affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze

 

Nella settimana dal 18 al 25 giugno l’OF (nome che sa tanto di magia…) ospiterà 4 recite di Pelléas et Mélisande diretta, in buca e sul palco, da due Danieli nazionali: Gatti&Abbado.

Quest’opera di Debussy, la sua prima e (praticamente) unica, resta anche un unicum (forse affiancata dal solo Boris, che Debussy conosceva assai bene) nel panorama del teatro musicale di tutti i tempi, al contrario della produzione non-teatrale del compositore parigino, che ha letteralmente fatto epoca.

Debussy, cosa anche questa assai singolare, impiegò direttamente come libretto – e proprio alla lettera - il testo teatrale simbolista (in prosa) di Maurice Maeterlinck, limitandosi ad apportarvi poche variazioni, in sostanza costituite da qualche taglio più o meno corposo (anche se non proprio insignificante, come vedremo): incontrando il drammaturgo a Gent nell’autunno del 1893, Debussy ne ottenne l’approvazione (ed addirittura alcuni consigli) per tutte le modifiche da lui proposte.

Lo schema che segue serve a riassumere la trama del dramma e nello stesso tempo a mettere in rilievo le differenze fra il testo di Maeterlinck e il libretto di Debussy. (Le parti evidenziate in giallo non sono nel libretto dell’opera; su quella in verde del terzo atto c’è da fare un discorso complicato, come vedremo.)
    
Maeterlinck
Debussy
PERSONAGGI principali
ARKEL, Re di Allemonde.
GENEVIÈVE, madre di Pelléas e di Golaud.
PELLÉAS, GOLAUD,  nipoti di Arkël.
MÉLISANDE.
Il piccolo YNIOLD, figlio di Golaud (di primo letto).
Un medico.
Un Pastore.
Voci di marinai.
Un portinaio.
Serve.
Atto I
Scena I
Alcune inservienti si accalcano presso il portone principale del castello del Re di Allemonde: sono state incaricate di pulirne l’ingresso, in occasione di una grande festa. Il portiere prima esita, poiché quel portone è rimasto chiuso da tempo immemorabile, poi si convince ad aprirlo e ci riesce, ma con grande fatica e solo con l’aiuto dealle inservienti; una comincia a pulire, un’altra afferma che è impossibile farlo, altre domandano acqua, ma il portiere predice che nemmeno con un diluvio si potrà mai pulire quella soglia.
Scena II
Scena I
Il principe Golaud, nipote del Re Arkël, durante una battuta di caccia si è perduto nel bosco, rincorrendo un cinghiale da lui ferito, e lì incontra, vicino ad una fonte, una giovane donna che si dispera. La interroga, senza avere risposte precise. Lei ha perduto una corona, caduta sul fondo della fonte, ma impedisce a Golaud di recuperarla. Finalmente dice il suo nome: Mélisande, ma rifiuta ogni aiuto e vorrebbe rimanere lì anche la notte. Alla fine se ne va con Golaud.
Scena III
Scena II
Geneviève legge a Re Arkël una lettera scritta da suo figlio Golaud al fratellastro Pélleas, dove racconta come ha incontrato Mélisande – presso una fonte, piangente e con la veste strappata dai rovi - e l’ha poi sposata, pur ignorandone origini e storia. Teme che il nonno Arkël disapprovi la scelta: in caso contrario, chiede che una torcia accesa su una torre gli indichi la possibilità di far ritorno a casa. Arkël invece accetta la decisione del nipote, anche se lo avrebbe preferito sposo alla principessa Ursula, che avrebbe potuto consolarlo della morte della prima moglie. Geneviève avanza dubbi su questa nuova sposa sconosciuta, ricordando che Golaud, dopo essere rimasto vedovo, non viveva che per il figlio Yniold e si sarebbe risposato solo dietro precisa volontà del nonno. Arriva ora Pelléas, fratellastro di Golaud, che comunica di aver ricevuto un’altra lettera, dall’amico Marcellus, morente, che lo prega di recarsi al suo capezzale per poterlo salutare per l’ultima volta. Il nonno però lo prega di rimandare la visita: prima deve attendere il ritorno di Golaud, e poi c’è da assistere il padre malato.
Scena IV
Scena III
Geneviève e Mèlisande passeggiano nei boschi fuori dal castello, scambiandosi impressioni sul luogo strano e buio che le circonda; Pélleas le raggiunge arrivando dal mare, secondo sua madre stava aspettando ansiosamente Mélisande; si fa sera e una nave esce dal porto: Mélisande la riconosce in quella che l’ha portata lì. Pélleas prevede tempesta per la notte, poi annuncia a Mélisande che l’indomani partirà: la donna gli domanda perché, senza avere risposta.
Atto II
Scena I
Pelléas e Mélisande si intrattengono presso una fontana nel parco. In passato si diceva che quell’acqua curasse i ciechi, ma ora che il Re è quasi cieco, nessuno ci viene più. L’acqua è assai profonda, Mélisande vorrebbe immergervi le mani, ma sono i suoi lunghissimi capelli a finirci dentro. Pelléas le chiede se Golaud l’ha incontrata vicino ad una fonte simile e la interroga sui particolari di quell’incontro. Lei cambia discorso e si mette a giocare con la fede nuziale donatale da Golaud, lanciandola in aria, finchè essa non cade nella fontana, perdendovisi proprio mentre la campana suona il mezzogiorno. Pelléas vorrebbe minimizzare l’accaduto, ma Mélisande è preoccupata per come reagirà Golaud alla notizia. Pelléas le consiglia di dire semplicemente la verità.
Scena II
Golaud è a letto per una caduta da cavallo: al dodicesimo rintocco del mezzogiorno il destriero è inspiegabilmente imbizzarrito e lo ha disarcionato, procurandogli lievi ferite. Mélisande è al capezzale del marito e gli confessa la sua infelicità: non riesce a vivere in quel posto, vorrebbe andarsene con lui altrove. Alle domande di Golaud sulle cause di questa infelicità (forse Pelléas?) risponde che la opprime l’oscurità del luogo, non la compagnia di Pelléas. Golaud le stringe le mani e si accorge della mancanza dell’anello, così le chiede spiegazioni e lei inventa che deve esserle caduto in una grotta marina dove cercava conchiglie per il piccolo Yniold. Il marito la spinge a tornare subito sul posto, nonostante faccia notte, alla ricerca dell’anello, facendosi aiutare da Pelléas.  
Scena III
Pelléas e Mélisande sono in una grotta marina, che visitano al solo scopo di permettere a Mélisande di descriverla con precisione a Golaud, in caso costui facesse domande precise sul luogo dove Mélisande gli ha detto aver perso l’anello. Addentratisi nella grotta, vi scorgono tre vecchi addormentati e Mélisande, impaurita, decide di abbandonare subito quel luogo.
Scena IV
Re Arkël ribadisce a Pelléas che è opportuno lui rimanga al castello: suo padre è ammalato e la situazione del reame non è delle migliori, con la fame che imperversa. Non è il caso quindi di intraprendere viaggi per almeno qualche giorno o settimana: Pelléas acconsente a rimanere.
Atto III
Scena I
Pelléas e Mélisande sono in una sala del castello, è notte, pare che Golaud ormai non tornerà dalla caccia. Pelléas chiede alla donna se ancora riesce a lavorare al filatoio essendosi fatto buio, ma Mélisande afferma di poter lavorare anche meglio con l’oscurità. Arriva Yniold che mostra la sua preoccupazione per la prossima partenza del padre e di Mélisande, che crede di dedurre da discorsi fatti dalla matrigna e dallo zio. Pelléas cerca di distrarlo mostrandogli cani e cigni che baruffano, ma inutilmente. Mèlisande riprende a filare cantando una canzoncina che cita tre santi. Alla fine Yniold sente arrivare suo padre: Golaud in effetti arriva, mentre il figlio, alzando la lampada sui volti di Pelléas e Mélisande, li scopre in lacrime.
Scena II
Mélisande, alla finestra, pettinandosi i capelli per la notte, canta una specie di filastrocca: Les trois sœurs aveugles (Le tre sorelle cieche).

