bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

31 gennaio, 2012

Quello strano Angelo in arrivo a Torino


Valery Abisalovič Gergiev porta al Regio la sua compagnia di allestitori del Mariinski per L'angelo di fuoco di Prokofiev. Domani prima rappresentazione (Radio3, ore 20) e poi altre quattro recite, fino all'11 febbraio.

Questi tre individui – a nome Bryusov, Petrovskaja e Belyj - incarnano la remota origine dell'opera di Prokofiev:


Oltre che remota, origine che rimase sconosciuta al compositore fin quasi ad opera completata: soltanto nell'autunno del 1926, mentre stava dando gli ultimi ritocchi a quella che resterà la versione definitiva dell'Ognennyj Angel, Prokofiev fu portato a conoscenza, da un'amica di Leningrado, dei principali retroscena del triangolo che aveva legato i tre artisti suoi contemporanei (tutti più o meno adepti del movimento simbolista nell'arte) e che era di fatto il motivo ispiratore del romanzo da cui lui aveva tratto il libretto della sua opera.

Lui conosceva bene il primo dei tre, Valerij Jakovlevič Bryusov, essendosi invaghito – mentre era in giro per gli USA nel 1919 e dovendo metter riparo con una nuova opera al crac delle tre melarance (smile!) - del soggetto di un suo racconto di pari titolo, scritto e pubblicato a puntate nel periodico Libra, fra il gennaio del 1907 e l'agosto del 1908 e poi rivisto nel 1909. Lo stesso Bryusov, incontrando Prokofiev a Parigi nel 1922 (quando il compositore stava lavorando ad un primo abbozzo dell'opera) si era detto entusiasta dell'idea tanto da consigliare allo stesso Prokofiev di ritirarsi a Ettal (Alpi bavaresi) dove trarre ispirazione per portare a termine l'impresa (cosa che accadde puntualmente).

Quello di Bryusov è un romanzo cosiddetto storico, ambientato nel 1500 in Germania e avente come oggetto una vicenda triangolare (lui, lei e l'altro) calata nel mondo dell'esoterismo, delle scienze occulte, della magìa nera e con marcati risvolti freudiani quali schizofrenia, sogni, premonizioni, e simili (insomma: la quintessenza del simbolismo…) Come era di moda nell'800 (vedi Manzoni con i suoi Sposi) anche Bryusov si era inventato un manoscritto (ritrovato in qualche polverosa soffitta) in cui il protagonista del romanzo - un erudito e razionalista Cavaliere di ventura lanzichenecco, che si trovava nel 1535 a Bilbao, apprestandosi ad intraprendere un nuovo viaggio in giro per il mondo - narrava autobiograficamente una serie di avventure a sfondo esoterico-erotico vissute tempo addietro dalle parti di Colonia.

Dal prolisso e francamente indigeribile romanzo di Bryusov, che si dilunga narcisisticamente sul protagonista (lui medesimo), sulla sua erudizione filosofica, sulla sua iniziazione all'occulto, oltre che sulle dettagliate biografie dei vari personaggi storici che popolano il racconto, Prokofiev trae un libretto compatto, essenziale, dove protagonista è piuttosto la donna incontrata dal cavaliere a Colonia. Molti particolari ambientali – presi dal testo di Bryusov, ma anche aggiunti dal compositore - sono citati con cura minuziosa, come ad esempio la cattedrale di Colonia ancora incompiuta (ai tempi dell'azione ne esistevano solo uno spezzone di una delle due torri e una porzione dell'abside) e la cui costruzione sarà completata solo 20 anni prima della scrittura del romanzo! E poi la presenza di Henricus Cornelius Agrippa ab Nettesheym, filosofo-mago-astrologo-alchimista nato proprio a Colonia, di cui Prokofiev caratterizza assai bene la figura controversa, di serio scienziato e di mago ciarlatano, perennemente in contrasto con l'Inquisizione, citando anche piccoli particolari: i cani neri che lo circondano, la catoptromanzia e la geozia, di cui si diceva che Agrippa fosse maestro; la diceria sulle monete che Agrippa coniava privatamente, che erano apparentemente autentiche, ma che poi si trasformavano in merda(!); il riferimento che Agrippa fa ai Re Magi, per custodire le cui reliquie la cattedrale di Colonia era stata progettata; e ancora la citazione di Gottfried Hetorpius, editore delle opere di Agrippa e suo confidente, e dell'abate Trithelmius, con cui Agrippa aveva spesso disquisito di magia. Infine, il richiamo, a proposito di vita monastica, a San Bonaventura (doctor seraphicus) canonizzato proprio in quel periodo, e a Santa Brigida.

Tornando alla vicenda, come ripresa da Prokofiev nella stesura definitiva, il lui (Ruprecht) è il Cavaliere appena rientrato in Germania dal Nord-America, dove se l'è vista brutta con i cattivoni pellerossa, la lei (Renata) è una tizia schizoide e invasata, che fin da piccola ha sognato e oniricamente convissuto con l'Angelo di fuoco cercando poi (con esiti nefasti, sul piano del suo equilibrio mentale) di farselo, e che da grande ha creduto di individuarne l'incarnazione nell'altro (Heinrich, o Genrich, nel libretto russo) che però ha messo in atto con lei la consolidata prassi dell'usa-e-getta. Lui incontra casualmente lei, che però è alla disperata ricerca dell'altro. Lui – che in un primo momento pensa di imitare l'altro, dandole un paio di colpi per poi mollarla al suo destino – finisce invece per innamorarsi perdutamente di lei e decide di aiutarla a ritrovare l'altro e ha così occasione di incontrare il luminare Agrippa, la più grande autorità di tutti i tempi in fatto di magia, pratiche occulte e stregonerie assortite, uno che si vuol far passare per scienziato, mentre tre scheletri appesi sopra di lui lo sbugiardano, dandogli del mentitore… Trovatolo finalmente, ma venendo da lui respinta, lei ha deciso che l'altro debba morire e chiede a lui di farlo secco; poi se ne pente, rivedendo in Heinrich la figura dell'Angelo, ma ormai lui ha già sfidato l'altro a duello. Nel quale duello lui rischia di lasciarci le penne; e mentre è in convalescenza dalla ferita infertagli dall'altro, lui incontra in un'osteria la premiata coppia di bontemponi Mefistofele-Faust (che stanno eternamente quanto peripateticamente disputando su quisquilie di nessun conto) con Mefistofele che – dopo aver ingoiato e subito vomitato un garzone – chiede a lui di fargli da cicerone per una visita alla città… Lei, pentitasi di tutta la sua vita sbagliata, decide di ritirarsi in convento, ma vi introduce tutti i suoi complessi e soprattutto i diavoli che si porta appresso, e finisce per inquinare pure l'anima delle monache con la sua schizofrenia a sfondo erotico, e così l'Inquisitore la spedisce direttamente sul rogo.

Sì d'accordo, ammetto di averla buttata un filino in vacca… però, accipicchia, con un soggetto del genere ci si può fare indifferentemente: un reality in 150 puntate, un film tipo Totò, Peppino e la Strega, oppure una seria opera musicale… basta aver fantasia.

