Per la prima volta da che il Festival esiste, una rappresentazione è stata irradiata in video in tutto il mondo, via satellite da ARTE. Chi, come il sottoscritto, era in un luogo sparabolato ha potuto vedersi tutto in diretta-diretta, via web-streaming, per la modesta cifra di €14,90, da devolversi alla simpatica Kathi Wagner, co-tenutaria del baraccone.
Su questo allestimento (che inaugurò l'edizione 2010) per il vero si sapeva ormai tutto, essendo circolate recensioni, esegesi, foto e clip in abbondanza, ma vedere l'intera opera, sia pure in video, consente a ciascuno di noi di farsi un'idea più diretta e precisa della sua messa in scena.
È d'obbligo partire dall'esame della lettera dell'opera (il testo e le didascalie): ciò è opportuno spesso, ma massimamente necessario in Wagner, poichè fra testo e musica c'è totale simbiosi e mutua dipendenza, tanto che l'uno non può essere apprezzato senza l'altro. L'opera ha anche uno spirito (magari multi-forme) che si può desumere informandosi sulle circostanze generali e personali in cui ess fu composta, o sullo scenario storico, filosofico, religioso che in essa viene presentato: in altre parole, è possibile individuarne anche alcuni significati - diciamo così – nascosti nelle pieghe del testo, come della musica.
Orbene, la lettura del libretto del Lohengrin ci informa che trattasi di argomento storico-leggendario con fortissime connotazioni e implicazioni religiose. Storico perché ambientato nella prima metà del X Secolo (pieno medio-evo, quindi); sono i tempi di Zoltàn (869-948) capo degli Ungari, nipotini di Attila, che scorrazzò per mezza Europa (arrivando fino a Napoli, tanto per dire) e che pur non essendo nominato di persona, è evocato come minaccia mortale dal Re di Germania, Heinrich der Vogler (Enrico I l'Uccellatore, 876-936). Storico anche il luogo: Antwerp, nell'odierno Belgio, alla foce della Schelde. Argomento invece leggendario, poiché tale è il personaggio di Lohengrin, figlio di Parzival, di stanza nel Montsalvat, la dimora dei cavalieri del Gral (la sacra reliquia della coppa dell'ultima cena). Con connotazioni religiose, perché vi si contempla l'aperto confronto-scontro fra religioni: da un lato le credenze antiche, impersonate da Ortrud, e dall'altro il Cristianesimo che ormai dilaga anche al Nord, e che per Ortrud ha i suoi campioni (e nemici da distruggere) nei fratelli Elsa e Gottfried (e poi in Lohengrin medesimo).
La vicenda è perciò leggendaria (inventata da Wagner a partire da racconti medievali) ed anche caratterizzata da un apparentemente gratuito determinismo: Lohengrin arriva a salvare Elsa proprio al momento giusto, dopo esserle apparso in sogno (similmente l'Holländer capita – per caso!? - da Senta, che ne teneva già un quadro con l'effige appeso in casa, e a cui ha appena finito di cantare la sua ballade!) In più – cosa a prima vista al limite del grottesco - arriva a bordo di una scialuppa trainata da un cigno.
Ma qui ogni cosa ha una spiegazione precisa nel soprannaturale (che tutto può significare, tranne che banale): a Montsalvat, che è una specie di distaccamento terrestre del mondo divino, tutto si conosce e tutto si vede. Quindi la magìa con cui Ortrud - una specie di sacerdotessa/fattucchiera delle religioni pre-cristiane - ha trasformato Gottfried in cigno e la terribile accusa di fratricidio da lei inventata a carico di Elsa, sono state immediatamente notificate a Parzival, capo e custode supremo del Gral, che incarica il figlio – una specie di angelo custode di professione - di recarsi sul posto per fare giustizia. E Lohengrin non a caso vi arriva – e con svizzera puntualità - su una barchetta trainata precisamente da quel cigno! Il compito di Lohengrin – proprio come quello dell'avvocato Ghedini, smile! – è di scongiurare un errore giudiziario (la condanna di Elsa) ma non solo: se Lohengrin saprà guadagnarsi la fiducia totale ed incondizionata di Elsa per almeno un anno, ecco che il Gral farà anche la grazia di ritrasformare il cigno in Gottfried.
