intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

31 agosto, 2008

MaaZeff vs Carsen&C

In questi ultimi giorni di agosto il Corriere ha ospitato una polemica piuttosto accesa sul cosiddetto Regietheater (la regia teatrale di opere liriche e drammi musicali) anzi, più propriamente su quel fenomeno “di costume” che viene etichettato sprezzantemente (ma non senza ragione, secondo me) Eurotrash (spazzatura europea).

Da una parte due vecchi (in tutte le accezioni - buone-cattive - del termine): Lorin Maazel e Franco Zeffirelli; dall’altra un regista canadese (Robert Carsen) in rappresentanza della nutrita schiera dei giovani registi-di-teatro che, soprattutto in Europa, imperversa da anni in molti teatri - non solo tedeschi, dove la practice è nata - con allestimenti controversi e spesso davvero indecenti, di opere e drammi musicali.

MaaZeff sostengono il principio sacrosanto - che sulla carta nemmeno Carsen&C contestano, altrimenti passerebbero subito dalla parte del torto - della supremazia dell’opera d’arte originale e del rispetto che le si deve.

Casren&C - i C si chiamano Bieito, Herheim, McVicar, Guth, Decker, Sellars, Vick, Wilson, Barlow, Brockhaus, Wagner (Kathi), Schlingensief... e hanno come maestri-tutori i vari Konwitschny, Kupfer... e come più lontani campioni Chéreau, Friedrich e addirittura Wieland Wagner - sostengono la necessità che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale e alla tradizione interpretativa, in modo da renderla meglio e più comprensibile e godibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata. Lo slogan che tipicamente viene impiegato per supportare tale necessità è: se non viene innovata, un’opera lirica (o un dramma musicale) si trasforma in un museo.

Aperta parentesi: già, un museo. Come quell’obbrobrio del Louvre, vero? dove tuttora ci si interstardisce ad esporre (ma perchè mai milioni di persone la vanno ancora e sempre a vedere?) la Gioconda, proprio come il maestro la dispinse, senza cambiarle una virgola, che so, l’antiquato abbigliamento, o la ridicola pettinatura. Oppure gli Uffizi, dove si può sostare per un tempo limitato (dalla massa di visitatori che premono) ad ammirare capolavori del passato. O l’Ermitage, il Museo Egizio di Torino (o del Cairo) e tutti gli altri musei grandi e piccoli sparsi in tutto il pianeta. Insomma, il museo - per l’opera lirica e il dramma musicale - sarebbe equiparabile ad una discarica maleodorante e impresentabile! Chiusa parentesi.

In sostanza, i campioni del Regietheater sostengono la necessità - quindi il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure del responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera musicale, con il nobile scopo di mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso questo genere di Arte.

Tutto ciò rappresenta un fine per nulla disprezzabile. A patto che non si superi un certo limite: quale? Quello oltre il quale l’operazione si trasforma in un vero e proprio sequestro di un capolavoro (come tale universalmente riconosciuto) da parte del regista, allo scopo di promuoverne la sua propria (del regista) visione, con ciò distorcendo però quella del creatore dell’opera medesima, fino a renderla irriconoscibile, privando quindi l’opera delle qualità che ne hanno determinato, nel tempo, l’universale riconoscimento di capolavoro.
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E proprio Carsen ci ha dato quest’anno un’esemplificazione perfetta di cosa significhi valicare o meno quel limite: le sue interpretazioni italiane di Salome e di Elektra.

17 agosto, 2008

Ciajkovski l’incompreso

La Sinfonia Patetica percorrre tutti i maleodoranti canali e le fogne dell’umana disperazione; è sozza come la musica può ben essere. Il primo movimento potrebbe definirsi come la trasposizione in musica de “La confessione di Claudio” di Zola. Il secondo movimento, con il suo ritmo strabico, è a malapena meno ignobile; il terzo, puro linguaggio sguaiato. Nel finale, ci troviamo faccia a faccia con una paresi da vista debole; e quel solenne conclusivo epitaffio dei tromboni potrebbe cominciare con: “Qui continua la decomposizione”.

Comparso nel 1898, sul Boston Evening. Citato qui.

16 agosto, 2008

Barenboim, la Palestina e Wagner

Sono convinto che i destini del popolo palestinese e di quello israeliano siano legati in modo inestricabile. Siamo benedetti o condannati a vivere insieme. Io preferisco essere benedetto.”

Chi parla in questo modo è Daniel Barenboim: un ebreo, nato in Argentina da genitori di discendenza russa, che non solo non odia Wagner, ma lo apprezza a tal punto da essere, ancor oggi e di gran lunga, il recordman in fatto di direzioni a Bayreuth (161).

Ma è anche un accanito e convinto assertore della necessità e della possibilità di convivenza fra i due popoli che abitano la Palestina, e che da più di mezzo secolo invece si affrontano e arrossano di sangue le dolci colline di Qalqilya, come gli affollati viali di TelAviv.

