intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

28 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano 24-25.1

L’onore (e l’onere) di dare il via alla stagione 24-25 in Auditorium spetta a Luigi Piovano, primo violoncello della prestigiosa SantaCecilia, ma anche ormai direttore affermato (fu già protagonista bifronte qui in Auditorium nel novembre 2022).

Auditorium ieri sera purtroppo assai scarsamente popolato, anche se da un pubblico che ha manifestato un entusiasmo inversamente proporzionale alla consistenza numerica! 

Programma di musiche tutte (più o meno) ispirate all’Italia, a partire dall’impegnativo Primo Concerto di Camille Saint-Saëns, che l’Italia aveva visitato in giovinezza (Firenze) circa 15 anni prima di comporre quest’opera (che è del 1872). Piovano ha ormai con questo concerto una grande dimestichezza. Qui lo vediamo – da molto lontano… - in un’esibizione nel sol levante del 2015)e qui nel 2022 nelle prove di un concerto a Salzburg dove ha presentato un programma simile a quello odierno (Scozzese invece di… Italiana). 

Ebbene, ieri ci ha sciorinato tutto il suo bagaglio di virtuosismi, ma anche di portamento e rigore interpretativo, valorizzando al massimo le peculiarità di questo difficile Concerto, che è una vera miniera di innnovazioni rispetto agli schemi classici (come cerco di sintetizzare nelle brevi note all’ascolto in Appendice).  

Quindi meritato trionfo per lui, che ringrazia pubblico e Orchestra e, insieme agli archi, ci regala un'appendice di Saint-Saëns, con un’ispirata interpretazione del celeberrimo Le Cygne dalla Grande fantaisie zoologique, Poi, richiamato da insistenti applausi ritmati, si esibisce in un lamento suonato e… cantato.     

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A seguire la rossiniana Ouverture da L’Italiana in AlgeriChe si potrebbe definire un Concerto per orchestra con oboe obbligato! Nella fattispecie l’obbligo è caduto sulle labbra di Luca Stocco, che ha guadagnato così, per sé e per gli altri strumentini protagonisti, applausi ed ovazioni ben meritate. 
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Ha chiuso la serata la celeberrima Italiana di Felix MendelssohnPiovano, che ha sempre diretto senza partiture sotto gli occhi, ne ha dato un’interpretazione davvero… mediterranea, senza risparmiarci una sola nota (alludo al da-capo del primo movimento) di questo lavoro che trascina sempre l’ascoltatore al massimo dell’entusiasmo. Insomma, per il selezionato pubblico di ieri, una gran bella serata. Chi può, ha ancora modo di goderne domani pomeriggio!
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Appendice. Il Concerto di Saint-Saëns.

È un’opera che rompe con gli schemi formali tradizionali per portarsi – à-la-Liszt - su una forma ciclica, dove la classica struttura tripartita – pur permanendo - viene abilmente dissimulata e arricchita con il ritorno, appunto ciclico, del tema principale del Concerto:

Seguiamo queta pregevole esecuzione di Rostropovich con Giulini sul podio della London Symphony.

20”. Attacco violento della prima parte (Allegro non troppo, in forma sonata) con esposizione del tema ricorrente, più volte ripreso in tonalità diverse dal solista e poi dai legni (56”) e ancora dagli archi (1’08”) e nuovamente (1’26”) dal solista. Che propone poi (1’51”) il secondo tema, canonicamente più elegiaco. I legni (2’21”) tornano sul primo tema, poi il solista percorre un ponte che lo porta (2’42”, Animato) ad un passaggio virtuosistico in doppia corda, sfociante in un tutti orchestrale (3’06”, Allegro molto) che chiude l’esposizione. Sviluppo e ripresa si fondono in un unico passaggio, aperto dal solista (3’38”, Tempo I) con il tema ricorrente, seguito dal secondo (4’36”) ora assai arricchito.

Praticamente senza soluzione di continuità attacca (5’47”, Allegretto con moto) la seconda parte del Concerto. È un Minuetto esposto inizialmente dai soli archi, cui segue (6’43”) il solista che espone un controsoggetto in contrappunto al tema. Il Minuetto prosegue ancora con questo dialogo e si chiude (8’29”) su un virtuosistico accelerando del solista, chiuso da quattro trilli. Ecco ora (8’41”) quello che si può definire il Trio, esposto ancora dagli archi e poi arricchito dal solista.

