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27 giugno, 2011

Oro a 18 carati alla Fenice


Invece di aprirci la Tetralogia, alla Fenice di Venezia (ma non sono né i primi, né gli unici) usano Das Rheingold per chiuderla, e anche questo è un segno dei tempi. O forse qualcuno ha sposato l'idea di chi sostiene che alla fine di Götterdämmerung si torna alla casella zero del gioco dell'oca, e quindi tanto valeva passarci direttamente in chiusura di ciclo…

Per la verità, quando le giornate del Ring sono presentate a distanza di anni – invece che di giorni – l'ordine di apparizione è del tutto indifferente. E certo lo stesso Wagner, che concepì la sua Tetralogia ben prima di avere un teatro tutto suo (dove rappresentarla in 5-6 giorni al massimo) pensò bene di strutturare ciascuno dei quattro drammi in modo da poter essere eseguito singolarmente, come qualunque altra Opera tradizionale.

Comunque, a completare il fosco quadro fenicio ci si sono poi messi i tagli del FUS, che hanno consigliato-imposto l'esecuzione in forma di concerto (ma Carsen qualche penale la vorrà pur riscuotere, oppure farà il signore e si limiterà a diffondere un proclama politico?) Chissà se sia questa la ragione principale che ha tenuto molta gente lontana dal teatro (sentita in galleria: mia moglie non è venuta perché oggi non ci sono le coreografie…) Oppure, dopo Wagner, a Venezia è morta pure la sua arte? Oppure ancora: a far salire a livelli scandalosi il numero di posti deserti ha contribuito anche l'inopinata defezione di Jeffrey Tate – papà musicale di questo Ring veneziano - che per ragioni di salute ha dovuto cedere il posto a Lothar Zagrosek? Il quale è un 69enne non proprio celebre Kapellmeister che magari non passa per un super-specialista di Wagner (anche se ha inciso un Ring con la Stuttgart Staatsoper, ma per un direttore tedesco questo deve essere come l'esame di ammissione alle medie, smile!)

La mancanza di scene, costumi e movimenti – fra mille contro - ha comunque almeno un indubbio pro: consente, per non dire costringe lo spettatore a concentrarsi su testo e musica, senza distrazioni di sorta, che spesso e volentieri (e anche Carsen non è sempre esente da colpe in proposito, diciamolo pure) vengono indotte da regìe pazzoidi o dissacranti.

Orchestra un pochino sottodimensionata rispetto alle velleitarie indicazioni di Wagner: negli archi (non li ho contati, ma mi son parsi meno di 64!) e nelle arpe (solo quattro, invece delle 6-7 prescritte dal megalomane di Lipsia, che immagino non si trovino in tutta Venezia…) Delle 18 incudini (!) poi si sono sentiti soltanto alcuni lontani rumorini, che parevano prodotti da un paio di triangoli, non di più… I cantanti entravano sul palco in prossimità delle rispettive esibizioni, per poi allontanarsi (e magari tornare più avanti…) Qualche vago gesto per mimare le situazioni più topiche (ad esempio: Alberich trasformatosi in rospo ed acchiappato da Wotan, Fafner che ammazza Fasolt con un paio di finti cazzottoni, e cose simili) per ricordarci che non ascoltavamo una sinfonia di Mahler, ma un dramma di Wagner. Più di così, francamente il FUS oggi non consente (cry!)

In ordine di apparizione. Zagrosek ha iniziato con un Preludio – per i miei gusti – un tantino accelerato: come fosse un FFW di alcune ere geologiche. Poi mi è parso rispettare abbastanza onestamente i tempi e dosare sufficientemente bene le sonorità. Non male la chiusa, dove ha trattenuto l'orchestra nella prima esposizione del ponte, per scatenarne tutta la possanza nella seconda e definitiva. Teniamo conto a sua scusante che non deve avere avuto secoli di tempo per affiatarsi al meglio con l'orchestra.

Delle tre Rheintöchter la Woglinde di Eva Oltivànyi mi è parsa la meglio in… onda (smile!) seguita dalla Flosshilde della Annette Jahns e dalla Wellgunde della Stefanie Irànyi (meno penetrante).

Richard Paul Fink nei panni di Alberich è stato l'autentico mattatore del pomeriggio: gran voce e soprattutto perfetto calarsi nei panni del personaggio più tosto dell'intera Tetralogia. Memorabile la sua maledizione!

Wotan era Geeer Grimsley: francamente non mi è molto piaciuto; voce potente ma difficoltà continua a trovare l'intonazione (sulle note alte) e tendenza all'ingolamento. Ha fatto poi un dio abbastanza monocorde, mentre sappiamo che Wotan ha una personalità zeppa di complessi e di manìe.

