affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

22 gennaio, 2014

A Bologna il Parsifal truccato da Castellucci


Eccomi a raccontare del Parsifal bolognese. Visto la sera successiva al giorno della dipartita di quel bolognese d’adozione che rispondeva al nome di Claudio Abbado.



Prima dell’inizio, Nicola Sani ha ricordato il Maestro e annunciato un desiderio del nipote, Concertatore di questo Parsifal: un minuto di silenzio prima dell’inizio e nessun applauso nei due intervalli (come del resto si faceva nella Bayreuth dei tempi d’oro).

Lo spazio e il tempo

È davvero deprimente constatare il livello di ignoranza distribuita che caratterizza la nostra civiltà. Ignoranza che si manifesta sotto forma di leggerezza, approssimazione e in sostanza menefreghismo rispetto agli oggetti di cui si deve trattare.

Zum Raum wird hier die Zeit (Il tempo qui si fa spazio). Un verso topico del Parsifal, cantato da Gurnemanz nel primo atto al momento, per lui e per il ragazzo folle, di avviarsi verso il tempio del Gral.

Un verso impiegato proprio da Claudio Abbado a fondamento di un ciclo di rappresentazioni di Parsifal alla Philharmonie di Berlino nel 2001-02 e ripreso sul blog dei suoi fedelissimi. E usato dal Teatro Comunale di Bologna come sottotilolo al volantino elettronico (e anche del libriccino stampato) di annuncio della stagione. Un verso richiamato dal protagonista bolognese di Parsifal sul suo blog, dove ha dedicato a questa produzione una lunghissima e per certi versi illuminante serie di post già in occasione delle recite a Bruxelles).

Notato nulla di strano nella traduzione italiana (e inglese, per Richards) dei tre riferimenti? Il puro e semplice capovolgimento del concetto! Ecco, i traduttori e soprattutto i responsabili delle pubblicazioni di quella scellerata traduzione sono la testimonianza palese della suddetta ignoranza distribuita.  
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Può darsi che Wagner, per la sua allegoria, si sia ispirato ad Eraclito e Parmenide, per cui l’entrata nel Tempio del Gral rappresenta il passaggio dal tempo (il divenire di Eraclito) cioè il mondo sensibile, materiale, prosaico, caduco, allo spazio (l’essere di Parmenide) uno stato definitivo, immobile e ineffabile, dove il tempo si dilata fino a scomparire; in altre parole l’eternità, la trascendenza, il metafisico.

Ma possiamo anche pensare che Wagner abbia anticipato di un quarto di secolo… Albert Einstein!

Kein Weg führt zu ihm durch das Land, und niemand könnte ihn beschreiten, den er nicht selber möcht' geleiten (Al Gral via non è, che conduca attraverso il paese: nessuno mai percorrerla potrebbe, che egli stesso non volesse guidare). Cioè: non ci si muove verso il Gral, ma vi si è risucchiati! E infatti così osserva lo stupefatto Parsifal: Ich schreite kaum, doch wähn' ich mich schon weit (Cammino appena, eppur mi sembra già d'esser lontano). E qui Gurnemanz gli aveva dato quell’apparentemente criptica risposta sul tempo che si fa spazio.

Oggi noi conosciamo il Paradosso dei gemelli (qui, da 4’55”, spiegato anche da Crozza-Zichichi): quello dei due che viaggia ad altissima velocità nello spazio e poi torna sulla Terra è invecchiato meno di quello che se ne è stato in poltrona a casa sua. Perché la teoria della relatività ci spiega che il tempo è una variabile dipendente (dal sistema di riferimento) e che quello del gemello viaggiante rallenta, si dilata. In un certo qual modo si potrebbe dire che per lui – come per Gurnemanz e Parsifal, risucchiati dalla potenza del Gral - il tempo diventa spazio

Ecco un bello spunto per un regista che volesse davvero mostrarci un Parsifal innovativo!
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Invece qui abbiamo a che fare con un Parsifal di cui, per la verità, già si sapeva tutto (a mezzo DVD) a livello di allestimento, ormai… stagionato per ben tre anni, dal debutto nel 2011 a La Monnaie di Bruxelles, accolto mediamente da peana per il regista e da osanna per la direzione musicale. Qui a Bologna il regista è sempre lui, mentre è quasi tutta nuova la compagine dei Musikanten, tranne (per la verità) proprio i due protagonisti.

A leggere come Castellucci ha approcciato Parsifal (lo scritto compare anche sul programma di sala) vengono… i brividi (smile!) Illuminante – ancor più delle Note di regìa - è questa intervista in cui Castellucci racconta la sua vision del dramma. Un put-pourri di banalità, tipo l’opera preferita di Hitler e di idee ardite, tipo il sangue è quello mestruale (certo Wagner in materia era assai più ferrato di Nietzsche, smile!) Poi: Parsifal non è un eroe, perché non fa niente (dimenticando le imprese che il ragazzo compie prima di arrivare a Monsalvat - abbattere giganti, nientemeno! - e soprattutto l’autentica carneficina che il nostro provoca sulle mura del castello di Klingsor!) Poi ecco che il pitone bianco si è mangiato la colomba, con elencazione di tutti i significati del pitone albino nella storia e nell’arte… (peccato davvero che Wagner non ci abbia fatto mente locale – e sì che ha messo una cintura di pelle di serpente addosso a Kundry - ma Castellucci è qui apposta per rimediare alla svista). E poi comico velleitarismo (ho studiato l’opera troppo a fondo…) seguito da involontarie ammissioni (…poi l’ho rivoltata come un calzino). Interpretazioni cervellotiche (Kundry è in grado di guarire Amfortas) e palesi contraddizioni (Kundry cerca sinceramente l’amore di Parsifal e per averlo… lo inganna).

Insomma, eccone un altro che ti dice: Oh, mica vorrai sorbirti per l’ennesima volta quella boiata pazzesca del Parsifal di Wagner! Vieni mo’ qua, che te lo do io il Parsifal giusto! (stra-smile!) Naturalmente nell’intervista ci sono anche considerazioni del tutto condivisibili (e ci mancherebbe anche!) che però all’atto pratico (ciò che si vede in scena) vengono più che altro sconfessate.

Più organiche e strutturate, anche se criptiche la loro parte, oltre che fondamentalmente irrispettose della lettera (come minimo) del dramma wagneriano, sono le considerazioni esposte, sempre sul medesimo documento, dalla drammaturga Piersandra Di Matteo. L’impressione che se ne ricava – e sarà in pieno confermata dai fatti – è di una ossessiva ricerca di un’interpretazione innovativa e, per lo spettatore, stupefacente, del dramma di Wagner. Il che porta ad una fatale sovraesposizione di concetti, idee e persino di simboli, qui introdotti in gran dovizia, dopo aver buttato nel cesso (avendone dottamente teorizzato e giustificato la rimozione!) il Gral e la Lancia, il Cigno e la Colomba: Nietzsche, il pitone, il cerchio-specchio, la bacchetta da Kapellmeister di Klingsor e gli ingredienti venefici da lui impiegati, i kalashnikov imbracciati dalle fanciulle-fiore, le scritte sul muro, le funi rosse (o bianche), l’arbustello del terzo atto, tanto per citarne solo alcuni.

I cardini essenziali del dramma, così come fissati da Wagner, vengono bellamente rimossi se non addirittura sconfessati. Magari per dare il massimo risalto – con trovate spettacolari e intelligenti di per sé – ad aspetti che poco hanno a che fare con l’essenza del dramma medesimo. Siamo sempre lì: il regista, pensando in buona fede di arrecarle valore aggiunto, costruisce una sua personale visione dell’opera, sulla quale poi crea uno spettacolo che magari sarà anche intelligente, coinvolgente, profondo, attuale fin che si vuole.