Scena I
Mélisande, alla finestra, pettinandosi i capelli per la notte, canta una specie di serenata al contrario (Mes longs cheveux) che cita tre santi: lei è nata una domenica a mezzodì.
Pelléas arriva sotto la finestra e chiama Mélisande, che informa della sua partenza per l’indomani. Mélisande fa scendere i suoi lunghissimi capelli fino a lui, che ne rimane inondato e li accarezza e li bacia. Poi le dichiara tutto il suo desiderio di lei, mentre alcune colombe svolazzano via dalla torre. Golaud sopraggiunge e li sorprende, ma si limita a rimproverarli per queste bambinate, poi si porta via Pelléas.
Scena III
Scena II
Golaud guida Pelléas nei sotterranei del castello, facendogli notare il tanfo da cimitero che vi si respira, che Golaud pensa provenga da un lago sotterraneo. Pelléas rischia di cadere nella voragine e Golaud lo trattiene in tempo. I muri sono pieni di crepe e lui teme che il castello possa crollare su queste grotte, se non si fa nulla per metterlo in sicurezza. Poi mostra cautamente al fratellastro il lago che emana un fetore di morto. Pelléas si sporge da una roccia per guardare la voragine, poi chiede a Golaud di uscire al più presto da lì.
Scena IV
Scena III
Pelléas finalmente respira, uscito da quei puzzolenti sotterranei. Tutto intorno la natura è un paradiso, con la fresca brezza marina e le rose in fiore. Suonano le campane, i bimbi stanno scendendo al mare per il bagno, sarà quasi mezzogiorno: non gli pareva fosse passato tanto tempo. Golaud precisa che sono entrati nella caverna alle 11. Pelléas giura fossero le 10 e mezza, il fratellastro propende per le 11 meno un quarto. La madre dei due fratellastri e Mélisande appaiono alla finestra e Golaud ne approfitta per tornare sulla scena della sera precedente, pregando Pelléas di astenersi in futuro da simili ragazzate: Mélisande è incinta! Poi Golaud sente dei rumori, e Pelléas gli spiega che sono greggi in marcia verso la città. Golaud li sente piangere, come già aspettassero il macello, ma subito si compiace per la  bellissima giornata che farà bene al raccolto.
Scena V
Scena IV
Golaud è seduto con il figlio Yniold ai piedi della stanza dove si trovano Mélisande e Pelléas. Il padre comincia a porre al figlio, che sta spesso con loro, domande sempre più insistenti sui rapporti fra la moglie e il fratellastro. Yniold racconta fatti di scarso rilievo ma anche cose più preoccupanti, come le discussioni sulla porta da chiudere o meno, o un abbraccio e bacio che i due si sono scambiati in un giorno di pioggia. Golaud cambia discorso con un paio di diversivi (gente povera che accende fuochi nel bosco e il giardiniere che non può spostare un pesante tronco caduto) poi accusa Pelléas di essere matto. Yniold lo contraddice, poi suo padre lo issa sulle proprie spalle per fargli spiare il comportamento dei due all’interno della stanza. Ma il bambino non scopre nulla di compromettente, poi comincia a lamentarsi e induce il padre a deporlo a terra e ad andarsene via.
Atto IV
Scena I
Pelléas e Mélisande si incontrano in un corridoio del castello. Lui le chiede un appuntamento. Ultimamente suo padre è molto migliorato, il medico dice che è fuori pericolo. I cupi presentimenti che assalivano Pelléas sono ora scomparsi, tutte le finestre di suo padre sono aperte, lui parla quasi come un uomo normale. Lo ha riconosciuto e lo ha invitato a fare dei viaggi, prima che sia troppo tardi. Mélisande sembra sconvolta da questa notizia, poi fissa l’appuntamento con Pelléas per la sera stessa, vicino alla fontana dei ciechi.
Scena II
