affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

20 ottobre, 2014

Bignamini sfida la Forza a Parma

 

Il Festival Verdi 2014 si è aperto con l’opera più sfigante (stra-smile!) del cigno di Busseto. Il malcapitato di turno è però Jader Bignamini, una specie di Siegfried – ignorante di tutte le maledizioni che incombono sull’opera – che affronta il drago con la massima disinvoltura e finalmente ne viene a capo vittorioso! Così è stato anche ieri pomeriggio, in un Regio affollato anche se non proprio esaurito, alla terza, o meglio, alla 2,5… stante il degrado della seconda, causa renzite acuta (smile!)
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Il libretto dell’opera è uno fra i più inverosimili mai prodotti e il povero Piave, che doveva essere proprio messo male, ne ha parecchia colpa (insieme allo stesso Verdi, va detto) avendo riciclato in peggio il soggetto – già di per sé ai confini della realtà - dovuto a tale Ángel de Saavedra, aggiungendogli una spruzzatina di Schiller (tanto per gradire): eccone qui una sinossi fin troppo seria (!)

Per carità, il cosiddetto destino fa parte della vita quotidiana, non solo dei melodrammi, e non di rado si materializza in modo crudele. Tanto per restare a Verdi, anche in Rigoletto c’è parecchia forza del destino, con la maledizione di Monterone che alla fine si abbatte sul povero giullare attraverso lo scambio di… insaccati operato da Sparafucile&soreta; e nel Trovatore è sempre la forza del destino a portare il Conte a perseguitare un rivale fino a giustiziarlo per poi scoprire a frittata cotta che si trattava di suo fratello; e che dire del Ballo, dove l’innocente Riccardo viene risucchiato dal vortice della forza del destino preconizzatogli da una maga da strapazzo! Non parliamo poi di casi di travestimenti o di ritrovamenti incredibili, che si ripetono spesso, come in Boccanegra; o di fatti insignificanti e maledette coincidenze che provocano drammi immani, come in Otello.

Però a tutto c’è un limite, perbacco! Nel testo della Forza di Piave-Verdi (persino più che in quello di Saavedra) c’è un tale cumulo di situazioni gratuite e del tutto in-plausibili da rasentare (e pure superare) il grottesco: e chissà che Verdi, proprio rendendosi conto di queste deficienze di un soggetto di cui peraltro si era innamorato, non abbia deciso di seguire il clichè del Ballo, infilandoci almeno un paio di siparietti da avanspettacolo (del tutto assenti nel serioso dramma spagnolo) dei quali il finale del terz’atto - mutuato da Schiller - è solo la punta più evidente. In effetti: È seria la vita, allegra è l’arte. Con queste parole di Schiller si chiude il Prologo al dramma da cui Verdi trasse il suo finale terzo!
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Con il dramma Don Alvaro o la fuerza del sino, che era di produzione abbastanza recente (ai tempi di Verdi) Saavedra volle mostrarci che contro il destino (o la sfiga, per meglio dire) non c’è partita: la vince sempre lui/lei. Se uno nasce sfigato, non avrà scampo, nemmeno se fugge in capo al mondo o si isola in un eremo. E poi il destino, quando si accanisce, colpisce tutti e nessuno risparmia: colpevoli, innocenti, vittime e carnefici; e trasforma gli esseri umani in strumenti infernali: Yo soy un enviado del infierno, soy el demonio exterminador… è l’ultima esternazione di Alvaro, prima di gettarsi nel vuoto!

Il dramma di Saavedra si struttura in 5 giornate, che molto alla lontana corrispondono ai 4 atti di Piave, che concentra nel terzo le giornate 3 e 4 dello spagnolo. 

La prima giornata, di 8 scene, si apre con 4 di queste (ignorate nel libretto dell’opera) che costituiscono un’introduzione a ciò che Piave-Verdi ci presentano all’inizio. Scopriamo così, da chiacchiere di strada nel quartiere Triana di Siviglia (nei pressi del ponte di barche sul Guadalquivir) che Alvaro è uno straniero arrivato da poco dalle Indie (America latina) e pare sia figlio di una principessa Inca; constatiamo che è stimato da tutti (i popolani, quanto meno) e che è già diventato il miglior torero (!) di Spagna. Sul fronte Leonora: intanto scopriamo che ha due (!) fratelli (Carlo e Alfonso) e poi veniamo a sapere che la sua infatuazione per Alvaro è ormai di dominio pubblico, tanto che il padre (il Marchese di Calatrava) contrario a quell’unione, ha deciso di trasferirla nella tenuta di campagna di Aljarafe, una trentina di Km a ovest della città; dove però Alvaro è stato visto recarsi nottetempo più di una volta e infatti lo si vede in diretta, di sera, mentre si avvia sul ponte che porta in quella direzione; al che un canonico lì presente si affretta ad andare ad avvertire il Marchese (ohibò!) In queste prime scene compare (e scompare immediatamente per non vedersi mai più!) una gitana che canta e suona la chitarra, tale Preziosilla, la quale un giorno ha letto la mano di Alvaro, trovandoci cattivi presagi. Gli stessi che sua madre ha scoperto sulla mano di Leonora (!)

Le 4 successive scene corrispondono più o meno al primo atto del libretto di Piave, salvo un accenno che il Marchese fa ai due fratelli di Leonora (Carlo, militare a Barcellona e Alfonso, studente a Salamanca). Abbiamo quindi la buona notte, il colloquio Leonora-Curra e i preparativi per la fuga, l’arrivo ritardato di Alvaro, le indecisioni della donna, l’irruzione del Marchese, il colpo accidentale di pistola che lo fa secco e la fuga dei due giovani.

La seconda giornata, sempre di 8 scene, corrisponde genericamente al second’atto del libretto di Piave. Nelle prime due scene ci troviamo in una locanda ad Hornachuelos (100Km a nord-est di Siviglia, 50Km a ovest di Cordova, ai piedi della Sierra morena). Uno studente (per Piave-Verdi sarà Carlo travestito, ma qui il testo non lo dice, quindi dobbiamo pensare che sia proprio un compagno di Università di… Alfonso) suona la seguidilla con la chitarra e fa ballare tre coppie (di Preziosilla, come detto, non c’è qui traccia). Poi mostra interesse alquanto sospetto per un avventore arrivato con Trabuco (il mulattiere-rigattiere) e subito ritiratosi in camera, senza mangiare. Quindi declina all’Alcalde le proprie (autentiche?) generalità e il suo ruolo di investigatore privato al servizio di Alfonso di Vargas, con tanto di visite a Cordova (dove scopriremo era ospitata Leonora) e Cadice, dove apprenderanno della morte di Leonora e dove il protettore dello studente, lasciato il fratello a far ricerche di Alvaro in Spagna, si è imbarcato per inseguire l’assassino del padre nelle Indie. L’Alcalde impedisce però allo studente di intrufolarsi nella stanza dell’ospite misterioso… La locandiera, che aveva irriso lo studente per la sua storia inverosimile, scopre poi che la signora (! Leonora?) se n’è già andata via. Come si vede, il testo di Saavedra dice-e-non-dice, ci lascia quindi una notevole suspense sui fatti che stiamo osservando. È quindi un po’ come un libro giallo, dove anche i particolari si spiegano solo in un secondo tempo. Non così in Piave, che ci mostra chiaramente, un paio di volte, Leonora travestita.  

Le sei scene successive hanno come teatro il Convento degli Angeli e corrispondono (con qualche dettaglio in più) alla parte finale del second’atto del libretto di Piave: Leonora arriva al Convento, producendosi nel suo drammatico monologo (e solo qui abbiamo la certezza che l’avventore misterioso nella locanda era lei, e che aveva origliato i discorsi di Carlo, il che spiega anche la sua precipitosa fuga e il suo rancore verso Alvaro, che l’avrebbe abbandonata per fuggire in America; poi è ricevuta da Melitone, quindi si rivela (grazie anche alla missiva di Padre Cleto di Cordova) al Padre Guardiano e lo implora di ospitarla nell’eremo. In alternativa, Padre Guardiano qui suggerisce alla donna, oltre all’opzione-monastero (ripresa da Piave-Verdi) anche la possibilità di tornare dalla zia di Cordova (nominata evidentemente da Cleto) presso la quale Leonora ha vissuto per un anno. La giornata si chiude con l’assenso di Padre Guardiano a condurre Leonora all’eremo e alla descrizione delle condizioni di totale isolamento che le verranno colà garantite. I due entrano – sempre da soli, si noti bene – in Chiesa.

La terza giornata (di 9 scene) ci porta a Velletri, dove infuria la battaglia fra spagnoli e tedeschi (in realtà: austriaci). Questa giornata corrisponde alle prime due scene del terzo atto in Piave-Verdi, che l’hanno ripresa abbastanza fedelmente, eliminando particolari di scarso interesse. Ci troviamo (scene 1 e 2) la partita a carte di ufficiali spagnoli, cui si aggiunge Carlo che si ritiene imbrogliato al gioco. Nella scena 3 abbiamo il grande monologo di Alvaro, che ricorda le sue origini e i genitori incarcerati a Lima: sapremo dal racconto di Alfonso alla fine che suo padre era il Vicerè che cercò di usurpare il trono, sposando la Principessa Inca. Poi (nella 4) abbiamo il suo intervento a salvare Carlo dalla furia degli ufficiali e la proclamazione dell’indissolubile amicizia fra i due (che ancora non conoscono le rispettive identità). Quindi (scene 5 e 6) abbiamo la descrizione della battaglia fra spagnoli e tedeschi con il ferimento di Alvaro e ancora (scena 7) il ricovero di Alvaro e la sua richiesta a Carlo di conservare e poi distruggere, alla sua morte, ritenuta imminente, le sue carte segrete. La scena 8 vede Carlo aprire il baule di Alvaro e scoprirvi il ritratto di Leonora, quindi riconoscere il seduttore della sorella e assassino di suo padre, sospettare che la donna sia da qualche parte in Italia, e giurare vendetta, ripromettendosi di uccidere entrambi. Cosa resa possibile dalla notizia (scena 9) che Alvaro è ormai completamente fuori pericolo.  