Torniamo ora ai nostri tre artisti simbolisti. Il lui del romanzo (Ruprecht) è – come detto – lo stesso autore (Bryusov). L'altro (Heinrich, aka Madiel, l'Angelo di fuoco) è l'efebizzante dandy Andrei Belyj, al secolo Boris Nikolaevic Bugaev, esteta, idealista, scrittore e critico letterario. E la lei (Renata) è la scrittrice (morta suicida…) Nina Ivanovna Petrovskaja.

Già sposata, ma piena di complessi, costei aveva incontrato, nel 1903, Belyj che l'aveva poi introdotta in una società di spiritualisti (gli Argonauti). Fra i due era nato un rapporto che Belyj avrebbe voluto puramente platonico (lui si illudeva di poter guarire i di lei complessi) ma che Nina pretendeva dovesse estendersi anche alla sfera sessuale, il che portò Belyj a raffreddare la sua amicizia con lei; guarda caso: proprio il rapporto fra Renata e l'Angelo descritto da Bryusov!

Il quale Bryusov, a sua volta attratto da Nina e dai suoi complessi (ma con obiettivi opposti a quelli di Belyj, smile!) instaurò una relazione con lei, che provocò il risentimento di Belyj. Che lanciò a Bryusov una specie di sfida letteraria, che doveva avere in palio… la Petrovskaja! Alla quale sfida Bryusov rispose scrivendo un poemetto (Loki a Baldur, personaggi delle antiche saghe nordiche, riprese anche da Wagner) in cui Bryusov si mette nei panni dello sbifido e demoniaco Loki, che promette di distruggere l'angelicato Baldur, figlio di Odin. Proprio come raccontano le saghe nordiche, ma anche come si legge nel romanzo di Bryusov! Belyj, sentitosi offeso nelle sue più profonde convinzioni, intimò a Bryusov di smetterla e per tutta risposta… fu sfidato a duello (Ruprecht-Heinrich!)

Il duello non ebbe luogo, ma Belyj rispose letterariamente, con un poemetto in cui descriveva Bryusov come un fallito, e se stesso come un mago che difende la propria integrità morale minacciata. Bryusov ne rimase colpito, persino sognando di venire sopraffatto in un sanguinoso duello dall'avversario - come testimoniò proprio la Petrovskaja - e rispose con un successivo poemetto (Baldur II) dove in pratica si dà per vinto, riconoscendo le sue colpe nei riguardi della donna contesa e la superiorità del rivale. Beh, tutte vicende che finiranno, di lì a pochi mesi, nelle pagine del romanzo storico di Bryusov.

Quanto alla Petrovskaja, prima di suicidarsi (al terzo tentativo) a Parigi, si dirà pubblicamente eccitata dall'essere divenuta la protagonista del romanzo; al punto tale da convertirsi al cattolicesimo, a Roma, prendendo il nome di… Renata!

Ecco, scoperti tutti gli altarini non ci resta che tornare a Prokofiev, che dal romanzo di Bryusov cavò una cosa notevole (ok, magari non proprio un capolavoro assoluto, ammettiamolo) e la pose in musica con grande determinazione, pari peraltro alla difficoltà e lunghezza della gestazione (1920-1927, con una prima stesura nel 1923, poi ampiamente rivista, e con ulteriori ripensamenti del 1930, rimasti però allo stato di abbozzo) e alle successive traversie – inclusa la composizione di una sinfonia (n°3) sui temi dell'opera - legate alla rappresentazione. Che ebbe per la prima volta luogo, dopo spizzichi-e-bocconi di esecuzioni parziali e concertistiche, solamente nel 1955 alla Fenice (direttore Sanzogno, regista Strehler) e quando ormai il compositore riposava per sempre, avendo tolto il disturbo un paio d'anni prima, in perfetta sincronia con quel grande paraculo – per il quale aveva dovuto comporre addirittura una cantata! - che rispondeva al nome di Giuseppe Stalin
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27 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 17


Uno degli ospiti fissi de laVerdi, il venerabile Helmuth Rilling, torna sul podio per dirigere un programma interamente mozartiano, in un Auditorium abbastanza gremito (si sa, Mozart: un nome, una certezza, smile!

Si inizia con la celeberrima K550 in SOL minore. Rilling schiera proprio l'orchestra come doveva essere ai tempi di Mozart: archi ridotti all'osso ad affiancare i soli 7 fiati previsti dalla partitura (flauto, 2 oboi, 2 corni e 2 fagotti, niente trombe nè clarinetti – che Mozart impiegherà in luogo degli oboi in una seconda versione - e pure niente timpani). Ne esce un'esecuzione precisamente settecentesca, dal suono cameristico e leggero. Chi è abituato a truci interpretazioni romanticheggianti, con orchestre di stazza mahleriana magari non ne esce soddisfatto, ma il vero Mozart è questo!

Invece, a proposito di Mozart non propriamente genuino, si passa alla Sinfonia concertante K297b per oboe, clarinetto, corno e fagotto con accompagnamento di archi, oboi e corni.
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Quest'opera è tuttora oggetto di dispute e diatribe, quanto alla sua autenticità. Si sa che Mozart (in gita nel 1778 a Parigi con la mammina, che purtroppo di lì a poco vi morirà e vi verrà sepolta, dopo un misero funerale cui assistettero solo Wolfgang e un amico) si era impegnato a comporre una Concertante per quattro solisti di Mannheim (col flauto al posto del clarinetto). Ma né un originale, né copie autentiche o attendibili sono mai emersi e ciò che abbiamo a disposizione - e che ha dato il nome (francamente usurpato) all'opera - è soltanto un manoscritto di dubbia provenienza, scovato e fatto ricopiare a Berlino da tale Otto Jahn quasi un secolo dopo la presunta composizione e, guarda caso, proprio mentre costui si apprestava a pubblicare una sua biografia di Mozart!

C'è comunque chi sostiene sia musica troppo grande (escludendo magari il modesto accompagnamento orchestrale…) per non essere del Teofilo; chi invece ipotizza sia un pastiche (tre movimenti, tutti nello stesso MIb, orrore!) messo insieme da sconosciuti sulla base di ricordi di qualche concerto; chi pensa sia stata effettivamente scritta da Mozart a Parigi (col flauto al posto del clarinetto) ma poi andata davvero perduta, e quindi riscritta – a memoria – dal compositore per il nuovo organico di solisti; chi invece sospetta che a Parigi Mozart non abbia composto proprio un bel nulla di quel pezzo (tant'è che il concerto dei solisti di Mannheim per i quali era stato commissionato non ebbe luogo…) dopodichè si sarebbe inventato per papà Leopold la scusa del manoscritto non restituitogli dallo sbifido committente (LeGros) e solo successivamente avrebbe buttato giù qualcosa (la parte solistica) senza portarlo a termine; e così via immaginando. Quanto alla pratica, la versione che si esegue normalmente è quella rinvenuta da Jahn e pubblicata nel 1886 da Breitkopf col titolo Concertantes Quartett, che è entrata ed uscita dal catalogo Köchel come in una porta girevole: dapprima inserita fra le opere perdute; poi nel 1936 (Einstein) immessa nel catalogo principale; infine, dagli anni '60 (6a edizione del catalogo) relegata al ruolo di appendice, dentro una specie di limbo di opere di incerta paternità, mentre la 297b è tornata ad assumere lo status di non-parvenu.

