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I due concerti pari (ma sappiamo che dietro i numeri c’è un mezzo inganno...) di Beethoven hanno chiuso il ciclo.
Smarchiamo subito il problema logistico derivato dal sandwich con cui Beethoven ha preso in mezzo Schönberg: il cambio del layout del palco per togliere il pianoforte dopo il n°2 per far posto all’affollato organico schönberghiano è stato offerto come diversivo - in certo senso artistico pure quello - al pubblico, costretto a stazionare in sala e nei palchi (chè due intervalli nel foyer sarebbero stati invero eccessivi: mica era Wagner!) Però il trambusto è durato almeno 12 minuti, con via-vai di orchestrali che uscivano-entravano, sedie portate sopra la testa come alle feste dell’unità ed altri prosaici cerimoniali da impresa di traslochi.
Passi. Perchè il Beethoven e lo Schönberg uditi prima delle meritate vasche nel foyer valevano bene quel piccolo sforzo.
Il primo (in effetti) concerto beethoveniano è proprio un piccolo cammeo settecentesco (niente trombe, nè timpani, tanto per dire) e tale ce lo ha restituito Barenboim, suonandolo dovutamente in punta di piedi, come aveva fatto (per me fuori luogo) nel primo-secondo (il 13 febbraio).
L’Opera 16 di Schönberg (1909) si trova a metà strada fra il periodo “tonale-tardo-romantico-cromatico-esasperato” di pezzi come Verklärte Nacht e Pelleas (presentati nei due primi concerti) e opere del periodo “seriale” (come le Variationen eseguite nel terzo). Un chiaro indizio di questo essere “nè carne, nè pesce” (mai come nel caso in questione il termine è un complimento!) lo si rintraccia osservando le partiture: ancora la Kammersymphonie, di un paio d’anni anteriore all’op.16, ha tanto di “accidenti” in chiave, mentre i 5 pezzi ne sono del tutto sprovvisti. Schönberg ha ormai abiurato la legge di gravitazione tonale e con essa le forme che su questa si reggevano. Infatti lui stesso parla dell’Op.16 come di pezzi “...senza sinfonismo, senza architettura, senza impianto, solo un multiforme ininterrotto cambiamento di colori, ritmi e atmosfere...” Ma così gli verrà poi a mancare il terreno sotto i piedi: l’espressionismo è per lui la momentanea via d’uscita, una breve ma grande stagione di cui l’op. 16 è lo zenit, musica da godersi senza cercare di capirla (a dispetto dei sottotitoli più o meno plausibili, oltretutto - pare - appiccicati a posteriori su richiesta dell’editore della partitura) e in cui ciascuno può sentire o immaginare o vedere o provare: sensazioni, colori, stati d’animo, un soffio di vento nei capelli e una goccia che cade nello stagno, una frana che travolge tutto (la grande guerra in arrivo?) e il rimpianto per un tempo che fu, ricordi e incubi che ritornano e passi che sfumano nella nebbia, languori e isterìe, paure e sospiri. Dovranno passare più di 10 anni prima che Schönberg si riabbia dal panico e dalla conseguente impotenza derivatigli dalla totale anarchia in cui, con l’espressionismo atonale tipo op.16, era andato a cacciarsi, e “inventi” (i maligni sostengono: scopiazzi, da Hauer) la tecnica seriale, con tutto il relativo toolbox fiammingo a corredo, per rimettere ordine e regole in un mondo arrivato - anche grazie a lui e secondo lui - sulla soglia di un irreparabile disfacimento (peraltro i suoi pupilli Berg e Webern non la pensavano esattamente così... e lo dimostreranno nella pratica).
Barenboim ha condotto da par suo; i Vorgefühle con cipiglio fin eccessivo (forse per dare una scossa al pubblico, dopo il trasloco?) Quindi ha allineato quasi sullo stesso piano Vergangenes e Farben, come fossero un unico sognante, ipnotico e inebetito movimento; per poi riscatenarsi in Peripetie, e chiudere sempre energicamente con Das obligate Rezitativ. Come riferimento, in rete si trovano queste notevoli esecuzioni di Michael Gielen con la Radio Olandese. E sempre sul tubo si trova il terzo pezzo diretto dallo stesso Daniel alla testa dei concittadini di Obama, suggestivamente supportato dall’esplorazione della partitura, secondo la guida analitica di Nicolas.