La successiva quarta giornata (di 8 scene) corrisponde alle scene 3-9 del terzo atto (1869) in Piave-Verdi, che però qui si prenderanno parecchie libertà. Si apre con il drammatico confronto fra Carlo e Alvaro: il secondo che crede morta Leonora ma viene smentito dal primo, che l’ha saputa con una zia a Cordova (e però deve constatare che Leonora non è In Italia con l’amante); confronto che culmina con la richiesta di Carlo - cui Alvaro cerca invano di opporsi - di battersi a duello, al quale i due si preparano. Qui Piave-Verdi abbandonano i due e introducono le scene mutuate da Schiller, ignorando del tutto ciò che avviene in seguito (scene 2-8). La scena 2 ci mostra la piazza di Velletri, dove ufficiali spagnoli commentano l’andamento della guerra e le decisioni di Re Carlos (pena di morte per chi si batte a duello); improvvisamente compare Alvaro, disarmato, arrestato e portato in caserma per aver ucciso Carlo proprio in duello! Nelle scene 3 e 4 assistiamo ad un colloquio a quattr’occhi fra Alvaro e il capitano, che gli conferma la più alta stima e gli annuncia che i suoi ufficiali chiederanno al Re la grazia per lui. Ma Alvaro si dichiara omicida e (scena 5) esterna tutta la sua amarezza e il suo dolore: Leonora vive e lui sta per morire come un volgare assassino, avendo tradito oltretutto i propri genitori, che giacciono in un carcere di Lima. Nella successiva scena 6 torna il capitano che informa Alvaro dei tentativi (inutili) fatti dai generali di convincere Re Carlos a graziarlo: Alvaro attende la morte, che considera meritata. Ma ora succede l’imprevisto (scena 7): i tedeschi sono dentro Velletri e si deve immediatamente intervenire per contrastarli. Il capitano lascia libero Alvaro, che (scena 8) impugna la spada e si avvia a combattere: se non troverà morte in battaglia, allora promette a Dio di abbandonare il mondo e ritirarsi in un deserto. Quest’ultimo è un particolare non trascurabile: sapremo da Padre guardiano che Rafael (Alvaro) non arrivò spontaneamente al convento, ma vi fu portato, gravemente ferito, dal padre elemosiniere; solo dopo le cure e la guarigione trovò la sua vocazione religiosa! 

Eccoci ora alla quinta giornata (di 11 scene). Qui la trama è macroscopicamente quella che verrà ripresa da Piave-Verdi nell’atto conclusivo, ma con differenze non proprio marginali. Le prime due scene ci mostrano Melitone alle prese con la distribuzione del rancio ai mendicanti-petulanti e poi a colloquio con Padre Guardiano a proposito di Padre Rafael, che scopriremo essere Alvaro sotto mentite spoglie: è qui che Padre guardiano precisa che Rafael è lì da circa 4 anni, da quando l’elemosiniere lo trovò lungo la strada per Siviglia, ferito probabilmente da qualche brigante. Nella terza scena arriva al convento Alfonso (evidentemente reduce dalle Indie…) in cerca di quel Padre Rafael che lui sospetta essere l’assassino di suo padre. Convince il recalcitrante Melitone a condurlo alla cella di Rafael. Melitone (scena 4) lo annuncia ad Alvaro-Rafael, che si chiede (scena 5) chi possa cercarlo fin lì: qualcuno che gli porta notizie da Lima? 

Nella scena 6 assistiamo al drammatico scontro fra Alvaro e Alfonso, che viene subito al dunque, smascherando il frate e mostrandogli il volto. Alvaro rimane sconvolto, mentre Alfonso gli dice di averlo inseguito per 5 anni fino in capo al mondo e di aver portato con sé due spade, per il duello nel quale dovranno battersi. Alvaro cerca in tutti i modi di mantenersi calmo e di non reagire alle continue provocazioni di Alfonso, che lo offende nei suoi più intimi sentimenti; poi, di fronte all’ennesimo affronto, si decide al duello. Nella scena 7 Alvaro e Alfonso si fanno aprire la porta del convento da Melitone, e si avviano di corsa verso la foresta, proprio in direzione dell’eremo occupato da Leonora. Melitone (scena 8) cerca invano di avvertirli della scomunica che pende su chi viola quel luogo, poi decide di avvertire il prelato, mentre si prospetta una notte tempestosa.

La scena 9 è ambientata nei pressi della caverna di Leonora, dove i due si preparano al duello. Alvaro vuole comunicare un segreto ad Alfonso, ma questi lo gela, rispondendogli che quel segreto lui lo conosce già, anzi… È reduce da Lima, dove ha scoperto tutto sulle origini di Alvaro, ed ora gliele spiattella crudelmente, insieme a notizie che Alvaro ignora e che ne aggraveranno i sensi di colpa. Dunque: il padre di Alvaro era il Vicerè delle Indie spagnole, poi sposò l’ultima ereditiera degli Inca e cercò di usurpare il trono, ma venne scoperto; si rifugiò in montagna, fra gli indios, dove fu arrestato. Ma il Re Felipe lo graziò, mutando la pena di morte in ergastolo; e in una prigione di Lima venne alla luce Alvaro, che poi crebbe fra gli indios e meditò la sua vendetta, ma tutto quel che fece fu di venire in Spagna, ammazzare un padre dopo averne sedotto la figlia. Ma la notizia che si immerge come una lama nel cuore di Alvaro arriva adesso: il Re, grazie all’intercessione di suo zio, ha liberato i suoi genitori, che ora sono alla sua ricerca! Alvaro per un attimo si illude che tutto si possa aggiustare, e implora Alfonso di accettare una generale riconciliazione, in nome del suo amore per Leonora. Ma Alfonso pensa solo a vendicarsi di lui; offende ancora il sangue di Alvaro e così lo scontro è inevitabile: Alfonso cade ferito e implora la confessione. Alvaro, nonostante il divieto, si slancia alla porta dell’eremo e chiede aiuto. Leonora, dopo alcuni rifiuti, esce suonando la campanella per avvertire il convento.

Qui arriva la scena-madre (10). Leonora esce e ode le voci conosciute di due uomini egualmente sorpresi di vederla in quel posto: Alvaro, che pensa che lei lo abbia seguito fin lì per amore; e Alfonso, convinto invece che la tresca fra la sorella e Alvaro fosse continuata persino in quel luogo sacro! Così Alfonso morente pugnala Leonora, sotto gli occhi attoniti di Alvaro.

Nell’ultima scena si compie definitivamente il destino: di fronte al Padre guardiano e ai frati, inorriditi alla vista di tanto sangue, Alvaro si auto-accusa di essere un emissario dell’inferno, un demonio sterminatore. E con ciò si butta dalla rupe più alta, fra la generale costernazione. 
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Beh, bisogna ammettere che il dramma di Saavedra ha una sua bella consistenza, e che tutte le fasi della sua evoluzione sono perfettamente disposte, così come sono curati al massimo i dettagli ed evitate evidenti incongruenze. Certo, ci sono casualità un po’ troppo gratuite, come il fatto che Leonora e Alvaro si ritrovino, convivendovi per 4 anni ma ignorando l’uno la presenza dell’altra, proprio in uno stesso convento sperduto sui monti fra Siviglia e Cordova, quando la Spagna di conventi ne conta più che di tori. (Ma vedremo che in Piave-Verdi la combinazione sarà ancor più smaccata…) Oppure che Carlo venga salvato proprio da Alvaro e poi viceversa! O che gli austriaci attacchino Velletri 5 minuti dopo l’arresto di Alvaro. Anche la contemporanea presenza di Leonora e dello studente nello stesso giorno nella stessa locanda è piuttosto incredibile (anche qui, peggio sarà in Piave-Verdi, dove lo studente è… Carlo!)

Ma sicuramente la debolezza di fondo nell’assunto di Saavedra - la tesi dell’ineluttabilità, e quindi della forza, del destino – consiste precisamente nella casualità dell’evento-scatenante dell’intero dramma, che degrada il nobile concetto di destino a quello prosaico di sfiga: l’accidentalità della morte di Calatravas, ben diversa - per dire - da quella del Commendatore, deliberatamente voluta da DonJuan. Abbiamo quindi un dramma dai contorni sesquipedali e dalle profonde implicazioni psicologiche ed esistenziali che poggia sullo stuzzicadenti di un evento disgraziato. Il quale poi produce in modo quasi deterministico gli altri tre casi di omicidio di membri della famiglia Vargas: due per mano di Alvaro, ma anch’essi senza alcuna premeditazione, anzi in risposta alle vigliacche provocazioni dei due fratelli (legittima difesa, si potrebbe sostenere…); l’altra ad opera di uno dei medesimi fratelli, tratto però in inganno dalle apparenze (le incredibili presenze contemporanee di Leonora e Alvaro al convento).

Poco giustificabile è perciò il tremendo senso di colpa che porta Alvaro ad auto-dipingersi come un demonio (nemmeno fosse Jago!) e a suicidarsi a sua volta. Non è un caso che proprio Verdi, già dopo la prima di Pietroburgo, abbia meditato sulla gratuità di tutte quelle morti ed abbia successivamente deciso di risparmiare almeno il quasi-incolpevole protagonista, garantendogli il perdono divino grazie all’intercessione dell’altra vittima innocente di quell’assurda catena di fatalità.

Prima di passare a Piave-Verdi va ricordato come anche Saavedra (in ottemperanza al postulato di Lavoisier che recita: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma) abbia tratto ispirazione da altri, primo fra tutti Molière e il suo DomJuan. Si è già detto dell’analogia – premeditazione a parte - fra l’uccisione di Calatrava e quella del Commendatore (della quale pure il Dom verrà assolto!) Ma poi vi troviamo, guarda caso, un Carlos e un Alonso (fratelli di Elvira) che vorrebbero vendicare l’onore della sorella ammazzando il libertino che l’ha disonorata. Ma, ancora guarda un po’ il… destino, Carlos è stato salvato proprio dal Dom, che gli ha evitato sicura morte per mano di tre banditi. Così quando Alonso arriva, riconosce il Dom e lo vorrebbe far secco, ecco che Carlos lo convince a rimandare la cosa, per gratitudine verso il suo salvatore! Prima ancora di Molière, troviamo una significativa radice del dramma di Saavedra in Tirso de Molina: nel cui Burlador, il padre ammazzato dal libertino è il comandante di Calatrava! (A proposito di trasformazioni.)

