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quattro chiacchiere al petrus-bar

01 febbraio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.14 - Axelrod

Il classicismo viennese occupa la locandina di questo 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano che vede il gradito ritorno sul podio dell’Auditorium di John Axelrod. In programma Mozart e Beethoven!

Del sommo Teofilo riascoltiamo, dopo più di sei anni (novembre ’18, dir. Fournillier) il Concerto per flauto e arpa (K299). E come allora i due solisti sono le rispettive prime parti dell’Orchestra, Nicolò Manachino ed Elena Piva.

Concerto composto a Parigi (durante il lungo viaggio del 1778, funestato alla fine dalla morte della madre) su commissione del Duca di Guines, che era discreto flautista ed aveva una figlia che si dilettava con l’arpa (Mozart fu suo maestro ma, a dirla tutta, dopo un’iniziale apprezzamento, finì per considerarla musicalmente una nullità…)

Ma non per questo si tratta di un brano povero di contenuti, caso mai si può pensare che Mozart abbia privilegiato nella composizione uno stile galante e lezioso, evitando arditezze eccessive per i due commisionanti-dedicatari dell’opera. Lo testimoniano anche le tonalità (DO di impianto, SOL e FA ancillari) con il minimo di accidenti. Che abbondano nelle famose cadenze di Carl Reinecke, assai ricche di cromatismi… ma non impiegate qui, in favore di altre più vicine allo spirito mozartiano.

Grande prestazione del duo dei campioni di casa, calorosamente applauditi da un pubblico foltissimo e, soprattutto, con ampia e confortante rappresentanza di giovani e giovanissimi, ricambiati da una pregevole Elegia

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Ecco, infine, la più celebre delle Pastorali, che riascoltiamo in Auditorium a distanza di quasi otto anni: luglio ’17, ciclo delle 9 sinfonie dirette da Flor (qui una mia notazione, più che altro statistica, scritta a quel tempo e purtroppo – ah, il progresso! - infarcita di web-link andati nel frattempo a meretrici…)

Come sappiamo, fu proprio lo stesso Beethoven, seguendo illustri esempi provenienti dal passato, ad introdurre nel corpo della Sinfonia qualcosa di extramusicale, addirittura dotando l’opera e i suoi cinque movimenti di dettagliati titoli descrittivi: Ricordi di vita campestre (più espressione di sentimenti che pittura); (1) Gradevoli, serene sensazioni che si risvegliano nell’uomo all’arrivo in campagna; (2) Presso un ruscello; (3) Allegra riunione di paesani; (4) Tuoni. Uragano; (5) Canto di pastori. Benefici sentimenti accompagnati da ringraziamenti alla divinità, dopo l’uragano.  

Si premurò di precisare che non trattavasi di pittura (leggasi: descrizione di luoghi o fenomeni) ma di espressione di sensazioni provate al cospetto di tali luoghi o fenomeni. Poi però, temendo di non essere abbastanza chiaro, sentì il bisogno di scrivere esplicitamente fra i righi musicali i nomi di tre volatili colà rappresentati da suoni di strumenti dell’orchestra: usignolo, quaglia e cuculo!

Insomma, con la sua Sesta, Beethoven cominciò a sdoganare l’idea che una composizione sinfonica potesse avere, oltre a quello tutto interno e privato dell’Autore, anche un programma esplicitamente extra-musicale. Aprendo quindi la strada a Berlioz, Liszt e a tutti i loro epigoni cresciuti lungo l’800 e pure dopo. Uno dei quali (tale Mahler) dopo aver spiegato pubblicamente i programmi extramusicali delle sue prime cinque Sinfonie (così sperando di convincere il pubblico a comprenderle e digerirle meglio!) ritirò tutti quei programmi per invitare il pubblico stesso ad abbandonarsi al rapsodo, senza far caso ad alcun esplicito riferimento! [Fra poco vedremo come Axelrod applichi un concetto analogo alla Pastorale.]

Ripropongo qui il link ad un fulminante, gustosissimo articolo di John Simon, che ridicolizza il concetto stesso di musica descrittiva… Al quale ne aggiungo uno mio personale: È la musica in grado di descrivere alcunchè?  

Ma, tornando a bomba, assai più interessante è stata invece la chiacchierata che Axelrod in persona ci ha propinato prima del concerto, nella consueta conferenza delle 18:30 organizzata da Pasquale Guadagnolo, nella quale il direttore texano ha esposto la sua vision dell’opera.