Re Arkël incontra Mélisande e la mette a parte della sua gioia per la guarigione del padre di Pelléas. Adesso tutto potrà cambiare e anche lei, che era arrivata in una casa inospitale, colpita da disgrazie, potrà invece guidarne un futuro radioso. Ma ecco entrare Golaud che annuncia la partenza di Pelléas per la sera stessa. Ha una piccola ferita in testa e la moglie vorrebbe medicargliela, ma lui la scaccia ed anzi le ordina di portargli la sua spada. Poi comincia ad offendere la moglie, indicando al nonno i suoi occhi apparentemente innocenti. Alla fine la prende per le lunghe chiome e la trascina a destra e a manca, avanti e indietro (la croce!) costringendola ad inginocchiarsi davanti a lui. Ma per ora non le farà nulla, solo aspetterà il momento giusto per agire. Mélisande scoppia in lacrime, confessando al Re che il marito ormai non l’ama più.
Scena III
Il piccolo Yniold sta cercando invano di sollevare una pesante pietra, per recuperare la sua pallina d’oro. Improvvisamente sente un gregge di montoni avvicinarsi e gli pare piangano. Vorrebbero andare a destra, ma il pastore li manda a sinistra. Il piccolo chiede al pastore perché ora non belano più: perché non stanno andando verso la stalla…
Scena IV
Alla fontana dei ciechi Pelléas aspetta ansiosamente l’arrivo di Mélisande, intenzionato ad aprirle il suo cuore, finalmente. Quando lei arriva – con la veste strappata dai chiodi della porta della sua camera - lui l’abbraccia e le dichiara il suo amore. Lei risponde di amarlo, al che Pelléas sembra impazzire di gioia: non crede alle sue orecchie, ma lei gli risponde che non sta mentendo, lei mente solo a suo fratello! Lui vede tristezza negli occhi di lei, ma lo spiega con l’amore, che fa piangere di gioia. Lei è così bella che sembra prossima a morire! I due confessano di non essersi innamorati al primo incontro, lui dice che avrebbe voluto andarsene senza vederla, lei che aveva deciso di non venire all’appuntamento. Mélisande ode ora dei rumori sospetti, ma Pelléas non le dà retta e continua le sue effusioni. Finalmente si accorgono di Golaud, nascosto lì nei pressi. Ma lo sfidano abbracciandosi ancora appassionatamente. Golaud esce dall’ombra e colpisce con la spada Pelléas, che cade accasciandosi sul bordo della fontana. Mélisande fugge inorridita, mentre il marito la segue in silenzio.
Atto V
Scena I
Le donne della servitù sono riunite in una sala del castello e si scambiano notizie e pareri sui recenti avvenimenti. Nel castello c’è silenzio, rotto solo dalle grida dei bambini. Su nella camera di lei ci sono delle persone, ma nessuno può entrare. Una vecchia serva afferma di aver trovato, un mattino presto, Mélisande e Golaud stesi per terra, quasi abbracciati, proprio davanti al portone principale del castello: lei leggermente ferita al petto, lui con la sua spada conficcata nel fianco, non essendo riuscito a colpirsi a morte; ma c’era sangue ovunque. Golaud ora sta meglio, mentre Mélisande, che nel frattempo ha dato alla luce una piccola creatura, sembra prossima a morire. Di Pelléas non si hanno notizie ufficiali, ma qualcuno ha visto il suo corpo in fondo alla fontana. Sul castello si è abbattuta la malasorte, nessuno vuol più parlare, tutti sembrano complici del misfatto. Alla fine le inservienti si avviano verso la camera al piano superiore.
Scena II
Scena unica
Mélisande è a letto, vegliata dal medico, dal Re e da Golaud. Sembra lasciarsi morire. Golaud si incolpa di averla uccisa lui: in fondo i due giovani, che lui aveva sorpreso presso la fontana, si erano soltanto abbracciati, come due fratelli… Mélisande si risveglia, chiede che si apra la finestra, domanda chi è presente vicino a lei. Arkël le dice che lì c’è anche suo marito, e lei lo fa avvicinare. Golaud chiede di rimanere solo con lei, implora perdono per tutto il male che le ha fatto, ma vuol sapere la verità, riguardo ai rapporti di lei con Pelléas. Non ottenendo risposte soddisfacenti rinuncia, sconfortato. Mélisande chiede se stia arrivando l’inverno, poi Arkël le annuncia la sua avvenuta maternità e le consegna la piccola, che lei non riesce nemmeno a reggere in braccio. Entrano ora tutte le donne della servitù, in tempo per assistere silenziosamente al trapasso di Mélisande. Golaud è affranto, e Arkël lo invita ad allontanarsi: ora sarà la piccola neonata a dover prendere il posto della madre.