Peccato che non abbia più nulla a che fare con l’originale. E ciò che viene matematicamente penalizzato in questi casi è in primo luogo la musica. Poiché è musica – oh, parlo ovviamente di Wagner, mica del Rossini degli imprestiti, con tutto il rispetto - composta per il (e cucita su misura del) soggetto originale; e non calza più sul soggetto derivato, anzi spesso e volentieri stride maledettamente con esso. E quando in scena si vede qualcosa che fa a pugni con ciò che si sente, è la rovina. Per quanto bella, affascinante, interessante, intelligente e coinvolgente sia quella vista.

Cerco ora di esemplificare.   
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Comincio dal fondo, perché è l’aspetto più importante della questione, di una semplicità proprio cristallina. Dico: qualunque lettura del testo, anche la più strampalata e ardita, e soprattutto qualunque interpretazione della musica (quelle celestiali 54 battute tutte in maggiore, accuratamente depurate - si noti bene! - da ogni e qualsivoglia precedente traccia di dolore, su cui cala il sipario) indipendentemente da voli di colombe o di cigni o di… pitoni, non può non farci concludere che si tratti di un finale – i cui presupposti sono evidentemente gettati da tutto ciò che precede – di redenzione.  

Dopodichè dietro a quel termine ognuno ci metta pure tutto quel che gli passa per la testa: redenzione dal peccato originale, dal vaticano dello ior, dall’arte degenerata, dal maschilismo o dalla pedofilia, dal capitalismo selvaggio o dal comunismo reale o da alqaeda, dall’alienazione o dal consumismo, da hitler o stalin o berlusconi o... castellucci, o da tutto quer che je pare ar reggista… Ma lo scenario è quello, inequivocabilmente, tassativamente.

Ecco ciò che Wagner scrive (testo, didascalie) da vedersi mentre si odono quelle 54 battute: Raggio luminoso; abbagliante fulgore del "Gral". Dalla cupola scende a volo aperto una bianca colomba, arrestandosi sul capo di Parsifal. - Kundry, lo sguardo levato verso di lui, cade lentamente a terra esanime davanti a Parsifal. Amfortas e Gurnemanz, in ginocchio, rendono omaggio a Parsifal, il quale traccia col Gral un gesto di benedizione sui cavalieri adoranti.

Ora, diciamone pure tutto il male possibile o ridiamoci sopra a crepapelle, ma questa è la conclusione che Wagner dà al suo dramma, punto. Se non ci piace, possiamo benissimo far a meno di ascoltarla, di vederla e di… metterla in scena. Castellucci, che ha sciorinato per quattro ore e passa una magistrale sapienza nell’uso delle luci, ci fa vedere qui l’esatto contrario (a proposito di calzini rivoltati!) di ciò che Wagner prescrive. E non parlo certo della mancanza della colomba (possiamo davvero fare a meno di simboli materiali – pitone compreso! - che generano più equivoci che altro) ma qui abbiamo il palcoscenico che si svuota progressivamente delle moltitudini che lo avevano invaso e piomba nell’oscurità mentre le luci piene si accendono in sala…
  
Parsifal? Lui resta solo come un cane, abbandonato da tutti, per ultima da Kundry: cioè resta lì precisamente come alla fine del primo atto - quando nulla aveva capito di ciò che era accaduto dinanzi ai suoi occhi e Gurnemanz gli aveva dato dell’oco - proprio come se nulla sia accaduto nel frattempo! E ciò mentre dall’orchestra sale quella musica che invece ci dice, con la forza espressiva che solo Wagner sapeva infonderle, che tutto è cambiato, per Parsifal e per l’Umanità! Musica quindi mirabilmente funzionale alla scena così come immaginata da Wagner, musica che diventa invece del tutto incomprensibile se associata a ciò che ci mostra Castellucci.

E quindi chiunque – si chiami pure Castellucci o Bieito o Schlingensief o Konwitschny o Berghaus, tanto per andare un po’ a ritroso nel tempo – mi mostri una conclusione del dramma in termini pessimisti, o addirittura nichilisti, o anche semplicemente qualunquisti o agnostici, ai miei occhi fa la figura dell’emerito ciarlatano. Che pretende di presentarmi, magari ammantandole con ampie dosi di filo-psico-sociologia-un-tanto-al–chilo, le sue concezioni o le sue fisime, o le sue ardite seghe (toh, a proposito di Nietzsche, smile!) mentali. Impiegando alla bisogna – e adulterandola (ops, scusate: de-strutturandola, per rispetto del gergo del moderno Regietheater) – la materia originale che ci ha lasciato il più grande Artista di teatro musicale che la nostra civiltà abbia finora prodotto.   
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Altro esempio illuminante degli abbagli che prende il regista, nella sua smania di mostrarci quelli che per lui (non per Wagner!) sono aspetti del dramma della massima rilevanza, quindi da portare in primissimo piano, è ciò che vediamo nel secondo atto, in particolare in tutta la prima parte.

Anche un ingenuo fa presto a capire che le fanciulle-fiore, e Kundry con loro, rappresentano la mercificazione del sesso e lo sfruttamento delle qualità libido-eccitanti della donna da parte di Klingsor, il mago che le ospita nel suo castello (di menzogne) per usarle a suo profitto. E che per sottometterle possiamo certo immaginare impieghi tutti i mezzi disponibili nel suo laboratorio di mago-alchimista, che Wagner ci descrive sommariamente ad inizio d’atto. Ma domandiamoci: è proprio questa fase, diciamo così, di sadica preparazione delle ragazze al compito che le aspetta ciò di cui Wagner ci vuol parlare qui? È questa l’allegoria sottesa alla prima scena dell'atto? Prima di rispondere leggiamo il libretto ed ascoltiamo la musica. 

Allora: le ragazze-fiore sono sicuramente agli ordini di Klingsor, ma per svolgere un ben preciso lavoro. Quello di adescare e sedurre i concorrenti del loro padrone (i cavalieri del Gral) portandoli a disertare e ad ingrossare le fila del suo esercito, così da indebolire le difese di Monsalvat e consentire al mago di conquistarlo e di divenirne finalmente il signore assoluto. Per questo Klingsor le ricopre di vesti preziose e di inebrianti profumi; e per questo Wagner le riveste di una musica celestiale.

Sono sfruttate da un padrone? Sì, ma in una prigione dorata, dove possono persino godere di una vita affettiva, legate proprio a quei cavalieri da loro sedotti e che adesso sono, come loro, al servizio del loro stesso padrone. Non altrimenti si spiega il loro dolore al vedere i compagni massacrati da Parsifal lungo la sua scalata alle mura del castello; e non altrimenti si spiega il loro iniziale risentimento contro quel ragazzo che ha loro rovinato la… famiglia.

Insomma, qui ci troviamo in una specie di azienda, guidata sì da un pazzoide, il quale però non ha come obiettivo primario ed esclusivo, cioè come fine ultimo, la riduzione della donna in schiavitù, ma la conquista del mercato (comunque lo si voglia filosoficamente intendere) e che a tale fine (demolire la concorrenza) impiega come mezzo un’organizzazione di cui fanno parte (in qualità di sfruttate e sfruttati, certo, come lo sono tutti i lavoratori dipendenti in tutte le aziende di questo mondo) sia femmine che maschi.