Che è mutuata dai contenuti di un testo scientifico della psichiatra svizzera, naturalizzata statunitense, Elisabeth Kübler-Ross che, avendo per ragioni professionali seguito diversi casi clinici, ha schematizzato l’ideale percorso psicologico di persone che scoprono di essere affette da malattie incurabili, suddividendolo in 5 fasi distinte (proprio come i 5 movimenti della Sinfonia, osserva Axelrod): si va dalla fase (1) di Negazione (della malattia) ed isolamento; alla (2) di Rabbia (indotta dalla consapevolezza); alla (3) di Contrattazione (promettere qualcosa in cambio di sollievo dalla malattia); alla (4) di Depressione (per la perdita irreparabile di parti di se stesso); e infine alla (5) di Accettazione (e isolamento in attesa della fine).

Ecco, alla luce di questa teorizzazione dei comportamenti umani di fronte alla prospettiva esistenziale legata alle conseguenze di malattie incurabili, Axelrod - invertendo peraltro le posizioni delle fasi (2) e (4) - prova ad interpretare, anche con precisi riferimenti alla partitura, i cinque movimenti della Pastorale come il percorso psicologico di Beethoven, condizionato dalla sua irreparabile sordità: la messa su pentagramma di quei suoni di natura (ecco il riferimento a Mahler e ai suoi programmi ripudiati) che ormai poteva ascoltare soltanto nella sua mente…

Interpretazione accattivante, anche se forse un po’ troppo… freudiana, oltre che strettamente legata alla condizione esistenziale di Beethoven (la sordità): quasi che la sinfonia non fosse il frutto di ciò che Beethoven voleva dirci (e ci ha chiaramente descritto in partitura) ma di ciò che il suo inconscio gli abbia dettato, sotto la pressione della malattia. Ma allora non si spiegherebbe come Beethoven abbia poi composto la Settima (francamente in-interpretabile secondo il metodo psicanalitico della Kübler-Ross, così come l’Ottava e la Nona).

Va dato atto all’onestà intellettuale del Direttore di non pretendere di avere la verità in tasca: ciascuno è libero di condividere o meno questa sua interpretazione psicanalitica. Dopodichè l’esecuzione è stata trascinante ed ha portato tutto il pubblico (comunque l’abbia vissuta) ad apprezzarla al massimo grado, almeno a giudicare dalle ovazioni e applausi ritmati rivolti a Direttore e strumentisti.

29 gennaio, 2025

La Scala e il Ring del 2026.

Il Teatro ha aperto oggi le vendite, in prelazione per gli abbonati, dei due cicli completi del Ring, in programma per Marzo 2026.

L’annuncio pare essere stato preparato con scarsa cura: all’inizio si comunicano i nomi dei due Direttori del Rheingold 2024, senza citare la sostituzione di Christian Thielemann, originariamente designato, e lasciando a comunicazioni future l’annuncio delle direzioni per il resto del programma (?!?)

Dopodichè, nel dettaglio relativo ai due cicli completi, si scopre che saranno diretti da Simone Young (1-3-5-7) e da Alexander Soddy (10-11-13-15), la coppia che dallo scorso ottobre ha appunto rimpiazzato Thielemann.

25 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.13 - Tjeknavorian

È ancora il Direttore musicale a dirigere l’Orchestra Sinfonica di Milano in un concerto a struttura classica, che presenta tre composizioni che percorrono l’intero ‘800, spaziando da Paganini a Saint-Saëns e passando per Liszt, che fa da filo rosso a collegare gli altri due: poichè dedicò a Saint-Saëns il suo secondo Mephisto-Walzer, ricambiato con la dedica della Terza Sinfonia; fece del violino diabolico (à-la-Paganini) il protagonista del suo primo Mephisto-Walzer; e sul tema paganiniano della Campanella compose uno dei suoi Studi d’esecuzione trascendentale.

Ed è appunto di Franz Liszt il primo brano in programma: si tratta della versione originale per orchestra del primo Mephisto Walzer, in realtà nato come il secondo dei Due episodi dal Faust di Nikolaus Lenau (1859-61) titolato Der Tanz in der Dorfschenke (La danza nell'osteria del villaggio).

Il frontespizio della partitura riporta i versi del capitolo di Lenau. Ad una festa di nozze Mefistofele, per far conquistare una bella ragazzotta all’arrapato ma un po’ inibito Faust, si impadronisce del violino di un suonatore e improvvisa una musica tanto ubriacante e seducente da provocare in tutti la visione di una scena erotica (ehm, un mezzo stupro…) e, di conseguenza, un’autentica danza orgiastica, con tanto di urla virili e gemiti femminili. Così anche Faust può godersi la sua prosperosa brunetta, nei boschi, per l’intera notte…

Il brano presenta quindi, dopo l’introduzione che evoca l’accordatura del violino di Mefistofele, in sequenza e poi in contrappunto, le due componenti della scena: la travolgente e galeotta musica del diavolaccio e i romantici (?) approcci di Faust alla contadinella, fino al canto mattutino dell’usignolo. 