Come si può notare, i principali tagli operati da Debussy - con il pieno consenso di Maeterlinck - riguardano innanzitutto le scene di apertura dei due atti estremi, che richiederebbero di fatto la presenza di un coro femminile. In questo modo viene perso l’effetto (sul modello greco) del coro che osserva e commenta dall’esterno gli avvenimenti. Ma c’è molto di più. In Maeterlinck le inservienti (e il portinaio) che occupano la prima scena agiscono – anche se lo spettatore lo realizzerà compiutamente solo alla fine - a cose fatte: sono lì per pulire la soglia del castello da qualcosa che si saprà poi essere il sangue di Golaud! E poco conta che la conclusione non sia, come loro immaginano all’inizio, una festa ma un funerale (…ma siamo proprio sicuri sia davvero un funerale?) Così il dramma di Maeterlinck, a partire dalla comparsa di Golaud nel bosco e fino all’ultima scena dell’atto IV (assassinio di Pelléas) è tutto un lungo flash-back che si chiude all’inizio del quinto atto, quando si torna in diretta con l’assemblea delle donne, che ora conoscono tutta la verità. (Nella scena finale dell’opera di Debussy le inservienti compaiono comunque, ma rimanendo completamente silenziose, come del resto in Maeterlinck.)

Beh, si deve ammettere che questo taglio operato dal compositore non è propriamente trascurabile, anche perché cancella dal libretto uno dei quattro riferimenti (e forse il più importante) ad un simbolo presente nel dramma: il sangue! Del quale simbolo troviamo nell’opera soltanto i primi tre riferimenti: quello del sangue del cinghiale cacciato da Golaud (scena iniziale); e i due che riguardano le piccole ferite procuratesi da Golaud con la caduta da cavallo e con l’attraversamento di un roveto. Manca quindi il riferimento al sangue fuoriuscito dalla ferita che Golaud si è inferto cercando di suicidarsi dopo la scena dell’assassinio di Pelléas, e con esso l’informazione stessa del tentativo di suicidio.

Un altro taglio riguarda l’ultima scena dell’atto II, nella quale il Re invita Pelléas a rimandare i suoi viaggi di qualche settimana, o almeno di qualche giorno; e poi la scena immediatamente successiva (la prima dell’atto III) dove il piccolo Yniold manifesta il suo dolore credendo che il padre e la matrigna stiano per abbandonarlo, per poi accogliere Golaud, tornato più tardi del solito dalla caccia.     

Debussy poi accorcia la seconda e terza scena (terza e quarta in Maeterlinck) dell’atto III, eliminando dettagli della visita di Golaud e Pelléas al lago sotterraneo e del successivo ritorno all’esterno. Un piccolo taglio anche nella scena successiva (Golaud con Yniold) che elimina il diversivo introdotto dal padre. Abbreviata poi la prima scena dell’atto IV, con la soppressione di alcuni particolari citati da Pelléas. Infine nello stesso atto, ultima scena, accorciato il colloquio amoroso fra Pelléas e Mélisande, e proprio nella parte dove a lui lei pare tanto bella da esser sul punto di morire.

C’è infine una storia abbastanza complicata che attiene a ciò che Mélisande canta all’inizio dell’atto III dell’opera (la canzone dei capelli). Lo specchietto sottostante riporta, a sinistra, il testo di Maeterlinck come si trova oggi nelle pubblicazioni del dramma teatrale; e a destra il testo presente nel libretto musicato da Debussy.

dramma (dal 1893, versione definitiva)
Les trois sœurs aveugles, (Espérons encore). 
Les trois sœurs aveugles, Ont leurs lampes d’or. 
Montent à la tour, (Elles, vous et nous). 
Montent à la tour, Attendent sept jours. 
Ah ! dit la première, (Espérons encore), 
Ah ! dit la première, J’entends nos lumières. 
Ah ! dit la seconde, (Elles, vous et nous). 
Ah ! dit la seconde, C’est le roi qui monte. 
Non, dit la plus sainte, (Espérons encore). 
Non, dit la plus sainte, Elles se sont éteintes…
opera (dramma, versione 1892)
Mes longs cheveux descendent
jusqu’au seuil de la tour;
Mes cheveux vous attendent
tout le long de la tour,
Et tout le long du jour,
Et tout le long du jour.
Saint Daniel et Saint Michel,
Saint Michel et Saint Raphaël,
Je suis née un dimanche
Un dimanche à midi...

Come si deduce però dalle date, il testo di Debussy è in realtà quello originariamente scritto da Maeterlinck nel 1892. Successe poi che per la prima parigina del dramma teatrale (di mercoledì 17 maggio 1893, presente lo stesso compositore) lo scrittore belga preparò per l’interprete Eugénie Meuris diverse altre canzoni, fra le quali la primadonna scelse Les trois sœurs aveugles, stracolma di gratuito simbolismo, che fu per l’occasione musicata da tale Gabriel Fabre (da non confondersi con Fauré) e che più tardi Maeterlinck incluse anche in una sua collana di (prima 12, poi) 15 canti, dopodichè la tenne buona come testo definitivo per il suo dramma. È anche possibile che la decisione di Maeterlinck di sostituire il testo originario sia dipesa dal fatto che nella scena immediatamente precedente (la prima dell’atto III, cassata da Debussy) Mélisande canticchia un’altra canzoncina che richiama precisamente i tre santi (Daniel, Michel e Raphaël) che tornano poi nella canzone dei capelli, creando una stucchevole ripetizione. Ripetizione nella quale invece non incorreva Debussy, che aveva appunto tagliato la precedente scena: di qui la decisione del musicista (approvata dal drammaturgo) di conservare nell’opera il testo originale, il che lo metteva anche al riparo da fastidiosi confronti con la musica composta da Fabre per Le tre sorelle cieche.    
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Oltre al dichiarato simbolismo, il dramma di Maeterlinck (e di conseguenza il libretto di Debussy) è anche caratterizzato da una buona dose di indeterminatezza, a partire dalla collocazione geo-temporale del racconto. Non sappiamo dove si trovi Allemonde, né in quale epoca si svolga la vicenda. Per la verità sull’epoca qualche indizio più o meno preciso l’abbiamo, come il castello a più piani, con possenti fondamenta e un grande e pesantissimo portone; come grandi velieri, porti e relativi fari; le uniche armi che incontriamo sono la spada di Golaud e le frecce che lo stesso promette al figlio; esiste un servizio postale e ci sono torri campanarie che scandiscono le ore; Mélisande lavora ad un filatoio e nelle stanze del castello ci sono degli inginocchiatoi; Golaud accenna ad angeli e al battesimo.  