Tutto questo lo si legge nel libretto, e lo si ascolta in musica, a partire dall'aria In fernem Land, che il protagonista canta nel terzo atto, dopo che Elsa lo ha, per così dire, tradito. Ma che Lohengrin abbia a che fare con il soprannaturale lo sospettano tutti fin da subito: non per nulla Elsa, il Re e il popolo, già dal suo apparire lo apostrofano come Gottgesandter, inviato da Dio! Quanto ad Ortrud, lo spavento mortale da cui viene attanagliata alla vista di quel cigno ci dice inequivocabilmente che lei deve avere al riguardo la coscienza alquanto sporca.
Apprendiamo poi che Lohengrin viene anche cooptato dal Re e dai Brabantini come loro condottiero contro i nemici orientali: rappresenta quindi anche l'uomo della provvidenza sul piano politico, poiché mette d'accordo tutte le fazioni brabantine occupate in lotte fratricide, e ricrea nella gente del Brabante uno spirito patriottico, verso la propria regione, ma anche verso l'Impero tedesco.
Scopriamo anche che l'accusatore di Elsa al processo (Friedrich von Telramund, un Conte brabantino, cristiano) è in realtà vittima di plagio da parte della moglie Ortrud, che lo ha convinto a sostenere l'accusa. I dettagli ce li narra lo stesso Friedrich, prima al processo e poi durante il drammatico faccia-a-faccia con la moglie all'inizio del secondo atto: a lui Elsa e Gottfried erano stati affidati dopo la morte del loro padre, il Duca di Brabante, di cui lui si riteneva il naturale successore, e quindi pretendente alla mano della ragazza, che invece l'aveva rifiutato. Solo a questo punto interviene Ortrud con il suo disegno criminale: fa sparire Gottfried, trasformandolo in cigno, e confida a Telramund di aver visto Elsa affogare il fratellino in uno stagno. Ed è ora, dopo il rifiuto di Elsa e dopo la sparizione di Gottfried, che Friedrich decide di sposare Ortrud, che lo ha ormai in pugno e che gli fa balenare la possibilità di conquistare il potere attraverso l'eliminazione dei due eredi naturali! Al processo, Friedrich si mostra assolutamente sicuro di sé (in realtà di Ortrud) ma quando perde la causa gli si aprono gli occhi sulla macchinazione della moglie. Lui è debole, ma in fondo è sincero e pure timorato di Dio: ha perso l'onore, invoca addirittura la morte e vorrebbe allontanarsi dall'abbietta zingara, colpevole della sua rovina, e bestemmiatrice contro Dio. Invece è ancora lei a plagiarlo, una seconda volta, insinuandogli il dubbio che Lohengrin-Ghedini sia un mago-furfante (senti chi parla…) che ha prevalso al processo in forza di un qualche sortilegio (una legge ad-personam? smile!) Lo convince quindi a tessere la sua tela volta a colpire l'anello debole della catena dei suoi nemici: Elsa.
Sul fronte religioso, che Ortrud rappresenti tutta la negatività delle credenze pre-cristiane emerge in modo sconvolgente nell'esternazione - con invocazioni a Wodan e Freia perché annientino i rinnegati (cristiani) - che lei fa subito dopo aver convinto Elsa del (falso) pentimento di Friedrich: Benedite in me l'inganno e l'ipocrisia! E poi, ovviamente, nel selvaggio quanto fallace grido di vittoria del finale.
C'è ancora da notare il comportamento del popolo (uomini e donne di Brabante) e dei soldati sassoni e turingi di Heinrich: le donne sono tutte dalla parte di Elsa, sentono che una come lei non può essere colpevole; ma anche gli uomini, pur inizialmente fedeli a Friedrich, mostrano per lei grande rispetto e persino ammirazione (Ah! com'ella appare luminosa e pura!) Non hanno per nulla un partito preso contro di lei, ma attendono fiduciosi il giudizio (A noi conceda la clemenza del cielo, che chiaro apprendiamo, chi sia qui il colpevole!) Insomma, chi ce l'ha con Elsa è soltanto Ortrud e, per suo tramite, Friedrich.