Messa così, si può assimilare questo brano ad uno dei tanti poemi sinfonici in cui Liszt era maestro: musica ispirata ad un testo letterario (o filosofico). Ma qui sorge la perenne domanda, cui ciascuno può dare la risposta che preferisce: per gustarla al meglio, dovremmo aver ben presenti i dettagli dei riferimenti extra-musicali? E quindi dovremmo conseguentemente aspettarci che questa musica faccia a noi che la ascoltiamo oggi lo stesso effetto che fece ai partecipanti alla festa evocata da Lenau-Liszt (?!) Oppure possiamo apprezzare questa musica di per se stessa, applicandovi i canoni puramente estetici, così cari ad Eduard Hanslick?

Personalmente tendo a propendere per questa seconda scelta, lasciando strettamente la prima all’ambito del teatro musicale, dove è il testo esplicito a consentire di valutare l’appropriatezza dei suoni di cui il compositore lo riveste.  

Nel caso in questione faccio fatica ad attribuire al brano la patente di capolavoro, ecco. Detto ciò, va ancora una volta dato atto a Orchestra e Direttore di aver fatto del loro meglio per valorizzare questa musica, cosa di cui il pubblico ha dato materialmente atto, con meritati applausi.

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Il secondo brano è quindi un Concerto solistico: si tratta del Secondo Concerto (in SI minore) di Niccolò Paganini, conosciuto come La campanella per il finale in cui compare appunto quel particolare strumento (solitamente imitato dallo xilofono, o da altri simili sonagli) ad accompagnare, con delicati rintocchi, i FA# sovracuti del solista, nei ritorni del tema del rondò.

E il finale è proprio il movimento più ortodosso, a livello di forma: un Rondo relativamente semplice: A-B-A-C-A, con ritornello e due strofe. L’iniziale Allegro maestoso è invece il più distante dalla forma classica, presentando almeno tre diverse sezioni con motivi che poi non vengono sviluppati in senso classico, per far posto ad esibizioni virtuosistiche del solista. Il centrale Adagio (con introduzione mutuata dal Concerto n°24 di Viotti) dopo una cupa introduzione sfocia in un lungo Lied, caratterizzato da una melodia ripetuta con sottili variazioni.

È un violinista concittadino del Tjek, il 56enne Benjamin Schmid, che ce lo ha porto con una prestazione sensazionale: grande maestria e tecnica superlativa, arrivata al picco nella cadenza del primo movimento, al termine della quale è scoppiato un autentico, lunghissimo uragano di applausi. Nulla dei trucchi paganiniani ci è stato risparmiato: armonici e sovracuti, pizzicati contemporanei all’arco… insomma una cosa davvero grande e indimenticabile, coronata poi da un virtuosistico bis.

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Ha chiuso la serata la Terza sinfonia di Camille Saint-Saëns, divenuta famosa per l’inconsueta (anzi, mai incontrata prima di allora) presenza dell’organo nell’organico (!) orchestrale di una sinfonia (oltre a quella del pianoforte a 4 mani).

A parte il velleitario (e rimasto isolato) tentativo di Berlioz, la Sinfonia era rimasta per gran parte dell’800 esclusivo appannaggio del mondo musicale tedesco: dopo l’inarrivabile Beethoven – erede di Mozart e Haydn - ci avevano provato Mendelssohn e Schumann; poi – dopo mille esitazioni – l’innovatore-conservatore Brahms (in bellicosa compagnia del conservatore-innovatore Bruckner); quindi il suo epigono (non tedesco, ma comunque austro-ungarico-boemo) Dvořák; e infine il russo Ciajkovski, che portava un poco di Parigi in questo territorio teutonico. 

Ecco, Saint-Saëns cercava – soprattutto dopo la batosta militare francese del ’70 - di riportare la Francia alla ribalta (musicale, almeno) proprio in quel campo dove i crucchi spadroneggiavano indisturbati da sempre.

Dopo due tentativi da lui stesso sepolti (e altrettanti nemmeno fatti nascere) arrivò questa Terza Sinfonia (1885) che in realtà, va detto, è rimasta come terza mosca bianca (dopo la Fantastica e quella, piccola e snobbata, di Bizet) nell’intera produzione sinfonica dei galletti d’oltralpe. [Olivier Messiaen, come epitaffio contro Hitler, pensò bene di prendersi una rivincita cumulativa sui tedeschi, con la sua Turangalila, una sesquipedale sinfonia in 10 (in lettere: dieci!) movimenti.]

Tornando a… bomba (!) si tratta di un’opera che personalmente definirei come molto fumo e poco arrosto, nel senso che ha fatto e fa parlare di sé per qualche (apparente) innovazione tecnica e formale: l’organo, ad esempio, appare più come un espediente per fare notizia, che non come strumento che porti un chiaro valore aggiunto alla composizione. 