Ecco perché Castellucci sbaglia clamorosamente (per me) quando invece pone al centro della sua interpretazione della scena l’esposizione smaccata degli atti di volgare schiavizzazione della donna e lo scempio sado-maso del corpo femminile, sostituendo alle fanciulle-fiore le fanciulle-salsiccia, che lui ci presenta mentre Klingsor - evidentemente dopo averle imbottite di tutte le sostanze venefiche che il regista ci ha elencato (patologie indotte comprese) sul sipario fra primo e secondo atto - le lega e le appende al soffitto della sua macelleria, per organizzarne l’esposizione. Così facendo, Castellucci finisce per perdere di vista il concetto fondamentale che è alla base dell’allegoria wagneriana: la posizione e il ruolo di Klingsor rispetto a Monsalvat e le profonde motivazioni che ne informano le scellerate iniziative. Insomma, vien da pensare che qui il sadico non sia Klingsor, ma… il regista (mega-smile!)

La sua, di Castellucci dico, è una scelta che lo porta contemporaneamente anche a stravolgere in modo intollerabile le caratteristiche estetiche del second’atto: sì, perché affinchè l’azione ammaliatrice e seduttrice di quelle donne possa aver successo è assolutamente necessario che tali femmine vengano appunto vestite e profumate come fossero fiori, proprio come ammaliante e seducente è la musica che le accompagna. Quello in cui Parsifal si avventura deve apparire a lui – e anche a noi spettatori, che pure, a differenza sua, siamo già edotti dell’inganno che vi si nasconde – come un ambiente idilliaco, pervaso da bellezza e amore.  (Solo più tardi anche Parsifal scoprirà che in realtà quella è una trappola gestita da un lestofante, un nemico mortale che si serve anche di donne a lui assoggettate per corromperlo e condurlo a perdizione.) Ma insomma, non è un caso se Wagner pensava ai giardini di Ravello – non ad una sala di macellazione - mentre ambientava questa scena!

Invece Castellucci ci mostra un Parsifal che è sul punto di farsi ammaliare e sedurre dalle orripilanti fanciulle-salsiccia, poi trasformate in marionette nude! Col che la scena scade addirittura nel ridicolo. Peggio ancora quando le fanciulle ritornano armate di mitra! Insomma, ciò che il (vero) mago Wagner ha immaginato e mirabilmente realizzato (soprattutto in musica, lo ripeto!) cioè la presentazione della fallacia del mondo di Klingsor, dove la contraffazione più subdola e l’inganno più bieco si nascondono dietro le apparenze più accattivanti, tutto ciò il regista lo butta nel cesso, presentandoci una scena di iper-realismo tanto crudo e ributtante quanto fuori luogo. Scena che reclamerebbe – e questo è sempre il punto fondamentale, accidenti - il supporto di una musica totalmente diversa

(A merito del regista invece va riconosciuto, e sembra paradossale, che l’immagine più iconoclasta di questa scena - la vagina esposta in primo piano - è proprio quella più pertinente al contesto dell’incontro Parsifal-Kundry.)

A proposito, mentre Kundry bacia Parsifal, che poi si ritrae inorridito, sulla zanzariera passano le immagini di un coito (uno stupro peraltro, direi). Qui abbiamo almeno due interpretazioni: la più banale, che si tratti di un didascalico riferimento (per i disattenti o i non informati) ad un precedente coito, fra la stessa signora e Amfortas. La seconda, ben più importante, che sia la risposta che da 165 anni tutto il mondo aspettava con ansia alla domanda: ma da dove è uscito fuori ‘sto Lohengrin?  

Infine, quello che tutti gli spettatori, anche i più sprovveduti, devono aver capito al volo è come mai, a un certo punto, senza apparente ragione, la macelleria scompaia nel nulla, con tutto il bendidio che conteneva. E questo è il più gran merito dell’eliminazione di tutti i simboli di Wagner…  
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Il primo atto è forse quello meno rovinato, anche se non vi mancano gratuite invenzioni e aperte contraddizioni del testo wagneriano.

Foresta ombrosa e austera, ma non tetra, così Wagner. Beh, Castellucci, in vena di rivoltare calzini, ci mostra un luogo di una tetraggine assoluta, in certi momenti non si vede letteralmente nulla. Gurnemanz&C sono ridotti a cespugli ambulanti, tanto che, a voler fare facili battute, mi vien da pensare che il regista stesse anche mettendo in scena un Macbeth e abbia per errore portato in Parsifal la scenografia predisposta per Birnam (smile!)

Al primo arrivo di Amfortas, portato al laghetto per il bagno ristoratore, Wagner compie uno dei suoi miracoli, legando mirabilmente il tema disperante del dolore (Nach wilder Schmerzensnacht, dopo una notte selvaggia di dolore…) a quello invero sbudellante del radioso mattino che illumina la foresta (…nun Waldes Morgenpracht! la selva, ora, in mattutino splendore!) Ecco, sono meno di due minuti di arte straordinaria, una delle tante perle che Wagner ci offre perché ne possiamo esteticamente e spiritualmente godere. Castellucci? Tutto come prima, fogliame impenetrabile, su cui galleggia un canotto pneumatico che attraversa la scena. Memorabile!

Non parliamo della Verwandlung, con la foresta che si… ritira in tutte le direzioni, rasa al suolo da boscaioli armati di motoseghe che lasciano, invece che il Duomo di Siena, un un letto di foglie e rami per quei quattro sfigati di Gurnemanz&C, mentre sullo sfondo vediamo una volgare raffineria: oh già, parliamo di raffinazione dello spirito! (Però tutti i record son fatti per essere ineluttabilmente battuti, quindi la Verwandlung del terz’atto sarà ancor meglio, stiamone certi!)

Nulla si vede dello scoprimento del Gral, con la scena chiusa da un velone bianco su cui campeggia una virgola, o un apostrofo, o (in notazione musicale) un segno di respiro. Né il Gral si vedrà alla fine, dato che per il regista è una non-cosa, una mancanza, insomma un vattelappesca su cui è meglio non indagare oltre. 
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Una delle conseguenze della visione sostanzialmente pessimistica del regista consiste nel cestinare senza pietà tutta la fondamentale problematica wagneriana (caratteristica non solo del Parsifal) legata alla Natura (hai detto niente!) Dopo le bizzarrìe del primo atto (Monsalvat=Birnam) e lo scempio del secondo atto (Ravello=macelleria) la cosa toccherà il suo zenit nel terzo, al momento del cosiddetto Incantesimo del Venerdi Santo.

Esso viene ridotto - da stupefacente inno alla Natura finalmente tornata ad essere tutt’uno con l’Uomo - ad un’interminabile processione di gente sbandata (Pellizza credo non gradirebbe proprio…) che marcia su un tapis-roulant. Cioè in realtà sta ferma, e si noti bene l’implicazione filosofica della cosa, a proposito di pessimismo della concezione registica e di Paradosso dei gemelli! (Nota tecnica: il nastro che è posto quasi al proscenio e occupa tutta la larghezza della scena, ha solo un paio di metri di profondità, ci camminano massimo, sfalsate, due file di persone, tutte le altre centinaia che stanno dietro si limitano ad agitarsi per simulare la camminata. Chissà chi fa più fatica?)

Sentiamo Parsifal, selon Wagner: (Parsifal si volta e guarda con dolce estasi sulla selva e sul prato, che ora rilucono in luce antimeridiana.) Oh come bello m'appare oggi il prato! Bene io mi trovai tra fior di meraviglia, che intorno a me cupidi s'attorcevan fino al capo; e pure mai io vidi sì mansueti e teneri, fiori e steli in fioritura; né mai così tutto odorò di cara fanciullezza, né così mi parlò intimo e soave!

Capita l’antifona? Qui ci sono i fiori veri, naturali, gli steli in fioritura, altro che le ingannevoli fanciulle-fiore di quel castrato di Klingsor! E Gurnemanz ci aggiunge un’autentica laude alla Natura come parte del creato, agli esseri animati che nascono, crescono e muoiono con naturale innocenza. Ma proprio mentre canta (Wagner) che in quel giorno gli uomini evitano di calpestare erba e fiori, che ti fa, l’ecologista targato Castellucci? Sradica l’unico arboscello presente in ettari ed ettari di deserto per farne una corona d’alloro a Parsifal! (Ma Greenpeace non interviene, dico io?)