Ma eccoci ora alla premiata coppia Piave-Verdi. Come si deduce dal confronto fra il testo originale e il libretto dell’opera, i nostri intervennero sul soggetto di Saavedra sia per sottrazione che per aggiuntaE vediamo come entrambe le operazioni abbiano avuto i loro bei pro e contro, tenendo anche conto delle due (principali) versioni dell’opera: 1862 e 1869.

Sotto il primo aspetto i nostri si posero il naturale e lodevole obiettivo di rendere più concisa e meno dispersiva la trama originale. Una delle principali semplificazioni fu quella di… ammazzare Alfonso nella culla (!) e lasciare al Marchese di Calatrava un solo figlio maschio, Carlo, che va invano in cerca di Leonora e quindi segue, prima a Velletri e poi di nuovo in Spagna, Alvaro in tutti i suoi spostamenti. Qui però c’è il rischio di cadere in enormi contraddizioni, chè nella locanda di Hornachuelos (Atto II) lo studente (che per Piave-Verdi è Carlo travestito) afferma di aver visto il Vargas (cioè… Carlo per Piave-Verdi) imbarcarsi per le Americhe! Attenzione perché questo particolare è di grande importanza, in quanto (udito da Leonora) ingenera nella donna l’idea del tradimento dell’innamorato: quindi Piave-Verdi non potevano ignorarlo. Peccato però che così abbiano infranto il principio di non-ubiquità, chè Carlo non può trovarsi contemporaneamente in viaggio per le Americhe e a Hornachuelos prima e Velletri poi! L’alternativa sarebbe che il Carlo della locanda stia raccontando un sacco di fregnacce inventate lì per lì (come infatti Preziosilla sospetta): cosa francamente poco degna di un libretto di Verdi. Fra l’altro (parlando come lo studente di Saavedra) Carlo afferma di credere Leonora morta la notte della fuga, mentre a Velletri dirà ad Alvaro che Leonora vive… Ora ci si spiega anche perché nel finale Piave-Verdi taglino completamente il racconto di Alfonso della sua visita a Lima, con la rivelazione della libertà ridata ai genitori di Alvaro.

Altro problema causato dalla soppressione di Alfonso: è ovvio e pacifico che Carlo non possa morire in duello con Alvaro in quel di Velletri, altrimenti… buonanottealsecchio! Ma dato che tutto l’atto di Velletri deve restare in piedi, con quel che segue, che si fa? Qui le due versioni dell’opera divergono; nella prima il duello avviene, Alvaro ferisce Carlo e crede di averlo ucciso… ma si sbaglia (ma guarda che destino!) Nella seconda si trova una scusa (anche questa invero ridicola, ammettiamolo) per scongiurare il duello in modo da tenerlo in canna per il gran finale al convento. In entrambe si taglia anche tutto il seguito di avvenimenti italiani come narrati da Saavedra. Vedremo tra poco come il taglio verrà ricucito, grazie a… Schiller, ma intanto non possiamo non osservare l’inconsistenza (1869) dell’esternazione (Or che mi resta?) di un Alvaro improvvisamente colpito da crisi mistica: che caso mai avrebbe avuto un senso proprio dopo l’uccisione di Carlo, ma così? Nulla di irreparabile è (ancora) accaduto da giustificare una simile rinuncia al mondo. Abbiamo anche visto come in Saavedra Alvaro maturi la sua vocazione dopo essere stato ricoverato e guarito in convento, non prima!

Nell’atto conclusivo Piave trascura un particolare (di poco conto, per carità, oltre che ininfluente) attribuendo a Carlo un’affermazione (Da un lustro ne vo’ in traccia) che Saavedra mette (plausibilmente) in bocca ad Alfonso: esser passati 5 anni da quando il fratello di Leonora si è messo alla ricerca di Alvaro. Però questo è plausibile per Alfonso, che dall’indomani della morte del padre si era messo sulle tracce di Alvaro, andando fino in Perù, dove aveva raccolto le ultime notizie sui suoi genitori, ora liberi (circostanza ignorata da Piave, come abbiamo visto). Potrebbe essere vagamente plausibile anche nella versione 1862 (Carlo gravemente ferito deve aver il tempo di rimettersi in sesto e così nel frattempo ha perso di vista Alvaro). Ma nella versione 1869 Carlo è rimasto – dopo il mancato duello - vivo e vegeto a poca distanza da Alvaro, il che rende inverosimile che abbia poi impiegato 5 anni (guarda caso, il tempo abbondante per un’andata-e-ritorno a Lima!) per tornare sulle sue tracce. 

Un’altra (piccola?) forzatura nel libretto di Piave riguarda la frase pronunciata – sempre nell’atto finale - da Carlo (ad Alvaro): Una suora mi lasciasti che tradita abbandonasti all’infamia, al disonor. Nell’originale di Saavedra Alfonso non la pronuncia, limitandosi ad accusare Alvaro di seduzione. Lui, come aveva ricordato lo studente, era convinto che Leonora fosse morta la notte stessa dell’uccisione del padre. E fra seduzione e seduzione+tradimento+abbandono c’è una certa differenza.

A proposito del finale, sappiamo che fu da Ghislanzoni-Verdi riscritto in vista della rappresentazione alla Scala (1869). Alvaro, già omicida (seppur involontario) del padre, uccide anche l’unico figlio maschio nel duello che questi ha per tanto tempo inseguito. Però che succede? Che due soli omicidi (nessuno dei quali premeditato, per di più) invece di tre come in Saavedra parvero a Verdi motivazione insufficiente a giustificare la disperazione di Alvaro e la sua auto-condanna a morte in quanto creatura infernale: così, dopo la prima versione (fedele al testo originale) in cui Alvaro si getta dalla rupe, Verdi chiese a Ghislanzoni di produrre la seconda e definitiva – e in questo caso più logica e realistica, va riconosciuto, rispetto a Saavedra - dove il poveraccio sfigato riceve il preavviso del perdono divino dalla bocca di Leonora morente e… resta vivo a piangere i morti.  

Sul fronte delle aggiunte al soggetto originale, cominciamo dal second’atto, dove Piave-Verdi spostano la Preziosilla da Siviglia a Hornachuelos, nella locanda dove lei fa la sua incredibile lode alla guerra, invitando i presenti ad arruolarsi per l’Italia, dove anche lei promette di seguirli. Peccato che la cosa poteva avere magari un senso in una città popolosa come Siviglia, ma diventa piuttosto incredibile se collocata in uno sperduto paesino di montagna, affollato sì in quel momento, ma solo da pellegrini diretti al convento, poco papabili come volontari militari. Vedremo poi come questa corposa presenza della gitana servirà a giustificare un’altra e ben più corposa (e schilleriana) aggiunta al terz’atto. Qui Piave-Verdi trasferiscono da Alvaro a Carlo la predizione di malasorte della gitana! Nel libretto italiano sparisce totalmente ogni risvolto misterioso che in Saavedra caratterizza la scena nella locanda: riconosciamo chiaramente Carlo travestito da studente (e dichiaratamente alla ricerca della sorella e del suo seduttore) e Leonora (che compare di sfuggita) travestita da uomo.

In tema di aggiunte – sempre nell’atto secondo - una novità piuttosto importante è il coro finale di Padre Guardiano e dei frati del convento (Maledizione, maledizion!) Che consente a Verdi di proporci grande musica di grande effetto, ovviamente (poi sarà ripreso da Leonora nella scena finale); ma si tratta in realtà di un monito del tutto sproporzionato rispetto all’oggetto, che è un invito, per quanto severo, del Padre ai suoi frati (a chi altro…?) a non essere curiosi. Insomma, un cannone per sparare a una mosca! (Molto più plausibile la maledizione di Monterone a Rigoletto, per dire…)  

E veniamo all’atto terzo, il più martoriato di tutti e per di più rivisto nel 1869 rispetto alla prima versione. Nel suo monologo, Alvaro si dice figlio di un indio che, sposando la principessa Inca, sognava di liberare il suo Paese dalla dominazione spagnola, e venne dagli spagnoli arrestato e incarcerato (abbiamo visto che in Saavedra suo padre era invece il Vicerè spagnolo). Poi tutta la struttura dell’atto viene rivista, con l’inserzione – voluta da Verdi in persona - delle scene mutuate da Schiller, che nel suo Wallensteins Lager presenta proprio uno spaccato della vita quotidiana di una guarnigione boema ai tempi della guerra dei 30 anni, quindi uno scenario vagamente assimilabile a quello di Velletri. Nella versione originale dell’opera, dopo che Carlo ha scoperto l’identità di Alvaro abbiamo le scene schilleriane e successivamente il duetto Carlo-Alvaro e il duello, il cui esito sembrerebbe quello di… Saavedra, ma in realtà non è così, anche se Alvaro canta un’aria-cabaletta (Qual sangue sparsi! e S'affronti la morte, col DO acuto) che chiude l’atto, nella quale si dice convinto di aver ucciso il rivale. Nel 1869 la struttura cambia: scompare l’aria-cabaletta finale di Alvaro e, dopo l’aria di Carlo abbiamo il breve coro dei soldati e quindi il duetto che dovrebbe portare al duello, duello che però viene impedito in circostanze risibili. E qui partono le ultime 5 scene da Schiller, i contenuti delle quali sono del tutto avulsi dal nocciolo del dramma, al quale anzi finiscono per assestare un’insopportabile caduta di tensione. Vien quasi da sospettare che Verdi abbia - per qualche ragione, magari legata al teatro che doveva ospitare la prima - voluto impiegare qui uno degli ingredienti classici (anche per collocazione all’interno degli atti) del Grand-opéra, che contemplava per dopo la metà dell’opera la presenza di balletti o comunque di simili scene coreografiche. 