Insomma, una storia lunga, travagliata e certamente non ancora chiusa. Ad esempio, il solito (ultimo in ordine cronologico di una lunga serie) primo della classe (Robert D.Levin, nella fattispecie, autore del saggio Who Wrote the Mozart Four-Wind Concertante?) ha provato a ri-arrangiare il brano sulla base di complesse ricerche statistiche sulle tecniche compositive di Mozart. Intanto ha riesumato il flauto (in luogo dell'oboe, che prende il posto dell'espunto clarinetto); poi ha fatto intervenire i solisti da subito, già sulla prima esposizione dei temi dell'Allegro (di cui ha riscritto completamente la cadenza); ha tagliato molta parte orchestrale (dove effettivamente si incontrano bizzarrìe formali assai poco mozartiane…) e anche qualche sezione di quella solistica, ugualmente ritenuta fuori-forma (sempre mozartianamente parlando); ha redistribuito qua e là le linee degli strumenti solisti; ha tagliato le 4 misure introduttive orchestrali dell'Adagio; nel conclusivo Andantino con variazioni ha espunto totalmente le 10 apparizioni dell'interludio orchestrale (che precede le altrettante variazioni al tema, trasformandosi effettivamente quasi nel tema principale di un rondò…) introducendo al loro posto la ripetizione di tutte le (22) linee melodiche dei solisti. Ecco un'interessante esecuzione di Neville Marriner e della St.Martin con Aurele Nicolet al flauto, Heinz Holliger all'oboe, Herrmann Baumann al corno e Klaus Thunemann al fagotto: parte1, parte2, parte3, parte4. Effettivamente va dato atto a Levin di aver messo in piedi un prodotto di tutto rispetto, di qualità e godibilità non certo inferiori a quelle del comunque spurio e apocrifo originale. Ma, diciamolo francamente, a questo punto qualunque Allevi di passaggio (smile!) potrebbe inventarsi la sua propria variante della ricetta, con lo stesso grado di (in)credibilità.
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Qui in Auditorium restiamo invece ancorati alla tradizione (quindi col clarinetto) e i solisti sono quattro prime parti dell'Orchestra Verdi: Emiliano Greci all'oboe, Raffaella Ciapponi al clarinetto, Sandro Ceccarelli al corno e Andrea Magnani al fagotto. Quindi, dopo la Concertante di Haydn di un paio di settimane fa, ecco un'altra occasione di mettersi in mostra per i bravi strumentisti de laVerdi. Che non se la lasciano sfuggire di certo e fanno la loro bella figura, calorosamente applauditi da pubblico e colleghi.

Chiude degnamente la serata la K543, già diretta qui dallo stesso Rilling quasi due anni orsono.

Il quale Rilling sarà ancora protagonista la prossima settimana, salendo sul podio per dirigere il colossale Elias di Mendelssohn.
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24 gennaio, 2012

Gergiev franco-russo alla Scala


La stagione della Filarmonica ha ospitato ieri il peripatetico Valery Gergiev, in un bel programmone di quelli col palinsesto proprio tradizionale: un pezzo brillante in apertura, un concerto solistico al centro e una grande sinfonia per chiudere.

È quindi il Capriccio spagnolo di Rimski ad aprire la serata e a scaldare i motori all'orchestra. José Inzenga y Castellanos (1828-1891, autore di numerose zarzuelas) aveva pubblicato nel 1873, su incitamento delle autorità culturali spagnole, il primo volume di una raccolta di musiche popolari, Ecos de España, che contiene 49 canti provenienti da 12 diverse regioni: Cataluna (4), Asturias (7), Andalucia(4+5), Castilla la vieja (4), Galicia (3), Valencia (2), Islas Baleares (6), Murcia (3), Isla de Cuba (3), Aragon (1, Jota), Guipuzcoa (4) e Leon (2); più tre canti patriottici. Come il volume sia capitato nelle mani di Rimski non è chiaro: c'è chi sostiene che lo portasse a casa come ricordo del suo servizio in Marina, che lo aveva visto trascorrere qualche tempo sulla costa asturiana (versione assai improbabile, visto che Rimski si trovò laggiù assai prima del 1873, quando la raccolta di Inzenga era ancora in preparazione…) e chi ipotizza gli sia stato recapitato più tardi da un diplomatico spagnolo in servizio in Russia, amico di una persona conosciuta da Rimski appunto in Spagna. Come che sia, nel 1887 Rimski ne trasse il Capriccio su temi spagnoli, musicandone quattro brani, tre di provenienza dalle Asturie e uno dall'Andalusia. I canti di Inzenga sono tutti assai brevi, di poche battute (fa eccezione la Jota) e Rimski ne copia quasi pedestremente le melodie, magari cambiandone tonalità, dopodiché li arricchisce di volta in volta con la sua lussureggiante strumentazione e con sapienti ripetizioni e/o variazioni.
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Il Capriccio è suddiviso in 5 parti, e si apre con Alborada (in LA) che poi torna nella terza parte (in SIb) e nella quinta, a chiudere il pezzo, ancora in LA. Viene da un canto di pastori asturiani che salutano il mattino:

Dopo una prima esposizione nei violini, accompagnati nel ritmo dai fiati, è il clarinetto a porgere per due volte il motivo, prima della conclusione che sfuma in pianissimo, con due pizzicati degli archi e il sommesso rullo del timpano.

Le Variazioni (2° brano) provengono dalla pure asturiana Danza prima (danza serale). Rimski nota Andante con moto, rispetto al Moderato assai di Inzenga e usa il FA in luogo del DO:

Qui Rimski allunga la frase, inizialmente esposta dai corni, con un paio di gruppetti sotto la tonica, poi ripropone il motivo, leggermente variato, negli archi, quindi nel corno inglese, con un sognante inciso del corno; ancora lo presenta negli archi, ben marcato e forte, poi ancora negli strumentini, sostenuti da un pizzicato degli archi; infine ancora negli archi, sulla cui ultima esposizione interviene il flauto solo, con una lunga e ondeggiante scivolata di biscrome, chiusa da un tremolo sulla tonica FA.

Torna ora, in SIb, Alborada (n°3) Vivo e strepitoso (come nota Rimski). Gli strumentini si alternano nell'esporne il motivo per due volte con il violino solo (originariamente Rimski pensava ad una composizione per violino solista) prima che il clarinetto, con ampissimi arpeggi su due ottave, porti alla conclusione sigillata da un pesante accordo in croma e un lungo SIb tenuto di (quasi) tutta l'orchestra.

