano l’intervento russo a fianco dei fratelli slavi nella lotta di liberazione contro i turchi. Esecuzione trascinante come da copione.
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Il Secondo Concerto per pianoforte ha avuto un’esistenza abbastanza travagliata e ancora oggi la sua fama è offuscata (e mi sa tanto che lo sarà per sempre…) da quella dell’inflazionato Primo: le edizioni discografiche abbondano, quanto invece latitano le esecuzioni in concerti dal vivo. Dell’opera esistono (almeno) due versioni: quella che ha fatto testo per 60 anni (ed è stata eseguita ieri) è dovuta a tale Alexander Ilyich Ziloti, un pianista allievo del compositore che fece poi fortuna in America e che, morto l’Autore, si prese la libertà di far pubblicare (1897) il concerto in un’edizione da lui liberamente rivista e corretta al di là di quanto precedentemente concordato con Ciajkovski. L’altra, frutto di un lavoro (forse) più accademico che estetico, è dovuta ad un allievo (guarda caso) dello stesso Ziloti: Aleksandr Goldenweiser, che nel 1955 produsse la versione (sedicente) originale dell’opera, basandosi sui manoscritti del compositore.
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L’Allegro brillante, 4/4 in forma-sonata (ma… con alcuna licenza) e tonalità SOL maggiore, viene aperto dall’intera orchestra che introduce il tema principale, subito ripreso dal solista, con poderosi accordi all’ottava. È un tipico motivo di carattere russo, che chiude sulla relativa MI minore:

In questa tonalità l’orchestra lo sviluppa, poi raggiunta dal solista con arpeggi di accompagnamento. Una transizione, caratterizzata inizialmente da un dialogo fra pianoforte e corni e poi da una sezione esclusivamente occupata dal solista, porta ad una pesante cadenza sulla dominante RE, che prelude all’esposizione del secondo tema.

Il quale si presenta con un drammatico passaggio dalla dominante RE alla sesta abbassata, MIb, tonalità piuttosto lontana dal SOL di impianto, dove clarinetto e poi corno attaccano la sezione introduttiva del secondo tema, un motivo che scende dalla mediante alla dominante; quindi il solista espone la seconda, e principale, parte del tema, assai più mossa:

Da notare la coppia di crome (seconda ascendente) che richiama vagamente il primo tema. Dopo che il solista (accompagnato dal flauto) ha esposto il tema, gli subentra l’orchestra (che il pianoforte accompagna con arpeggi) che lo sviluppa ulteriormente fino ad un nuovo intervento esclusivo del solista, cui segue un'altra transizione, in dialogo stretto fra pianoforte e orchestra. Il tutto sfocia in un ritorno di spezzoni del primo tema, scanditi dall’orchestra sui veloci arpeggi del pianoforte, che si incarica poi di chiudere l’esposizione, sulla dominante SIb.

Lo sviluppo si apre con la salita di un semitono, a DO, dove l’orchestra propone l’introduzione del secondo tema, in DO maggiore; essa viene assai ampliata prima che il pianoforte esponga il motivo principale, che l’orchestra porta verso il SIb dove il solista lo elabora in una specie di cadenza anticipata. Essa sfocia nella retorica perorazione dell’orchestra, accompagnata da pesanti scale di ottave ribattute del pianoforte, di un motivo in MIb maggiore (derivato dal primo tema) di sapore Liszt-iano:

Ecco ora una lunga transizione dove spezzoni dei due temi principali appaiono qua e là, in mezzo a svolazzi in staccato degli strumentini. Questa sezione è stata tagliata di 24 battute (319-342) da Ziloti (è la sua principale, se non unica, manipolazione fatta al primo movimento del concerto, e non mi pare sia un sacrilegio) e conduce alla lunga cadenza del solista, che chiude di fatto lo sviluppo. Una cadenza dove i temi principali affiorano in mezzo ad un autentico marasma (in senso buono!) virtuosistico.

Sui trilli delle ottave di RE del pianoforte si innesta la ripresa, con il primo tema esposto (in SOL maggiore) esclusivamente dall’orchestra (forse per far riprender fiato al solista); anziché ripetere la sezione in MI minore, l’orchestra sviluppa il tema con una lunga progressione, chiusa da incisi marziali dei corni sul MI.

Questa volta il passaggio al secondo tema avviene per abbassamento di un tritono (!) dal MI al SIb dove i fiati espongono l’introduzione e subito il pianoforte riprende il tema, seguito dall’orchestra. Abbiamo qui un passaggio simile a quello conclusivo dell’esposizione, che ora sfocia però in una coda (nella quale avvertiamo la presenza del primo tema) dove solista e orchestra si rincorrono fino ai tonfi che chiudono il movimento nel canonico SOL maggiore.