Quanto alla sua personalità, Elsa è di certo una tipica donna wagneriana (del Wagner della prima ora, peraltro): innocente, ingenua, timida, fragile e pia. Uno scherzo da ragazzi, per una strega come Ortrud, papparsela in un sol boccone. E qui si sollevano perciò, contemporaneamente, la questione femminile e quella della dicotomia fede-amore. La fragilità di Elsa, unita alla sua candida buona fede, la porta ad essere succube delle trame di Ortrud-Friedrich, che la spingono poco a poco – tutto il secondo atto è occupato da questo scientifico quanto perfido lavaggio del cervello - a vivere come insopportabile l'imposizione di cui è stata fatta oggetto (non dover chiedere mai al marito chi egli sia e da dove sia venuto). Il suo cedimento, la domanda che lei rivolge a Lohengrin è il tradimento della sua fede, ma testimonia il suo amore per lui: subito confermato dal suo tempestivo intervento a protezione del marito, allorquando Friedrich irrompe nella camera nuziale per ferirlo.
La storia si conclude effettivamente con parecchi fallimenti: Elsa muore per non aver avuto abbastanza fede, Ortrud per aver avuto una fede sbagliata, Friedrich per aver seguito una moglie dedita alla stregoneria. Lohengrin se ne torna a casa sconsolato, tristemente appoggiato allo scudo, ed a capo chino: in fondo, dopo l'iniziale successo (come avvocato difensore di Elsa) lui non ha saputo essere convincente, ha perso la battaglia contro le forze della religione nemica e ha mancato così la seconda parte della sua missione (liberare Gottfried). Per di più è andato in bianco anche sull'obiettivo personale, di vivere un amore terreno e carnale.
Ma nella storia troviamo anche più di un successo: la sconfitta di Ortrud - e con lei di un'intera civiltà - in fondo è quella delle antiche credenze oscurantiste, di fronte ad una religione più evoluta e moderna. Che sa premiare anche chi è debole nella fede (Elsa) e chi si rivela un mediocre ministro del culto (Lohengrin) come dimostra il fatto che, nonostante tutto, la grazia del Gral, implorata in ginocchio dal bocciato Lohengrin, arrivi comunque, sotto forma di restituzione di Gottfried alla sua natura di essere umano. La qual cosa comporta anche - sul piano politico – il riconoscimento divino dell'autorità temporale di Gottfried (tramite la spada che Lohengrin lascia per lui) e la garanzia per il suo Paese di un futuro di concordia e di sicurezza, includendovi quindi anche la necessità di guerre difensive. E, sempre per restare alla politica, c'è una buona, anzi ottima notizia anche per Re Heinrich: la profezia che Lohengrin gli fa, secondo la quale mai più in futuro la sua Germania verrà invasa dalle orde orientali. (Quest'ultimo passaggio è in realtà quasi sempre tagliato, anche a Bayreuth: Wagner fu il primo ad autorizzarne il taglio… chissà se lo fece perché si sentiva smentito dalla storia?)
Ecco, questo è ciò che leggiamo nel testo ed ascoltiamo nella musica che a quel testo è legata a filo doppio.
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Se poi esploriamo sommariamente lo scenario generale e le vicissitudini personali di Wagner al tempo in cui l'opera venne composta, al fine di individuarvi qualche possibile significato latente, possiamo identificare almeno due filoni: quello politico e quello artistico.
Sul piano politico, conosciamo bene la convinzione del compositore che la società del suo tempo fosse sulla strada dell'imbarbarimento, e necessitasse perciò di una scossa rivoluzionaria, che Wagner stesso, a fianco di gente come Bakunin, cercò di dare. Peraltro il nostro non prefigurava alcuna dittatura del proletariato, ma assetti istituzionali del tipo repubblica presieduta dal Re (!) idea che in fondo è abbastanza coerente con i ruoli e le figure di Heinrich e Gottfried come presentati nel Lohengrin. La cui partitura era ancora fresca quando Wagner fuggì da Dresda, accusato di sovversione e inseguito da un mandato di cattura. Ma era troppo tardi perchè il fallimento della rivoluzione potesse trovar posto all'interno dell'opera.
Sul fronte artistico, sappiamo come Wagner avvertisse acutamente la conflittualità fra un Artista moderno e innovatore (quale lui si reputava) e l'establishment culturale. Insomma, Wagner (come Lohengrin) vorrebbe far del bene all'Arte, ma non trova nessuno che si fidi di lui. (O quasi nessuno, bisognerebbe dire, poiché il futuro suocero fece di tutto proprio per mettere in scena Lohengrin, a Weimar, nel 1850).