Da tutto ciò si potrebbe vagamente desumere che il periodo storico sia il Medioevo e che di conseguenza il luogo si trovi da qualche parte in Europa, magari – considerati anche i nomi dei personaggi – non lontano dai paraggi di Artù… o di Parsifal (il cui figlio arrivò un giorno alla foce del fiume che bagna anche la città di Maeterlinck). Ma di certo l’ambientazione ha poco o nulla a che fare con la sostanza simbolista del dramma, tutto intriso di psicologia e spiritualismo.         

Non sono del tutto chiari addirittura gli stessi gradi di parentela che legano i principali personaggi: i dati che ci vengono forniti, o che possiamo plausibilmente desumere dal testo, non ci consentono di costruire un mosaico perfettamente definito, lasciando aperte alcune alternative, o portando a smentire qualche presupposto. Vediamo un po’.

Ci viene detto fin dalla locandina che Golaud e Pelléas sono nipoti di Re Arkël; e che sono entrambi figli di Geneviève. Da ciò che Geneviève stessa racconta a Mélisande, si dovrebbe dedurre che lei (arrivata al castello 40 anni prima e non venutavi al mondo) non sia figlia di Arkël, ma sua nuora. Poi veniamo a sapere da Golaud che Pellèas non è suo fratello, ma fratellastro, e più giovane di lui: evidentemente Geneviève li ha messi al mondo con mariti diversi, di cui il secondo, padre di Pelléas, è tuttora vivo (non vegeto, peraltro…) e ospite al castello. E qui finiscono i dati certi o desumibili dal contesto, il che lascia aperte un sacco di domande e possibilità: perché Golaud e Pelléas si possano dire entrambi nipoti diretti di Arkël è necessario che i rispettivi padri fossero fratelli (figli del Re) che Geneviève ha sposato in sequenza; e quindi il padre di Pelléas sarebbe anche zio di Golaud, ma ciò non trapela mai dal testo, nè mai Golaud parla di lui! In caso contrario, uno dei due fratellastri non sarebbe discendente diretto del Re, e quindi degraderebbe da nipote a suo nipotastro (il che non gli impedirebbe comunque di chiamare familiarmente nonno il Re)!  

La domanda che sorge qui è: questa ambiguità è voluta - e quindi in qualche modo può influenzare, orientare (o disorientare) la comprensione e l’interpretazione dell’intera o di parte della vicenda - oppure è soltanto casuale e involontaria, o comunque ininfluente e come tale da ignorare? Evabbè, possiamo dormirci sopra?

A proposito dei rapporti fra Golaud e Pelléas, il testo ci presenta un altro enigma: perché nella lettera - quella che la loro madre Geneviève legge al Re all’inizio - Golaud si rivolge a Pelléas dandogli familiarmente ed affettuosamente del tu, come ben si conviene fra figli della stessa madre, mentre poi (terza scena dell’atto III, nei sotterranei e nella successiva quarta, all’aperto) gli si rivolge dandogli sempre del voi? Qui per la verità una spiegazione plausibile del repentino mutamento dei rapporti fra i due si può individuare nel sospetto insorto in Golaud di una tresca della moglie con il fratellastro: sospetto divenuto quasi certezza proprio la sera precedente la visita nei sotterranei, nel momento in cui lui era stato testimone della scena dei lunghi capelli che Mélisande aveva lasciato cadere in testa a Pelléas…  

Domanda capitale: chi è o cosa rappresenta Mélisande? (Debussy arrivò a definirla un nulla e lo stesso Maeterlinck ne parlava come di una persona normale, che apre bocca solo per dire banalità, mai per esprimere un concetto che è uno…) Come mai le tracce di sangue della preda ferita da Golaud conducono a lei, piangente e prostrata, proprio come fosse ferita? Com’è maturato il rapporto fra lei e Golaud? Cosa è accaduto fra loro dopo il primo incontro nel bosco? Come ha potuto lui sposarla senza conoscere nulla di lei? E lei, lo ha sposato convintamente, o perché costretta? Golaud dice al fratellastro che lei è prossima alla maternità: è rimasta incinta prima o dopo il matrimonio, consenziente o forzata? Lei perde dapprima una corona (mentre piange, da sola nel bosco) consegnatale da non si sa chi (un consorte, il padre, un amante?) e poi la fede nuziale di Golaud (mentre scherza allegramente con Pelléas) e in entrambi i casi i preziosi oggetti finiscono in fondo a fontane o pozzi per i quali lei sembra avere una particolare attrazione: sono fatti accidentali, o in qualche modo da lei deliberatamente provocati? Come mai lei, ignorando l’esortazione di Pelléas, mente a Golaud (e solo a lui)? E non mente soltanto riguardo la perdita dell’anello nuziale, ma soprattutto riguardo a Pelléas: perché lui le parla e come, l’ha invitata lui alla fontana dei ciechi. E poi: perché fra le tre possibili cause del suo disagio prospettatele da Golaud (il Re, Geneviève, Pelléas) lei risponde alludendo subito, per negarla contro ogni evidenza, alla terza? Perché non chiude mai gli occhi, se non di notte? Cosa rappresentano le sue kilometriche chiome? E le sue piccole mani, che Golaud prima e Pelléas poi vogliono stringere e che lei sospetta essere malate?