Le due sole parti in cui formalmente si articola la Sinfonia, in realtà nascondono a malapena – data la loro interna sdoppiatura – la struttura in quattro, assolutamente classica, se pur con qualche bizzarria: la mancanza di ricapitolazione nell’Allegro moderato, con passaggio diretto al Poco adagio (unico squarcio di vera ispirazione, con l’esordio dell’organo) e la giustapposizione del finale (Maestoso, dove torna l’organo) all’Allegro moderato che è di fatto uno Scherzo-con-Trio.   

Ma è soprattutto il programma interno dell’opera che ricalca un clichè già visto e rivisto e che ancora si rivedrà in futuro (Strauss e Mahler, tanto per dire…) Quello della luce dopo le tenebre, del paradiso dopo l’inferno, da DO minore a maggiore, come nella Quinta beethoveniana: della morte-e-resurrezione, insomma. E la chiave di questo programma è nientemeno – novità assoluta (!?) - che il Dies irae!  

Del quale si ode l’incipit (le prime note) già a battuta 12 dell’iniziale Allegro moderato, esposto dai primi violini, in DO minore:

Poi, dopo numerosi ritorni in sembianze sempre cangianti lungo l’arco della Sinfonia, si ripresenterà alla fine, in un DO maggiore persino grossolano, nell’organo:

[È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata - ma guarda un po' - da Franz Liszt.]

Ancora: prima della pomposa, retorica ed enfatica conclusione dell’opera, ecco il tema riapparire negli archi in forma davvero eroica, nella relativa MIb maggiore:

Insomma, una grandeur francamente degna di miglior causa! Che però l’Orchestra, trascinata dal sempre più entusiasta (ed entusiasmante) Tjek, ci ha permesso comunque di apprezzare per poi ricambiare Direttore e strumentisti con lunghi e ripetuti applausi ritmati. Il Maestro ha infine doverosamente portato alla ribalta l’impeccabile Alberto Gaspardo, protagonista alla tastiera dell’organo elettronico. [A proposito di organi, anni fa la Fondazione aveva lanciato l’idea di farne costruire uno vero per l’Auditorium… ma la cosa si dev’esser persa nella nebbia.]


18 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.12 - Tjeknavorian

Alla ripresa della stagione principale, dopo le fatiche del Concerto di Capodanno (quattro serate in Auditorium più una al KKL di Lucerna) l’Orchestra Sinfonica di Milano propone, sempre sotto la guida di Emmanuel Tjeknavorian, un programma otto-novecentesco che ci porta da Schumann a Shostakovich.

Del romantico di Zwickau si ascolta il Concerto per violoncello, spesso criticato (come tanta sua altra musica) come difficile, contorto e, soprattutto, male orchestrato. Al punto che uno dei suoi interpreti più famosi, Mstislav Rostropovich, dopo averlo più volte suonato, chiese all’amico Shostakovich (che di ri-orchestrazioni se ne intendeva… Musorgski ne sa qualcosa) di rimetterlo a nuovo.

Il solerte Dmitry, che già nel 1959 gli aveva dedicato il suo primo, lo accontentò subito (1963). E pochi anni dopo (1966) gliene dedicherà anche un secondo! L’ascolto del concerto riorchestrato permette di percepire alcune delle novità introdottevi da Shostakovich: una chiara sovraesposizione degli strumentini (con impiego dell’ottavino) e delle trombette; l’aggiunta dell’arpa al Langsam centrale e, nel finale, alcune scariche, tipicamente novecentesche, dei timpani.

Ma curiosamente Rostropovich, dopo averne sperimentato questa versione russa, tornò… all’ovile di Schumann! Del quale oggi vengono sempre di più rivalutati anche gli originali delle Sinfonie, che tale Mahler si era permesso di… correggere, nell’intento di migliorarne l’appeal verso il pubblico.

È Jeremias Fliedl, un conterraneo e amico del Direttore e, come lui, poco più che un ragazzo (classe ’99) ad interpretare l’Op.129 così come lasciataci dal suo Autore (qui una sua recente esibizione).

Tecnica sopraffina e grande qualità del suono del suo strumento (targato Stradivari) hanno davvero restituito a questo brano tutto il suo struggente contenuto romantico, conquistando il pubblico, anche ieri assai folto e caloroso, a testimonianza che il Tjek – con gli amici che si porta dietro – sta già imprimendo un chiaro salto di quantità alle presenze in sala. Il Direttore ha chiesto uno speciale applauso anche per il primo violoncello Mario Shirai Grigolato, al cui strumento Schumann organizza un simpatico rendez-vous con quello del solista.

Grandi applausi per tutti, e così il ragazzino Jeremias si commiata ringraziando Milano per l’accoglienza con… Bach.