Israeliani e palestinesi, ebrei e islamici, insieme a formare quanto di più cooperativo si possa immaginare a questo mondo: un’orchestra (la Divan).

E dove entrambe le parti devono rinunciare a fior di pregiudizi: gli islamici, accettando di suonare la musica nata dal seno della civiltà occidentale, quella che i loro integralisti dipingono come demonìaca; gli ebrei, accettando di suonare la musica di un autore che è da molti dei loro padri considerato il responsabile oggettivo dell’Olocausto.

Eppure... funziona. A Ravello l’11 agosto scorso ne abbiamo avuto tangibile conferma.

Parsifal 2008: aveva ragione Gatti? (update)

I gentili Klingsor e Nike hanno voluto onorare il mio post precedente esprimendo interessanti impressioni, che hanno l’indubbia qualità dell’esperienza diretta e non (come la mia) mediata dai media!

Su questo Parsifal, le mie sono perplessità di fondo, come non manco di ripetere, e riguardano precisamente le conseguenze che una certa (non tutta) “regia di teatro” induce sulla fruizione dell’opera (soprattutto dei drammi wagneriani) da parte dello spettatore. Il rischio è che il dramma diventi il mezzo usato per raggiungere il fine della spettacolarità dell’allestimento, e cioè l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere... secondo logica.

L’avviso del 1951 - riportato da Herheim come testimonianza storica di ciò che Bayreuth ha rappresentato e rappresenta, non solo in Germania - è la dimostrazione lampante di quell’inversione fra causa ed effetto, fra mezzo e fine, fra significato e significante, che finisce per negare allo spettatore la possibilità di vivere nel modo giusto l’esperienza davvero unica, o quasi, dei drammi wagneriani (diverso è ovviamente il discorso per le classiche opere di belcanto, dove non c’è molto da capire, ma solo da godere appunto il canto e la musica). Lo spettatore “non iniziato” a Wagner ne uscirà con una impressione come minimo distorta, quello “esperto” rischia di sentirsi “disturbato” dagli aspetti gratuiti dello spettacolo. Leggo sulla stampa tedesca commenti che rivalutano (rispetto ad Herheim) nientemeno che Schlingensief (?!) che almeno aveva un sua personale interpretazione “filosofica” del sacro dramma.

Sul piano musicale, temo che Gatti sia vittima, da un lato dell’eccessiva attenzione riposta sulla regia, dall’altro di una (immeritata) fama di “italianate” che lo accompagna, oltre che dei suoi modi riservati, dal basso profilo che tiene (il che per me è un merito, sia chiaro) ed anche della non perfetta dimestichezza con la lingua tedesca (al contrario di un Sinopoli, per dire): iniziare un’intervista in radio o in TV con poche parole di circostanza in tedesco, e poi passare subito all’inglese... costituisce agli occhi di molti (orchestrali inclusi) un indizio piuttosto negativo. L’impressione che ne ho avuto ascoltando in radio la prima del 25 luglio è stata positiva, ma non entusiasmante, in particolare l’atto di mezzo ha lasciato a desiderare (complici le “fanciulle-fiore”?) Adesso, oltre alle restanti rappresentazioni 2008, Daniele avrà altri 3-4 anni di repliche e tutto il modo di rifarsi.

04 agosto, 2008

Parsifal 2008: aveva ragione Gatti?

In un’intervista rilasciata a poche ore dalla prima, Stefan Herheim aveva candidamente riconosciuto come Daniele Gatti fosse rimasto enormemente scettico di fronte alla sua idea (il Konzept) dell’allestimento.

La prima di venerdi 25 luglio sembrava invece aver consacrato Herheim (molto meno Gatti, per la verità) alla storia.

Domenica 3 c’è stata la seconda (con un pubblico prevedibilmente più competente e di bocca meno buona - anche perchè pagante, e sono bei soldoni, oltre agli anni di attesa!): molti buuh per la regia, e critiche non proprio morbide anche per il Kapellmeister.

Insomma, un pallone che si sta già sgonfiando? Effetti senza cause?

01 agosto, 2008

Strauss l’incompreso

“Così parlò Zaratustra” mette a dura prova la pazienza dell’ascoltatore. Per lo più è brutto, pertanto distante dal ben fondato principio che richiede all’arte nobile la devozione per il bello. È poco saggio emettere un giudizio avverso su questa musica moderna, poichè col passare del tempo si potrebbe scoprire che questo lavoro straborda di bellezze che il futuro ci rivelerà. Ci si può abituare a tutto, attraverso la consuetudine - anche alla miseria. Tutto ciò che un avversario di questa musica moderna può permettersi di dire è che non gli piace.
Recensione apparsa nel 1900 sul Boston Herald. Riportata qui.