Ho già anticipato della seconda Verwandlung, che qui proprio non c’è del tutto, perché surrogata dal protrarsi della finta camminata sul rullo della palestra.

In precedenza, ma solo secondo Wagner, Gurnemanz aveva continuato a parlare a Kundry, che voleva farsi in quattro per Parsifal; persino l’aveva bonariamente rimproverata quando lei aveva recato acqua per rianimarlo; poi entrambi avevano preparato il battesimo di Parsifal, che aveva baciato castamente Kundry, dopo che la donna gli aveva lavato ed asciugato i piedi.

Castellucci? Kundry scompare letteralmente dopo il suo risveglio e la rivediamo solo alla fine, quando passa a salutare Parsifal prima di aggregarsi al gregge che si allontana. Gurnemanz e Parsifal parlano al vento ed accarezzano il vuoto dinanzi a loro, con movimenti mutuati dallo yoga. Insomma: Wagner buttato nel cesso, tutta roba, avrà pensato Castellucci, degna di donnicciuole svenevoli o di novizie al convento.

Eh già, le scorie bigotte che Nieztsche rimproverava al Maestro. Qui invece il più arido qualunquismo anima quelle moltitudini marcianti verso il nulla nel più arido degli spazi urbani cementificati. Ancora una volta: per questa scena servirebbe ben altra musica, capito Wagner?       
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Ora basta buttare in vacca la regìa e parliamo appunto di cose serie: la musica!

In complesso mi sento di dichiararmi moderatamente soddisfatto: la compagnia di canto è di livello più che discreto, da Gábor Bretz, che è un Gurnemanz convincente, forse poco ieratico (secondo i miei gusti) a Detlef Roth, che capitalizza bene la sua dimestichezza con il ruolo di Amfortas, da lui portato anche a Bayreuth. Gradite sorprese (per me che partivo con qualche riserva mentale su di loro) il Klingsor di Lucio Gallo, e la Kundry di Anna Larsson.    

Arutjun Kotchinian cantava Titurel dal suo sarcofago in… loggione e non ha demeritato, come le fanciulle-fiore, a loro volta relegate ai due lati della buca, mentre sul palco si esibivano le… salsicce. Positiva anche la prestazione dei cori di Andrea Faidutti e Alhambra Superchi, peraltro quasi sempre relegati dal regista dietro sipari o quinte.

Roberto Abbado mi pare abbia superato onorevolmente questo difficile battesimo, mutuando ora da Kna (primo atto in particolare) ora da Boulez, così da… stare in media (smile!) A parte le battute, una direzione attenta, con qualche sbavatura sul fronte del fracasso che ha in qualche occasione sommerso le voci. Orchestra forse non al massimo, ma il banco di prova è davvero dei più temibili.
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Considerazioni finali: un grazie grandissimo al Teatro per l'immane sforzo organizzativo messo in campo, un vero miracolo stante la condizione pre-agonica del nostro sistema-cultura. Resta (ma questa è ovviamente la mia reazione personalissima) il rammarico per la discutibilità della proposta artistica.   
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Post scripta.

Ho già scritto anni fa della mia personale vision del Parsifal, e siccome da allora non è cambiata (non c’è riuscito nemmeno Castellucci, a farmela cambiare, smile!) rimando i milioni di curiosi a quel lontano post.

Invece consiglio seriamente a tutti di ascoltare (basta andare sul tubo) la versione in lingua italiana nell’esecuzione di Vittorio Gui del 1950 con l’Orchestra RAI di Roma (è stata anche trasmessa qualche settimana fa da RadioFD). A parte che ci si trova in Kundry una 27enne allora quasi sconosciuta (indovinare chi…) la cosa che sorprende (perlomeno che mi sorprende, essendo personalmente scettico sulle traduzioni, in specie di Wagner) è la qualità assoluta della versione ritmica di Giovanni Pozza, che non toglie nulla alla pregnanza del testo, anzi ce lo rende quasi più caldo e vicino. 

Wagner il saccheggiatore. L’incipit del tema principale di tutto il dramma (l’Agape) viene dal caro genero:

Excelsior, introduzione alla cantata Le campane del Duomo di Strasburgo (1874).

17 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°17

 

Quello che è un po’ il vice di Zhang Xian, il Direttore principale John Axelrod, ci accompagnerà per le prossime due tappe della stagione de laVerdi. Ieri ha diretto la prima delle tre repliche del concerto che mette una vicino all’altra due composizioni che più distanti non potrebbero essere. E distanti non solo e non tanto per data (quasi un secolo, vi pare poco?) ma per approccio, forma e contenuto. Parlo di Richard Strauss e della sua Ein Heldenleben e del Beethoven dell’Eroica

Si dirà: ma come, c’è di mezzo l’eroe in tutte e due, poffarbacco! E addirittura Strauss pensava in origine di titolare il suo pezzo proprio Eroica. Ed entrambe sono in MI bemolle iniziano con le note della triade maggiore! E vi spadroneggiano i corni (come ci ricorda qui uno dei quattro moschettieri de laVerdi, ieri per l’occasione… raddoppiati). Quindi devono per forza essere indissolubilmente legate l’una all’altra…

Beh, effettivamente un legame puntuale c’è, come scopriremo; per il resto personalmente ho l’idea che l’eroe autobiografico dell’opera 40 del birraio (per ascendenza materna) bavarese assomigli assai più al protagonista della sua opera 35, che non a colui cui pensò il genio di Bonn nel comporre la sua Terza. E forse involontariamente fu lo stesso Strauss ad avallare questa interpretazione, sostenendo che DonQuixote si poteva capire solo attraverso Ein Heldenleben (?!) Per la verità lo Strauss che si autocelebra qui é un donchisciotte tutt’altro che sprovveduto e vanesio, anzi molto concreto e pragmatico: certo, se ci domandassimo che posto avrebbe nella storia della musica se tutta la sua produzione si fosse chiusa in quel 1898… non credo lo metteremmo in posizione troppo elevata; ma in che posizione metteremmo il Beethoven del 1804?

Strauss ebbe da subito molti ammiratori incondizionati, sia fra gli intellettuali del tempo (Romain Rolland, tanto per fare un nome) che fra i musicisti, primo fra tutti il dedicatario del poema sinfonico, il (futuro) celebre Willem Mengelberg, di 7 anni più giovane di lui, ma che già da 3 era Direttore del Concertgebouw! Ovviamente non gli mancavano i detrattori, e contro di essi si scagliò musicalmente proprio con l’Heldenleben, mimando la sua titanica lotta contro quei viscidi vermi di critici che si permettevano di irridere al suo genio! Uno dei quali critici, per tutta risposta, uscendo dopo la prima del nuovo (e praticamente ultimo) Tondichtung, sentenziò senza mezzi termini: Das ist kein Heldenleben, sonder ein Hundeleben! (tradotto: altro che vita d’eroe, questa è una vita da cani!) 

Ma lo stesso Mahler, che pure si farà (invano) in quattro in favore della Salome, nel 1901 giudicava il poema sinfonico del suo collega-amico-competitore astruso e banale. Un paio d’anni dopo il compositore olandese Alphons Diepenbrock, alludendo alle finalità venali dell’attività compositiva del bavarese, sentenziò che gli eroi del DonQuixote e di Ein Heldenleben gli sembravano piuttosto dei filistei, collegati col cielo attraverso un telefono interurbano (!)