Ecco quindi che personaggi che in Saavedra sono marginali  e passano come meteore qui invece tornano miracolosamente in scena e in primissimo piano: si tratta di Trabuco e Preziosilla, che evidentemente Piave-Verdi hanno mandato (da Hornachuelos!) al seguito delle truppe spagnole in Italia. Si è già detto come, per giustificare in parte la loro presenza a Velletri, nel secondo atto era stata messa in bocca a Preziosilla quella grottesca lode alla guerra e l’intenzione di seguire i volontari in Italia. In più, ecco comparire a Velletri persino Melitone (fattosi per l’occasione e pro-tempore cappellano militare? suvvia…) cui Verdi fece vestire i panni dell’anonimo monaco che nell’ottava scena del Wallenstein fa un pistolotto a soldati e paesani della guarnigione; e chiese ad Andrea Maffei di aggiustargli all’uopo i versi già da lui tradotti del dramma di Schiller. Ed ecco qui il risultato:


Non parliamo poi del Rataplan! che chiude l’atto. Che già Donizetti e Meyerbeer avevano musicato, ma in opere di soggetto decisamente diverso (La Fille du Regiment e Les Huguenots) e che Offenbach aveva parodiato nel suo Ba-ta-clan, probabilmente noto a Verdi, che si trovava a Parigi fino alla settimana precedente l’esordio in scena (al Théâtre des Bouffes Parisiens, 29 dicembre 1855) della chinoiserie musicale dell’allora 35enne semi-sconosciuto violoncellista.

C’è però chi ipotizza che queste apparenti grossolanità, introdotte da Verdi in un soggetto più che serio, altro non siano che un mezzo – e nemmeno tanto blando – per satireggiare contro la retorica della guerra e, con riferimento a Melitone, della liturgia!

Ma se Dio vuole nell’atto quarto abbiamo la splendida invenzione dell’aria di Leonora (Pace, pace, mio Dio!) che da sola riscatta tutte le magagne del libretto! 
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Per quanto riguarda il fronte strettamente musicale, rimando a questo breve, ma come sempre penetrante, saggio di Michele Girardi. Quanto alla versione originale di Pietroburgo, la si può vedere qui, rappresentata proprio nella città che ospitò la prima.    
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Torniamo ora al Regio e a questo spettacolo di Stefano Poda (una ripresa, in effetti, dalla stagione 2011). Il regista è anche scenografo, costumista e… lucifero (forse in omaggio alle spending review oggi tanto di moda) e fa un discreto compitino sul tema, senza inventare chissà quali Konzept (per quelli bisognerebbe chiamare i Guth e i Carsen, che costano un occhio della testa!) Quindi vediamo una Forza quasi coerente (fatte salve le varianti predisposte per la Scala nel 1869) con quella che Verdi nel 1862 propose ai pietroburghesi, affamati di prodotti di marca dell’occidente.

Ho scritto quasi perché il regista, dovendo comunque giustificare la parcella, qualcosa di strano deve pur inventarsi. Ecco quindi che Leonora, nella scena dell’atto secondo al convento, invece di presentarsi ai monaci abbigliata da… monaco, si mostra in tutta la sua femminilità, e fa pure un mezzo spogliarello! Forse il regista qui voleva riempire di contenuti e razionali quell’altrimenti esagerato Maledizione! Poi, nella scena finale, affinchè nessuno abbia dubbi sullo svolgersi dei fatti, ecco che Leonora viene pugnalata (due volte, non si sa mai…) da Carlo davanti a tutti. Sorvolo su altri particolari di poco conto, come il baule (o valigia) di Alvaro (atto III) che qui diventa un moderno portafogli, più piccolo della chiave che lo deve aprire (smile!) O il pugnale che piove dall’alto dopo l’accoltellamento di Leonora, conficcandosi in un cubo posto sotto l’enorme croce che incombe sul finale. O ancora il pulviscolo luccicante (tipico delle premiazioni di squadre che vincono coppe o campionati) che scende sulla scena al calar del sipario.

L’aspetto per me più interessante della proposta di Poda consiste nel rendere seri (quale è il dramma nella sua essenza) anche i momenti da avanspettacolo che lo caratterizzano; questo contribuisce a minimizzare gli eccessivi contrasti fra le cupe vicende del soggetto e i diversivi leggeri che lo inquinano.

Quanto alle scene, nei primi due atti prevalgono pannellature enormi che chiudono la visuale, e che sono di quando in quando spostate per creare… movimento (!) Il terzo atto si apre (sul monologo di Alvaro) con un enorme pendolo (tipo la mazza sferica di felliniana memoria) che dovrebbe, credo, rappresentare l’incedere ineluttabile del destino. Nell’atto conclusivo abbiamo l’altrettanto enorme croce adagiata obliquamente, ad evocare… qualcosa che il regista dovrebbe spiegarci (smile!) I costumi dei personaggi principali tendono pericolosamente al… pastrano DDR di triste memoria, ma pazienza. Oltre ai ballerini che compaiono nelle scene del 2° e 3° atto, vediamo all’opera anche dei mimi che evocano, ad esempio, le scene di guerra in quel di Velletri.

Sul fronte attoriale, poco da dire: Poda non rischia nulla, fa cantare i protagonisti (salvo i… morenti, che per forza di cose devono stare sdraiati per terra) ben piantati di fronte al pubblico e muove il meno possibile le masse corali (facendo caso mai muovere di più – anche se… al rallentatore - i mimi).

In sostanza, un allestimento dignitoso che non farà storia, né nel bene, ma neanche – e questo è già un merito – nel male.
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Ho già anticipato della sicurezza di Bignamini, la cui direzione è di quelle che ti fanno pensare che il Direttore abbia studiato assai la partitura (cosa che parrebbe ovvia, ma che tale purtroppo non è): mai un’esagerazione enfatica, mai la buca che zittisce le voci, sempre una buona intesa fra suoni e canto. Ecco, il Direttore associato de laVERDI sfrutta al meglio le qualità di un’altra benemerita Orchestra padana (la Filarmonica Arturo Toscanini) valorizzandone l’insieme e i singoli, primo fra tutti il clarinetto (forse per affinità… elettive.)

Ottimo il coro del Regio di Salvo Sgrò, che alla fine dell’atto terzo, dopo un fulminante Rataplan, ha ricevuto uno speciale tributo di applausi. 

Applausi che il pubblico ha distribuito – in diversa misura e mescolati a qualche chiaro dissenso - a tutti, sia a scena aperta dopo i numeri principali, che al termine dello spettacolo.

Roberto Aronica (Alvaro) mi ha piacevolmente impressionato, reggendo bene sino in fondo una parte oggettivamente difficile e mettendo in mostra una voce squillante e potente, che ben si addice alla figura del mezzo-hidalgo venuto dal Perù.

Il suo rivale Luca Salsi (Carlo) ha pure ben meritato, salvo qualche problema emerso sugli acuti (parlo della ballata dell’atto secondo): con Aronica ha dato vita in modo efficace anche ai duetti di amicizia-scontro fra i due.

Molto meno convincente Virginia Tola (Leonora): non è un caso che, in mezzo a convinti applausi, già arrivati dopo le due arie, alla singola finale sulla 38enne cantante argentina siano piovuti dal loggione anche convinti… buh: forse eccessivamente ingenerosi, ma direi proprio non immeritati, stante l’opacità complessiva della sua prestazione, che non ha presentato clamorose mende, ma che non si è mai sollevata da un livello di generale mediocrità, a partire dal poco gradevole timbro della sua voce.  

Roberto De Candia (Melitone) ha forse ecceduto in qualche schiamazzo di troppo (alludo alla scena del refettorio) ma nel complesso non se l’è cavata male, specie nel suo tormentone del terz’atto.

Michele Pertusi (Padre guardiano) è un altro che mi ha sorpreso negativamente: la voce pareva perennemente forzata per assumere un accento ieratico e severo, col risultato di… risultare innaturale e stimbrata. Peccato.

Chiara Amarù (Preziosilla) ha confermato le buone qualità che l’hanno rivelata negli ultimi ROF: anche lei però, in mezzo a tanti applausi, è stata destinataria di un (peraltro isolatissimo) dissenso.  

Andrea Giovannini (Trabuco), Simon Lim (Calatrava), Raffaella Lupinacci (Curra), Daniele Cusari (Alcade) e Gianluca Monti (Chirurgo) hanno onorevolmente completato il cast.

In conclusione, un caldissimo (parlo proprio di temperatura ambientale) e piacevole pomeriggio.

17 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 5

 

Il Direttore Principale de laVERDI, John Axelrod, esordisce nella stagione guidando l‘Orchestra in un programmone tardo-romantico, per la verità più adatto al 2 novembre (smile e scongiuri!) visto il tasso di… morte che lo caratterizza. Morte proprio nei titoli di due delle tre opere, ma aleggiante assai anche sulla terza.

Per tirarci su il morale, oltre alle due morti, la prima parte è occupata, secondo un clichè ormai consolidato, da due Verklärungen: quella che chiude l’accoppiata Preludio+Liebestod dal Tristan e quella che compare, insieme alla Tod, nel titolo di Richard Strauss.

Il pezzo di Wagner fu estrapolato dal dramma dallo stesso Autore che necessitava, ai tempi, di far digerire a pillole, o piccole dosi, il suo prodotto considerato a torto o a ragione del tutto indigesto (ci vollero 6 anni di tentativi abortiti prima di poter assistere ad una rappresentazione completa del Tristan). Oggi, francamente, credo si dovrebbero evitare queste esecuzioni, che riducono un capolavoro a merce da discount (con tutto il rispetto). No comment (salvo il riconoscere il giusto merito a chi ha suonato).
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Il secondo brano in programma è Tod und Verklärung, il terzo dei Tondichtungen che Strauss compose a 25 anni, un periodo di grande effervescenza creativa, se è e vero che insieme all’Op.24 videro la luce anche Don Juan (op.20) e Macbeth (op.23).