Bene la Natascha Petrinsky nel porgere la petulanza di quella noiosa megera che risponde al nome di Fricka. Ed altrettanto direi della sorellina Freia, di cui Nicola Beller Carbone ha saputo ben interpretare la parte della donna-oggetto-simbolo (una di quelle che secondo Bracardi c'ha 'n cervelo de galina…)

Che dire dei due Giganti? A me è parso che Gidon Saks (Fasolt) e Attila Jun (Fafner) si siano scambiati i ruoli. Fasolt è il gigante buono, dall'animo mite e dall'approccio accomodante; e poi è proprio innamorato cotto di Freia! Invece Fafner è un bruto che pensa solo alla roba (materiale o umana, poco gli importa) da possedere, mettendola sotto il materasso. Orbene, mentre Jun ha esibito una voce onesta e ben impostata, Saks non ha fatto altro che schiamazzi, con un vocione tanto forte quanto ingolato: piuttosto male, sia come canto che come immedesimazione nel personaggio.

I due dèi minori erano Ladislav Elgr (Froh) e Stephan Genz (Donner). Il primo ha mostrato una bella voce, adatta al ruolo (di un effeminato?) anche se poco penetrante: deve soprattutto cantare la sua arietta (Wie liebliche Luft) e lo fa assai dignitosamente. Non altrettanto posso dire di Genz, abbastanza anonimo e meno efficace nel suo Hedà, Hedò.

Altro personaggio chiave è Loge. Qui Marlin Miller si è ben portato (con Fink, di certo il migliore della compagnia): voce assai appropriata al ruolo del guizzante, scottante e strafottente tipaccio. Peccato che gli scarseggino un tantino i decibel.

Mime era Kurt Azesberger. Prestazione più che dignitosa la sua, nei panni di un nano (non nel fisico, lui alto e allampanato!) frustrato e bistrattato, che ha una parte con più guaìti che canto.

Ceri Williams è comparsa verso la fine (Erda) ad ammonire Wotan: già la sua stazza è consona al personaggio e ieri poi indossava un lungo scarlatto che ne ha ingrossato (smile!) la presenza in scena. Quanto alla sostanza (il canto) direi più che discreta, anche se personalmente preferisco una voce ancora più cupa e… cavernosa.

Resta da dire dell'Orchestra: Rheingold non è certo Tristan e per sua natura ha un contenuto, come dire, primitivo e facile (almeno apparentemente). La prestazione dei fenici mi è parsa tutto sommato encomiabile. Spendo un applauso speciale (in quota rosa) per Eleonora Zanella, che dalla campana della sua tromba ha splendidamente sfoderato la Spada!

 

Il pubblico presente ha compensato i vuoti in sala moltiplicando gli applausi e le grida all’indirizzo di tutti. Fuori, la Venezia di sempre, invasa da ogni esemplare – anche il più raro – di fauna umana.
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24 giugno, 2011

Alla scala Capuleti e Montecchi secondo Gounod



Ieri sera ultima rappresentazione alla Scala del capolavoro di Charles Gounod, che vi mancava da pochissimo tempo (in fin dei conti, cosa volete che siano 77 anni, in confronto all'eternità?)

Come è capitato in altri casi, anche Roméo et Juliette ha subìto vicissitudini più o meno tormentate, a fronte delle quali esistono diverse versioni dell'opera, oltre ai soliti tagli storicamente praticati con l'approvazione, o la tolleranza, dell'Autore. Cosa che dà modo a registi e direttori di inventarsi ogni volta una nuova presentazione. In questo caso è stata presa come base la versione del 1888 (che Gounod approntò per l'esordio all'Opéra) alla quale sono stati apportati alcuni tagli, sia tradizionali (balletti) che non; in compenso riaprendone altri. Insomma, non siamo proprio in una situazione caotica tipo Boris, ma poco ci manca.