Detto ciò e col senno di molto poi, si può godere con misurata condiscendenza di questo lavoro magari pretenzioso, dove un compositore 34enne ancora velleitario (la Salome, tanto per dire, arriverà non prima di 7 anni…) si auto-celebra addirittura ricapitolando musicalmente le sue opere precedenti, in sostanza i poemi sinfonici più quel mezzo aborto che ha nome Guntram e un Lied. Ma, appunto, ci fu un poi, e che poi!    
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Il poema sinfonico si articola in sei sezioni, che Strauss in origine aveva numerato e fornito di sottotitoli esplicativi. Numeri e titoli sono poi stati rimossi, ma val la pena ricordarli, poiché ci aiutano ad orientarci nella comprensione del brano:
1. L’eroe
2. I nemici dell’eroe
3. La musa dell’eroe
4. Il campo di battaglia dell’eroe
5. Le pacifiche opere dell’eroe
6. Il congedo dell’eroe dal mondo e il suo compimento.

Cominciamo con una curiosità (solo una coincidenza?) Le prime 5 note ascendenti del tema dell’eroe con cui si apre la prima sezione, suonate guarda caso dai corni (insieme ai violoncelli, per la verità, e in parte anche a contrabbassi e viole) sono precisamente identiche a quelle con cui si fa udire nel corno, dalla battuta 17 del Preludio del Rheingold, il tema dell’alba del mondo:

Sono la fondamentale MIb e i suoi armonici naturali (SIb-MIb-SOL-SIb). Wagner poi procede lungo la triade (MIb) mentre Strauss zompa, prima di Wagner, direttamente al SOL per poi prendere la sua propria strada.

Un messaggio criptico? Un simpatico sberleffo per papà Franz che quelle note dell’odiato Richard (ma perché aveva dato proprio quel nome a suo figlio?) era stato tante volte costretto suo malgrado a suonare? Il nostro che si colloca subito al centro dell’universo? Un mettere le mani avanti in vista dei disinvolti affronti alle sacre regole che stanno per manifestarsi? Forse a noi questi dettagli non dicono nulla, ma a fine ‘800 dovevano avere l’effetto di certi odierni proclami politici di Grillo (smile!)    

Va da sé che un eroe che si rispetti deve avere almeno tre temi (se non addirittura quattro) nel suo… guardaroba, e così Strauss indossa subito anche gli altri due per mostrarceli in passerella. Il secondo tema, proprio ubriacante, è presentato impiegando il trucchetto dell’enarmonia: così il MIb d’ordinanza si trasforma in RE#, mediante del SI maggiore esposto da flauti e violini primi; sotto-sotto però violini secondi e oboi già presentano un altro motivo (che gli analisti aggregano al secondo tema, ma che potrebbe benissimo definirsi come terzo, visti gli sviluppi che avrà in seguito) che dal SI, salendo alla mediante minore, vira al RE maggiore. E subito ecco i clarinetti in SIb (con il corno inglese e le viole) slanciarsi nel terzo (o quarto?) tema, in una tonalità ancora diversa e lontana, LAb maggiore, chiuso da una figurazione marziale che tornerà più avanti (motivo della vittoria!) con grande protervia:


Beh, bisogna ammettere che ormai il futuro portabandiera della musica teutonica sapeva usare alla perfezione tutti gli attrezzi del mestiere. E ce lo conferma subito, sottoponendo i tre temi eroici a sviluppi e modulazioni continue, in un’orgia sonora che pare per la verità l’evocazione di una (donchisciottesca?) sbornia di qualcuno cui il successo ha dato alla testa. La sezione si chiude con un poderoso accordo sulla dominante SIb: qualcosa di importante deve seguirne, per forza…

È la seconda sezione dell’opera, che ci presenta i nemici dell’eroe; sono impersonati da due figurazioni rispettivamente del flauto (cui tengono bordone oboe, corno inglese e poi l’impertinente clarinetto piccolo) e delle due tube (tenore e bassa):


La prima sembra con tutta evidenza l’evocazione di atteggiamenti meschini, di qualcuno che cicaleccia nell’ombra alle spalle dell’eroe; la seconda ricorda manifestamente Fafner, cioè l’ignavia fatta persona! Ecco: sono i critici (quelli che considerano la sua una vita da cani…) capaci solo di sparlare e casomai di invidiare, come dimostra la comparsa del tema dell’eroe, storpiato e parodiato, nel corno inglese.

Questa azione denigratrice si prolunga al punto da provocare vistosi effetti sulla personalità dell’eroe, che ne viene apparentemente fiaccata: il suo tema principale torna infatti in tempo piuttosto strascicato e in modo minore, seguito da motivi che paiono quasi dei lamenti, caratterizzati da intervalli di seconda minore e da un paio di incisi che ricordano nientemeno che Amfortas (ohi, che dolore!) I nemici ringalluzziscono e gli girano il coltello nella piaga, tutto sembra perduto, ma ecco che l’eroe tira fuori le sue risorse più nascoste, il suo tema riprende poco a poco vigore, si oppone sempre più validamente all’azione demolitrice di quelle specie di vermi che vorrebbero mangiarselo e, con un eccezionale colpo di reni, se ne libera vittoriosamente, come ci testimonia la sezione conclusiva del suo terzo tema, che letteralmente esplode nei fiati, adesso nel pieno del MIb:


Scampato il pericolo, nella terza sezione il nostro eroe ci presenta colei che ispira le sue imprese. Che sia per caso una certa Pauline? Beh, possiamo starne certi, già a giudicare dalle indicazioni agogiche apposte sulla parte del violino solista che rappresenta la donna, le quali testimoniano di una personalità non propriamente accomodante… Poi, la piena e definitiva conferma l’avremo 5 anni più tardi, con la Sinfonia Domestica, dove comparirà anche il pargoletto Franz, che ai tempi della composizione di Ein Heldenleben muoveva i primi passi, e del quale il fresco papà evidentemente non considerava opportuna la presentazione in uno scenario… eroico, invero poco adatto ad accogliere prosaiche pappe e pannolini (smile!)

Allora: il tema della musa (in LA maggiore) si presenta così:


Notiamo la terzina alla terza battuta: ci ricorda proprio l’incipit del tema dei nemici! Ohibò, Strauss si cresce una serpe in seno, una nemica in casa? Beh, non è proprio così, ma sappiamo che il buon Richard dovette sudare le proverbiali sette camicie prima di convincere la ritrosa Pauline a convolare a giuste nozze. Anzi, più che sette, le camicie sembrerebbero… 13! Basta all’uopo osservare che il tema virile (all’inizio non è altro che un frammento di quello principale dell’eroe, salita da dominante a tonica) prima di esplodere in tutta la sua ricchezza (la vogliamo chiamare… la capitolazione di Pauline?) in SOLb maggiore, compare ben 12 volte, nelle seguenti tonalità maggiori: SI, LA, SIb, MI, SIb (6 volte, di cui la prima tripla) MI e FA e sempre viene interrotto dai motivi della donna, tendenzialmente posti a tonalità stridenti con quelle degli approcci dell’uomo (!) e caratterizzati sul pentagramma dalle seguenti indicazioni agogiche: languendo farisaicamente, lieto, frivolo, dolce, piuttosto sentimentale, insolente, molto brusco, giocando, amabile, iracondo, dolce e amorevole

Allora, quelle tre note nemiche possono benissimo rappresentare lo scetticismo e il rifiuto di Pauline a farsi accalappiare dall’eroico Richard. Ma una volta risolta la faccenda (e lo sarà per tutta una lunghissima vita!) ecco che le cose cambieranno radicalmente, come vedremo bene fra poco.