Effettivamente di simbolismo ce n’è in grande quantità, e ci si potrebbero scrivere interi trattati. Oltre a ciò che è stato già elencato sopra, solo qualche spunto. Due volte (in Maeterlinck, una sola però in Debussy) incontriamo greggi che vanno al macello: cosa ci rappresentano, insieme al cinghiale cacciato e ferito da Golaud? Perché Geneviève, parlando con Mélisande appena arrivata, afferma che Pelléas è stanco per averla attesa così a lungo? E il vascello che ha condotto Golaud e Mélisande, e che riparte in una notte che promette burrasca? A proposito, Golaud era uscito per una battuta di caccia, con la sua muta di cani: perché è poi rimasto via sei mesi ed è tornato a casa a bordo di una nave? E i fari che si vedono, intravedono, o non si vedono? E cosa significa la contemporaneità – sul dodicesimo rintocco della campana a mezzogiorno (ora in cui Mélisande venne al mondo!) – fra la caduta della fede di Mélisande nel pozzo e la caduta di Golaud da cavallo? Perché Golaud attribuisce un’importanza smisurata all’anello perduto da Mélisande, al punto da spedirla a cercarlo, con Pelléas, in una grotta nel cuore della notte? E che significato hanno le grotte marine e i sotterranei maleodoranti del castello? E i tre poveri vecchi che dormono nella grotta? E la lotta fra cani e cigni? E gli inutili tentativi di Yniold di recuperare la sua pallina d’oro finita sotto una pietra? Perché Geneviève scompare quasi del tutto dopo il primo atto (ne sentiamo soltanto parlare dal figlio all’inizio dell’atto IV)? Cosa ci dice il fatto che Pelléas da morto finisce in fondo a un pozzo, come i gioielli di Mélisande? 

Infine c’è un piccolo (a prima vista) particolare che getta una luce davvero inquietante sull’intero significato dell’opera, poiché chiude il cerchio fra la scena iniziale (Mélisande raggiunta, presso la fonte dove ha perso la corona, da Golaud che ha ferito a morte un cinghiale) e quella che chiude l’atto IV (Mélisande raggiunta, presso la fonte dove lei aveva perso la fede nuziale, da Golaud che ferisce a morte Pelléas). In entrambi i casi Mélisande sta fuggendo da qualcosa o qualcuno e il suo abito si strappa (nel primo caso impigliandosi nei rovi, nel secondo nei chiodi della porta della camera). Ma nel secondo caso noi sappiamo per certo da chi lei sta fuggendo: Golaud! 

E proprio Golaud è figura ambivalente e controversa: vedovo addolorato e attaccato al figlioletto, ma in seguito marito che trascura totalmente la nuova moglie per poi ingelosirsi a vederla, o sospettarla, corteggiata dal fratellastro; gelosia che lo porta persino a strumentalizzare il rapporto con il figlio; e infine a commettere addirittura un fratricidio. E lo stesso perdono che nell’ultima scena chiede e offre a Mélisande è ancora inquinato – pare Otello - dalla condizione posta e dettata dalla gelosia: la verità… Lui è l’unico personaggio del dramma a manifestare un carattere con risvolti negativi, quasi a rappresentare la parte impura, meno nobile, dell’umanità. Non per nulla vive più nel buio della fitta boscaglia e dei sotterranei del castello, che non in piena luce.

Degli altri tre personaggi principali, Pelléas sembra collocarsi agli antipodi del fratellastro: questi si sposta quasi esclusivamente per cacciare prede nei boschi, lui invece desidera viaggiare per scopi umanitari (assistere l’amico Marcellus in fin di vita) o per esplorare e conoscere il mondo, come gli suggerisce suo padre. Lui ama anche visitare le caverne marine, dove basta poca luce a disegnare firmamenti sulle pareti, e ci conduce Mélisande; invece mostra di non sopportare i sotterranei del castello in cui l’ha condotto il fratellastro. Il suo rapporto con Mélisande è tanto sincero e genuino da sembrare addirittura preesistente all’arrivo della donna (come ha notato sua madre nel primo atto!) Forse per questo, allorquando Mélisande fa cadere la fede nel pozzo, lui le suggerisce di dire al marito la verità

Geneviève è una figura che passa come una meteora (canta solo nella seconda e terza scena del prim’atto) e appare come il contraltare di Mélisande: al contrario della giovane, che non riesce proprio a sopportare l’ambiente (soltanto quello materiale?) di Allemonde dal quale vorrebbe fuggire, lei invece ci si è adattata negli anni e ormai lo ha accettato anche negli aspetti meno… gradevoli. Veniamo a sapere della sua gioia per l’inaspettata guarigione del marito, mentre nulla ci vien detto di come abbia preso l’assassinio del figlio minore per mano del maggiore!

Il vecchio Re Arkël pare aver fama di sovrano severissimo, ma in realtà scopriamo che è pronto ad accettare come positivi anche fatti che vanno in direzione opposta (vedi proprio il matrimonio di Golaud con Mélisande) ai suoi desideri. L’unico caso in cui si oppone con una certa fermezza ad una richiesta è quello che riguarda Pelléas (che vorrebbe correre al capezzale dell’amico): ma guarda caso è proprio questo diniego che rende possibile l’incontro fra il giovane e Mélisande! Alla fine del dramma ancora una volta cerca di trovare ciò che vi è di positivo (la nuova creatura che dovrà occuparsi del futuro) in mezzo a tante disgrazie e lutti.

Quanto al piccolo Yniold, incarna la figura del figlio di papà che dal papà è bellamente trascurato; sembra messo lì soltanto per servire da spalla (oltre che salirgli sulle spalle) al padre che conduce le indagini sulla fedeltà della giovane moglie (la scena finale del terz’atto è una delle più lunghe dell’intero dramma). E anche a lui è ovviamente riservata una congrua dose di simbolismo…
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Basta leggere il testo di Maeterlinck per notare alcuni accorgimenti tecnici che il drammaturgo belga impiega per caratterizzarne la forma: continue e sciocche ripetizioni di parole o di incisi verbali, improvvisi salti di-palo-in-frasca nei dialoghi fra i personaggi, domande poste nella scena n dell’atto x e a cui viene data indirettamente risposta nella scena m dell’atto y, e così via: il tutto rischia di creare solo confusione e di disorientare lo spettatore. Invece è proprio la musica, con le sue specifiche peculiarità, che può efficacemente supportare queste bizzarrie del testo.