La Scena e canto gitano (n°4) viene dall'Andalusia, con le sue caratteristiche note diminuite (secondo, sesto e settimo grado della scala). È caratterizzata dall'uso della cadenza (o quasi-cadenza) la prima delle quali è affidata alle trombette affiancate dai quattro corni, preceduti ed accompagnati dal secco e crepitante rullo del tamburino:


Sia Inzenga che Rimski indicano in chiave il RE minore, ma poi il tema principia in altra tonalità: lo spagnolo in LA maggiore, il russo inizialmente in SIb, ma per scendere subito di un semitono con l'ingresso del violino solo, che sul LA (dominante del RE di impianto) chiude anche la sua cadenza. E così riespone il tema il flauto, cui è riservata la terza cadenza brillante, seguita subito dalla quarta, affidata al clarinetto, cui fa eco l'oboe con la sezione finale del tema. La quinta cadenza è per l'arpa, che chiude il suo leggero svolazzo (quattro picchi e tre vallate) su un LA sovracuto. A questo punto (feroce) Rimski introduce di sua iniziativa (non certo di sua invenzione) un secondo motivo, dal tipico carattere iberico:

Ora sono violini, clarinetti e flauti ad esporre il tema, sempre chiuso dalla feroce aggiunta di Rimski; poi ancora lo reiterano, ma adesso dal RE. Più avanti si torna al LA, col tema esposto prima dagli strumentini e poi dagli archi. Il secondo motivo riappare molto staccato (spiccato assai) nei violini ed innesca una progressione che porta direttamente al conclusivo…

Fandango asturiano, in LA maggiore (RE per Inzenga):

In realtà al tema del fandango Rimski ne aggiunge uno proprio, esposto da fagotti e celli, a contrappuntare il motivo principale, modulato a REb. Poi però si rifà largo ancora il Canto gitano, che contrappuntandosi al Fandango porta alla conclusione lasciata, quasi si fosse in un rondò, al ritorno dell'Alborada, in un davvero travolgente LA maggiore.
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Gergiev sottolinea marcatamente i tratti spagnoleggianti del brano e trascina i Filarmonici in un'esecuzione strappa-applausi.

Il quarantenne violinista siberiano Vadim Viktorovič Repin è poi protagonista del Secondo concerto di Prokofiev, composto poco prima del ritorno definitivo del compositore in Unione Sovietica, dopo la non entusiasmante parentesi occidentale (quando si dice: come cadere dalla padella nella brace, smile!) Ma erano ancora i tempi in cui il nostro era animato da serie convinzioni riguardo al ruolo dell'Arte (e quindi dell'Artista) nella società del collettivismo… e solo dopo qualche anno qualcosina – tipo Zdanov… - gli farà capire che non era tutto oro ciò che luccicava. È un concerto romantico – perché deve piacere al popolo - ma scritto con approccio moderno, come dev'essere un'opera della rivoluzione. Così Prokofiev tira fuori la sua ispirazione melodica, e la mescola con qualche intemperanza rispetto alle regole ottocentesche: divagazioni in tonalità lontane e un po' di dissonanza, nulla più.

Il primo movimento (Andante moderato) è un buon compromesso fra il rispetto della forma (-sonata, senza cadere nel formalismo che manderà parecchia gente nei gulag) e la ricerca di un minimo di innovazione: tonalità SOL minore, secondo tema nella relativa SIb, che poi torna a casa sul SOL. Poi un Andante assai, dove il violino canta una lunga melodia in MIb, quindi divaga al LAb, al SI, al RE, fino ad un improvviso Agitato che smuove le acque, prima del ritorno al tempo primo e al MIb, con cui sono gli archi bassi a chiudere. Termina il concerto un Rondò (Allegro, che parte in SIb e arriva nel canonico SOL) che per buona parte ha un procedere pesante, sforzato (il tema ricorda vagamente Borodin); poi si anima fino a sfociare in una corsa travolgente, che si conclude con un esilarante schianto.

Repin pare proprio interpretare al meglio lo spirito del brano, alternando languide sonorità à la Bruch a funambolici virtuosismi, che gli valgono reiterate ovazioni. Quando poi rientra sul palco per l'atteso bis e si mette a confabulare con gli archi dell'orchestra, allora si capisce dove andrà a parare: sul suo vero cavallo di battaglia, il paganiniano carnevale. Più o meno come qui a Parigi, dopo un concerto con Chung. Ma in un happening estivo in Germania aveva fatto anche un po' di avanspettacolo, sotto gli occhi di un attonito Mariss Jansons e di qualche migliaio di tifosi in delirio…

Infine la super-inflazionata Fantastica. A patto di prenderla in dosi moderate, è una sinfonia che ti dà sempre grandi soddisfazioni, soprattutto se diretta in modo esemplare e suonata con partecipazione e passione. Gergiev non inventa nulla (meno male, basta Berlioz… anzi, fa pure il ritornello del primo tema!) ma ci serve un'impeccabile esecuzione, che ha il suo apice nell'apparentemente sonnolenta Scena nei campi.

Evidentemente la Filarmonica, se guidata da qualcuno con le palle (insomma… tipo Harding o Gergiev o Dudamel) dimostra di saper anche produrre cose egregie e si merita un lungo e caloroso applauso dal suo fedele pubblico.
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20 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 16


Torna Aldo Ceccato e torna il suo amato Dvorak.

Il primo dei tre brani in programma è lo Scherzo capriccioso, un pezzo di grande effetto, dove l'attenzione dell'ascoltatore viene subito catturata da due corni (disposti da Ceccato a destra, sotto gli altri ottoni) che espongono, a mo' di introduzione in SIb, il primo tema, che verrà poi presentato dagli archi nella tonalità di impianto, REb. La sincope che precede l'inconsueta chiusa del tema, sulla sottodominante, gli conferisce un che di altezzoso, quasi di sfrontato, o donchisciottesco:
Nell'esposizione negli archi, il tema è seguito da un motivo negli strumentini, che si appoggia alla dominante LAb (lo risentiremo ampiamente nello sviluppo, dopo il Trio).

Preceduto da un'atmosfera bruckneriana, entra poi Il secondo tema, che contrasta apertamente con il primo – secondo i canoni della forma-sonata – avendo natura più femminile e contemplativa, ed è scopertamente caratteristico di danza slava (Dvorak ne musicò espressamente 16) e la sua seconda parte anticipa chiaramente il Mahler del Wunderhorn. Sono i violini ad esporlo, inizialmente in SOL maggiore:
I due temi si ripetono, con divagazioni in diverse tonalità, fino all'ingresso del Trio (caratteristico degli Scherzi delle sinfonie) il cui primo tema, in RE maggiore, è esposto dal corno inglese:
Il secondo tema del Trio, più mosso, richiama vagamente il secondo tema principale. L'intero Trio andrebbe ripetuto (cosa che raramente avviene, e Ceccato non fa eccezione) prima del ritorno del tema principale, che subisce una specie di sviluppo tipo forma-sonata, contrappuntato dal motivo secondario, svolazzante negli strumentini. Torna il secondo tema e lo sviluppo termina con un rallentando (Poco meno mosso) che presenta i due temi (il primo nei corni, il secondo negli strumentini) in tempo moderato, che porta ad una cadenza dell'arpa, su un MI tenuto dei corni. Un crescendo, sfociante poi in Presto, conduce alla trionfante conclusione, sulle note del tema principale.