Val la pena intanto osservare come alla terza interruzione del tema virile, il violino solista (la musa) introduca (in SOLb, un semitono sopra il FA del tema virile) un motivo (l’agogica qui è voll Sehnsucht, pieno anelito, e subito piuttosto sentimentale) che poi verrà straordinariamente sviluppato – precisamente in SOLb - nella parte culminante di questa sezione del poema sinfonico, di fatto una scena d’amore (la prima notte?) in piena regola:



Si noti come in questa nuova apparizione il tema sia introdotto dall’oboe (l’eroe) e ripreso dal violino (la musa) È come se l’uomo raccogliesse l’anelito espresso in precedenza dalla donna, innescandone tutta la carica sentimentale; insomma, qui si certifica la piena unione fra i due, a dispetto del caratterino di Pauline! E la tonalità di SOLb maggiore è quella in cui poco prima era finalmente esploso (anche nel violino solista!) il tema virile:


Tema subito dopo caratterizzato da una specie di affermazione categorica, che ritroveremo amplificata più avanti, esposta da quasi tutti gli strumenti:


Tema virile che poi si sviluppa ulteriormente, seguito dall’altro, in LA maggiore, della musa, che dopo la fugace apparizione all’inizio della sezione, si sviluppa a sua volta, mutando da impertinente che era prima del matrimonio ad accorato e quasi servizievole:



Esso sfocia nella ripresa in grande stile del tema dell’anelito (la Sehnsucht) esposto, come detto, da oboe e poi violino solista, quindi una seconda volta da clarinetto e violino, tema che si innalza sempre più, accompagnato da ubriacanti glissando delle due arpe, fino a sfociare in una nuova sezione, che sarà di importanza capitale:


L’inciso iniziale, ancora una volta, fa parte del tema della musa, che è anche l’incipit di quello del nemici. Qui però è applicato al rapporto di coppia, come dire: in passato saremo stati a volte in disaccordo, ma adesso siamo uniti (tutto in SOLb maggiore!) e siamo pronti a scalare insieme le vette più alte. Ora una cadenza, sempre nella stessa tonalità, ci fa udire prima clarinetto con oboe e secondi violini, poi corno con fagotti e primi violini esporre un dolce e sognante motivo, contrappuntato dal tema della musa nelle viole, e ci conduce al ritorno del tema principale dell’eroe (corni 3-4 e archi bassi) dopodiché tutto sembra acquetarsi, sulla reiterazione del languido inciso a terzina del tema della musa.

Senonchè, quasi stessero guardando dal buco della serratura, ecco i nemici, i critici rifarsi vivi con le loro maldicenze e destare nell’eroe (ma anche nella sua donna) la decisione di dare battaglia, non prima di un ultimo abbandono amoroso (negli archi).

E la battaglia è protagonista della quarta sezione dell’opera. Da una parte quindi non più un donchisciotte solitario, o al massimo scortato da un obeso scudiero, ma la coppia, ormai affiatatissima, come ci testimonia il contrappunto dei due temi, dell’eroe e della sua Dulcinea-Pauline, che scendono in campo fianco a fianco contro i nemici. I quali da parte loro sono ormai usciti allo scoperto, non si limitano più al chiacchiericcio pettegolo dietro le spalle, ma gridano ai quattro venti i loro insulti e le loro critiche, mobilitando tutte le risorse disponibili!

Sono squilli di trombetta, crudi e dissonanti, a chiamare la battaglia. Ad essa si preparano i nostri due eroi, i cui temi (o gruppi tematici, nel caso dell’eroe) sembrano cercare la massima concentrazione in vista dello scontro. Che è aperto da una colossale rullata di tamburi (piccolo militare, grande a tracolla e gran cassa) su cui la prima tromba staglia perentoriamente le note del tema dei nemici, divenuto qui protervo e smaccato, quanto invece è raggiante, aereo e davvero eroico il tema della musa che, insieme a quello poderoso dell’eroe, nei corni e poi nei tromboni, gli si oppone: potenza dell’espressività musicale, che da un’unica cellula è in grado di sviluppare letteralmente dei mondi diversi!

La parte principale della sezione è occupata dal contrasto fra i temi eroici (in archi, quello della musa, nei corni tipicamente quelli dell’eroe) e il tema dei nemici (nella tromba, col sostegno di un autentico putiferio negli strumentini). La battaglia alla fine si conclude come vuole il lieto fine: il motivo della vittoria si impone una prima volta, poi si ripete, ma preceduto e poi contrappuntato da quello della musa, adesso dilatatosi al massimo grado, soprattutto nei tre corni. Qui solo due righi che mostrano la compresenza dei due temi:


La coppia eroe-musa ha fatto piazza pulita di tutti gli avversari e adesso un perentorio ritorno (variato) di quell’inciso che aveva caratterizzato l’esplosione del tema virile nella sezione precedente suggella la vittoria:


Il tema principale dell’eroe è adesso padrone del campo e di dispiega con grandiosità, imboccando poi una cadenza che lo lega mirabilmente alla seconda sezione di quello della Sehnsucht, che a sua volta si dilata a dismisura, prima di tornare all’intreccio fra il tema dell’eroe e quello della musa. Il quale connubio sfocia in un nuovo motivo, in SI maggiore, che chiuderà la sezione con successive ondate:


Segue ora la parte più smaccatamente pubblicitaria del businessman Richard Strauss: già, perché nella quinta sezione del poema sinfonico il nostro ci sciorina un vero e proprio campionario illustrato della sua mercanzia, una specie di playlist ante-litteram di motivi tratti da sue opere precedenti.

Sono gli spettacolari corni di DonJuan ad introdurre il… catalogo, subito seguiti da un altro motivo dello stesso poema, contrappuntato da uno di Zarathustra. Il tema dell’eroe torna qui, quasi a voler chiedere: visto di cosa sono stato capace?

Ma dopo una languida cadenza delle due arpe, chi si rivede (anzi, si risente)? I nemici, i Fafner nelle tube! Che sembrano sbadigliare borbottando: ma è tutto qui quel che hai nella tua bisaccia, eroe da strapazzo?

E allora l’eroe ha uno scatto, dapprima sembra frustrato, forse deciso a mandar tutti a quel paese: lo sentiamo da frammenti di un tema, già comparso nelle esternazioni (5a e 8a) della musa nella terza sezione, di cui non abbiamo parlato a suo tempo, per dargli spazio più avanti, quando tornerà in un ruolo fondamentale. Anticipiamone però almeno il nome: è il tema del ritiro.

Ma è solo un attimo di scoramento, perché subito il nostro eroe risponde ai critici con la calma di chi si sente sicuro (il suo terzo tema, che si libra nei fiati cullato dalle arpe) sciorinando a più riprese il resto della sua produzione: Tod und Verklärung, DonQuixote, ancora DonJuan, Macbeth, Till, temi da Guntram e una citazione di Traum durch die Dämmerung, un Lied di cui udiamo (in clarinetto basso, tuba tenore e viole e nella stessa tonalità di FA# maggiore) l’incipit della seconda strofa, Durch Dämmergrau in der Liebe Land, un testo richiamato qui non casualmente, stanti i riferimenti del Lied alla… donna più bella!

Mirabile l’abilità di Strauss di far dialogare questi frammenti, che si contrappuntano quasi naturalmente, accompagnati a ritorni del tema dell’eroe e a quello della virilità, prima che l’esposizione dell’album sonoro si concluda con il motivo della musa, ampio, nei violini, a contrappuntare i corni di Zarathustra. 

La sesta sezione, quella conclusiva, è introdotta da una cadenza che sembra rappresentare l’attesa del nostro eroe per gli effetti di quella specie di arringa con la quale ha creduto di poter convincere i critici con una montagna di argomenti più che concreti. Ma costoro possono mai farsi convincere? Indovinate qual è la loro reazione di fronte all’impressionante mole di opere che l’eroe gli ha sciorinato in faccia: sempre esattamente la stessa, scuotimenti di testa (quella sbifida terzina…) e poi sbadigli à la Fafner di sufficienza e di indifferenza!      