Il bavarese dichiarò di essersi ispirato alla generica immagine di un uomo (anzi, un artista, secondo lui) sul letto di morte e dettò una specie di soggetto dell’opera, che si può così riassumere:

- si entra nella stanza dove il malato giace sofferente;
- gli tornano alla mente ricordi della fanciullezza;
- il dolore si fa più forte e insopportabile;
- tornano ancora i ricordi della pienezza della vita;
- appare l‘ideale, sempre cercato, e mai raggiunto in vita;
- il male ha finalmente il sopravvento;
- trasfigurazione finale: l‘anima abbandona il corpo per ritrovare, negli spazi eterni, il proprio ideale, ora compiutamente realizzato…

Proviamo a seguire la musica sulla registrazione fattane proprio dall’Autore a Vienna nel 1944, un anno abbondante di morti… senza trasfigurazioni!
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Naturalmente il brano presenta una struttura non strettamente riconducibile a forme classiche, tuttavia assai chiara e rigorosa. Vi possiamo distinguere:

- Introduzione
- Esposizione primo gruppo tematico
- Transizione al secondo gruppo tematico
. Esposizione secondo gruppo tematico
- Sviluppo
- Ripresa
- Coda

Le strutture fondamentali dei temi richiamati sono consultabili nella figura posta alla fine della descrizione del brano. Dando uno sguardo d’insieme, prima di addentrarci nei dettagli, si può dire che Strauss abbia fatto ricorso ai canoni della forma-sonata, liberamente derogando da essi per adattarli al proprio intento poetico (la Dichtung!) Così i due gruppi tematici presentano caratteristiche contrastanti (nella più pura tradizione beethoveniana): il primo duro e maschio, in modo minore (dolore e sofferenza); il secondo cantabile e spensierato, in modo maggiore (fanciullezza e aspirazioni). Nella transizione fra i due, Strauss introduce, derogando dai sacri canoni, il tema (dell’ideale, o della trasfigurazione) che alla fine occuperà il centro della scena. Nello sviluppo i due gruppi tematici si confrontano e scontrano (e anche qui siamo a Beethoven) ma fra loro si insinua anche il tema dell’ideale. Anche la ripresa è tutto sommato rispettosa (ma con parecchie libertà) delle regole codificate: vi compaiono solo due temi dei due gruppi, più l’ideale, che poi monopolizzerà la coda.

Introduzione (tempo: Largo – tonalità: DO minore)

Come nella più pura tradizione Haydn-iana, Strauss apre il brano con una Introduzione lenta, prima di attaccare il proverbiale Allegro. Vedremo però, a differenza del modello classico, come questa introduzione cominci a proporre temi (o meglio, loro spezzoni o germogli) che costituiranno l’ossatura dell’opera.  
Si parte. Violini e viole, sostenuti subito dopo dal fagotto e poi ancora dagli altri fiati e dai corni, espongono un pedale sincopato, a rappresentare l‘irregolarità del respiro (o del battito del cuore?) del malato.
30”. I timpani soli ribattono le sincopi, su cui gli archi inseriscono un inciso calante (SOL-FA) ripetuto due volte, che forse rappresenta i faticosi sospiri del malato, caratterizzati da breve inspirazione (una semiminima) e da lunga espirazione (minima puntata) mentre i flauti aggiungono a loro volta due guizzi ascendenti (come fossero delle fitte lancinanti?)
53”. Ancora le sincopi negli archi, poi (1’05”) un accordo di LAb maggiore porta a due nuovi sospiri (DO-SI) sulle sincopi riprese dai timpani e con altre due fitte nei flauti.
1’29”. Gli archi inducono una modulazione della tonalità, salendo da DO a  REb maggiore, dove l’arpa introduce un motivo dolcemente fluttuante, esposto dai flauti. Scopriremo più avanti essere questo il germe di uno dei temi del secondo gruppo, quello che evoca le aspirazioni della giovinezza. Per comodità, dato che ricompare più volte, lo chiamerò il motivo del germoglio. Subito gli oboi risalgono la china, con quattro note di reminiscenza un po’ tristaniana e quindi il germoglio è riesposto dai clarinetti, sulla dominante. Questo frammento tripartito tornerà ancora a farsi udire, anche in forma arricchita.
1’55”. Ancora le sincopi nei timpani, i sospiri negli archi (REb-DO) e le fitte nei flauti, poi altre sincopi nei clarinetti e negli archi, con sospiri del clarinetto basso e altri nel corno inglese e nei fagotti.
2’44”. Su una nuova modulazione, a LAb minore, l’oboe ci anticipa (2’52”) il tema che rappresenta i bei ricordi della fanciullezza del malato: un salto di ottava ascendente, poi calma dolce discesa, con due morbidi ondeggiamenti. L’arpa lo accompagna delicatamente.
3’17”. I flauti riprendono in LAb maggiore il dolce motivo del germoglio, aprendo la strada (3’31”) al violino solo, che riespone, in DO maggiore, il tema della fanciullezza (ora caratterizzato da un secondo slancio verso l’alto) seguito dalla riproposizione (3’55”) del frammento già udito, con la sequenza dei tre motivi in flauti, oboi e clarinetti.
4’15”. Tornano i sospiri negli archi (DO-SI) sui quali spicca il germoglio, prima nei flauti, poi nei fagotti, ma in tonalità minore.
4’36”. Ecco nuove sincopi dei timpani, seguite ancora dal germoglio, un poco agitato (4’49”) nello spettrale timbro del corno inglese, indi la risalita nelle viole e nei violoncelli, e poi un lamento dei flauti (DO-REb-DO) seguito dal germoglio, negli oboi, ora in Do maggiore; quindi ancora la risalita in clarinetti e violini, poi ancora due lamenti dei flauti.
5’38”. Qui le sincopi nei corni conducono alla prossima sezione.

Esposizione primo gruppo tematico (tempo: Allegro molto agitato - tonalità: DO minore)

5’49”. Un poderoso DO in unisono di archi bassi, tuba, tromboni, corni, controfagotti e timpano scuote come fosse una mazzata il malato. Negli strumentini si risentono le sincopi, mentre gli archi bassi  e legni espongono (in DO# minore) il primo tema, detto del dolore, sempre più insopportabile: un tema che inizia con tre note ascendenti (MI-FA##-SOL#) ripetute tre volte, poi si allarga e sale ancora, come di un male che cresce di intensità…
6’12”. Solo un attimo di pausa (SOL maggiore) ma poi riprende il calvario, col tema intercalato da sussulti e fitte in un continuo crescendo, che porta ad una sospensione sul FA (6’45”, furioso).
6’49”. Ecco quindi – protervo! - un secondo tema della sofferenza, DO minore: due semiminime (SOL-LAb), una terzina ascendente (SOL-LAb-SI), ancora due semiminime (DO-MIb), poi il culmine sulla dominante SOL.
6’56”. Si ridiscende, come a riprendere fiato, con tre successivi respiri negli strumentini e violini (è come la voglia di vivere del malato) ma subito il dolore torna: due note secche e la terzina ascendente: eccolo nel trombone a 7’08” e poi si mescola ai tentativi di respiro, e cresce di intensità, salendo di semitono in semitono, nei corni, ancora nel trombone e infine, su un grandioso crescendo generale (7’25”) si staglia prima nei tromboni e poi nelle trombe nel marasma di un poderoso e sporco accordo di DO minore, col timpano a battere sincopi frenetiche.

Transizione al secondo gruppo tematico

Il termine transizione è impiegato regolarmente nelle esegesi e analisi strutturali dell’opera. Come tale, una transizione non dovrebbe presentare nuovi temi portanti. Invece non è così, poiché vedremo come  introduca nientemeno che il tema fondamentale del brano!
7’29”. Ora si instaura una continua lotta fra il male e il malato, con sussulti, quasi dei colpi di tosse negli archi e strumentini. A 7’40” affiora un nuovo motivo, ascendente, nei violini, in tempo molto agitato, culminante nel lamento già udito in precedenza; ancora il motivo ascendente, poi brevi incisi (7’50”) di quattro note, tre ascendenti che si chiudono con una seconda discendente; quindi il crescendo che porta (8’02”) alla nuova esplosione della sofferenza, in tutta l‘orchestra, in DO minore.
8’06”. Come poco fa, anche ora segue la voglia di vivere (anche se rimane nell’aria una specie di ansia) che cresce fino a culminare, in tempo poco ritenuto, con l‘esposizione (8’27”) negli ottoni del grandioso e fondamentale tema dell‘ideale, o meglio la prima parte  di esso, in SIb maggiore, poi (8’33”) in MIb maggiore: un tema  entusiasmante, per il moto ascendente, dalla dominante alla tonica, da cui prende come la rincorsa per salire alla mediante e di qui spiccare un balzo all‘insù di un‘ottava piena, ripiegando poi sulla sopratonica. E qui non si può non riconoscere come questo moto degradante da mediante a sopratonica altro non sia se non un frammento dell’incipit del tema della fanciullezza! Come a dire: i sogni che il ragazzo, diventato uomo, cerca di trasformare in ideali di vita.
8’40”. Con un calando del tempo, poi ancora molto ritenuto, ci si adagia sul MIb maggiore, per poi passare, con una modulazione nei violini, alla successiva…

Esposizione secondo gruppo tematico (tempo: Meno mosso - tonalità: SOL maggiore)

9’16”. I flauti espongono il tema della fanciullezza, che era stato già preannunciato nell’Introduzione, e che si dipana qui in modo completo: lo riprendono (9’43”) a canone, le sole prime parti di violini, violoncelli e viole.
9’55”. Ora, leggermente mosso, oboi e arpe introducono un tema esitante, come di un bimbo che muove i primi passi, che si intercala, nella viola, poi nel violino e quindi in flauti e clarinetti, con l‘inciso del germoglio.
10’12”. I violini riprendono il tema della fanciullezza, ancora a canone, adesso contrappuntato dal tema esitante nell‘arpa.
10’43”. Il tempo un poco agitato ripresenta tre sussulti di sofferenza successivi, in  tre diverse sezioni dell‘orchestra, ma i ricordi riprendono rapidamente il sopravvento.
10’51”. Infatti (un pò più stretto) corni e fiati espongono un nuovo tema, in MIb maggiore, alquanto virile, a rappresentare le aspirazioni della giovinezza: in realtà altro non è che la fioritura completa del germoglio! Ed infatti con esso si contrappunta, oltre che con il tema della fanciullezza, in un crescendo (poco stringendo) che porta, dopo una discesa e successiva risalita nei violini al successivo…