Un primo taglio è nel finale I, la proposta di Tybalt di inseguire i rivali, l'altolà di Capulet e il coro che inneggia alla festa: francamente è un taglio quasi usuale e non ci priva né di grande musica, né di pathos drammatico. Poi è accorciato il duetto del finale II (dove Juliette vorrebbe Roméo legato con un filo di seta, come un uccellino che un bambino riporta a sé quando si allontana troppo). Effettivamente questo scorcio si porta dietro anche ripetizioni (eccessive?) di cose già dette e ripetute, ma il taglio pare effettivamente ingiustificato e oltretutto mai accettato di buon grado dall'Autore. Poi ancora nel quartetto dell'atto IV sono tagliate 16 battute (4 versi) cantate da Capulet (L'autel est préparé): taglio davvero cervellotico, non fosse che per la dimensione esigua (di tagli del genere se ne potrebbero fare allora decine e decine). Sempre nell'atto IV è tagliata gran parte della cerimonia nuziale: nulla da dire per quanto riguarda i balletti (sappiamo fossero un immancabile quanto insensato debito alle regole del GrandOpéra) però i tagli del corteo nuziale e dell'Epithalame paiono meno giustificati (anche se non nuovi, ovviamente). Infine nell'atto V sono tagliati l'Entr'acte e la scena fra Laurent e Jean: probabilmente il secondo taglio (più che ammissibile, chè il breve scambio di parole fra i due frati ci dovrebbe solo rendere edotti del fatto che Roméo non conosce lo stratagemma della finta morte di Juliette, cosa che però ci verrà da lui stesso chiarita in seguito) ha imposto anche quello dell'Entr'acte, per evitare la concatenazione con un secondo preludio, qual è in effetti il successivo Sommeil de Juliette, con cui quindi si apre l'atto in questa produzione. Invece è stato – giustamente, perché grande musica – eseguito Amour, ranime mon courage dell'atto IV, che Gounod fece tagliare addirittura alla prima del 1867 e per molti e molti anni non fu eseguito.
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Dalle circa tre ore (nette) di musica dell'originale siamo quindi passati a poco più di 2 ore e mezza e ciò ha consigliato di proporre i cinque atti in due soli spezzoni, con un unico intervallo. Posto in corrispondenza della cesura fra i due quadri del terzo atto, cioè dopo il matrimonio segreto e prima della rissa fra le due tifoserie. Scelta tutto sommato condivisibile, dato che in pratica crea uno spartiacque fra il versante ascendente del dramma (l'amore che nasce, si consolida e si concretizza in uno scenario di un promettente futuro) e quello discendente (gli omicidi, la condanna di Roméo, il patetico-pazzesco stratagemma di Laurent e il precipitare verso la tragica-nobile fine dei due amanti).
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La regìa di Bartlett Sher è piuttosto tradizionalista nell'ambientazione (del resto di versioni del dramma portate ai giorni nostri ce n'è anche di autentiche e originali, con tanto di parole e musica appositamente composte, vedi West Side Story… per giustificare allestimenti in chiave contemporanea) ma abbastanza gradevole nel complesso, pur con qualche trovata fra il velleitario e il gratuito: come la scena di stupro durante il prologo, oppure i petardi che scoppiano addosso a Juliette al suo ingresso o alcuni gesti immotivatamente bruschi (Tybalt con Juliette e Gertrude con Tybalt). Poi nel duello Roméo-Tybalt casca dall'alto un enorme lenzuolo bianco, che scopriremo solo più tardi servire da maxi-copriletto per il maxi-letto di Juliette e poi ancora come strascico dell'abito nuziale della protagonista. A proposito del duello, anziché con la spada, Roméo ferisce Tybalt in modo poco sportivo, per così dire: lo aggredisce alle spalle mentre è disarmato e lo accoltella con un pugnale. E questo pugnale sarà poi quello che Juliette impiegherà nel finale, dove peraltro arriverà in modo assai contorto: non già nascosto da Juliette sotto la veste prima di svenire e quindi ritrovato al cessare dell'effetto della droga di Laurent (come ci informa il libretto originale) ma abbandonato sul terreno al momento della finta morte e miracolosamente ricomparso sul catafalco, accanto al corpo di Juliette al suo risveglio. Ma insomma, un regista che segua pedissequamente le didascalie originali oggi ci farebbe la figura del pirla, quindi qualche invenzione bisogna pur proporla al pubblico che esige novità.
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Gounod con quest'opera realizza una specie di sincretismo fra diversi generi e tendenze musicali. Non pretende di rivoluzionare nulla: siamo sempre ai numeri (più o meno) chiusi, collegati da recitativi accompagnati, ma vi fa capolino anche Wagner, quello giovane, che si sente distintamente e immediatamente all'attacco dell'Ouverture (quasi copiato da quello dell'Holländer, con la base di RE minore - quinte vuote - sostenuta dagli archi) e poi in alcune transizioni che ricordano Lohengrin. Ma anche in uno sfumato tristanismo che emerge qua e là. Nulla di wagneriano invece nella trattazione dei Leit-motive, dove Gounod si limita a pochi – anche se mirabili – richiami tematici in alcuni momenti topici del dramma. In un passo di Frère Laurent pare anche di sentire Sarastro nel finale del Flauto. Singolare – e difficilmente casuale – la citazione quasi alla lettera del tema del Concerto per violoncello di Schumann che udiamo nell'atto IV, all'attacco del N° 17 (scena e aria di Juliette Dieu! Quel frisson court dans mes veines?):
Quanto al contenuto del dramma, sappiamo che Gounod - per quanto colpito da giovane dal finale della Sinfonia Drammatica di Berlioz - allorquando dopo quasi 30 anni si mise a comporre la sua opera pensò bene di divergere da Berlioz-Shakespeare e di avvicinarsi caso mai a Wagner, puntando tutto sui sentimenti e sul privato.
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Sul fronte dei suoi imitatori (per così dire, o ammiratori) troviamo ad esempio il Ciajkovski dell'Onegin (ma non solo). A proposito del compositore russo, era così innamorato dei lirici francesi che li citò più volte anche nella sua produzione strumentale: oltre al Bizet (Carmen) che compare scopertamente nel Concerto per violino e nel primo movimento della Patetica, anche tratti del Romèo si odono nel finale del Concerto per pianoforte e nella stessa Patetica. Ma lo stesso Mahler non ha scherzato nel ricordarsi di alcuni struggenti passaggi dell'opera (ad esempio nel finale della sua prima sinfonia).
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Yannick Nézet-Séguin - di fatto un francese, pur se nordamericano - ha mostrato di calarsi assai bene nello spirito e nelle atmosfere gounodiane: fracassi limitati al minimo indispensabile, per le scene di massa – festose o cruente – fra le fazioni guelfo-ghibelline della Verona rinascimentale; e invece delicatezza di suono e lirismo (appunto) hanno caratterizzato la sua direzione - di un'orchestra abbastanza diligente - assai curata anche nel sostegno dei cantanti.
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I quali han fatto ciò che potevano e sapevano: cioè cose non strepitose, diciamolo francamente. La voce di Pavarotti uno non può inventarsela (vale per Grigolo, che però ha un bel fisico, non c'è che dire, cosa che oggigiorno pare contare più della voce) e però si potrebbe perfezionare ancora, onde superare il livello di semplice sufficienza (questo consiglio è indirizzato anche a quella bella gnocca di nome Nino). È toccato ai comprimari Vinogradov (un Laurent con gran voce e buon portamento) e Braun (apprezzabile la sua Reine Mab) alzare un filino la media, mentre Ferrari (un mediocre Capulet) Burggraaf (poco efficace come Stéphano) e Gatell (un Tybalt piuttosto spento) non hanno propriamente incantato. Gli altri (vedi locandina) hanno fatto il loro dovere. Sempre bene anche il coro di Casoni.
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Successo caloroso per tutti, e adesso, chiusa questa apparizione al Piermarini, a Roméo et Juliette non resta che dire: arrivederci al 2088!
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20 giugno, 2011