Arriva adesso Benedetto Lupo per interpretare il Concerto per pianoforte. Nonostante recenti e meno recenti sponsorizzazioni (si pensi a Richter) oltre che a rimaneggiamenti vari (primo fra i quali quello di Vilèm Kurz, che apportò una serie di modifiche alla parte solistica, più che altro rimpolpandone le sonorità con raddoppi all'ottava o accordi di tre invece che due note) questa è francamente un'opera esteticamente deficitaria… e forse Dvorak per primo se ne rendeva conto. (Anche Ceccato pare non averne eccessiva familiarità, visto che per l'occasione si fa portare il leggìo con la partitura ed inforca gli occhiali…) I temi non sarebbero neanche male, come già quello introduttivo:

Ma è il loro sviluppo, insomma: la narrativa che Dvorak ne ricava, a lasciare parecchio a desiderare. Si ha l'impressione di una composizione sforzata, dove l'ispirazione scarseggia, ed è sostituita da costrutti piuttosto stucchevoli e di scarso appeal. Doverosi comunque gli applausi al solista, che ha fatto del suo meglio per indorarci la pillola!

Dopo la pausa ecco l'Ottava sinfonia, pagina certamente accattivante, che molti considerano addirittura superiore alla famosissima Dal nuovo mondo. Ceccato la dirige ovviamente a memoria, sfoggiando quel tanto di gigionerìa che gli si può perdonare… data l'età (smile!) L'orchestra risponde bene e il risultato che ne esce è di ottima qualità. Da incorniciare l'Adagio, con la bellissima melodia esposta da flauto e oboi, ma anche l'Allegretto grazioso è stato di alta qualità. Senza voler essere troppo partigiano, mi pare che si stata un'esecuzione da preferire a quella offertaci dalla Filarmonica scaligera con Noseda l'anno scorso. Il pubblico, anche questa volta non foltissimo, ha mostrato di gradire con diverse chiamate per Ceccato e applausi per tutti.

Da tutto-Dvorak a tutto-Mozart la prossima settimana.
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18 gennaio, 2012

La vecchia ricetta Hoffmann-Offenbach alla Scala


Ieri sera seconda rappresentazione dei Contes alla Scala, con il secondo (?) cast, dopo la prima diffusa per radio domenica e accolta dal pubblico in sala con un certo entusiasmo (per me francamente eccessivo, per ciò che concerne la parte vocale).

Opera, sappiamo, rimasta abbondantemente incompiuta, causa la scomparsa dell'autore proprio alla vigilia della prima. E che quindi è andata incontro alle stesse traversie – più o meno, ma forse più più che meno – di altre orfanelle musicali come lei (Carmen in primis): completamenti, rimaneggiamenti, tagli, inquinamenti, adulterazioni, perpetrati da personaggi diversi, chi in buona fede, chi pronto ad approfittare dell'occasione per farsi bello a buon mercato. Dell'opera esistono così diverse versioni (anzi, si dovrebbe dire: diversi assemblaggi) nessuna delle quali si può dire autentica, date le circostanze: qui una assai esauriente disamina dello stato dell'arte, da cui si evince che al problema (di approntare appunto un'edizione autentica) non c'è una soluzione, quanto meno univoca, e menchemeno facile.

La Scala ha ripresentato in questa stagione una produzione parigina vecchia di 12 anni, e ad essa si è dovuta (o voluta?) attenere, per ragioni vagamente plausibili: ha quindi preso come riferimento – analogamente a quanto fatto per le produzioni del 1994-1995 e 2003-2004, con qualche ulteriore ritocco - la ultra-centenaria edizione Choudens (approntata in origine dal recidivo Ernest Guiraud, già primo tutore-stupratore della Carmen) mantecata con alcune importanti aggiunte da quella (meno antica, ma pur sempre vecchiotta) di Bärenreiter (curata da un altro sedicente editore critico dell'ultima opera di Bizet, Fritz Oeser). Si tratta quindi di una versione che si può definire – nel bene e nel male - tradizionale, che non tiene conto dei più recenti studi che hanno fornito nuovo importante materiale di base - in sostituzione o a fianco di quello (spurio) tradizionale - a chi deve di volta in volta decidere quali Contes presentare al pubblico (il flow-chart in appendice alla prefazione dell'edizione Schott - Kaye-Keck - dà solo una vaga idea di quante possibili combinazioni si possano ottenere a partire dal materiale proposto!) Ecco, la Scala ha forse perso una buona occasione per presentare al suo pubblico una veste più aggiornata e più fedele (anzi, meglio sarebbe dire: meno-infedele) di quest'opera, nata sotto cattiva stella.

Va però sempre tenuto presente che, per quanto lodevoli e degni di rispetto e di incentivo siano gli sforzi degli studiosi, purtroppo mai potranno regalarci ciò che l'Autore per primo non ha avuto la possibilità (o la volontà?) di regalarci. Per dire, pretendere di incorporare in uno stesso allestimento tutte insieme le diverse reliquie rinvenute nel corso degli anni sarebbe impresa, oltre che dura, destinata a sua volta a sollevare inevitabilmente obiezioni e critiche di ogni genere, chè nessuno potrà mai dimostrare trattarsi di materiale infallibilmente destinato dal compositore ad essere integrato nell'opera. Tanto per fare un esempio (estremizzato, ma giusto per chiarire il concetto): quanti schizzi e appunti ha lasciato Beethoven delle sue composizioni? Una montagna; ma son poi finiti tutti nelle partiture rilasciate dal genio di Bonn per la pubblicazione? Certo che no, e a nessuno oggi verrebbe in mente di riesumarli per infilarli in sinfonie e quartetti (al massimo ci si fa riferimento per chiarire qualche zona d'ombra riscontrata sulle partiture pubblicate). Analogamente, non è affatto detto che tutto il materiale (pure di mano di Offenbach) rinvenuto qua e là negli anni sarebbe stato comunque incluso dal compositore in una eventuale sua versione definitiva (o in più di una, perché no…) dell'opera, avesse avuto dal buon dio il tempo (ma anche la voglia) per approntarla. Un po' come accadde al finale della Turandot, di cui abbiamo parecchi schizzi autografi, ma che nessuno può immaginare se e come sarebbe stato completato da Puccini, fosse vissuto qualche settimana (o mese, o anno) in più.