Sviluppo (tempo: Appassionato)

11’28”. Il tema della fanciullezza viene adesso usato come sottofondo ad una sua vivace variazione, reiterata dagli archi e fiati (dapprima in SI maggiore), fino al primo di ben quattro interventi (11’51”) di tromboni (e timpani) a riproporre le terribili sincopi, seguite da tre sussulti che fanno pensare ad un infarto. Le quattro irruzioni avvengono ad altezze crescenti di un semitono, dal SOL al LAb, al LA, al SIb-SI.
11’57”. Il tema variato riprende, in FA maggiore, fino al secondo scoppio di sincopi (12’06”) in LAb nei soli tromboni, questa volta seguite da due sussulti. Il fenomeno si ripete a 12’14”, in LA, con due sussulti nei tromboni seguiti da quattro nei timpani. La tonalità vira momentaneamente a RE maggiore (molto appassionato) per l’ultima irruzione dei tromboni (12’22”)  di durata doppia (SIb-SI) e cinque sussulti successivi.
Il tema della fanciullezza continua ad imperversare, siamo ormai alle soglie del delirio, ed ecco (12’34”) ricomparire, sempre nei tromboni, l‘altro tema squassante della sofferenza, una, due (12’44”), tre (12’47”), quattro (12’50”) e cinque volte (12’53”) le ultime due inalberandosi fino al REb, invece di fermarsi sul DOb! E ogni volta accompagnato dalle sincopi di strumentini o archi.
12’56”. Il tema della fanciullezza si rifà largo per l’ultima volta, tumultoso, a canone prima largo e poi sempre più stretto nei corni e negli archi, in LAb maggiore, fino a sfociare (13’07”) in un accordo di tutta l’orchestra sulla dominante MIb.
Qui, poco stringendo, clarinetti, fagotti e archi bassi conducono alla perorazione (13’13”) del tema dell’ideale, in LAb maggiore. È sempre la prima parte ad essere esposta: la seconda discendente che la conclude, viene ribadita tre volte, poi inquinata (13’30”) da un SI naturale del primo trombone, per lasciare spazio ad una specie di pausa di riflessione, occupata prima da motivi ascendenti nell’oboe, poi da spezzoni della fanciullezza.
13’48”. Ancora riappare l’ideale, adesso in LA maggiore, con due ripetizioni della chiusa (sempre storpiata a 14’01” dai tromboni) che portano, in un poco agitato, alla riesposizione del primo tema della fanciullezza.
14’10”. Poco a poco stringendo, questo tema – distorto assai, come quello della voglia di vivere che lo contrappunta - si accavalla a canone, fino ad essere disturbato (14’21” e 14’24”) da due ritorni, sempre nei tromboni, del tema della sofferenza, che sale prima al MI, poi si ferma al RE#.
14’33”. Riecco l’ideale, ora in REb maggiore, che comincia ad ampliarsi: adesso presenta una sola ripetizione della chiusa, ma poi (14’40”) si sviluppa ancora più in alto, prima di acquetarsi.
Ora la visione scompare lentamente e fa tornare in primo piano la malattia (15’03”) con le sincopi nel timpano che accompagnano cinque incisi (caduta di un semitono) in corni, archi e legni sull’ultimo dei quali ecco (15’40”) un’ultima fitta, cui segue una quiete carica di suspense

Ripresa (tempo: Allegro molto agitato - tonalità: DO minore)

È ormai arrivata la fine: la malattia non dà più scampo. A 16’00” i temi del dolore e dei suoi terribili colpi (la sofferenza) scuotono il corpo del malato, il cui respiro si fa sempre più affannoso, mentre il moribondo sembra disperatamente ribadire la sua voglia di vivere.
16’19”. 18 colpi secchi (tromboni e timpano) in controtempo sembrano proprio una scarica di bastonate sul capo del morente. Ed ecco che, sugli ultimi quattro (16’25”) poco ritardando, una scala ascendente di violini e legni, quasi un glissando, ci dice che… l‘anima è spirata (16’28”).
Qui pare quasi di accompagnare lo spirito che sale verso il cielo: in tempo moderato e tonalità DO maggiore, su un pedale di tonica del controfagotto, della tuba e dei contrabbassi, con i timpani a rullare sommessamente e colpi di tam-tam e minime dell’arpa in controtempo a scandire la… salita, gradino per gradino, i corni e poi i legni, a canone largo, espongono frammenti del tema dell‘ideale, in contrappunto a quello della fanciullezza, negli archi, cui si aggiungono poi le due arpe a creare un sottofondo celeste. Lentamente si sale alla dominante SOL (ci par di essere Siegfried che si affaccia sul pianoro della rupe di Brünnhilde!) in attesa della…

Coda (tempo: Tranquillo - tonalità: DO maggiore

18’45”. Negli spazi celesti si realizza ciò che in terra non fu consentito! Il tema dell‘ideale, che il malato aveva inseguito in vita, ma senza mai riuscire a realizzarlo in pieno, ora si libra (19’08”) in tutta la sua estensione e in tutta la sua magnificenza. Sono fiati e ottoni a condurlo, con gli archi a sostegno, con scale ascendenti, insieme agli oboi e al corno inglese.
Il tema sale con dolci volute fino alla dominante (19’45”) per poi lentamente degradare. A 20’14” riprende ancora, ma adesso (20’17”) i violini intercalano il tema della fanciullezza, come qualcosa di ormai lontanissimo, prima in DO, poi (20’33”) in RE, poi ancora (20’48”) in MI maggiore. Il concetto filosofico è abbastanza chiaro: i sogni che in terra erano ambiziosi e grandiosi (ma sogni restavano) si dileguano nell’estasi metafisica.  
Si modula quindi, passando fugacemente dal MIb, a SIb maggiore (21’08”) per tornare, negli ottoni (21’21”) al DO maggiore con cui l‘ideale si ripresenta, in primo piano e in forma invero colossale, sviluppandosi ulteriormente fino ad adagiarsi (21’58”) sulla dominante SOL.
22’04”. Il tema (ma solo l’incipit) si affaccia ora sommessamente in corni e trombe, poi ancora in tromboni, trombe, violini e legni, fino a spegnersi, in pianissimo, sull’accordo perfetto di DO maggiore dell’intera orchestra.

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Axelrod, che ha diretto tutto il concerto senza bacchetta, qui ha forse ecceduto in sostenutezza, almeno se confrontato con l’asciutta interpretazione dell’Autore citata più sopra. Comunque un’ottima prova di tutta l’orchestra, davvero in grande spolvero.
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Chiusura alla grande con la Patetica. Qui il texano non ha usato mezze misure: nell’Allegro molto vivace in particolare si è scatenato e, dopo il quadruplice tonfo in SOL, il pubblico (anche coloro che… sanno) non ha potuto restarsene in religioso silenzio ad aspettare il finale lamentoso, ma è scoppiato in un lungo applauso liberatorio.

Perdonerò al Maestro qualche americanata di troppo (parlo di stiracchiamenti di tempo qua e là) in forza della complessiva eccellenza dell’esecuzione.

14 ottobre, 2014

L’”Elefante” Paolo Isotta ospite in Auditorium

 

Ieri pomeriggio l’Auditorium di Largo Mahler (quello de laVERDI) ha ospitato la presentazione dell’ultimo (per ora…) libro di Paolo Isotta. Il quale è personalmente intervenuto, di fronte ad alcune centinaia di persone sedute in platea (compreso il venerabile Bonaldo Giaiotti, oltre ai giovani Direttori di casa Jader Bignamini e Giuseppe Grazioli) per raccontare – con la sua proverbiale e corrosiva arguzia partenopea - le origini e le vicissitudini di questa specie di non-autobiografia. In essa il critico musicale oggi più discusso in Italia ha raccolto le esperienze di tutta una vita – fino ai recenti burrascosi rapporti con la Scala - mescolando volgari pettegolezzi e frecciatine (o frecciatone, proprio da querela) contro questo o quello a sempre acutissimi (condivisibili o meno che siano) giudizi su personaggi, opere, idee, correnti di pensiero, luoghi e fatti della musica (e non solo) di ogni tempo e luogo. Chiudendo poi il suo intervento con un simpatico omaggio al suo grande conterraneo Giovan Battista Basile.

A spiegazione del titolo del tomo (600 pagine!) veniamo a sapere – ma è anche scritto nell’Avvertenza che lo apre - che uno degli elefanti che – a suo credere – protegge Isotta fin dall’infanzia è Babar, protagonista della favola di Brunhoff musicata da Poulenc per voce recitante e pianoforte. Che ci è stata puntualmente e piacevolmente proposta (in italiano) da un caro amico di Isotta, Peppe Barra, accompagnato dalla brava Carlotta Lusa, un’esile giovinetta che suona spesso ne laVERDI le parti per tastiera (pianoforte e celesta). 

Barra ha poi chiuso l’incontro divertendoci con la sua versione de La vecchia scorticata, da Lo cunto de li cunte, ossia il Pentamerone di Basile.          

11 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 4

 

Gaetano D’Espinosa ridà il cambio a Zhang Xian sul podio dell’Auditorium per dirigere un concerto del genere testa-coda. No, non parlo delle ultime esibizioni della Ferrari, ma dell’accostamento degli autori in programma: poi, quale sia da considerare testa e quale coda… lo stabilisca ciascuno in piena libertà (smile!) La prima parte della serata presenta due opere, diciamo, contemporanee: fra loro e a noi; la seconda ci ripropone un celeberrimo titolo del profondo ottocento.

I due pezzi di musica (cosiddetta) moderna sono in programma per via dell’apparentamento con il Festival di Milano Musica, nel cui cartellone figura questo concerto in Auditorium. Si tratta di opere di due compositori scomparsi e purtroppo in modo prematuro: Armando Gentilucci a 50 anni († 12 novembre, 1989) e Fausto Romitelli (cui è dedicato il citato Festival) a soli 41 († 27 giugno, 2004).