E infatti, se a qualcuno il dramma di Maeterlinck fa l’effetto della leggendaria corazzata fantozziana, costui non sarà il primo, né l’ultimo! Ecco cosa ne scriveva, a pochissimi giorni di distanza dall’unica rappresentazione parigina – la stessa quindi cui aveva assistito anche Debussy - Francisque Sarcey, famoso e temuto critico teatrale dell’epoca (ha lasciato ben otto tomi di sue recensioni che coprono quasi mezzo secolo di teatro). Il quale però concludeva la sua requisitoria sullo spettacolo avvertendo che la lettura del testo (magari fatta a letto, ndr!) avrebbe invece potuto rendere la pièce più soporifera digeribile. Il buon Sarcey morì tre anni prima della rappresentazione del Pelléas di Debussy, e quindi non possiamo sapere se il suo giudizio sulla versione musicale del dramma sarebbe stato diverso.

E allora a noi non resta che prepararci ad ascoltarla.                     

12 giugno, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 38


Per l’ultimo concerto della regular-season de laVERDI la Direttora Xian aveva pensato di mandarci un suo connazionale, no… che dico: due cinesi addirittura (non ce ne fossero abbastanza a Milano, stra-smile!) e avrebbero fatto persino tre, includendo nel novero anche uno degli autori in programma!

Invece qualcosa è andato storto e così non c’è il tre, ma solo il due: poiché sul podio, in vece di Yu Long è tornato dopo tre anni Darrel Ang, che è orientale sì, ma non cinese, provenendo dalla città dei… topi (smile!)

Concerto imperniato su Beethoven, con intermezzo appunto cinese. Apre la serata l’Ouverture dell’Egmont, mirabile sintesi del dramma goethiano centrato sulla figura dell’eroe e patriota olandese: trascinante davvero l’esecuzione, dal taglio propriamente eroico, dell’orchestra guidata ieri dalla spalla vonDellingshausen.
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Qigang Chen è un cinese francesizzato e di lui ascoltiamo un brano che di fatto è una Fantasia per violoncello e orchestra, titolato Reflet d’un temps disparu, che Yo-yo-ma interpretò per prima nel 1998, suonato qui dal suo connazionale (però australianizzato) Li-Wei Qin.

Tutto il brano, assolutamente diatonico (non per nulla ha quel titolo!) anche se ricco di sonorità… moderne, si basa su un tema originale cinese, molto cantabile, che si muove fra tonica e dominante e viene esposto subito (sul SOLb) dal violoncello, per poi dare spazio a squarci quasi impressionisti e quindi a sfrenato virtuosismo solistico. Il tema viene poi reiterato da altri strumenti in diverse tonalità e varianti; quindi viene ripreso dal solista, sulla tonica FA, e poi trasportato ancora su altre toniche: DO, SI, MI, ancora DO, FA, MI, MIb, LAb, fino a spegnersi, quasi frantumandosi, sul LA naturale.

Un pezzo che dimostra come oggi si possa ancora far musica godibile con il toolbox dei classici e dei romantici. Qin lo interpreta con grande ispirazione, poi ci concede anche un paio di bis, dal moderno all’antico. 
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Si chiude con la Settima, che l’orchestra conosce a memoria, forse e senza forse più del direttore (smile!): ne esce un’esecuzione vibrante e – nell’Allegretto – ricca di pathos, che si merita nutriti applausi da un pubblico, purtroppo, di pochi intimi.
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Quest’anno laVERDI non si ferma mai: dopo i 38 concerti della stagione principale, dalla prossima settimana parte una serie di 12 concerti estivi che si chiuderà il 3 settembre. Poi il 13 settembre appuntamento ormai tradizionale alla Scala con Bignamini; e lo stesso Bignamini aprirà il 17 la serie di 14 concerti che si protrarrà fino a fine anno, coprendo di fatto la parte autunnale della stagione 15-16.

08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

06 giugno, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 37


Marius Stravinskij torna inaspettatamente sul podio dell’Auditorium per rimpiazzare il venerabile Aldo Ceccato in un concerto (quasi) interamente dedicato a Scriabin. Il quale sembrerebbe un nome che tira poco, a giudicare dagli ampi spazi vuoti dell’Auditorium.   

Ad aprire il programma è però la Russia di Campogrande (omaggio EXPO). Ciò che si riconosce dell’inno è una specie di parodia, forse di quelle che Putin impiegava come colonna sonora per le burlesque che organizzava nella sua dacia per Berlusconi (stra-smile!)

Si comincia a far sul serio con un altro aficionado de laVERDI, Benedetto Lupo, che si presenta a proporci il Concerto op.20. Che a prima vista parrebbe Rachmaninov innestato su Chopin, ma in realtà mostra la spiccata personalità di Scriabin, specie nel centrale Andante. Spesso è l’orchestra a dettare i temi, con il pianoforte che ci arabesca sopra in piena libertà. Lupo dà però il meglio nel conclusivo Allegro moderato, dove c’è più dialogo con l’orchestra: in particolare nella sezione cantabile, interpretata con grande sensibilità. Due bis dello stesso autore suggellano la sua pregevole prestazione.
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La seconda parte del concerto è la Terza sinfonia, sottotitolata Poema divino. In realtà di Sinfonia propriamente detta ha poco o nulla, la struttura essendo assai libera, una cosa fra il poema sinfonico e la fantasia, composta da un’Introduzione e tre episodi indicati come Luttes, Voluptés e Jeu divin.

