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Proprio come per apprezzare Wagner bisogna attenersi esclusivamente a ciò che il genio di Lipsia ci ha lasciato scritto in partitura, sforzandosi di dimenticare tutto quanto il resto. E a proposito di Wagner, è quasi un luogo comune citare - a mò di suprema sintesi del pensiero interpretativo karajaniano - il Ring registrato per la DGG negli anni 1966-1970. Davvero un approccio che definire rivoluzionario - rispetto alla tradizione ed alla prassi interpretativa da Wagner stesso avviata e dai suoi cosiddetti bidelli perpetuata - è ancora poco.
Tralasciando speculazioni extramusicali sul perchè e il percome Karajan abbia preso tale iniziativa, a quel tempo davvero temeraria e destabilizzante (ad esempio se essa non gli sia per caso scaturita proprio dalla necessità quasi patologica di distanziarsi da un personale, vergognoso ed inconfessabile passato) qui interessa ragionare sul risultato artistico raggiunto e insieme sul contributo di conoscenza del Ring (e di Wagner più in generale) che quell’interpretazione ha prodotto.
Sul primo versante, si arriva ad affermare “...In quei pochi minuti mi sembra di trovare la risposta a domande che non conosco, e mi sento meno vulnerabile.” Sull’altro, c’è chi ha giustamente osservato che Karajan “...ci ha permesso di scoprire dettagli di cui non ci si era mai accorti prima.”
Verissimo, Karajan davvero riuscì a farci sentire un Wagner quale mai si era ascoltato. Dopodichè ciascuno esprimerà il suo personale giudizio (positivo o negativo) sul risultato complessivo dell’operazione.
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