Di Gentilucci abbiamo ascoltato la corposa Suite dall’opera Moby Dick, unica composizione teatrale del leccese, che vi aveva dedicato gli ultimi anni di vita e che non è ancora mai stata portata in scena. Trattandosi di musica per il teatro, è ovviamente legata al famoso soggetto di Herman Melville, quindi ci troviamo sottotitoli come: la nave, i mare, il tifone, la balena e i gorghi. I vari numeri (7) sembrano in effetti galleggiare su un tranquillo tappeto di suoni cui arpa e celesta in particolare conferiscono un carattere… liquido. Non mancano ovviamente pochi squarci drammatici, come il tifone e i gorghi. Se devo proprio essere sincero, nulla di paragonabile, per dire, ai preludi marini del Grimes.

Ecco poi una prima assoluta: Meridiana, composizione giovanile (26 anni) del goriziano Romitelli, scovata dopo la sua morte fra le sue carte e recentemente pubblicata. Pare che nessuno ne sappia nulla, quindi ignota è anche l’origine del titolo: potrebbe essere indifferentemente l’orologio solare o la compagnia aerea. Personalmente – sentita la musica – propenderei per una variante friulana dell’après-midi… dove tutto è calma, rotta tutt’al più da sommessi ronzii di qualche insetto.

Ecco, saldato il debito con la modernità (smile!) ci siamo stomacati con una bella fettona di sacher all’amburghese (stra-smile!): la Quarta di Brahms. D’Espinosa ha messo sulla torta qualche pizzico di… peperoncino (piccoli scarti di tempo) così da rendercela meno abitudinaria. L’orchestra ha risposto bene (Max Crepaldi in testa, con il suo splendido recitativo al flauto nel Finale) ma non direi proprio benissimo, e i corni hanno lasciato un poco a desiderare, specie nel grandioso corale della conclusiva passacaglia. Ma nessuno ha protestato, al contrario!

09 ottobre, 2014

laBarocca ritrova Scarlatti

 

L’esordio stagionale del complesso laBarocca di Ruben Jais ha portato in Auditorium un Oratorio che ebbe la sua prima a Roma (Arciconfraternita del SS. Crocifisso) durante la quaresima (secondo venerdì, 5 marzo) dell’anno di grazia 1700. È la prima volta per Milano, anche se non è proprio una primizia in assoluto, dato che proprio un mese fa la stessa opera è stata presentata, nel corso del MI-TO, nella chiesa di SanFilippo a Torino (sulla pagina web indicata si può trovare e scaricare il programma di sala che contiene il testo latino-italiano dell’Oratorio). Ma è comunque abbastanza raro, per non dire rarissimo, poter ascoltare questo prodotto della civiltà musicale italiana di più di tre secoli fa. Due sole – pare – le incisioni disponibili: quella di Columbro (anche MP3) e quella di De Marchi (CD).

Davidis pugna et victoria è l’unico sopravvissuto dei 5 (o 6?) oratori latini composti da Alessandro Scarlatti a Roma in circa 20 anni a cavallo fra ‘600 e ‘700. Il soggetto biblico è la celebre sfida tra Davide e Golia, decisa da un azzeccato colpo di fionda del pastorello ebreo che stende il gigante filisteo, per poi mozzargli il capo (pratica oggi resuscitata laggiù in quelle terre…) La struttura è in due Parti, entrambe introdotte da altrettante Sinfonie (la seconda assai breve, per la verità): nella prima viene rappresentato il pessimismo, il fatalismo di Re Saul convinto della sconfitta e preparato alla morte, cui si oppongono l’ottimismo e la fede del figlio Ionatha e del giovane David, che rincuorano i loro armati; nella seconda assistiamo ai preparativi della battaglia, alle minacce di Golia e infine al suo abbattimento da parte di David, fra cori di disperazione dei Filistei e di gioia degli Ebrei. I personaggi sono 5: David e Ionatha (soprani), Saul (contralto), Golia (basso) e Textus (Narratore, tenore); affiancati da un coro doppio, che rappresenta le due parti in guerra, Ebrei e Filistei. L’orchestra è composta  esclusivamente da archi, più cembalo (recitativi) ed organo. I numeri musicali sono essenzialmente: recitativi, arie, duetti e cori.       
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La Sinfonia che apre la Prima parte dell’Oratorio è – come quello - strutturata in due sezioni, ad immagine dei contenuti dell’opera: una prima in tempo Grave (il pericolo che incombe sugli Ebrei) che presenta un motivo che si muove dal SOL maggiore alla dominante RE per poi tornare al SOL; la seconda - un Allegro – sempre in SOL, con modulazioni a RE maggiore e SI minore, caratterizzato da vivace contrappunto (la battaglia e la vittoria).

Il Textus apre il racconto con un recitativo in SOL (Iochor sub aeria) in cui ci narra dello sconforto che prende Re Saul alla notizia che i Filistei stanno invadendo la terra d’Israele, spargendo ovunque sangue e terrore. Segue un’aria (Fata regum) nella quale il narratore riflette sul cupo destino che incombe sul Re: l’aria è bipartita in due strofe (la seconda inizia con Vix in ore) separate da un breve interludio orchestrale e si muove sempre fra SOL maggiore, RE maggiore e SI minore, per poi chiudere sul SOL. Un nuovo recitativo in SOL del narratore (Horruit audita Saul) non fa che confermare lo spavento e i timori di Saul al pensiero dell’arrivo del terribile gigante Golia.

Ora è proprio Saul ad esternare il suo pessimismo e il suo orrore per le razzìe di Golia: lo fa con un lamentevole arioso che si muove inizialmente (Heu perij) tra MI e LA minore, poi (Periere meae) tra FA e DO maggiore e minore. Segue un’aria (Quiquis alta) dove Saul medita sulle inevitabili sventure che attendono chi sale sul trono più alto: la struttura è A-B-A e il tempo è veloce, evocando l’ansia e le preoccupazioni che sconvolgono la psiche del Re; la tonalità di base (A) è FA maggiore, che vira a DO per la seconda coppia (B) di versi (Praecipitium immane) per poi tornare al FA per la ripetizione dei primi due.

Torna adesso Textus con un recitativo (Talia clamanti) che ci notifica dell’arrivo di Ionatha a cercar di rincuorare il padre. La tonalità si muove dal RE minore (relativa del precedente FA) alla sottodominante SOL minore.

Ed ecco appunto Ionatha, che si presenta con un arioso (Fugiat timor) in tempo ternario vivace: il figlio del Re Saul sprizza ottimismo e fiducia nella vittoria della stirpe di Giuda. L’arioso è in MIb, poi nella dominante SIb, quindi nella sua relativa SOL minore, da cui torna al MIb; viene ripetuto pari-pari. Sempre Ionatha prosegue ora con un’aria (Jam veni tu spes) che inneggia alla speranza che infonderà il coraggio nelle schiere ebree, portandole a combattere con l’ardore più pieno. L’aria – una giga con inflessioni di seconda minore di tipo squisitamente napoletano - presenta due strofe (la seconda principia con Tu corda si das) cantate sullo stesso tema, che si muove dal SIb maggiore alla relativa SOL minore, da qui a RE minore per tornare al SIb.

Sull’irruzione di un allegro vivace in SOL maggiore (che modula temporaneamente a RE e SI minore) ecco il breve duetto (di soli due versi) di Saul e Ionatha: il Re (sfiduciato) chiama i suoi alla ritirata (Tuba fugam concrepet), mentre il figlio li invita a battagliare (Tuba pugnam concrepet)!

Ma Saul non cambia atteggiamento e manifesta il suo pessimismo con una nuova aria, lenta e di tono mesto, anche qui con inflessioni napoletane: sono due quartine con ripetizione dei primi versi di ciascuna (Mea Fata, superbi videte e Purpurata si tempore parvo) in cui la melodia principia in DO minore, poi scende alla sottodominante FA minore e (sulla ripetizione dei primi due versi) torna a DO.

Si ripete qui il duetto Saul-Ionatha (Tuba fugam/pugnam) e pare essere il Re ad avere più ascendente sui suoi seguaci, che ora intonano un coro dove esprimono la loro decisione di abbandonare il campo di una battaglia nata sotto cattiva stella e che ora rischia di portare solo morte e lutti. Eamus, fugiamus è l’invito ripetuto insistentemente, che apre e poi chiude il coro (la cui forma è A-B-A), in DO maggiore con passaggi a RE minore e SOL maggiore. I cinque versi del corpo del coro (Mors a tergo) sono trattati a canone stretto, su tonalità continuamente modulanti (proprio a rappresentare lo stato d’animo in perenne agitazione degli Ebrei) da SOL minore a MIb maggiore, SIb, DO, SOL, RE maggiore, poi SI minore e quindi ancora RE maggiore, DO, SOL minore e ritorno al DO per la ripresa dell’Eamus.

Ma a questo punto ecco affacciarsi il protagonista, David, con un recitativo (Quo fugitis?) dove ordina agli uomini di fermarsi, in nome di Dio. La tonalità riprende il DO del coro, poi modula a FA e SIb maggiore, dove si apre l’aria (Verte tela); qui David esorta i suoi ad affrontare il nemico, fidando anche nella buona sorte: una diserzione significherebbe la fine per tutti. Come il precedente coro, anche quest’aria è strutturata in A-B-A: due versi introduttivi (in tempo ternario allegro) ripresi anche dopo l’esposizione dei 4 versi successivi in tempo lento (Fortuna non una). La sezione A è in RE minore, la B ancora una volta modula dal DO al MI e RE minore, ancora al DO e chiude sul LA minore, dominante del RE con cui viene riproposta la sezione A.

Ora si assiste ad una specie di bonario battibecco fra Saul e David. Il Re non dà molto credito al ragazzo, facendogli notare che quando il capo è pavido, i sottoposti non possono essere impavidi; David gli fa notare che essi sono fieri delle imprese del loro capo; Saul lo vuol congedare, ma è David che congeda lui, chiedendo agli Ebrei di ascoltare lui e non il Re! (Saul qui esce definitivamente di scena.) Il dialogo prende la forma di recitativo, che alla fine, sulle parole di David (David audiant agmina) sfocia in un arioso. Da notare la cura che Scarlatti pone nel differenziare il tono dei due: sempre mesto e rinunciatario il Re, spigliato, baldanzoso e… irriverente il giovane. Dal SOL della domanda di Saul (Quis Duce trepidante audet?) si modula al RE della prima risposta di David (Quis tuis triumphis gaudet); SOL che torna sul tentativo di Saul di liberarsi del ragazzo (Eia puer nunc abito) e ancora dopo una breve escursione a RE e LA sulla chiusa di David (Pauca siste).