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Del compositore russo (scomparso proprio mezzo secolo fa) ascoltiamo poi l’enigmatica Decima Sinfonia (qui alcune mie note illustrative in proposito). Come accade anche per altri lavori legati in qualche modo a contenuti extra-musicali (nella fattispecie i difficili e altalenanti rapporti di Shostakovich con il potere sovietico, piuttosto che la sua bizzarra relazione con l’allieva azera) personalmente tendo a gustare la musica solo per se stessa, cercando se possibile di ignorare quei legami.

E se non è proprio possibile, quando si incontra, come nel finale, un’autentica gragnuola di DSCH (RE-MIb-DO-SI, la carta d’identità del compositore) beh, accettiamola come un giustificabile sfogo da parte di un uomo che – a Stalin defunto – ci teneva a ricordarci tutti i torti subiti dal regime, ecco.

laVerdi ha una tale dimestichezza con questa musica (acquisita fin dai tempi in cui incise tutte le 15 Sinfonie con Oleg Caetani) che la resa dell’esecuzione è sempre garantita, ma certo che il Tjek ancora una volta ha stupito, dirigendo a memoria questo mostro: cosa non ha saputo cavare dal finale a dir poco travolgente, aizzando il pubblico ad un vero e proprio tumulto! 


17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.


14 gennaio, 2025

Uno storico Falstaff torna alla Scala.

Come è già accaduto in passate stagioni, la Scala ospita, come seconda opera del cartellone, l’ultimo lascito di Verdi. A proposito di allestimenti che fanno storia, al posto del più recente (Michieletto-2017, creato nel 2013 a Salzburg, che evidentemente ha fatto solo… cronaca) ci viene offerto (ripreso da Marina Bianchi) quello, davvero storico, di Giorgio Strehler, che vide la luce a SantAmbrogio del 1980 e fu poi ripreso già altre sei volte: 82-93-95-97-01-04.

Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta e a sonate di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Meistersinger e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso…

In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale. Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente.

Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in grande simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa (si procurò gli spartiti delle più importanti) a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, in bocca ad un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così, portandola sulla dominante:

Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, guarda caso un… (auto)castrato!

Il carattere letteralmente rivoluzionario fa di questa musica un unicum nella storia del teatro musicale. E di conseguenza l’opera richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio.

Al proposito, ecco con quale rispetto e venerazione uno dei più grandi direttori di tutti i tempi affrontava la concertazione dell’opera. Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall’esordio scaligero dell’opera, e 10 anni più tardi alla Hofoper.

E quanta certosina meticolosità e scrupolo mettesse nell’interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava per l’appunto rivoluzionaria e da cui ricavò abbondanti spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove in vista delle rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, precipitando lungo la triade di MI maggiore, di ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l’ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d’atto:

Ebbene, il pignolissimo Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!
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E proprio un raffinato interprete mahleriano, Daniele Gatti, tornerà per l’occasione sul podio del Piermarini per dirigervi un’opera, a distanza di quasi 10 anni da quando si cimentò proprio in Falstaff, in occasione della ripresa dello spettacolo creato da Carsen nel 2013: una lettura, la sua, allora assai apprezzata da pubblico e critica (e, per quanto può valere, anche dal sottoscritto).

Protagonista nel title-role l’inossidabile Ambrogio Maestri, ormai da tempo uno degli interpreti di riferimento del panciuto e tronfio personaggio windsoriano. Che sarà affiancato da un cast che a sua volta promette assai bene.

Ci sono quindi le premesse per un’altra bella serata di musica!

31 dicembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.11

Fedeli all’ormai lunghissima tradizione, l’Orchestra Sinfonica e il Coro Sinfonico di Milano celebrano il Nuovo Anno con 4 esecuzioni della Nona Sinfonia di Beethoven, della quale quest’anno si celebra il 200° compleanno.

Dopo il battesimo di domenica, ieri c’è stata la prima replica, cui seguiranno le  altre due, oggi e domani.

A guidare strumenti e voci il Direttore Musicale Emmanuel Tjeknavorian, coadiuvato dal preparatore del Coro, Massimo Fiocchi Malaspina.

Sappiamo che Emmanuel è figlio d’arte, e qui possiamo ascoltare e vedere il paparino  Loris (oggi 87enne) mentre dirige proprio la nona ad Yerevan, capitale di quell’Armenia che aveva dato i natali ai suoi genitori, poi sfollati in Iran, dove lui è nato e da dove ha intrapreso le sue innumerevoli peregrinazioni in giro per il mondo, e in particolare a Vienna, dove nel 1995 è venuto alla luce Emmanuel, che oggi ne sta brillantemente seguendo le orme.

Come dimostra la sicurezza quasi irriverente con la quale ha affrontato questo autentico mostro, mandato tutto a memoria!