Il quarto di Beethoven è marziano, a confronto del primo: come per l’Imperatore, anche qui è parso che Daniel si sia forse fidato troppo della sua esperienza. Ma stavolta gli è andata bene, ecco. Interessante e simpatico l’intermezzo della cadenza (la seconda scritta da Beethoven) dove Barenboim ha chiamato ad un piccolo intervento il violoncello. Bravi anche gli ottoni, in particolare le trombe che - col timpano - devono fare irruzione d’acchito nel rondò finale, dopo aver assistito mute a quanto suonato prima.
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Il ciclo si è chiuso, che dire? Lodevoli le intenzioni, equilibrata e proporzionata la scelta dello Schönberg da affiancare ai concerti beethoveniani: si è potuta esplorare la parabola artistica del viennese, sia pure non in sequenza cronologica, ma si direbbe passando prima dagli estremi per arrivare infine “al centro”, a quel precario ed instabile equilibrio caratterizzato dall’espressionismo atonale, che resta tuttavia per molti l’apice dell’opera di Schönberg. Il tutto senza far ombra al monumento beethoveniano con eccessi quali sarebbero certamente stati i Gurrelieder che - peraltro - si meriterebbero da soli un bel primo piano. Il livello “artistico” delle performance, escludendo l’infortunio del 5°, è stato più che dignitoso, compatibilmente con l’attitudine non propriamente eccelsa dell’orchestra nel repertorio strumentale. A Daniel Barenboim, fuor di dubbio, il merito di aver portato alla Scala - insieme al Tristan (e alla Winterreise con Quasthoff!) - una salutare ventata di mitteleuropa. Più che dovuti quindi, e cumulativi, gli applausi trionfali quanto affettuosi che il pubblico ha voluto tributargli.
(4. Fine)
Smarchiamo subito il problema logistico derivato dal sandwich con cui Beethoven ha preso in mezzo Schönberg: il cambio del layout del palco per togliere il pianoforte dopo il n°2 per far posto all’affollato organico schönberghiano è stato offerto come diversivo - in certo senso artistico pure quello - al pubblico, costretto a stazionare in sala e nei palchi (chè due intervalli nel foyer sarebbero stati invero eccessivi: mica era Wagner!) Però il trambusto è durato almeno 12 minuti, con via-vai di orchestrali che uscivano-entravano, sedie portate sopra la testa come alle feste dell’unità ed altri prosaici cerimoniali da impresa di traslochi.
Passi. Perchè il Beethoven e lo Schönberg uditi prima delle meritate vasche nel foyer valevano bene quel piccolo sforzo.
Il primo (in effetti) concerto beethoveniano è proprio un piccolo cammeo settecentesco (niente trombe, nè timpani, tanto per dire) e tale ce lo ha restituito Barenboim, suonandolo dovutamente in punta di piedi, come aveva fatto (per me fuori luogo) nel primo-secondo (il 13 febbraio).