A questo punto la scena viene monopolizzata da Ionatha e David. Dapprima con un nuovo duetto (O Ionathae spes una David - O regni lux una Ionatha) dove i giovani si esaltano a vicenda nella prospettiva di sconfiggere i nemici e così riportare fiducia e baldanza anche nei loro uomini. Poi con due arie (una a testa) di identico contenuto musicale. La prima parte del duetto (chiusa da Regnante Ionatha - Pugnante Davide) è in tempo lento, si muove da SOL maggiore a RE maggiore, quindi chiude in SI minore: i due si alternano nel canto, salvo cantare insieme il verso centrale (Quis mihi te dat?) La seconda parte (da Abi timor, et recede - Redi fervor, et succede) è in tempo più vivace, dove i due cantano 4 versi a testa in contrappunto; la tonalità si muove dal RE maggiore al SOL della chiusura. Ecco ora le due arie di 4 versi ciascuna (prima Ionatha, poi David) e contenuto assai simile (Age tuba militaris - Age tuba salutaris) che hanno uguale struttura A-B-A e tempo ternario: A copre il primo verso, che verrà ripetuto dopo B, che include i 3 versi successivi; la tonalità parte da DO maggiore (A) poi (B) modula a SOL maggiore per il secondo verso; quindi i due versi successivi sono in MI minore e LA minore, prima della ripresa di A in DO. Dato che le voci dei due sono entrambe di soprano, qui c’è un potenziale rischio di ripetitività stucchevole, che sta alle qualità degli interpreti di minimizzare.

I soldati ebrei sono davvero ringalluzziti! Cantano ora un coro (Vincemus Io vincemus) di soli due versi in tempo allegro, che ha come tonalità fondamentale DO maggiore, con fugaci modulazioni a SOL e RE.

Tornano Ionatha e David con una nuova coppia di arie di testo diverso (In flore labente - Cum sole cadente) e musica identica. Sono in tempo di giga e andamento mesto (con tanto di seconda napoletana) che contrasta con l’ottimismo delle parole, che inneggiano – rispettivamente – alla rugiada che ridà vigore ai fiori e alla luce che scaccia l’oscurità della notte. I versi sono quattro, i primi due (in FA minore) ripetuti dopo gli altri due (che sono nella dominante DO minore).

Sempre i due giovani intonano ora un nuovo duetto (Sic et mortis - Sic in hoste): sono tre versi per ciascuno, prima cantati separatamente (DO maggiore – RE minore) poi in contrappunto ad eco, chiudendo in DO maggiore. Dove troviamo la riesposizione del coro dei soldati Vincemus Io vincemus che conclude la Prima parte dell’Oratorio.

La Seconda parte si apre con una brevissima Sinfonia, poche battute di introduzione, in SOL Maggiore e tempo allegro, al protervo ingresso in scena del gigante Golia, che senza tanti preamboli promette fendenti e frecce per il malcapitato David: lo fa con un recitativo, aperto da un SOL grave del basso (Evaginabo gladium meum) che sull’ultimo verso sfocia in arioso. E sempre in arioso ha inizio un botta-e-risposta fra i due. Dapprima, in RE maggiore, David ribatte (Surgant, opitulentur tibi) alle minacce del nemico, con il cembalo che corona la sua frase con una specie di irridente sberleffo, quasi a volerci rappresentare un David che danza e saltella provocatoriamente attorno allo spaventevole filisteo. Il quale, in arioso sempre introdotto dal SOL grave del basso, ribadisce (Surgam, et lacerabo te) di voler fare un sol boccone di quel ragazzo temerario, quel topolino che osa sfidare draghi e leoni. Ma ancora il cembalo ripete, stavolta in SOL, gli sberleffi di David. Che poi rincara la dose (Non imbelli duello puelli) rispondendo in SI minore (RE maggiore): non sono qui per giocare, ma per combattere seriamente e senza timori.

Golia insiste (Saevo dente) proseguendo sul RE, con un’aria (col da-capo) accompagnata dal violoncello: chi osa sfidare il leone avrà il fatto suo… Sion cadrà a pezzi e andrà in fumo. Ma David è deciso e chiama i suoi a sostenerlo (Cives, Io, date plausum) col suono delle trombe e a preparare corone per i festeggiamenti. La sua è un’aria in 6/8 in SOL maggiore, caratterizzata da veloci e ondeggianti terzine, con modulazioni a RE maggiore, SI minore, ancora DO, prima della chiusa in SOL.

Risponde con un’aria (Philistei, reboate) in tempo ternario anche Golia, che invita i suoi alle armi e invoca al suo fianco gli abitanti degli Inferi. Il tempo è assai agitato, la tonalità di base è DO, ma la melodia è continuamente in movimento, toccando diverse altre tonalità, prima di tornare al DO su cui Golia chiude il suo l’appello con un agitatissimo Ad arma, ad arma, miles, che introduce direttamente (poggiando sul SOL) il successivo coro dei Filistei che rispondono agli incitamenti del loro capo, dialogando con lui. Il tempo è concitato e Golia e Filistei sembrano aizzarsi a vicenda, decisi a colpire, uccidere, disarmare David. Golia e il coro chiudono con la riproposizione del verso Ad arma, ad arma.

Ora Davids espone il suo accorato e fiducioso appello alla forza e alla protezione del Dio d’Israele, che lo aiuti ad abbattere il feroce nemico. Lo fa con un’aria stupefacente (Tu mihi superum) in DO minore, tempo lento, che contrasta fortemente con la protervia del precedente coro filisteo. Introdotta e poi accompagnata dal caldo suono del violoncello, si compone di due strofe di 4 versi, il secondo ripetuto dopo la strofa: la tonalità si muove da DO minore alla relativa MIb maggiore, con inflessioni napoletane.

Il Textus ora ricompare per descriverci direttamente l’esito del duello fra Davide e Golia. Lo fa con un verso in recitativo (Dixit, et excusso montano vertice funda) in SOL che sfocia in un arioso in tempo spedito (Saxo volatili, vulnere orribili) che chiude sul DO. La seconda strofa (Cadit ille) torna in tempo lento e LA minore per chiudere in RE. È curioso che per descrivere la morte di Golia l’anonimo estensore del testo abbia citato alla lettera il verso con cui Virgilio chiude l’Eneide (morte in battaglia di Turno ad opera di Enea):


Ora abbiamo i due cori (Filistei ed Ebrei) che alternativamente, per ben quattro volte, esternano i rispettivi stati d’animo: abbattuto quello di vinti (Heu sodales) in tono ovviamente minore (FA) ed esultante quello dei vincitori (Victoria, victoria) in modo maggiore (SOL). 

Seguono due arie cantate da membri del coro degli Ebrei. La prima (Age terra fortunata) che viene ripetuta due volte e introdotta dal violoncello, è in tempo allegro e si muove dal SOL minore alla relativa SIb maggiore, per poi salire a DO minore e tornare (per la ripetizione del primo verso) a SOL minore. Dopo e due esposizioni la sola orchestra la chiude con una breve cadenza in tempo lento. La seconda è introdotta da un verso in recitativo (Victori redimite) cui seguono due strofe di 4 versi ciascuna: la prima (Deque lauru) si muove dal RE maggiore alla dominante LA e ritorno. Dopo un breve interludio orchestrale, la seconda strofa (Scande regna liberata) dal RE maggiore modula a FA# minore, per chiudere poi in RE.

L’ultima parola è lasciata a David, che chiude l’Oratorio con un’aria costituita da due strofe di 4 versi (Quae gigante pugnante vidistis e Disce verba superba cavere) di cui i primi 2 vengono ripetuti alla fine della strofa. Entrambe sono precedute da una breve introduzione orchestrale. Il tempo è allegro in 6/8 (giga) e la tonalità è SOL maggiore con passaggio intermedio a SI minore. La chiusura è piuttosto sommessa, quasi un andarsene alla chetichella e senza trionfalismi, coerentemente con il testo, che invita ad evitarli e a praticare l’umiltà.
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Ecco, sono 80 minuti di musica di straordinaria fattura, ascoltando la quale si rimane stupefatti della genialità di un compositore che, avendo alle spalle sì e no un secolo di civiltà musicale (Giovanni Bardi è della seconda metà del ‘500) e con scarsissimi mezzi a disposizione, ha saputo anticipare di decenni le successive conquiste di quella stessa civiltà.

Onore al merito quindi per Ruben Jais che ci ha proposto quest’opera con la consueta cura e il massimo rigore, e un plauso a tutti i ragazzi della sua formazione, guidata da Gianfranco Ricci, con 5 primi violini, 4 secondi, 3 viole, 3 violoncelli (il primo in funzione solistica, Marcello Scandelli) 2 contrabbassi e il continuo (armonium e cembalo, Davide Pozzi). 

Insieme al coro doppio (8x2) dell’Ensemble di Gianluca Capuano hanno cantato: i soprani Raffaella Milanesi (David) e Roberta Mameli (Ionatha), il controtenore Filippo Mineccia (Saul), il tenore Mirko Guadagnini (Textus) e il basso Marco Granata (Golia). Mameli e Mineccia (Ionatha e Saul) che sarebbero disoccupati nella seconda parte (stando alla lettera dell’Oratorio) sono invece ricomparsi verso la fine ad interpretare le due arie assegnate dal libretto ad anonimi membri del gruppo degli Ebrei. Tutti hanno ben sostenuto le rispettive parti, con qualche appunto che personalmente muoverei a Mineccia, una vocina assai, troppo, esile, e Granata, poco udibile nelle note gravi (che a 415 Hz sono ancora più gravi!) Su tutti la protagonista Milanesi.

Jais ha voluto chiudere con un doveroso omaggio del coro al grande Christopher Hogwood, scomparso ( 24 settembre) a poche settimane di distanza ( 13 agosto) da un altro benemerito della renaissance del barocco, Frans Brüggen