A partire dall’Allegro ma non troppo iniziale, con la misteriosa emersione del primo tema dalle brume della quinta vuota di RE minore, per far poi spazio alla delicata melodia in SIb maggiore e poi al dipanarsi di questa lunga, complessa e ardita costruzione in forma-sonata.

Poi lo Scherzo, che in particolare esercita sempre un fascino quasi sinistro: quel ritmo ossessivo lo rende simile ad un moto perpetuo che toglie il respiro. E il Trio, solo apparentemente più tranquillo, non fa che sostenere questa continua tensione (forse solo lo Scherzo dell’ottava di Bruckner è altrettanto invadente). Qui però mi tocca di fare una modesta critica al Tjek: averci risparmiato (proprio come papà Loris nella citata registrazione) i da-capo delle due sezioni dello Scherzo. A qualcuno potranno sembrare delle inutili lungaggini: in effetti sono almeno 5 minuti di musica, ma personalmente sono sempre felice di ascoltarli, e deluso se mancano all’appello.

Poi il Tjek si è rifatto ampiamente con l’emozionante Adagio.Andante, con le sue celestiali melodie che creano un’oasi di raccoglimento prima dell’esplosione del Finale. Dove celli e bassi si sono ancora una volta superati nel proporci a mo’ di austero recitativo quel Freude, schöner Götterfunken che poi le voci si incaricheranno d’innalzare al cielo nell’apoteosi conclusiva.  

E, a proposito di voci, I quattro solisti SATB (presentatisi, come consuetudine, prima dell’Adagio e dislocati al proscenio) hanno complessivamente ben meritato, a partire dal baritono coreano Jusung Gabriel Park che si è distinto nel recitativo che apre l’Ode schilleriana. Bene anche le due voci femminili, Elisabeth Breuer (soprano) e Caterina Piva (mezzosoprano, già ben nota ai palcoscenici italiani). Quanto al sudafricano di colore Katleho Mokhoabane, ha mostrato voce ben impostata, peccato però che manchi di qualche decibel: la sua frase che chiude con freudig, wie ein Held zum Siegen è stata purtroppo inghiottita dal pieno di orchestra e coro.

Il quale coro ha mostrato ancora una volta di cosa è capace, e giustamente Fiocchi Malaspina al termine è stato, come tutti, ampiamente ovazionato.

Serata davvero magica e trionfale, in un Auditorium pieno più di un uovo e con l’entusiasmo del pubblico che ha raggiunto il calor bianco. 


21 dicembre, 2024

Gatti alla Scala con una nuova PMS.

La Petite Messe Solennelle è quindi tornata, dopo un’eternità, al Piermarini con la sua veste più ricca, quella che Rossini le regalò sotto forma di orchestrazione, completata negli ultimi anni di vita e che purtroppo il Maestro non ebbe nemmeno il piacere di ascoltare.

A proposito di strumentazione, Rossini ne aveva riduttivamente parlato come di un’aggiunta, alle 12 voci e alle tre tastiere della versione primigenia, di un modesto pacchetto di archi e di qualche fiato, proprio per dare all’opera quel minimo di robustezza, necessaria ad affrontare esecuzioni in… campo aperto. La partitura in realtà è quella tipica di un complesso non inferiore a quelli impiegati da Rossini, per dire, nel teatro musicale.

Da qui però i vessilliferi delle grandiosità romantiche (e poi tardo-) hanno preso lo spunto per… esagerare, impiegando organici strumentali e corali e approcci esecutivi enfatici e retorici, che Rossini non aveva mai perso l’occasione di criticare nelle produzioni musicali moderne (ai suoi tempi). E così ancor oggi la Petite messe rossiniana viene spesso eseguita neanche fosse la Grande symphonie funèbre et triomphale di Berlioz…

Ecco, questa interpretazione di Gatti forse non è stata così… esagerata, tuttavia si è mossa nel solco di questo tradizionale approccio piuttosto romantico: diciamo che forse non era proprio Berlioz, ma magari il Brahms del Requiem…

Ora però – anche per spiegare l’aggettivo che ho usato nel titolo del post - va detto qualcosa relativamente a quello che si potrebbe definire – con una battuta fin troppo… equivoca – la funzione dell’organo (!?!)

Ecco: Rossini prescrive lo strumento a canne nella partitura orchestrale con un duplice compito: il primo è accessorio – e come tale quasi sempre ignorato nelle moderne esecuzioni – perché di puro riempitivo (nella versione cameristica è riservato al pianoforte-2); il secondo invece è obbligato perché lo strumento è solista nel Preludio religioso (nella versione cameristica affidato al pianoforte-1).  