L’Opera 16 di Schönberg (1909) si trova a metà strada fra il periodo “tonale-tardo-romantico-cromatico-esasperato” di pezzi come Verklärte Nacht e Pelleas (presentati nei due primi concerti) e opere del periodo “seriale” (come le Variationen eseguite nel terzo). Un chiaro indizio di questo essere “nè carne, nè pesce” (mai come nel caso in questione il termine è un complimento!) lo si rintraccia osservando le partiture: ancora la Kammersymphonie, di un paio d’anni anteriore all’op.16, ha tanto di “accidenti” in chiave, mentre i 5 pezzi ne sono del tutto sprovvisti. Schönberg ha ormai abiurato la legge di gravitazione tonale e con essa le forme che su questa si reggevano. Infatti lui stesso parla dell’Op.16 come di pezzi “...senza sinfonismo, senza architettura, senza impianto, solo un multiforme ininterrotto cambiamento di colori, ritmi e atmosfere...” Ma così gli verrà poi a mancare il terreno sotto i piedi: l’espressionismo è per lui la momentanea via d’uscita, una breve ma grande stagione di cui l’op. 16 è lo zenit, musica da godersi senza cercare di capirla (a dispetto dei sottotitoli più o meno plausibili, oltretutto - pare - appiccicati a posteriori su richiesta dell’editore della partitura) e in cui ciascuno può sentire o immaginare o vedere o provare: sensazioni, colori, stati d’animo, un soffio di vento nei capelli e una goccia che cade nello stagno, una frana che travolge tutto (la grande guerra in arrivo?) e il rimpianto per un tempo che fu, ricordi e incubi che ritornano e passi che sfumano nella nebbia, languori e isterìe, paure e sospiri. Dovranno passare più di 10 anni prima che Schönberg si riabbia dal panico e dalla conseguente impotenza derivatigli dalla totale anarchia in cui, con l’espressionismo atonale tipo op.16, era andato a cacciarsi, e “inventi” (i maligni sostengono: scopiazzi, da Hauer) la tecnica seriale, con tutto il relativo toolbox fiammingo a corredo, per rimettere ordine e regole in un mondo arrivato - anche grazie a lui e secondo lui - sulla soglia di un irreparabile disfacimento (peraltro i suoi pupilli Berg e Webern non la pensavano esattamente così... e lo dimostreranno nella pratica).
Barenboim ha condotto da par suo; i Vorgefühle con cipiglio fin eccessivo (forse per dare una scossa al pubblico, dopo il trasloco?) Quindi ha allineato quasi sullo stesso piano Vergangenes e Farben, come fossero un unico sognante, ipnotico e inebetito movimento; per poi riscatenarsi in Peripetie, e chiudere sempre energicamente con Das obligate Rezitativ. Come riferimento, in rete si trovano queste notevoli esecuzioni di Michael Gielen con la Radio Olandese. E sempre sul tubo si trova il terzo pezzo diretto dallo stesso Daniel alla testa dei concittadini di Obama, suggestivamente supportato dall’esplorazione della partitura, secondo la guida analitica di Nicolas.
Il quarto di Beethoven è marziano, a confronto del primo: come per l’Imperatore, anche qui è parso che Daniel si sia forse fidato troppo della sua esperienza. Ma stavolta gli è andata bene, ecco. Interessante e simpatico l’intermezzo della cadenza (la seconda scritta da Beethoven) dove Barenboim ha chiamato ad un piccolo intervento il violoncello. Bravi anche gli ottoni, in particolare le trombe che - col timpano - devono fare irruzione d’acchito nel rondò finale, dopo aver assistito mute a quanto suonato prima.
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Il ciclo si è chiuso, che dire? Lodevoli le intenzioni, equilibrata e proporzionata la scelta dello Schönberg da affiancare ai concerti beethoveniani: si è potuta esplorare la parabola artistica del viennese, sia pure non in sequenza cronologica, ma si direbbe passando prima dagli estremi per arrivare infine “al centro”, a quel precario ed instabile equilibrio caratterizzato dall’espressionismo atonale, che resta tuttavia per molti l’apice dell’opera di Schönberg. Il tutto senza far ombra al monumento beethoveniano con eccessi quali sarebbero certamente stati i Gurrelieder che - peraltro - si meriterebbero da soli un bel primo piano. Il livello “artistico” delle performance, escludendo l’infortunio del 5°, è stato più che dignitoso, compatibilmente con l’attitudine non propriamente eccelsa dell’orchestra nel repertorio strumentale. A Daniel Barenboim, fuor di dubbio, il merito di aver portato alla Scala - insieme al Tristan (e alla Winterreise con Quasthoff!) - una salutare ventata di mitteleuropa. Più che dovuti quindi, e cumulativi, gli applausi trionfali quanto affettuosi che il pubblico ha voluto tributargli.
(4. Fine)