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Adesso arriviamo al caro Neuenfels, il quale, nella più classica ed ortodossa applicazione dei canoni del Regietheater, si inventa un Konzept, vale a dire una sua personale concezione dei contenuti dell'opera, da presentare al - e condividere (!?) col - pubblico; concezione che ovviamente trae spunto da contenuti dell'opera medesima, ma poi li trascende in misura più o meno grande, fino a stravolgerli completamente, rendendoli con ciò – purtroppo - del tutto incompatibili con la musica, che da quei contenuti originali era stata ispirata.
Siamo in un laboratorio di ricerca sui comportamenti dei topi, poichè evidentemente per Neuenfels gli uomini non sono diversi dai roditori: anche loro al massimo possono mostrare qualche vaga e fallace reazione ad alcuni stimoli fisici cui vengano sottoposti in laboratorio – da un loro simile, trasformato in agente provocatore/facilitatore - ma nulla più. Insomma, l'animale Uomo è soltanto un animale - come gridava anche il simpatico Bracardi (ma lui non lo faceva interpretando Lohengrin): l'uomo è 'na besctia! - irrecuperabile a qualunque elevazione culturale/spirituale.
Chi sia il padrone, o il CEO, di questo istituto di ricerca non è dato sapere, ma l'unica spiegazione sensata è che sia proprio un certo Hans Neuenfels, noto ricercatore nel campo dell'esistenzialismo e della sociologia applicati al teatro musicale. I protagonisti, tutti non-topi (magari ex-topi: Lohengrin, Elsa, Ortrud, Heinrich e l'Araldo; oppure topi che sembrano ex-, come Friedrich) sono verosimilmente diventati dei consulenti dell'istituto. Vediamo all'opera anche qualche volgare assistente in camice sterile (portantini, inservienti vari). Per il resto: topi. Che sarebbero poi i brabantini (maschi e femmine) e i guerrieri sassoni e turingi di Heinrich. A proposito, Wagner tiene moltissimo a distinguere fra i locali e i tedeschi, anche musicalmente, mentre per Neuenfels son tutti… topi. L'inizio della scena finale è paradigmatico: Wagner ci descrive i brabantini che arrivano in 4 gruppi, da 4 punti diversi (e accolti con altrettanto diverse tonalità dall'orchestra) e successivamente i turingi-sassoni con il Re; Neuenfels invece fa suonare l'orchestra a scenario vuoto (in TV ci hanno mostrato il backstage, con i coristi che si vestivano da topi per l'entrata in scena) e poi ci presenta tutti quanti i roditori indistinti (femmine incluse) bardati da teste di cuoio…
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La prima conseguenza di questa geniale scelta è la radicale eliminazione di tutti i riferimenti storici: Heinrich, la cui visita in Brabante è – non dimentichiamolo – il contenitore di tutta la storia, per Neuenfels praticamente non esiste, ridotto ad una specie di volgare capo-banda (anzi, branco) ormai completamente paranoico, che fatica a reggersi in piedi (però in scena continua a cantarci on nobiltà assoluta i suoi problemi imperiali con gli Ungarn). E che i Brabantini si uniscano per fronteggiare, insieme al Re, un pericoloso nemico, al regista deve dare proprio fastidio, lui dev'essere uno di quelli che si ammantano di iride e manifestano contro tutte le guerre e le armi, senza se e senza ma. E quindi non perde l'occasione per propinarci il suo anti-militarismo a buon mercato, mostrandoci l'uomo come esclusivamente animato da volgare aggressività. Però noi sentiamo i topi cantare versi di questo tipo: Quand'io l'odo così l'altissima sua stirpe provare, arde il mio occhio di lacrime dolci e sacre.