E allora l’eroe sembra davvero perdere la pazienza: tornano, per tre battute, frammenti del tema del ritiro, poi sono pezzi del tema dell’eroe (lo spezzone discendente, soprattutto) ad occupare le successive 38 battute, assumendo una forma invero arrabbiata, invadendo con la loro collera tutte le sezioni dell’orchestra. Dopo questo sfogo, l’eroe pare proprio disgustato ed abbattuto: il suo tema sembra quasi afflosciarsi a poco a poco, fino a morire sotto lugubri rintocchi dei timpani.

Poi, sbollita la rabbia, torna il sereno: sono 24 battute dominate da una melopea del corno inglese, che espone la sezione ascendente del tema principale dell’eroe e poi si sofferma su una lunga serie di terzine bucoliche (Rossini, Berlioz, Wagner…) mentre i violini anticipano il tema del ritiro, con una inflessione che ricorda il tristaniano Ach, Isolde!

Ed ecco arrivato finalmente il momento di parlare del ritiro, le dimissioni dell’eroe dal mondo. Torniamo quindi per un attimo alla terza sezione del poema, al momento del quinto (poi dell’ottavo) approccio del tema virile, dove la risposta della musa ci anticipa il motivo che adesso diventa centrale:

 
Là era in LAb minore, qui è nel più puro e naturale dei MIb, quello che è proprio dell’eroe (notare le due battute segnate in rosso):


Ecco, ora attenzione a ciò che si ode nelle viole in corrispondenza di quelle due battute del tema (e anticipato nella battuta precedente dai violoncelli):

 
A proposito di Eroica! Una scopiazzatura, che dico, proprio una fotocopia di un frammento del prometeico tema del Finale!

Ma non è ancora finita, poiché anche dimettersi costa fatica, soprattutto se l’opinione pubblica imperversa con le sue critiche e i suoi lazzi: sentiamo in effetti un'autentica bufera abbattersi sull’eroe, con tuoni e fulmini e folate di vento, mentre le sferzanti terzine dei nemici si fanno udire nelle trombe.

Il tema eroico sembra volersi ancora opporre ai nemici con piglio dongiovannesco, ma subito è la musa a placarlo, quando nei violini torna il suo tema che dal LA maggiore scende progressivamente al MIb dell’eroe. Qui ascoltiamo una specie di ninna-nanna, dolcissima, anche in corni, fagotti, clarinetti oboi e archi bassi:


Torna poi il motivo che aveva caratterizzato la chiusura della quarta sezione, adesso più tranquillo, nel primo corno, poi il violino solo cadenza ancora sul MIb dove ripropone (sognando, dice l’agogica) il primo frammento della seconda sezione del tema della Sensucht, poi sono tutti gli archi, divisi, a supportare il corno che porta languidamente alla conclusione: mentre il violino si tace, è la tromba, che tanto spesso aveva dato voce ai nemici, ad intonare adesso, scalando con solenne dignità i primi armonici di MIb, il tema dell’eroe, su cui chiudono, insieme ai tocchi delle percussioni, tutti e soli i fiati.   
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Ecco, si potrebbe dire che in Ein Heldenleben Strauss abbia anticipatamente descritto la sua intera parabola esistenziale! Certo, purtroppo per lui in seguito le disgrazie non arrivarono solo o tanto dall’atteggiamento dei critici: dovette passare attraverso due guerre e il nazismo, soffrire (meritatamente?) la povertà materiale e le umiliazioni della de-nazificazione, e il suo ultimo saluto all’Eroica fu la… marcia funebre (contrappasso alla sua spavalda decisione di escluderla a suo tempo dal poema!)

Ma la vita gli riservò comunque un finale non disprezzabile, a fianco di Pauline, mano nella mano, Im Abendrot, ad aspettare serenamente la Verklärung, dopo l’ineluttabile Tod. E persino alle sue esequie, mentre il suo corpo veniva trasformato in cenere, il suo spirito potè ancora ascoltare le strepitose note del finale del Rosenkavalier!
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Axelrod è partito, mi pare, un po’ con il freno a mano tirato: le prime tre sezioni hanno peccato forse di mordente, compreso l’esplodere (qui un filino moscio) del tema virile a coronamento della corte a… Santaniello, per parte sua davvero impeccabile nei panni della musa!

Poi le cose sono decisamente migliorate, specie la sezione delle reminiscenze. Da incorniciare il finale, da emozione pura.

Dopo l’orgia sonora del poema straussiano, a Terza beethoveniana ci appare come una sinfonia di Haydn (smile!) Del resto un’impressione analoga avrebbe avuto nel 1804 chi avesse ascoltato, dopo l’Eroica, che so, una sinfonietta di Johann Stamitz!

Però l’Eroica è sempre l’Eroica e l’unico pericolo che corre oggi è di essere suonata con approccio per così dire routinario. Cosa che per fortuna non fa Axelrod, che ce ne dà una lettura asciutta e senza fronzoli, per restare in casa Verdi potrei dire… à la Xian. La marcia funebre mi è parsa spiccare in modo particolare, in certi momenti per tensione quasi espressionista. 

Ovazioni per tutti e ripetute chiamate per il maestro texano, ormai milanese d’adozione.

15 gennaio, 2014

La cavalleria della rosa alla Scala

 

Daniel Harding torna alla Scala per dirigervi - invece del tradizionale dittico Cavalleria-Pagliacci come fece pochi anni orsono (per la verità fu un Pagliacci-Cavalleria…) – un miscuglio di balletto e teatro, assortito con chissà quale criterio, sia di struttura che di contenuti. (O forse più che di un criterio si è trattato di un semplice default pagliaccesco, quando si trattò per Lissner di annunciare la stagione?) 

 

In effetti i due movimenti di ballo e Cavalleria si accompagnano proprio come i classici cavoli a merenda. Per par-condicio bisognerebbe infliggere agli abbonati della stagione di balletto una serata, che so, con Coppelia introdotta da Erwartung (smile!)  

 

Sia come sia, ieri sera il teatro era desolatamente semivuoto, persino nei loggioni…   

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Le spectre de la rose (anno domini 1911, esordio a Montecarlo) ha in sottofondo un curioso intreccio di rimandi a catena, graficamente rappresentato nella figura seguente:



L’ispiratore del balletto della compagnia di Djaghilev (coreografo Fokin e star Nijinsky) fu lo scrittore Jean-Louis Vaudoyer, grande amante della danza, che pensò di festeggiare il 100° anniversario della nascita – 1911 - di Théophile Gautier (del quale era pure ammiratore) con la proposta di un soggetto ballettistico incentrato su una lirica del poeta: si trattava per l’appunto di Le spectre de la rose, poesia pubblicata all’interno della collana intitolata La Comédie de la Mort et poésies diverses, finita di comporre giovedi 25 gennaio 1838 all’una di pomeriggio (come scrisse il poeta in calce al testo, aggiungendovi anche Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volonta’…)

Quel testo, probabilmente noto a Hector Berlioz (amicissimo di Gautier) assai prima della pubblicazione, fu musicato, insieme ad altri cinque della stessa origine, dall’autore della Fantastique all’interno della collana di sei Lieder intitolata Nuits d’été e pubblicata nel 1841 per voce e pianoforte (e più avanti orchestrata). I sei titoli sono (tra parentesi gli originali di Gautier):    

1. Villanelle (La villanelle rhythmique)   
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes (La chanson du pêcheur)
4. Absence
5. Au cemetière (Lamento)
6. L’ile inconnue (Barcarolle)

Chi però si aspettasse che il legame con il balletto immaginato da Vaudoyer passi da qui resterebbe deluso, chè quel legame passa sì attraverso Berlioz, ma un altro Berlioz, quello che poco dopo le Nuits orchestrerà una composizione per pianoforte di Carl Maria von Weber, vecchia di 22 anni: si tratta del walzer Aufforderung zum Tanz, che il futuro autore del Freischütz aveva composto nel 1819 come Rondò brillante (in RE bemolle maggiore) e che Berlioz, incaricato di una rappresentazione della celebre opera romantica nel 1841 a Parigi e dovendo a tutti i costi (come da disciplinare tecnico del Teatro) infilarci un balletto, aveva all’uopo trascritto per orchestra, trasponendolo nella più facile tonalità di RE maggiore. Qui un’interpretazione del venerabile Kna, che peraltro sembrerebbe una parodia in tono leggero della marcia funebre di Titurel (stra-smile!)