Week-end coi fiocchi al Ravenna-Festival


Due delle più prestigiose orchestre europee, guidate dai rispettivi direttori musicali, a loro volta stelle del firmamento internazionale, hanno illuminato il fine settimana (già da esodo estivo con tanto di bollino nero, se si parla di code di auto sulle strade…) del RavennaFestival: sabato Salonen-Philharmonia e domenica Nagano-Münchener. Da leccarsi i baffi! Cosa che il pubblico, foltissimo (anche se Abbado aveva battuto tutti i record di presenza) ha puntualmente fatto.

Esa-Pekka ripropone qui la versione originale di Musorgski de La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo, che ci aveva eseguito nell'ultima edizione del MITO. Mettendo in risalto tutte le barbare spigolosità di questa geniale partitura. Chi ha più consuetudine con la più orecchiabile versione di Rimsky può rimanere perplesso, ed anche il pubblico del PalaDeAndrè sembra preso un poco in contropiede e trattiene – per il momento – i suoi entusiasmi.

Che aumentano con l'arrivo di David Fray, trentenne dal volto e dalla capigliatura che ricordano nientemeno che Robert Schumann, il quale – accomodato su una normale sedia, in luogo del classico sgabello – ci ha offerto una bellissima interpretazione del K 466 di Mozart. Ben assecondato da Salonen, che ha fatto la sua parte nei lunghi tratti riservati all'orchestra, dentro il dialogo col solista. Fray, applaudito a scena aperta già al termine dell'iniziale Allegro, è stato delizioso soprattutto nelle cadenze e nella centrale Romanza:


mettendo in mostra grande tecnica, accompagnata da altrettanta sensibilità e cura dei dettagli. Per lui quindi un trionfo, suggellato da un prezioso bis bachiano.

In chiusura di programma ufficiale ecco Bartok e il suo celebre Concerto per orchestra. I professori della Philharmonia hanno qui modo di mettere in evidenza anche le loro qualità solistiche, in specie i fiati, che nel secondo movimento (Il gioco delle coppie) sono chiamati ad esibirsi proprio in primo piano. Ma hanno modo di emergere anche la seconda arpa, con il suo bizzarro inciso – nell'iniziale Introduzione – suonato con due ferrettini al posto dei polpastrelli, e soprattutto il timpanista, che nell'Intermezzo interrotto deve percorrere l'intera scala cromatica, impegnando assai anche i piedi, per accordare opportunamente le membrane (ed infatti, conclusa l'impresa, il simpatico Andrew Smith mostrava tutto il suo auto-compiacimento…)

Accoglienza caldissima, con ovazioni e urla, che Salonen e i suoi ripagano – precisamente come nella citata esibizione allo scorso MITO (ma qui mancano di fantasia, smile!) - con la Valse triste, in omaggio alla patria lontana del Maestro e poi con il Preludio III del Lohengrin, che fa tremare le strutture del palazzetto e provoca quasi una sommossa sulle tribune.

Domenica è stata la volta del Filarmonici monacensi condotti dal sempre capellone nippo-yankee Kent Nagano. A Monaco si prepara il cambio della guardia fra tale Christian Thielemann (che per aver voluto troppo, è rimasto con un… biglietto per Dresda) e l'arzillo nonno Lorin, che per i prossimi tre anni farà ritorno in Baviera. Ma l'Orchestra sembra impermeabile a questi cambiamenti, e suona in modo divino (senza togliere meriti a Nagano, ovviamente). Oggetto dell'esibizione la sbifida Settima Sinfonia di Mahler (anniversari).