In compenso, il nostro ci dà un saggio di ipocrisia tutta tedesca, con un piccolo, ma significativo (e nemmeno nuovo) ritocco al libretto: nel verso Zum Führer sei er euch ernannt! con cui Lohengrin presenta il Gottfried risorto dalle acque, il regista sostituisce Führer con Schützer, pensando così (poveretto!) di risparmiare a Wagner l'ennesima accusa di essere il papi di Hitler…
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I colori degli abiti dei personaggi e dei topi – e le loro mutazioni nel corso del dramma - hanno evidentemente un significato: i topi neri rappresentano l'umanità al livello più basso di evoluzione, e sono tutti maschi; nero è anche il Re, loro capo decrepito e rincoglionito, ma pur sempre famelico. Quelli bianchi sono esseri più evoluti, meno aggressivi, e sono femmine (qui Bracardi dissentirebbe assai, smile!); bianca è anche Elsa, che evidentemente (come si addice al suo status di nobile) è la prescelta per l'esperimento di elevazione spirituale. Ci sono poi personaggi in grigio, come Ortrud e Friedrich (e l'Araldo, una caricatura di Peter Sellars, smile!) che evidentemente si trovano in uno stadio di evoluzione intermedio, ma sono soprattutto dominati dalla sete di potere. Poi ci sono anche i topolini rosa (ma che carini!) nel ruolo di paggetti degli sposi.
I topi, che durante il primo atto (dopo l'arrivo e poi la vittoria di Lohengrin su Telramund) si erano spogliati della pelle di topo ed erano apparsi con abiti gialli (quindi chiari, anche se non ancora bianchi) mostrando qualche progresso evolutivo (salvo mani e piedi, um… zampe) nel secondo atto assumono apparenze umane, ma sono in completo (smoking) nero - gli uomini - e con vestiti sgargianti le donne. Però gli spunta un metro di coda! Ma tutti, alla fine dell'opera, tornano irrimediabilmente a coprirsi di nero, uniti dall'aggressività bellicosa. E neri tornano anche quelli che prima erano bianchi, le femmine (così anche Bracardi è accontentato!) Ed ancor prima di aver saputo chi Lohengrin sia, recano già sulle loro divise i suoi due simboli: il cigno e una grossa L.
In effetti, Lohengrin si direbbe essere un ex-topo nero, che evidentemente ha scalato qualche gradino dell'evoluzione, superando precedenti test di laboratorio: all'inizio è vestito in buona parte di bianco, come ci viene già mostrato durante l'esecuzione del Preludio, dove appare nell'atto di sforzarsi di uscire dal laboratorio (Montsalvat, Gral, Parzival? tutte stupidaggini: peccato per Neuenfels che poi Lohengrin continui a cantarcele); Lohengrin arriva nel laboratorio per cercare di elevare alla sua altezza anche Elsa, ma alla fine ritorna nero pure lui, poiché il suo esperimento è fallito. Anche lui è ritornato allo stadio più basso dell'evoluzione, nel preciso momento in cui ha fatto secco Telramund, subito dopo aver constatato il fallimento del suo esperimento con Elsa. (Però, chissà perché, i topi di Neuenfels continuano ad apostrofarlo come den Gott gesandt!) Nel finale, nera torna anche Elsa (vestita a lutto, con tanto di veletta e scarpe in mano) mentre Ortrud si trucca oscenamente da cigno bianco per la sua chiassata.
Neuenfels dev'essere ateo, dal momento che ignora quasi del tutto ogni aspetto soprannaturale del dramma (e stiamo parlando di uno dei pilastri dell'opera!) Niente Montsalvat, niente Gral, Lohengrin è un semplice uomo con ascendenze rattiche, non si notano conflitti religiosi, Ortrud è declassata al rango di volgare mestatrice e imbrogliona: la prima scena del secondo atto ce la mostra insieme a Friedrich accanto ad un carro rovesciato (con la carcassa di un cavallo, rigorosamente grigio, come i padroni) sul quale i due stavano evidentemente cercando di fuggire con un carico di valigie colme di banconote e preziosi… (inutile dire che testo e musica stanno agli antipodi, beato il regista). Il crocefisso che accompagna il corteo nuziale viene dapprima sequestrato da due inservienti - stipendiati dal CEO Neuenfels, ovviamente - e non da Ortrud come si potrebbe immaginare… wagnerianamente, e poi recuperato da Lohengrin che lo brandisce quasi come un'arma… tutto qui.