Insomma, purtroppo bisogna pur prendere atto che un'edizione authoritative dei Contes è materialmente impossibile da mettere in piedi - a meno di pretendere di entrare nella testa di un… morto - e quindi tanto vale mettersi l'animo in pace e accontentarsi di ciò che passa, di volta in volta, il convento, dicasi: la coppia concertatore-regista (più la direzione artistica/musicale del teatro) che in definitiva è responsabile della scelta degli ingredienti di base con cui cucinare e servire in tavola il minestrone. Dopodichè giudicheremo se quel minestrone ci è piaciuto o ci è rimasto sullo stomaco, se è il migliore da noi mai assaporato, o se pure quello cucinato da altri cuochi ci aveva convinto di più. Ripeto e chiudo: il torto (se vogliamo proprio chiamarlo così) della Scala è di averci propinato negli ultimi tre lustri il minestrone fatto con la stessa vecchia (pur se collaudata) ricetta, invece di provare a deliziarci con ricette più aggiornate e comunque già ampiamente collaudate (per la cronaca, sono quasi 1000 le rappresentazioni già date, dal lontano 7 ottobre 1988 – LosAngeles - della versione Schott).

Robert Carsen ne ha cavato uno spettacolo più che godibile, sfruttando da par suo i risvolti surreali del soggetto, che si presta per sua natura ad interpretazioni fantastiche (o fantasiose) e che è di fatto inossidabile a qualunque adulterazione (specialità in cui Carsen è maestro). L'ambientazione, perennemente calata nel Don Giovanni che Stella sta interpretando, è un'idea non solo intelligente (come sono tutte le idee del regista canadese) ma anche appropriata (cosa che invece non sempre accade) al soggetto da rappresentare e al suo protagonista, le cui oniriche avventure a pessimo fine ricordano in effetti le vicende del personaggio mozartiano (però non come ce le ha raccontate Carsen stesso di questi tempi, tanto per ribadire il concetto sull'appropriatezza delle sue idee!)

Data la successione temporale dei due allestimenti di Carsen, verrebbe da pensare che quello del recente Don abbia mutuato parecchio da questo, vecchio di una dozzina d'anni; persino certe componenti della scenografia si richiamano in modo sorprendente: sipari e quinte, il palco-nel-palco, il tavolone del bar che occupa tutto il fronte della scena, proprio come la tavola della cena di Don Giovanni, la passeggiata in platea di Giulietta e Pitichinaccio, che anticipa quelle dei protagonisti del capolavoro di Mozart… Va detto però che la tecnica del teatro-nel-teatro (usata abbastanza a sproposito nel recente Don) è qui invece impiegata in modo assai efficace per ambientare la vicenda di Hoffmann (con tutte le sue implicazioni di carattere psico-esistenziale) e le ambigue relazioni fra l'artista e il mondo del teatro, con tutte le dicotomie fra sogno (o chimera, o spettacolo, o subconscio) e realtà (o realismo, o vita quotidiana, o razionalità) che sono alla base del soggetto hoffmann-offenbachiano.

Fin dall'apertura del teatro (ore 19, mezz'ora prima dell'inizio dello spettacolo) una controfigura di Hoffmann è presente sul proscenio, sdraiato per terra, su un fianco, spalle rivolte al pubblico, intento a scartabellare appunti e schizzi musicali, tracannando a garganella diverse bottiglie di vino sparse qua e là… All'apertura del sipario, mentre udiamo il coro degli spiriti, vediamo una scena del Don Giovanni, con Donna Anna (Stella) in bella evidenza (più la statua del Commendatore e diverse comparse) e capiamo che Hoffmann era lì per lei (Stella, appunto). La scena si muove e ci spostiamo di lato, dietro le quinte, dove arriva la Musa a prendersi cura – travestendosi poi da Nicklausse – del povero Hoffmann. E dove arriva anche il bieco Lindorf, che induce Andrès a cedergli la missiva indirizzata da Stella a Hoffmann. La scena adesso si trasforma in un bar (la taverna di Luther, con l'emersione del lungo bancone) dove si affollano comparse e masse del teatro, in un intervallo della recita del Don Giovanni. Qui si svolge tutto il resto del Prologo, con piacevolissime gag sulla filastrocca di Kleinzach, l'incontro-scontro fra il protagonista e Lindorf e la rivelazione di Hoffmann sulle tre donne che si incarnano in Stella e la conseguente decisione di raccontarne le tre avventure.

Per l'atto di Olympia, che segue senza intervallo, compaiono delle quinte viste da dietro (cioè dall'ipotetico fondo-scena) mentre sul fondo campeggia il retro (vuoto) della statua del Commendatore e sul proscenio vero compaiono suppellettili del laboratorio di Spalanzani (che entra in camice bianco imbrattato di sangue) con tanto di barella su cui è adagiata Olympia-frankenstein. La bambolona qui rappresenta il simbolo efficace di tutte le bambole che ammiccano oggi da schermi e web-pages, in mondi artefatti, tipo reality o grandi fratelli, animate da qualcuno che le muove con un telecomando (o da noi stessi tramite un mouse…) Facciamo conoscenza col cattivone di turno, Coppélius, che per la verità sembra più un onesto (smile!) venditore di cianfrusaglie che un criminale, e che solo dopo essere stato vittima di un imbroglio maturerà un filino di rancore verso Spalanzani. La scena dell'esibizione di Olympia è mirabilmente occupata da una sfilata di decine di Zerline e Masetti prelevati di peso dal Don Giovanni, che assistono ai gorgheggi della bambolona, cui Spalanzani ricarica le pile, anziché toccandole la spalla, sdraiandosi per terra, a mò di meccanico, sotto le sue gonne e ravanando… chissa dove?

Dopo l'intermezzo in cui Hoffmann e Olympia restano soli, ecco la gustosissima fase finale dell'atto, con Olympia che si trasforma in robot impazzito, in bambola sfruttata che si ribella ai telecomandi, ai suoi sfruttatori e ai suoi pretendenti, e alla fine si denuda completamente, mostrando con orgoglio le sue tette e il suo culo di bachelite (o silicone…) Quando si dice: la verità è nuda! Ecco, qui abbiamo la falsità nuda, proprio come in molti nostri mondi, reali o virtuali. Semplicemente strepitoso!

Dopo l'intervallo, l'atto di Antonia. Qui, invece che in casa di un fabbricante di violini, siamo nella buca dell'orchestra, dove i violini normalmente suonano. È evidentemente un intervallo dell'opera, la buca è vuota, ma la partitura mozartiana in bella mostra sul leggìo del direttore (che scopriremo essere lo sbifido Dr.Miracle) e un clavicembalo ci assicurano trattarsi del Don Giovanni. E proprio al clavicembalo – nello scrupoloso rispetto del libretto – siede Antonia ad intonare la sua straordinaria tourterelle. La scena si svolge prevalentemente giù, nella buca. Sopra si intravedono un paio di metri di sipario chiuso, davanti al quale compaiono due personaggi: Frantz (che vi canta il suo tra-la-la-la-là) ma soprattutto Miracle, che si presenta estraendo dalla borsa di medico una… bacchetta da direttore d'orchestra. Di grande effetto la scena dell'apparizione della madre di Antonia: Miracle è adesso giù in buca, con la ragazza, mentre sopra di loro il sipario si apre sulla scena del Don Giovanni (sempre con statua del Commendatore) in cui canta – nel costume di Donna Anna – la defunta madre di Antonia. È il richiamo di quella specie di droga (di cui Miracle è spacciatore) che è la musica. In questo scenario ascoltiamo il mirabile terzetto. Poi Antonia sale in scena, entrano gli orchestrali, Miracle dà l'attacco… e la ragazza muore, dopo aver indossato il velo lasciatole a terra – a mo' di testimone - dalla madre. Una cosa grande!