Gatti si misurò per la prima volta con la versione orchestrata della Messe al ROF del 1999 e vi impiegò necessariamente l’organo (qui a 54’25” l’introduzione dei fiati al Preludio e a 55’29” l’attacco dell’organo). Poi però il compianto Alberto Zedda produsse la sua (discutibile) orchestrazione del brano, che porterà in giro per il mondo (Russia, Spagna) e presenterà al ROF nel 2014; la quale di fatto esclude tout-court l’impiego dell’organo, affidando all’orchestra l’intera parte, che comprende il corpo, un ritornello e la ripetizione del ritornello dopo che i fiati hanno ripetuto l’introduzione. E così Gatti, nel 2013 con la sua ONF a Vienna (dove pure disponeva, al Musikverein, di una selva di canne di prim’ordine) fece eseguire il Preludio zeddiano all’orchestra (qui a 1h00’22” l’introduzione e a 1h01’33” l’attacco del clarinetto basso).

Orbene, come si è regolato il Direttore per questa esecuzione scaligera?

Ha inventato una nuova soluzione! Intanto ha tenuto in orchestra l’organo come riempitivo, rispettando fin troppo alla lettera Rossini, dato che con quel po’ po’ di orchestra e coro di riempitivo ulteriore si può fare anche a meno… Ma poi, al momento del Preludio, che ti fa? Fa suonare (come a Vienna 2013) quello orchestrato da Zedda! Ma con una sottile variante: il ritornello finale (9 battute) invece che all’orchestra come prevede Zedda, lo fa suonare all’organo, quasi a volergli dare un contentino!

Insomma, una scelta francamente assurda e persino offensiva: oltre che nei confronti dell’organista, anche in quelli di Zedda (che oggi non può nemmeno far valere il suo copyright) ma anche nei confronti del pubblico e persino di… Rossini! Sì, perché dell’impiego del lavoro di Zedda nulla viene scritto: locandina, sito web, programma di sala, rivista del teatro… mai viene citata questa scelta! [Almeno nel 2013, forse perché Zedda era ancora vivo e vegeto, il pubblico era informato di quella scelta, come dimostra anche la sovrimpressione nel citato video di ARTE all’attacco del Preludio.]

Un’altra tipica (pur se stucchevole) domanda riguarda il… carico di lavoro dei quattro solisti SATB: Rossini, nella versione cameristica, prescrive che cantino, oltre alle proprie parti solistiche, anche quelle delle otto voci del coro. Meno chiara e inoppugnabile è invece la medesima prescrizione apposta sulla partitura della versione orchestrata, e nel dubbio ormai tutti i solisti si risparmiano questo lavoro straordinario e anche poco… appariscente, visto che le loro voci rischiano facilmente di annegare nel fracasso di quelle dei pletorici cori oggi impiegati. E così è stato immancabilmente anche questa volta, ma qui senza che nessuno abbia troppo a che ridire.

Mariangela Sicilia ha ormai una consolidata esperienza in quest’opera: mirabile ed emozionante soprattutto è stato il suo O salutaris hostia, che invoca l’aiuto divino, mai così necessario come in questi tempi di guerre dilaganti… Ma eccellente anche il Crucifixus, come il Qui tollis con la Vasilisa Berzhanskaya, che da parte sua ha chiuso in bellezza con un accorato ed emozionante Agnus Dei.

Yijie Shi ha messo in mostra la sua bella voce squillante, distinguendosi con piglio marziale nel Domine Deus e dando un valido contributo al Gratias, con Berzhanskaya e Michele Pertusi. Il quale ha posto tutta l’autorevolezza del suo canto al servizio del lungo e nobile Quoniam.

Insieme ai quattro solisti, come non restare ammirati dal superbo Coro di Alberto Malazzi, sempre impeccabile e poi addirittura strepitoso nelle entusiasmanti fughe del Cum Sancto Spiritu e del Resurrexit.  

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Che dire, in conclusione? A parte l’affaire del Preludio, l’ascolto della versione orchestrata e con organici di questo tipo, almeno a chi conosce non superficialmente quella cameristica lascia sempre un retrogusto amarognolo (non dico sgradevole, per carità) come di qualcosa che richiama troppo smaccatamente qualcos’altro di più… intimo e coinvolgente. È un po’ la sensazione che si prova, che so, ascoltando l’inflazionata versione (orchestrata da Ravel) dei musorgskiani Quadri: la volgarizzazione di un nobilissimo cammeo.

Tuttavia è meglio non fare gli schizzinosi e rendere doverosamente merito, come ha fatto con calore ed entusiasmo il pubblico di un Piermarini letteralmente in stato d’assedio, a tutti coloro che a qualunque titolo hanno reso possibile e godibile questa serata pre-natalizia.     


19 dicembre, 2024

Alla Scala arriva un Daniele Gatti natalizio con Rossini.

Il tradizionale Concerto di Natale della Scala (sabato 21) quest’anno propone, affidandola a Daniele Gatti (e Alberto Malazzi) la monumentale (a dispetto dell’aggettivo Petite che la caratterizza) Messe solennelle di Gioachino Rossini.