Un filo di problematica para-femminista magari si intravede, ma proprio di sfuggita: Elsa è trasformata in SantaSebastiana dai maschi, che però nel mentre la infilzano di frecce con atteggiamento truce, cantano Ah! com'ella appare luminosa e pura! Nella scena della camera nuziale, ad Elsa viene negato anche il piccolo riconoscimento di essere lei a gettare a Lohengrin l'arma con cui far secco Telramund: invece è Lohengrin che disarma il fedifrago e lo abbatte con la di lui spada. A proposito di spade: Lohengrin arriva senza nulla, ed infatti anche per il duello del primo atto lui usa – irrispettosamente – la spada del Re… Però alla fine, miracolosamente, si ritrova – oltre al corno e all'anello – anche una spada da consegnare all'inebetita Elsa.
Quanto ai riferimenti all'Artista in un mondo indifferente se non ostile, non se ne vede la minima traccia.
Ma allora, qual è questo benedetto Konzept? Semplicemente: il più profondo pessimismo (del regista, non già di Wagner) sulle capacità umane (singoli e comunità) di evolvere in senso positivo, di migliorarsi e di progredire culturalmente e spiritualmente. Alla base di questa produzione sta il nichilismo più totale e disperato: il destino dell'umanità (secondo il regista) è quello di ripiombare ogni volta e irrimediabilmente nella barbarie, dopo aver inutilmente tentato di uscirvi.
Qualche dato a supporto: la barchetta di Lohengrin è una bara, che compare anche nella camera nuziale e poi alla fine. I tre filmati con le tre verità (di Neuenfels) ci mostrano solo topi famelici, che nell'ultimo addirittura inseguono e scarnificano completamente un povero cane. Persino il cigno, simbolo dell'ideale cui gli uomini anelano - e nella leggenda wagneriana un essere umano che… meriterebbe rispetto – viene qui assai bistrattato: già traina una bara, e passi, ma alla fine del primo atto compare del tutto spennato e con le palme nere; poi nel secondo (quando Elsa ne ha il presentimento) ricompaiono le sue penne dentro alla solita bara. Infine si mostra per quel che veramente è, quando dal suo uovo nasce – al posto di Gottfried – quella spaventevole chimera (dai tratti orientali!) che al calare del sipario finale distribuisce all'umanità annichilita code di topo ricavate dal proprio cordone ombelicale: ecco, è proprio il simbolo tragico e sconvolgente di questa vision. Domanda a Neuenfels: ma perché, in sì apocalittico scenario, dal golfo mistico ci arriva pur sempre l'accordo perfetto di LA maggiore - invero celestiale - del Gral?
Ora, pochi dubbi che l'idea di Neuenfels sia in sé e per sé intelligente, affascinante e soprattutto splendidamente rappresentata. Lui in effetti sa come far muovere i personaggi: esemplare al proposito la scena nella camera nuziale. (Peccato però che il nostro non si trattenga da gigionate dissacranti, come quando, in detta scena, Lohengrin strapazza la recalcitrante Elsa come le dovesse dire: allora me la vuoi dare una buona volta, zoccola? Invece sta cantando Non respiri tu con me i dolci profumi?) Anche i movimenti dei topi, pardon… dei cori sono sapientemente gestiti, salvo qualche andirivieni dalle quinte piuttosto gratuito, quando sarebbe bastato qualche gioco di luce per ottenere lo stesso effetto.
Insomma, uno spettacolo di alto livello, niente da dire… o quasi. Perché un piccolo, insignificante dettaglio c'è: con il Lohengrin di Wagner – testo e massimamente musica – c'entra precisamente come i cavoli a merenda! E la salva di buh che ha accolto lo spegnersi delle luci era tutta per il regista (che non si è di certo fatto vivo alle chiamate).
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Sul fronte musicale, nessuna sorpresa rispetto all'audizione radio della prima, il 27 luglio. Un discreto Andris Nelsons che per me ha un poco sbandato qua e là con i tempi (per lui infatti solo applausi… asettici) e un grande coro (Eberhard Friedrich e i suoi hanno ricevuto autentiche ovazioni).
Klaus Florian Vogt (vocina sottile, ma efficace) e Annette Dasch (una Elsa abbastanza dignitosa, anche se non trascendentale) hanno trionfato, facendo tremare i tavolati del teatro:
Bravissimi per me anche Petra Lang, una Ortrud impeccabile e Georg Zeppenfeld, il Re paranoico (smile!) Un po' sotto la media Jukka Rasilainen, che rimpiazzava Tòmasson come Friedrich. Una nota speciale anche per l'Araldo, Samuel Youn. All'altezza del compito i 4 nobili.
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