Il programma filosofico dell’opera, steso dalla compagna del compositore (a posteriori, si noti bene) ci dice trattarsi del faticoso emanciparsi dell’uomo: dall’animalesco essere cavernicolo credulone in dèi antropomorfi, fino al superuomo di stampo nietzschiano, dio di sé medesimo. Evabbè. 

A testimoniare della pretenziosità della Sinfonia basterà citare alcune indicazioni di agogica e di espressione disseminate sulle pagine della partitura: divino, grandioso, mistico, con sconcerto e terrore, misterioso, tragico, più audace, trionfante, con tragico terrore, slancio gioioso, con impeto ed ebbrezza, venato, oppresso, con stanchezza e languore, romantico e leggendario, fiero e sempre più trionfante, mostruoso e terrificante, fosco, trafelato, voluttuoso, con ebbrezza strabocchevole, limpido, in deliquio, slancio divino, affannosamente alato, gioia sublime estatica

Domanda: sono gli stati d’animo che l’esecutore deve assumere mentre suona, o le caratteristiche del suono che deve produrre lo strumento? Beh, sulla seconda ipotesi ci sarebbe da discutere assai (smile!)
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L’Introduzione si apre con il motto che caratterizzerà la Sinfonia, esposto da tutti gli strumenti gravi:

 
Tema che si muove fra gli estremi (REb-LA) di un tritono, tanto per iniziare il discorso dal… diavolo, in attesa di mettersi in marcia verso il soprannaturale. Subito dopo lo suggella la tromba.

L’Introduzione è assai breve e sfuma verso l’Allegro di Luttes, un simulacro di forma-sonata, aperto da un tema agitato dei violini in DO minore, chiaramente derivato dal motto:


Tema che si sviluppa fino a lasciar posto ad una sezione più elegiaca, che sfocia in un altro motivo, di piglio eroico, in Mib maggiore, che tornerà spesso a farsi sentire:


Dopo aver raggiunto il climax, con un passaggio in cui qualcuno vede il Dresden Amen, ecco un nuovo motivo di stampo virile:


che viene successivamente ripreso in forma più mossa e che porta alla riproposizione, due volte, del motto. Qui si chiude quella che possiamo definire l’esposizione.

Inizia ora uno sviluppo del primo tema dell’Allegro, innalzato di una quinta, a SOL minore. Conseguentemente innalzato a SIb maggiore anche il secondo tema eroico. Si arriva poi ad una sezione drammatica, dove il primo tema riappare assai dilatato, negli ottoni, sezione che porta ad un tremendo schianto dell’orchestra. Ora il primo violino espone una melodia implorante, in LAb:

 
Motivo che viene sviluppato portando infine ad una nuova grandiosa perorazione del motto. Inizia adesso una lenta transizione che porta a chiudere lo sviluppo e alla ripresa del primo tema nel DO minore canonico. Dopo che esso è stato adeguatamente sviluppato, tornano anche il secondo e il terzo motivo, fino alla ricomparsa truculenta del motto. Qui però non si chiude ancora, ma pare di avere un nuovo sviluppo, con il primo tema che torna in SOL minore; arriviamo invece ad un’oasi bucolica, con il violino solo che canta una nuova melodia mentre gli strumentini imitano il cinguettare di uccelli…

Un improvviso irrompere di una nuova cellula, che sembra venire direttamente dalla quarta di Ciajkovski, ci porta finalmente alla conclusione dell’episodio, con la proterva reiterazione del motto e un successivo rarefarsi dell’atmosfera.

Attacca quindi il secondo episodio, Voluptés, in MI maggiore, con l’esposizione da parte dei flauti del suo primo e principale tema, che è chiaramente mutuato da quello del violino della precedente sezione:


Il quale viene sviluppato in modo assai ampio, in tutte le sezioni dell’orchestra. Si arriva quindi ad un nuovo squarcio bucolico, con trilli e svolazzi degli strumentini, dove è il violino solista a riesporre languidamente il tema, in SI maggiore. Un crescendo orchestrale ispessisce il colore della scena, ma senza turbarla. Ancora il violino riprende la sua melopea, poi si continua quasi all’infinito con abbandoni degli archi e pesanti interventi degli ottoni, finchè irrompe la trombetta ad attaccare il Jeu divin:

Per tutta la prima parte, in DO, abbiamo un continuo abbandonarsi a languidi motivi, quasi una melodia infinita senza precise connotazioni tematiche, con gli ottoni e la tromba ad intervenire con i loro richiami (la tromba insiste sull’inciso con cui aveva risposto al motto, nell’Introduzione).

Ecco però una sorpresa: riappare in MI minore il tema della Lutte, subito zittito da poderosi interventi dei fiati, che portano ad un nuovo ritorno: quello – enorme, soprattutto nelle trombe – del tema delle Voluptés.

Come tutti ormai si aspettano, è la ricomparsa del motto a condurre alla retorica, enfatica e pretenziosa conclusione.
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Devo dire che l’attacco iniziale (tromboni e tuba in particolare) non mi ha soddisfatto: tutto in legato, quando invece sono chiare le forchettine indicanti il marcato. Però in seguito le cose sono assai migliorate e complessivamente la prestazione di tutti è stata di buon livello: acclamato giustamente Alessandro Caruana che, soprattutto nell’ultima sezione deve davvero spomparsi fino all’esaurimento.

Stravinskij, probabilmente arrivato con poco preavviso, ma sempre con l’aplombe da funzionario di banca, ha fatto del suo meglio per renderci il meno indigesto possibile questo velleitario intruglio: e il pubblico ha speso i suoi applausi di stima per lui e per i ragazzi, non credo per il compositore…