Stando all’Archivio storico del Teatro, questa dovrebbe essere, quanto meno a partire dal dopoguerra, la prima volta che alla Scala si esegue la versione orchestrata da Rossini sulla base di quella originale, per sole 12 voci (4soli+8) e con il solo accompagnamento di due pianoforti e harmonium, che fu composta dal pensionato-baby Gioachino nella sua vieillesse dans le péché, per meritarsi il… Paradiso! Ed eseguita per la prima volta, nella sontuosa villa parigina del banchiere-mecenate Pillet-Will e della di lui moglie, la dedicataria Louise Rouline, proprio 160 anni orsono.

In effetti ancora oggi ci si divide su quale delle due versioni sia da preferire. Da un lato c’è chi, come Michele Campanella, considera – non senza buone ragioni - quella orchestrata (creata a Parigi, Théatre italien, nel 1869, a Rossini ormai trasferitosi in… Paradiso) un passo indietro rispetto all’altra, soprattutto quando viene eseguita da orchestre e cori con organici degni di… Berlioz o di Mahler.

E chi invece, come Davide Daolmi, responsabile per la Fondazione Rossini dell’edizione critica di entrambe le versioni, è convinto che quella orchestrata non sia stata decisa da Rossini di malavoglia e all’ultimo momento (prima di… togliere il disturbo) ma pensata quasi da subito, e poi lentamente messa a punto negli anni. E che un’esecuzione adeguatamente preparata, e che soprattutto eviti qualunque tipo di ipertrofia (strumenti, voci, pomposità) possa restituire anche alla versione orchestrata tutto il fascino che suscita quella cameristica.

Il Rossini Opera Festival, che può vantare una grande autorevolezza in merito, ha negli anni presentato entrambe le versioni, e ultimamente eseguito proprio quella orchestrata, alla quale ha dato un suo… ehm… contributo il compianto Alberto Zedda, che si permise (?!) con motivazioni francamente discutibili, di orchestrare anche il Preludio religioso lasciato da Rossini al solo organo (il pianoforte nell’originale cameristico).  

A proposito di ROF, tutti i quattro solisti ci sono passati (se non cresciuti) negli anni: a partire da Michele Pertusi, che cantò la Messa nel ’97 (camera) poi ’99 e ancora 07 (orchestra) e a Vasilisa Berzhanskaya, protagonista nel ’23 (orchestra): più Mariangela Sicilia e Yijie ShiContrariamente a quanto prescritto da Rossini, nella versione orchestrata di solito i quattro tacciono quando canta il coro… vedremo come andrà questa volta.

Dando per scontato che non potrà che essere un’esecuzione tecnicamente di gran livello (data la caratura di tutti gli interpreti) sarà però interessante giudicare il risultato complessivo dal punto di vista estetico. C’è al proposito un precedente – con luci ed ombre, Zedda incluso - di 11 anni orsono a Vienna, guarda caso con protagonista proprio Gatti  


14 dicembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.10

Un insolito accoppiamento caratterizza il decimo appuntamento della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: ne sono protagonisti Händel e Mozart. Del quale ultimo ascoltiamo – siamo ormai sotto Natale! - la versione del Messiah in lingua tedesca, ottenuta per riorchestrazione (e modifiche varie) dell’oratorio originale in lingua inglese del primo.

Questa versione (di abbastanza rara proposta, forse perché trattasi di un… ibrido) intanto impiega - appunto - la lingua tedesca, facendo uso di testi della Bibbia di stampo luterano. Poi accoglie una delle diverse varianti che l’originale propone per alcune arie; muta talvolta l’assegnazione del pezzo solistico a voce diversa da quella impiegata dal compositore tedesco trapiantatosi in Albione.

Ma soprattutto arricchisce la compagine strumentale di suoni (soprattutto nella sezione dei fiati) ormai familiari e quasi irrinunciabili nella Vienna di fine ‘700, ma quasi assenti nell’originale di Händel. Il che peraltro – è Mozart, in fin dei conti! - non ne snatura affatto l’intima essenza. Però ieri (complice anche un’amplificazione - forse del continuo) la corposità del suono mi è parsa un tantino esagerata, ecco.

Christoph Koncz, cresciuto come violinista nei Wiener, ha guidato con autorevolezza la compagine de laVerdi e i quattro solisti SATB (Anna Prohaska, Chiara Tirotta, Ilker Arcayürek e Liviu Holender) tutti più o meno (più per la prima, meno per il terzo…) all’altezza del compito.

Al successo della serata, decretato a tutti da un pubblico calorosissimo, ha ovviamente dato un determinante contributo il Coro Sinfonico diretto da Massimo Fiocchi Malaspina. Si replica domenica 15, pomeriggio.