L’Andante non troppo, 3/4 in RE maggiore, è il movimento che Ziloti ha maggiormente… devastato (secondo lui con il consenso dell’Autore… ma di ciò manca ogni solida controprova): cassandone ben 191 battute su 332, dicasi quasi il 60% (!) e modificando sensibilmente le prime 46. In effetti Ciajkovski ne aveva fatto quasi un triplo per pianoforte, violino e violoncello, e ciò, va riconosciuto, cozzava contro i sacri canoni dell’estetica musicale dei tempi; quindi non deve stupire se il pianista Ziloti si sentisse sminuito da quelle invadenti e aliene interferenze… (Per la cronaca, in quegli stessi anni il violoncellista Wilhelm Fitzenhagen aveva steso una sua versione delle Variazioni rococò dello stesso Ciajkovski; e Sarasate si era rifiutato di eseguire il Concerto per violino di Brahms a causa del lungo – e intollerabile, secondo lui - intervento dell’oboe che ne apre l’Adagio centrale.)

Gli archi suonano sommessamente 8 battute introduttive, dopodichè il violino principale attacca un recitativo di 11 battute che a sua volta prepara l’esposizione del primo tema, sempre affidato al violino. È un tema che si suddivide a sua volta in tre sezioni:


Ora il violoncello principale esordisce con la sezione 2 del tema, mentre il violino gli fa eco con delicati arpeggi; entrambi dialogano poi sulla sezione 3, allargata da 11 a 15 battute.

A questo punto fa la sua entrata il pianoforte che espone a sua volta le tre sezioni del tema principale, nello stesso numero di battute impiegate prima dal violino, ma con una più ricca armonizzazione e ricchezza di suono, dovuta all’impiego di ottave nella mano destra e all’accompagnamento di crome nella mano sinistra. Seguono ora 16 battute in cui gli archi ripetono la sola sezione 2 del tema, ampliandola a mo’ di cadenza e preparando così l’arrivo di una seconda e corposa sezione del movimento: è il nuovo intervento del pianoforte che espone un secondo tema, spalleggiato inizialmente dai legni, poi dagli archi che gli subentrano nel condurre la melodia, e infine dai fiati, in un continuo crescendo di pathos e di volume di suono che crea un evidente contrasto con il carattere intimistico del primo tema, fino a sfociare in un climax caratterizzato da una serie di accordi in fff del pianoforte sulle semiminime in tremolo degli archi e le discese di quelle secche dei fiati. Anche la tonalità ha subito modulazioni e progressioni continue, dal SI minore al SOL maggiore, fino al SIb.

Ora violino e violoncello per 23 battute, interrotte da due battute in arpeggio del pianoforte su accordi dell’intera orchestra, espongono un altro motivo secondario, sfociante in sei perentori accordi chiusi da uno schianto di settima diminuita. Qui violino e violoncello si alternano in tre brevi cadenze, chiuse da quella del violino che riporta la tonalità al RE.

Si riprende quindi con il primo tema (sempre di 27 battute, come nelle due precedenti esposizioni) suonato ora dai due strumenti ad arco ed accompagnato dal pianoforte con accordi di semiminime. Seguono, sempre nei due archi e senza il pianoforte, ancora le sezioni 2 e 3, quest’ultima assai ampliata, prima che torni il pianoforte a chiudere questa ripresa con dolci accordi sul SOL maggiore. È sempre il pianoforte a condurre per 4 battute un’ultima cadenza, che riporta la tonalità a RE maggiore; poi ha inizio una Coda che vede protagoniste anche le trombe, che intercalano accordi del pianoforte, e poi gli strumentini che si inseriscono con incisi puntati sugli arabeschi del solista, insieme alle marziali terzine della tromba. Ancora un ondeggiamento di tonalità, prima che le ultime 11 battute riportino la serenità del RE maggiore con la conclusione morendo.

Orbene, questo il contenuto dell’originale. Ma Ziloti? Ecco, la tabella che segue riporta schematicamente la struttura e i contenuti delle due versioni: in rosso le parti tagliate da Ziloti, in verde quelle mantenute e in giallo quelle variate; queste ultime riguardano l’introduzione del primo tema, che Ziloti ha trasferito dal violino al (suo) pianoforte, e la sostituzione dell’esposizione dello stesso tema al violino (battute 20-46) con quella successiva al pianoforte (battute 66-92) ma con sonorità smagrita (via le ottave della mano destra):


Balza subito all’occhio la dimensione dei tagli (di norma comportano una drastica riduzione della durata, che passa dai circa 15’ dell’originale a poco più di 9’): i quali tagli - che fra l’altro eliminano del tutto il secondo gruppo tematico, oltre che la porzione modulante della cadenza conclusiva - finiscono con lo snaturare completamente il brano, che diventa in sostanza monotematico e viene quindi privato del contrasto fra le due sezioni. Dopodichè ognuno può giudicare i risultati dell’operazione in base alla propria sensibilità.

Il finale è un Allegro con fuoco, 2/4 in SOL maggiore, dove Ziloti (per fortuna!?) si è limitato a piccoli e quasi impercettibili mutamenti della parte pianistica (ad esempio raddoppi o soppressioni di ottave e 4 battute di tacet prima della chiusa) e dell’agogica, senza però toccarne minimamente la struttura. La quale è del resto abbastanza semplice: in sostanza è costituita da due gruppi tematici che vengono esposti in sequenza per due volte, collegati da ponti più o meno lunghi, e da una coda brillante che chiude il concerto.