Che vien fuori come fosse scolpita con un rasoio, senza una sbavatura, fredda ed enigmatica come non mai: le Nachtmusiken più che sogni sembrano evocare folletti e spettri (in fondo sono coeve della Tragica…) e lo Scherzo è proprio pieno di ombre, con rari squarci di luce. Nel tempo iniziale Nagano parte con grande retorica, lasciando dispiegare tutta la cupa sonorità del Tenorhorn (dislocato in alto a destra, quasi isolato, sopra il pacchetto dei corni, nell'orchestra con disposizione alto-tedesca) ma nell'Allegro risoluto cambia subito marcia, imponendo un ritmo assillante. Per poi allargare benissimo nell'Adagio dell'episodio centrale, un vero e proprio Höhepunkt, dove ancora i tromboni e il tenorhorn espongono maestosamente questo motivo:
che conduce alla lancinante perorazione dei violini:
Travolgente il Rondo-Finale, wagnerianamente introdotto da un autentico virtuosismo dei timpani e dei corni:
Dopo il conclusivo schianto il PalaDeAndrè si trasforma in una bolgia e le chiamate si succedono per minuti e minuti, con Nagano che fa alzare i diversi professori, veri solisti di questa grande orchestra e infine mima un sayonara e prende sotto braccio il Konzertmeister per rimandare tutti a casa, mentre sul palco ci si abbraccia e ci si complimenta per questa prestazione davvero outstanding.
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Fuori – e sono quasi le 23 – la coda dei rientranti dalle spiagge è ancora interminabile (ma cos'è questa crisi?) Meno male per me che viaggio in contro-tendenza!
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15 giugno, 2011

Luisotti con la Filarmonica, prima di vedersela con Attila


Il prossimo lunedi 20 giugno Nicola Luisotti aprirà le rappresentazioni scaligere di Attila, opera non propriamente facile, così come non troppo eseguita.

Per prepararsi a questo insidioso incontro, il bravo Nicola si sta allenando con la Filarmonica, che eroga (a-gratis, smile!) le tre repliche dell'ultimo concerto della Stagione del Teatro.

Programma che prevede dapprima l'ultra-inflazionato Concerto in SIb Minore di Ciajkovski, interpretato da quella specie di orso yoghi (smile!) che risponde al nome di Lexo Toradze. Il quale sarà pure unorthodox, come lo descrivono i suoi compatrioti-acquisiti yankee, ma accipicchia anche da Ciajkovski - che pure non è la sua specialità – sa cavare cose egregie! Ben supportato da un'orchestra che Luisotti comanda con gesto imperioso, a dispetto della rinuncia alla bacchetta. Orchestra verso la quale il nostro si volta completamente durante le sue pause, sedendosi sul lato stretto del suo sgabello, quasi a sostenerla con ammiccamenti e sorrisi.

Applausi a scena aperta già dopo il primo movimento. Delizioso l'Andantino semplice centrale, caratterizzato dal dialogo con il flauto e il violoncello. Dopo il travolgente finale il trionfo è assicurato e Toradze non ci nega il bis: dopo una specie di esercizietto, il nostro ci introduce al successivo Prokofiev con un pezzo (dalla sonata n°7, credo) di alto virtuosismo.

Più impegnativa - perché un poco meno eseguita, ma soprattutto più ricca di polpa e succo – la Quinta di Prokofiev. Luisotti ha nel frattempo recuperato la bacchetta e attacca assai bene l'Andante introduttivo, dove il pacchetto degli ottoni – croce e delizia dell'orchestra - se la cava abbastanza dignitosamente, tuba in testa, in quella specie di grandioso corale, scandito dai tremendi colpi di grancassa, tamtam, tamburi e timpani, che precede la conclusione:
Nello Scherzo Luisotti si lascia prendere la mano dalla sbarazzina motorietà del brano:

ed eccede in gigionerìe gestuali francamente più consone ad un clown che ad un direttore: peraltro ciò potrebbe indicare che il feeling con l'orchestra sia buono (Attila è avvertito!)

Molto meglio l'Adagio, movimento insidioso in quanto contempla il rischio di una generale russata (smile!) Invece Luisotti sa tenere desta l'attenzione e sveglio l'ascoltatore con una efficace sottolineatura dei chiaroscuri di questa difficile pagina.

L'Allegro giocoso mi è invece sembrato un tantino moscio: una dose di verve in più, già dallo stacco dopo l'introduzione, non avrebbe certo guastato. Forse per questo l'accoglienza finale è stata calorosa sì, ma non proprio trionfale.
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11 giugno, 2011

Il maeschtro non si romanizza



Riccardo Muti declina l'offerta di cittadinanza onoraria di Roma.

Qualche cittadino SPQR (nell'accezione bossiana, smile!) ha pensato bene di rovinargli la festa.
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10 giugno, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 38



Xian Zhang chiude la stagione 10-11 con un pirotecnico viaggio in America, suo Paese di adozione, prima dell'approdo sui Navigli milanesi. Orchestra che si presenta per l'occasione con l'intero organico: arpe, saxofoni, tastiere, banjo e stuolo di percussionisti inclusi.

Rispetto al programma originario, c'è un'inversione di posizioni fra Gershwin e Bernstein, per cui ad aprire è Lenny con il suo West Side Story, di cui viene eseguita la Suite. Il famoso musical è una moderna ambientazione (a NewYork) di Romeo&Juliet, con Jets e Sharks ad impersonare Montecchi e Capuleti e Tony e Maria nei ruoli dei protagonisti. La suite, intitolata Symphonic dances, presenta i principali motivi del musical raccolti in nove numeri. Qui la dirige l'Autore.