Proviamo ora a chiederci se esista (e se sì, quale sia) un qualunque nesso fra la trama (per così dire) del poema di Gautier e la musica di Weber-Berlioz.

Dunque: Gautier fa parlare in prima persona una rosa (meglio, il suo spettro…) che si rivolge alla ragazza che la recava sul seno la sera prima, ad una festa da ballo. Una rosa, colta ancora imperlata di rugiada, che per tutta la serata ha avuto il privilegio, invidiato persino da sovrani, di avere come tomba il solco intermammario (! gorge …Berlioz userà più pudicamente il termine seno) di una bella donna. E il suo spettro – sembra una minaccia, o è una dolce promessa? – avverte che tornerà ogni notte a danzare per colei che fu causa della sua morte. Ma a cui non chiede in riparazione né messe, né de-profundis… perchè viene direttamente dal paradiso.

Weber? Beh, anche lui ci spiega qualcosa del suo Rondò brillante: in particolare commenta battuta per battuta l’Introduzione (Moderato):

1-5: il cavaliere invita la dama al ballo
5-9: la dama risponde evasivamente
9-13: il cavaliere rinnova più pressantemente l’invito
13-16: la dama accetta
17-19: il cavaliere inizia una conversazione
19-21: la dama interloquisce
21-23: il cavaliere parla con maggior calore
23-25: i due si intendono
25-27: il cavaliere le si rivolge riguardo al ballo
27-29: la dama risponde
29-31: i due prendono il loro posto
31-35: si mettono in attesa dell’inizio della danza.

Qui inizia la danza, il rondò vero e proprio: Allegro vivace A – B-B1-B2 – A – C-C1 – D(Vivace)-D1 – B(A tempo)-B3 – A – B-B1-B4 – A(Coda).

Al termine della danza (Moderato) il cavaliere ringrazia la dama, lei ricambia e infine i due ritornano ai rispettivi posti.

Beh, difficile davvero trovare un nesso puntuale fra la poesia di Gautier e il programma di Weber, se si esclude il generico riferimento ad una festa danzante.

Evidentemente Vaudoyer, con un procedimento mentale che gli esperti del ramo definirebbero di lateral thinking, deve essere partito da Gautier per risalire a Berlioz e da qui, dopo aver scartato il Lied delle Nuits come manifestamente inadatto ad una scena di balletto, deve essere approdato alla trascrizione berlioz-iana del ballo di Weber.

In ogni caso, a parte la quasi totale gratuità del nesso testo-musica, la coreografia di Fokin (o Michel Fokine, come da sua francesizzazione) è davvero intrigante: ecco qui una sua moderna realizzazione, del tutto fedele all’originale, incluso il finale… balzo nel vuoto (da 8’40”) con cui più di un secolo fa il grande Nijinsky aveva lasciato letteralmente di stucco gli spettatori monegaschi.   
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Appena-appena più lineare fu il percorso di gestazione de La rose malade, la cui ispirazione venne a Roland Petit all’inizio degli anni ‘70 (1973 per la precisione) dalla poesia The sick rose di William Blake.

Nelle due strofette si narra di una rosa che nottetempo è stata attaccata da un virus, un microscopico verme che con il suo oscuro e segreto amore la corrode irrimediabilmente, fino a distruggerne la vita. Dietro ci si può leggere l’allegoria del rapporto fra amore carnale e morte della purezza, o addirittura la condanna puritana (siamo a fine ‘700 in Gran Bretagna…) dell’amore sessuale tout-court, che porta con sé i rischi di gravi e mortali (ed ereditarie) malattie: la sifilide, nientemeno! (beh, se è per quello anche oggi c’è qualche simpaticone che minaccia AIDS persino da un bacetto innocente…)     

La musica si era già interessata a questo testo nel 1943, allorquando Benjamin Britten lo aveva impiegato per il terzo dei sei brani (incapsulati fra un Prologo ed un Epilogo strumentali) della sua Serenade per tenore, corno solista ed archi, precisamente col titolo di Elegy, un Andante appassionato in MI minore-maggiore.

Evidentemente Roland Petit, che non poteva certo ignorare Britten, deve aver rinunciato ad impiegarne la musica per diverse ragioni: la presenza del canto ed anche la brevità (appena poco più di 4 minuti) oltre che la problematica adattabilità a farci sopra un balletto. Così si indirizzò sull’Adagietto della Quinta mahleriana, che grazie a Visconti proprio allora spopolava con il suo rimandare al morboso soggetto erotico-epidemico (sì, vabbè, colera invece di sifilide…) di Thomas MannQui un’edizione del 1978 con la leggendaria Maya Plisetskaya.
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Gli spettatori, come detto, erano pochini, ma son bastati a rovinare i due finali dei balletti, con applausi abbondantemente anticipati: la chiusura dell’Aufforderung si è quasi totalmente persa, così come è… morto anzitempo il morendo mahleriano, che il povero Harding ha continuato pietosamente a dirigere fino in fondo.  

Saldato il debito col balletto e pagato il pedaggio (erano ambientati sullo svincolo di un’autostrada!) ai latitanti Pagliacci… eccoci a Cavalleria. Nell’ormai lontano gennaio 2011 lo spettacolo non (mi) era dispiaciuto, a dispetto di qualche genialata di troppo di Martone. Il quale per questa ripresa mi pare abbia cambiato poco o nulla, quindi mantenendo anche quei particolari che francamente mi avevano lasciato perplesso, come la sequenza delle tappe percorse da Alfio la mattina del giorno di Pasqua: uscita di casa di buon’ora, sosta al bordello e quindi toilette dal barbiere (!?)

Avrei definito encomiabile la direzione di Harding se non si fosse lasciato prendere la mano in un paio di momenti topici, girando al massimo la manopola del volume, col risultato di coprire le voci (colpa anche delle voci? sì, ma ciò non scagiona il Kapellmeister…)

Santuzza è Liudmyla Monastyrska: che ha sfoggiato il suo vocione enorme, già udito tempo fa, ma con migliori risultati, in Abigaille.

Jorge De León ha la parte di Turiddu e direi che non se la cava per nulla male. Però, accipicchia, perché lo stornello in siculo glielo fanno cantare in Largo Cairoli?

Valeria Tornatore impersona una Lola senza infamia e senza lode: la sua canzoncina almeno si sente: evidentemente, a differenza di Turiddu, era appena dietro le quinte a cantarla.

Vitaliy Bilyy è un Alfio così e così, mi è parso anche un filino stonato, in certi passaggi del suo cavallo scalpitante.

Unica supersite del cast del 2011, la Lucia di Elena Zilio: il pubblico l’ha gratificata forse più degli altri.

Bene il coro di Casoni, che ha dato il suo contributo ad una serata tutto sommato – fatte salve le riserve sul palinsesto – abbastanza godibile… diciamo come tante altre di tanti teatri di provincia.