L'atto di Giulietta fu il più tormentato nella sua gestazione e, insieme al finale, è quello che più divide le versioni tradizionali dell'opera da quelle di più recente approntamento. Carsen ci mostra la platea di un teatro, evidentemente in un intervallo delle prove del Don Giovanni, dove comparse e masse – cullate dal canto di Giulietta e Nicklausse che si aggirano fra le poltrone ondeggianti come gondole - si rendono protagonisti di una specie di orgia, un'ammucchiata che materializza l'invito di Hoffmann Amis, l'amour tendre et rêveur, erreur! Qui il cattivone è Dapertutto e fa il regista, sempre con lo spartito del Don Giovanni in mano. Finita l'orgia, lui canta la sua Scintille, diamant per convincere Giulietta ad adescare Hoffmann, poi va in platea a seguire le prove dell'adescamento. Lo spettacolo riprende, in sala rientra il pubblico elegante, mentre il regista dirige il sestetto pretendendo dai cantanti un totale asservimento ai suoi desiderata: restano tutti impalati come marionette, con i cinque occhi-di-bue che sembrano inchiodarli al tavolato. Finito il sestetto e lo spettacolo, Hoffmann ammazza Schlemil per poi vedere Giulietta allontanarsi lungo il corridoio della platea con Pitichinaccio. Francamente questo è l'atto forse meno riuscito nella regìa di Carsen, soprattutto per l'associazione della figura di Dapertutto a quella di un regista, francamente un po' forzata e dal significato non immediatamente chiaro (ma, come dico, è anche il libretto ad essere poco efficace).

Per il finale torniamo… al bar del teatro dove ad Hoffmann – gelato da Lindorf che se ne va con la sua diva Stella – non resta che lo sfogo con Kleinzach, prima dell'apoteosi, un viaggio verso una luce abbagliante, sotto lo sguardo protettivo della sua Musa.

Bene, questo per quanto concerne lo spettacolo, almeno secondo me, più che convincente.
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Sul fronte musicale, notizie in chiaroscuro. Marko Letonja si era presentato alla radio, domenica sera, con alcune giustificazioni francamente imbarazzanti sulla scelta del menu musicale: poteva limitarsi ad ammettere che lui è un follower, invece di incolpare, tra virgolette, il povero Carsen, che non credo avrebbe avuto difficoltà ad armonizzare con il suo impianto l'atto di Giulietta e il finale della versione Schott! In buca è apparso altrettanto pavido, appiattendo – a mio modo di sentire - tutte le curve della musica di Offenbach (o chi per lui…) che invece ha caratteristiche di mirabile eterogeneità, un misto di operetta, melodramma e dramma-per-musica. Una prestazione abbastanza incolore.

Fra i protagonisti, benino l'Hoffmann di Arturo Chacon-Cruz (di certo meglio dell'impiccato quanto stonato Vargas ascoltato per radio) il cui limite principale è la potenza di suono. Idem per Daniela Sindram, che mi è parsa meglio in forma della piuttosto spenta Gubanova (*** e non Gruberova come avevo erroneamente scritto e come mi ha giustamente fatto osservare Amfortas nel suo commento ***) . Vassiliki Karavanni ha sostituito all'ultimo momento, dato che mancava nell'agenda originaria (e la sua foto manca dal programma di sala…) la Gilmore nel ruolo di Olympia: lei non arriva al SOL sovracuto, si ferma solo al FA (smile!) ma in compenso pare avere una voce umana e non cibernetico-metallica come quella della collega (sempre udita via etere). Ellie Dehn è stata una passabile Antonia, non facendo per nulla rimpiangere la Kühmeier di domenica. Si è confermata con pieno merito Veronica Simeoni nel ruolo abbastanza facile, diciamo, di Giulietta. Hermine May ha fatto il suo compitino come mamma di Antonia, richiamata temporaneamente in vita dallo sbifido Miracle.

Degli altri maschi, in gran spolvero Ildar Abdrazakov nei quattro ruoli dei cattivoni, in particolare in quello di Miracle. Gli altri: William Shimmel (oste e liutaio, che accoppiata!) Rodolphe Briand (Spalanzani), Cyrille Dubois (Nathanel) e Nicolas Testè (Hermann e Schlemil) sul livello di sufficienza. Ampiamente al di sopra del quale metterei invece Carlo Bosi, assai efficace nei suoi 4 ruoli comprimari, ma soprattutto in quello di Frantz, applaudito a scena aperta. Sul suo standard il coro di Casoni.

L'Orchestra non ha suonato male, peccato che sul podio ci fosse Letonja e non Harding (smile!)

Comunque discreto successo, ma senza eccessivi entusiasmi, per tutti. Spettacolo per me salvato, questa volta, dalla regìa.
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13 gennaio, 2012

Orchestraverdi – concerto n 15


Passate le feste e l'allegria (effettivamente, con gli spread che corrono…) la stagione riprende con un programma assai serioso, che vede alla ribalta come solisti anche quattro prime parti dell'Orchestra.

Luca Santaniello (violino), Mario Shirai Grigolato (cello), Luca Stocco (oboe) e Andrea Magnani (fagotto) si cimentano infatti con la Hoboken 105 di Josephus Haydn, intitolata semplicemente Concertante in SIb. Scritta a Londra nel 1792, reca in testa l'epigrafe In nomine Domini e in coda il sigillo Fine Laus Deo: insomma una cosa sentita proprio… religiosamente!

È in tre movimenti (manca il classico menuetto) ed ha una leggerezza di fondo, tutta cameristica, che la distingue dalle coeve e robuste sinfonie londinesi, il che conferma il suo carattere di concerto, più che di sinfonia. I 4 moschettieri de laVerdi hanno così l'occasione di mostrare tutto il loro valore e di raccogliere l'applauso dei colleghi, oltre che quello del (non proprio numerosissimo) pubblico.

Dopo l'intervallo, la sinfonia forse più colossale, per struttura oltre che per durata - dove è superata di poco solo dall'Ottava – di Anton Bruckner, la Quinta, qui presentata nell'edizione ormai consolidata di Leopold Nowak (basata sui manoscritti del 1878). A Bruckner avrebbero potuto portar via anche le mutande, ma la sua fede nella musica e in Dio (o in Dio e quindi nella musica) mai sarebbe venuta meno. Era emigrato da Linz a Vienna e, invece di far fortuna nella capitale dell'impero e della musica, vi aveva trovato – almeno inizialmente - un'accoglienza a dir poco sbifida, tra bistrattamenti e riduzioni di stipendio, e viveva in uno stato di totale prostrazione: pure, si mise come nulla fosse ad erigere questa autentica cattedrale di note, uno dei suoi più arditi monumenti al Creatore. Ma la cosa più stupefacente è che, completato questo po' po' di behemoth, lo mise in un cassetto dove restò per 15 anni ad ammuffire, e lì sarebbe rimasto forse per sempre, non fosse stato per l'insistenza di quel suo ammiratore-arrangiatore che rispondeva al nome di Franz Schalk!