Bernstein rappresentò musicalmente l'incompatibilità fra le due gang facendo ampio uso dello sbifido tritono, anche nei momenti più lirici, come il celeberrimo Maria (ne sentiamo il motivo nel 5° e 6° numero) che sale da tonica a dominante passando appunto per la quarta aumentata. Ma nell'Adagio finale (che chiude sia l'Opera che la Suite) troviamo nientemeno che una reminiscenza del wagneriano tema della Redenzione!

Zhang non bada a spese e ci cava tutta la sonorità e pure il fracasso dovuti, ma allo stesso tempo la struggente liricità dei momenti più intimi, compreso, appunto, il Finale.

Poi arriva il clarinettista Martin Fröst, abbigliato con una livrea che non sapresti dire se più consona ad una jam-session di una Band di NewOrleans, o alla Banda d'Affori agghindata per Carnevale. A dispetto del suo nome (letteralmente: Gelo) questo spilungone nordico ha l'argento vivo in corpo e manovra lo strumento con funambolica abilità. Insomma: un fenomeno.

Comincia con il primo dei due Concerti in cui è impegnato, quello di Aaron Copland. Dedicato al grande Benny Goodman, è prevalentemente in DO e inizia con un Lento, espressivo, in effetti un'elegia, dove il clarinetto è accompagnato prevalentemente dall'arpa e dal sommesso sostegno degli archi.

Arriva poi una cadenza, dove il solista deve tirar fuori… tutto il fiato che ha, e qui Fröst comincia a mostrare di che pasta è fatto:

Segue quindi un interludio (che permette al solista di ricostituire la sua scorta di fiato…) e poi la seconda parte del concerto, in tempo Piuttosto veloce, e con successive accelerazioni, dove fa la sua comparsa anche il pianoforte, ad aggiungere le sue gocciolanti sonorità a quelle di arpa e archi. In questa specie di rondò viene fuori tutto lo spirito jazz-istico del concerto, che si chiude con una esilarante scalata di quasi tre ottave, dal MIb al DO.

Pur essendo materia contemporanea e non vecchia di secoli, anche qui ci sono diatribe infinite su alcuni particolari della partitura, alimentate da discrepanze fra l'edizione per orchestra e la riduzione per clarinetto e piano, e fra ciò che è scritto e ciò che diversi interpreti suonano (con l'avallo, fra l'altro, di Copland medesimo). Ma trattandosi di jazz (smile!) evidentemente tutto è… ammissibile. Francamente il ritmo è così travolgente che per me è difficile dire quali scelte abbia fatto Fröst sui vari punti controversi (bisognerebbe analizzare la registrazione al… rallentatore).

Ancora lui, subito dopo, alle prese con il breve Concerto composto da tale Arthur Jacob Arshawsky. Come dire: Carneade, chi era costui? In realtà un tipo assai famoso, ma con il nome d'artie di Artie Shaw. Questo concerto fu composto per essere suonato dall'Autore nel film musicale Second Chorus (1940) che aveva per protagonista Fred Astaire (che lo ricordò così: il peggior film che abbia mai fatto!)
Sono più o meno 9 minuti di musica, in tonalità principale di SIb (proprio quella naturale dello strumento) che è jazz allo stato puro, a parte un iniziale tempo di Allegro, che è seguito da un Boogie-woogie e quindi dallo Swing, che incorporano anche un paio di cadenze. Ma anche tutta la prima parte dello Swing è in pratica una micidiale cadenza solistica (l'accompagnamento è del solo tom-tom) che mette davvero a dura prova l'abilità dell'interprete.

Nell'Allegro iniziale pare che il solista stia attaccando un tema della Gazza ladra; gli rispondono gli archi con una cosa che ricorda Voci di primavera (smile!) Ma è tutto uno scherzo, evidentemente, poiché il Boogie-woogie arriva presto a chiarire le cose in modo inequivocabile:

Ma per Fröst tutte queste paiono essere delle quisquilie, tanta è la facilità e la naturalezza con cui le affronta. Un autentico trionfo per lui. Che dopo due pezzi così è ancora più fresco (smile!) di una rosa, tanto da permettersi, con l'orchestra, un bis di questo tipo.

Dopo la pausa, tutto Gershwin. Dapprima ecco arrivare An American in Paris. Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:
È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all'insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:

Ora, stanco per la lunga camminata, l'americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:

Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro (cosa che il bravissimo Alessandro Ghidotti ha prontamente eseguito). Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un'ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l'ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano, fra uno scroscio di applausi.

Per finire, ancora Gershwin, a mezzo Robert Russell Bennett, con un estratto sinfonico da Porgy and Bess (già eseguita qui in forma ridotta e semi-scenica sotto la guida di Wayne Marshall).