Sull’accordo di SOL maggiore dell’intera orchestra il solista entra con il primo tema di 5 note ben marcate, che sale per gradi da dominante a tonica e torna sulla dominante; gli fa seguito la risposta che chiude sulla sopratonica:

Dopo che il tutto è stato ripetuto, ancora il solista, spalleggiato dal clarinetto, presenta uno spiritoso controsoggetto del primo tema, sempre in SOL maggiore:

      
Questo non solo viene ripetuto, ma dà luogo ad uno sviluppo in cui pianoforte e orchestra dialogano animatamente, fino a che una sequenza di semicrome degradanti del pianoforte non porta alla riesposizione del primo tema. Qui però abbiamo una mezza sorpresa: dopo le due riproposte del soggetto principale, ecco un repentino afflosciarsi dei clarinetti, quasi che venisse a mancare il respiro…

E infatti, su una specie di ansimante brontolio degli archi ecco il pianoforte esporre il secondo tema, nella relativa MI minore:


Esso viene subito ripetuto dal solista e poi ripreso dai legni, con il pianoforte a contrappuntarlo con veloci volate di semicrome. Il motivo si sviluppa in un dialogo fra solista e orchestra, fino a sfociare direttamente in un controsoggetto che germina dal tema, ma in modo maggiore (SOL):

È un motivo dal carattere quasi eroico (à la Liszt, si potrebbe dire, o anche di sapore straussiano) che viene poi ripreso e sviluppato dall’orchestra, dopodiché spezzoni del secondo tema danno luogo ad un lungo ponte, con volate ondeggianti del solista inframmezzate da schianti dell’orchestra, che portano alla ripresa del tema principale (soggetto e controsoggetto esposti due volte). Riudiamo quindi il secondo tema, ora in RE minore, poi il controsoggetto, adesso nella relativa FA maggiore.

Spezzoni del secondo tema si incaricano ora di condurre il ponte verso la Coda: qui l’orchestra esplode, in SOL, l’incipit del tema principale, poi il pianoforte attacca una brevissima cadenza beethoveniana che pare condurre direttamente alla conclusione: ma invece dell’accordo di SOL maggiore ne arriva uno di sesta minore! Una pausa ed ecco la spumeggiante coda, con spezzoni del tema principale che affiorano nel generale fracasso, fino agli schianti che mettono il sigillo al concerto.  
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Propongo adesso, fra i tanti che la nostra tecnologica civiltà ci rende disponibili, un esempio di ognuna delle due versioni: qui Emil Gilels (non Sviatoslav Richter come recita il titolo!) suona con Maazel e la New Philharmonia quella di Ziloti; ecco invece la versione originale eseguita da Igor Zhukov con Gennady Rozhdestvensky e la leggendaria Orchestra della Radiotelevisione Sovietica: non vi manca una sola battuta, al contrario di ciò che avviene in parecchie altre esecuzioni, dove tipicamente (e incomprensibilmente, devo dire) viene accorciata, seguendo più o meno Ziloti, la chiusura dell’Andante (così  Mikhail Pletnev o Denis Matsuev o ancora Boris Berezovsky).

Il 32enne Giuseppe Andaloro (uno che ha le idee chiarissime…) lo ha interpretato, per me, in modo assai appropriato, mettendo in risalto le caratteristiche percussive del brano, un trattamento del pianoforte dove Ciajkovski anticipa il ‘900: particolarmente efficace la lunghissima e massacrante cadenza dell’Allegro iniziale. Nell’Andante lo hanno ben spalleggiato, pur nella portata ridotta (da Ziloti!) dei loro interventi, Santaniello e Grigolato (per avvicinare il violoncello al violino la disposizione dell’orchestra è stata – solo per il concerto – modificata, spostando al centro i violoncelli e portando i violini secondi al proscenio). Riascolteremo Andaloro fra pochi giorni nel celeberrimo Primo.
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Ha completato la serata la Quinta Sinfonia, che a giugno aveva chiuso la stagione 13-14 sotto la bacchetta di Jader Bignamini. Devo dire che ieri sera (complice forse l’acustica scaligera, assai più dispersiva di quella dell’Auditorium) l’esecuzione non mi ha lasciato del tutto entusiasta: non è mancata qualche sbavatura qua e là (come ad esempio nell’attacco del corno dell’Andante cantabile, dove Amatulli non è stato impeccabile come altre volte… forse il taglio della lunga chioma gli ha fatto l’effetto-Sansone, smile!) Devo dire che Bignamini mi aveva convinto di più anche sotto l’aspetto dell’approccio interpretativo, più asciutto e lineare rispetto a quello di Xian, tutto volto a mettere in evidenza i chiaroscuri e fin troppo enfatico (emblematica la sua chiusa, con le 4 semiminime scandite a lunghezza raddoppiata…)

Ma ogni volta è comunque un piacere ascoltarla e ascoltarli! Immancabile quindi il trionfo per tutti.