Nell'iniziale Adagio-Allegro pare di entrare in una basilica barocca (magari proprio a Sankt Florian?) e di percorrerla in lungo, in largo e in… altezza. Poderose colonne sonore ci spingono la vista fin su, verso i soffitti affrescati; percorriamo navate nella penombra, ammirando gli archi che le sostengono e gli stucchi che le abbelliscono; contempliamo gli altari e ascoltiamo corali che emanano dall'organo (di Bruckner!); svoltiamo in una cella laterale e vi troviamo una pala raffigurante una grande scena biblica; più in là una cripta avvolta nel buio lascia intravedere preziose reliquie. Poi diamo un colpo d'occhio d'insieme a tutte queste magnificenze, le ripercorriamo con lo sguardo a ritroso, dall'alto al basso; e infine le contempliamo ancora una volta in tutta la loro maestosità. Poi gli analisti ci spiegheranno che il movimento è in forma-sonata, con tre temi principali, le transizioni, il canonico sviluppo e la ricapitolazione, e che temi e motivi sono sottoposti a trattamenti in stile fiammingo (così come un architetto ci potrebbe spiegare i criteri costruttivi della basilica) ma ciò che ci resta dentro è quella particolare sensazione di severa sacralità, di profonda religiosità che emana da quel luogo e che ci ha invaso l'anima e il corpo. In particolare, di un tema ci dovremo ricordare (lo farà più avanti anche Dvorak) poiché tornerà nel Finale e addirittura chiuderà la sinfonia:

Nella prima sezione dell'Adagio il comptomane Bruckner si cimenta con il classico problema della quadratura del cerchio: siamo in tempo C tagliato, ma ancor prima che l'oboe attacchi il tema principale (RE minore) in quattro quarti, tutti gli archi, in pizzicato, hanno esposto un accompagnamento in 2 terzine a battuta che prosegue per 18 battute, sostenendo il tema dell'oboe, cui si sono aggiunti fagotto e flauto; poi i violini attaccano un motivo pari, mentre viole, violoncelli e contrabbassi insistono con le terzine, che da battuta 23 diventano padrone del campo, fino alla conclusione dell'esposizione (battuta 30).

Siamo rimasti fino ad ora in questa strana ambiguità ritmica, come se stessimo marciando in un corteo accompagnato da tamburi che battono tre colpi ogni due passi nostri… Ma adesso c'è una pausa di 3 semiminime e poi improvvisamente - Assai robusto e marcato - i violini, sulla corda più grave, accompagnati dal resto degli archi, espongono un motivo (inizialmente in DO) carico di severità, nobiltà austera, ma che chiude la seconda sezione con un illanguidimento, quasi una reminiscenza del Wotan che dà l'addio a Brünnhilde:

Il tema si sviluppa poi in modo assai ampio, fino a misura 70, con un poderoso crescendo sostenuto dagli ottoni. Torna il tema principale, ora esposto da tutti gli strumentini e sempre con le terzine sottostanti degli archi, ma presto le carte si mescolano: ora celli e contrabbassi con fagotti e corni espongono il tema, mentre i primi violini passano alle sestine, velocizzando l'accompagnamento. A misura 81 una grande perorazione di tutti i fiati, accompagnata dagli archi con sestine tremolanti, rappresenta la vetta del movimento. Torna il secondo tema, a partire da un tono sopra (RE) rispetto alla prima comparsa; anch'esso si sviluppa ampiamente, in specie con interventi degli strumentini. A misura 163 riattacca il tema principale, sempre in RE minore, nei fiati: qui però il sottostante accompagnamento degli archi è in ritmo pari (anche i violini suonano 4 sestine a battuta). Da qui inizia una lunga coda che porta alla conclusione, dove il tema è ancora esposto da corno, oboe e flauto, in una sommessa cadenza.

Anche lo Scherzo ha dimensioni ragguardevoli ed una struttura piuttosto insolita: dopo la serrata esposizione del tema principale (3/4) parrebbe subentrare – assai anzitempo – un trio, vista la pausa con corona puntata ed il tempo che rallenta vistosamente. Invece è solo apparenza, e il Trio propriamente detto (in 2/4) arriverà assai più tardi, dopo che lo Scherzo avrà espresso tutta una serie di motivi, dal Ländler (di cui Mahler si ricorderà) al walzeraccio tracotante.

Per il Finale rientriamo in un'altra cattedrale, in cui subito scopriamo la stessa mano dell'architetto di quella esplorata nel primo movimento: come detto, ne udiamo uno dei temi, e poi anche il tema dell'Adagio, come accade per la IX di Beethoven (in musicologia tutto ciò si cataloga come: forma ciclica). Anche qui la macro-struttura è in forma-sonata, ma con dimensioni davvero ipertrofiche. Uno dei temi si traveste da pesantissimo corale e la fa da padrone, contrappuntando il tema ciclico, cui è riservata la chiusa, procedimento non nuovo per Bruckner, che poi lo riapplicherà ancora (già a partire dalla Sesta).

Flor mi è sembrato un ottimo cicerone, guidandoci proprio per mano alla scoperta di tutte le celestiali noiosaggini (per parafrasare Schumann su Schubert) del tuttora poco apprezzato (in Italia per lo meno) organista di Ansfelden. Merito ovviamente dell'Orchestra – disposta proprio alla tedesca, bassi al centro-sinistra e violini secondi al proscenio - dove i fiati soprattutto sono chiamati a prove davvero terrificanti.

Prossimo appuntamento tutto con Dvorak e con il suo mentore Aldo Ceccato.
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02 gennaio, 2012

Torino dentro la musica


Da qualche anno la Città di Torino ha lanciato una lodevole iniziativa, denominata Dentro la Musica, che si propone di introdurre profani e non nei segreti e nei misteri della musica strumentale, a partire dalla forma sinfonica, come si è venuta sviluppando dal '700 in avanti.

In pratica ogni anno è stata resa disponibile una nuova lezione, curata da professori universitari e con ausilio di strumenti multimediali (files musicali e spezzoni di partitura) che prende per mano l'ascoltatore-discepolo e lo accompagna alla scoperta delle intime strutture di grandi opere sinfoniche.

Particolarmente interessante la lezione su Haydn (La sorpresa), che ricostruisce origini ed evoluzione della forma sinfonica e ne individua chiaramente le principali caratteristiche strutturali, riscontrabili poi in tutta la produzione dell'800 (e oltre). Beethoven (Eroica e Nona) e Ciajkovsky (Patetica) sono gli altri autori esplorati fino ad oggi.

Uno strumento di approccio semplice e facile, che può aiutare chiunque a fare qualche decisivo passo dall'ascolto puramente passivo a quello… riflessivo!
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