A symphonic picture è il titolo della suite, dove compaiono i principali e arcinoti motivi conduttori dell'opera: da Summertime a I Got Plenty O' Nuttin'; da Bess, You is My Woman Now a Oh, I Can't Sit Down; da It Ain't Necessarily So a There's a Boat Dat's Leavin' Soon for New York; e per finire Oh Lawd, I'm on My Way.

Zhang pensa bene di accorciarla e distillarvi proprio il-meglio-del-meglio. Successo strepitoso e immancabile bis, con la ripetizione dello struggente motivo che accompagna Porgy mentre si allontana, sul suo carretto, per rincorrere il suo improbabile sogno.

Ora non resta che dire arrivederci a settembre per una nuova emozionante avventura con laVerdi.
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08 giugno, 2011

L’immarcescibile Abbado a casa di Muti



Ieri sera gran festa (dopo un anno esatto di attesa, seguito al malaugurato forfait del 2010) per Claudio Abbado all'inaugurazione del Ravenna Festival. Accoglienza a dir poco trionfale per questo autentico simbolo (magari non esente da contraddizioni) della civiltà musicale contemporanea. Ormai la gente lo segue in massa, dirigesse anche canzonette o musica metallara, invece che Mozart e Beethoven; e nemmeno i numerosi acquazzoni, che per tutta la giornata e fino all'inizio del concerto hanno immalinconito la Romagna, hanno dissuaso le moltitudini dal riempire fino all'inverosimile il PalaDeAndrè, per tributare clamorose manifestazioni di affetto al Maestro ancor prima che alzasse - per guidare una delle sue creature, la Mozart - la sua magica bacchetta.


Un Abbado in gran forma fisica, oltre che di spirito, che ha subito dettato il tempo ma anche lo spirito della mozartiana Haffner (K385). Sinfonia che si presta evidentemente a diversi usi e consumi. Lo scorso gennaio, all'Auditorium di Largo Mahler, Zhang Xian la impiegò come leggero e veloce antipasto prima di un piatto forte come il mahleriano Das Lied von der Erde. Qui invece Abbado - un po' come faceva Böhm - la tratta come una cosa seria e importante, una specie di piccola Jupiter, già a partire dalle cinque battute iniziali:

Anche in questa sinfonietta, come in alcune precedenti, Mozart si prende delle piccole libertà, rispetto alle forme codificate: non ripete l'esposizione nel primo movimento (che fra l'altro è sostanzialmente monotematico, RE e dominante LA) ma in compenso prescrive il ritornello in entrambe le sezioni del successivo Andante: la prima che espone i due temi (in SOL e dominante RE); e la seconda che introduce un terzo tema, ancora in RE, per poi riprendere i primi due, entrambi ora sul SOL. Abbado rispetta in pieno la prescrizione mozartiana, tenendo peraltro qui un tempo assai spedito.

Il Menuetto è assolutamente canonico: RE maggiore (con da-capo) e Trio (pure con ritornello) nella dominante LA. Così come il Presto finale, aperto dal celebre motivo discendente (RE-LA-LA-LA-FA#) che ricorda il simpatico Osmin del quasi contemporaneo Ratto: in RE e LA maggiore sono i due motivi che animano l'esposizione; nello sviluppo il secondo fa una fugace diversione a SI minore, poi la ripresa (come da canone della forma-sonata) li ripresenta entrambi nel RE maggiore di impianto. Abbado lo esegue ad alta velocità – ma qui Mozart lo impone – facendo fare ai ragazzi una inebriante volata.

Lucas Macias Navarro, primo oboe della Mozart (e non solo) interpreta poi il Concerto per Oboe (K314) in DO. Concerto di cui Mozart stese anche una versione per flauto, trasponendolo in RE.

Il Concerto richiede doti virtuosistiche fuori dal comune, costellato com'è, nei movimenti esterni, da continue volate di quartine di semicrome, spesso puntate, dove Navarro se la cava magnificamente. Dopo il languido e sognante Adagio in FA maggiore, Lucas è bravissimo nell'esporre il grazioso Rondò finale, col suo inconfondibile tema:
Meritatissimi applausi per lui, che dopo l'intervallo rientrerà a sedersi in mezzo ai compagni dell'Orchestra per dare il suo preziosissimo contributo a Beethoven.

Isabelle Faust, che avevamo ascoltato pochi giorni fa in un asciutto, ancorchè pregevole concerto di Brahms con Harding e la MCO alla Scala, ha qui proposto l'ultimo e più famoso Concerto per violino (K219) del sommo Teofilo.

Concerto dalla struttura singolare, per non dire bizzarra, già a partire dall'Allegro iniziale. La cui introduzione è sorprendentemente interrotta da un Adagio, che ha solo vaghissimi legami tematici con il resto, prima che venga esposto il tema principale, in LA maggiore, di una cui sezione forse si ricorderà Beethoven nella sua Leonore:
Il tema dell'introduzione (che include una vaga anticipazione dell'Allegro della celeberrima Sinfonia in SOL minore) ricompare poi come secondo tema (nella dominante MI) di questa strana forma-sonata, che presenta uno sviluppo comprendente un altro tema in minore e poi la ripresa, dove il secondo tema si riaccoda – nel rispetto dei sacri canoni - al LA di impianto, riprendendo quindi la forma con cui era comparso nell'introduzione. Ma l'anomalia più evidente è quella del terzo movimento, che invece di un canonico Allegro conclusivo, presenta un Menuetto, certo più adatto ad un tempo di sinfonia che non ad un concerto (qualcuno lo indica come Rondò, ma con argomenti discutibili). Poiché però non siamo in una sinfonia, non ci può essere alcun Trio, al cui posto troviamo invece un Allegro in cui par di sentire anche un po' del futuro Paganini:
Ma anche questo Allegro non diventa – come in un normale concerto o sinfonia – il finale, poiché è il Menuetto a ritornare per chiudere tutto, con un'esalazione piano, nel violino doppiato dai corni, della cadenza del solista, che riprende ciclicamente l'incipit del concerto. Sarà mica per tutte queste (mirabili!) stranezze che gli fu affibbiato l'epiteto di Turco?

La Faust è stata eccellente soprattutto nel porgere il bellissimo Adagio, in MI e SI maggiore, che è forse il momento più alto del concerto. Anche per lei un trionfo.

Dopo l'intervallo ecco Beethoven, un Beethoven forse - come dire - poco challenging per un tipo come Abbado, ma che il Maestro affronta come fosse alla prima lettura, con deferenza ed umiltà (mi verrebbe da dire…) La Pastorale è una sinfonia sbifida per sua natura, chè può essere presa troppo alla leggera (una scampagnata, in fin dei conti) oppure con eccessivo timore reverenziale e conseguente deriva enfatica. Ma Abbado sa alla perfezione come misurare gli ingredienti e come cucinarli in modo sopraffino e ne vien fuori un gioiello di equilibrio: anche il taglio del ritornello iniziale rientra in questa visione asciutta e rigorosa. Da incorniciare il Temporale, per forza e precisione insieme.

La Mozart mostra di essere una compagine ben assortita ed agguerrita in tutte le sezioni: dai corni, che Beethoven sollecita assai, ma che anche con Mozart hanno il loro bel da fare, agli strumentini e al pacchetto degli archi.

Interminabili e proprio da stadio – quale in effetti è il palazzone che ci ospita – le ovazioni finali al Maestro e ai suoi discepoli. Che ci regalano un marziale bis mozartiano, con finale suonato in piedi e i ragazzi che alla fine si abbracciano e complimentano (come si vede che suonano per passione!) per questa splendida serata.

Fuori – è quasi mezzanotte – pare che anche il cielo si sia fatto rasserenare dal fascino del grande Claudio.

Lo stesso programma, con gli stessi solisti, verrà ripetuto domani 9 giugno al Grande di Brescia, e il 12 giugno al redivivo Farnese di Parma.
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02 giugno, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 37



Il penultimo appuntamento stagionale ci riserva un titolo a dir poco capitale, nella storia della civiltà musicale mitteleuropea: Ein deutsches Requiem, diretto da Zhang Xian.


Naturalmente, in questa specie di roccaforte rossa (ora arancione?) che è l'Auditorium, il concerto è stato dedicato al trio Moratti-Berlusconi-Bossi (smile!) che del resto di musica seria si occupa ben poco (la zia sarà entusiasta di essersi liberata di quella rottura di coglioni rappresentata dalla carica di Presidente del CdA della Scala; il PM notoriamente preferisce Apicella a Verdi; quanto al durone, lui di Verdi ha fatto da tempo appropriazione indebita…)

Una precedente e speciale esecuzione del Requiem da parte de laVerdi risaliva all'11 settembre 2003, in occasione del secondo anniversario della vigliacca strage delle Twin Towers; allora a dirigere fu Claus Peter Flor. Significativamente, il prossimo 11 settembre, laVerdi tornerà a ricordare quella tragedia – in occasione del decennale - nel concerto inaugurale della stagione 11-12, che si terrà alla Scala. Proprio dove il Requiem ha risuonato anche lo scorso aprile, grazie ad una graditissima visita dei ceciliani di Pappano.

Devo dire che i nostri musicisti – con Sibylla Rubens e David Wilson Johnson – han fatto di tutto per non sfigurare di fronte ai più blasonati romani, che peraltro non sono li mejo in Italia così, per caso! Le differenze si sentono e i milanesi – diciamolo pure – hanno ancora un po' di polenta da mangiare, prima di arrivare al livello dei capitolini. In ogni caso sono stati bravissimi a trasmetterci lo spirito di questo Requiem piuttosto anomalo, dove la morte è evocata solo nelle ultime due delle sue sette parti, mentre il resto è una lunga e serena riflessione sull'umana esistenza, che comporta magari più miserie che gioie, ma cui la fede può portare conforto e speranza.

Le straordinarie arcate melodiche e le colossali fughe brahmsiane sono state disegnate e scolpite con sufficiente efficacia dalle voci e dagli strumenti guidati da quella simpatica coppia di signore che rispondono ai nomi di Xian e Gambarini. L'esecuzione di questa sera è certamente perfettibile, ma le due si meritano comunque un elogio: Selig sind!

Ed ora, per l'ultima fatica della stagione, Zhang Xian ci porterà in America.
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