Sorpresa: manco a dirlo, ecco (10’46”) il primo oboe riproporre il tema ricorrente, poi imitato dagli archi. Infine (11’16”) è il violoncello solista che ci conduce fino all’attacco (11’52”, En peu moins vite) della terza parte del Concerto.

La forma qui pare quella di un’aria o romanza d’opera, e poi di un recitativo. È sempre il solista a proporre dapprima un tema nobile e ispirato, subito ripreso e condotto fino ad un’esplosione dell’orchestra (13’04”) che su un ritmo puntato innesca un dialogo con i virtuosismi del solista. Il quale (13’50”) si imbarca in due drammatiche cadute seguite da altrettante ripidissime risalite. Poi l’orchestra (14’16”) riprende il suo ritmo puntato e ci porta, rarefacendo l’atmosfera, melodrammaticamente, ad un secondo tema (14’47”) una specie di recitativo assai ampio e articolato, esposto ancora dal solista.

Chiuso il quale (16’04”) tocca all’orchestra introdurre un nuovo vertiginoso peregrinare del violoncello, che poi (16’48”) ci ripropone il primo tema, ripreso altre due volte, intercalato da incisi degli strumentini.

Si arriva quindi (17’56”, Più Allegro, comme le 1° m!) all’inevitabile ritorno del tema ricorrente, ora però affidato all’orchestra (archi e fiati che si alternano).

Ci si avvia alla conclusione (18’13”, Molto Allegro) con l’intera orchestra che riprende il robusto Allegro molto che aveva chiuso l’esposizione della prima parte per innescare l’ultimo intervento del solista (18’42”) che si congeda con una nobile cadenza, prima degli undici schianti finali dell’intera compagine.


27 settembre, 2024

La nuova Orontea della Scala.

E così ieri sera abbiamo potuto finalmente goderci questa Orontea di Marco Antonio Cesti che mancava dai cartelloni del Teatro dal lontano 1961.

Una produzione da promuovere a pieni voti (personalmente avrei aggiunto anche il pomposo maxima cum laude se fossero stati evitati i tagli). Giacchè Giovanni Antonini e Robert Carsen hanno messo tutta la loro esperienza e consuetudine con l’opera barocca per confezionare uno spettacolo invero coinvolgente, giustamente apprezzato con entusiasmo dal pubblico scaligero. O almeno da quella parte (pochi ma buoni?) rimasta sino alla fine…

La vicenda è opportunamente portata fuori dal tempo e dallo spazio del testo di Cicognini, per sottolineare l’attualità dei sentimenti che muovono i diversi personaggi, pulsioni che sono le stesse oggi (a Milano!) di quelle di lontane epoche storiche. Scene e costumi (di Gideon Davey) sono perfettamente funzionali a questo approccio. Efficace (come sempre) la gestione delle luci (di Carsen e Peter van Praet).

La scena (poggiata sull’ormai immancabile supporto rotante) consente i rapidi mutamenti richiesti dal vorticoso svilupparsi dell’azione: si passa dalla galleria d’arte con letto centrale (per ospitare  Orontea in crisi dopo il colpo di fulmine e poi le effusioni di Silandra e Corindo) e le feste che chiudono il primo e l’ultimo atto; per passare successivamente allo spoglio atelier (dove Alidoro dipinge Silandra, con ciò che segue); o all’ufficio di rappresentanza della Regina (con skyline della moderna Milano); e ad un parcheggio sotterraneo per gli incontri Aristea-Giacinta. 

In questo ambiente si muovono i personaggi, tutti perfettamente centrati sulle rispettive, diverse caratteristiche psicologiche e comportamentali dall’esperta mano del regista. Masse di figuranti riempiono le scene di… bevute e festeggiamenti.
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Torno ancora sulla questione tagli: quello dell’intero Prologo (che fu riscritto da Apolloni proprio per Cesti - che lo ricoprì di mirabile musica - in sostituzione dell’originario di Cicognini) e che serve a creare le premesse a ciò cui si assisterà proprio nella primissima scena dell’atto iniziale. Filosofia e Amore ne sono i due protagonisti e, in senso lato, rappresentano le posizioni divergenti di Orontea e Creonte.

Francamente inspiegabili poi i corposi tagli inflitti alla parte del personaggio buffo di Gelone: nell’atto primo, scena 7, scompare la sua risposta prosaica al nobile inno all’amore di Corindo, e con essa si perde questo vivace contrasto di sentimenti; nella scena 13 è cassato un suo gustoso intervento (Ah, scelerato) nel dialogo con Tibrino; nel second’atto sono interamente soppresse le scene 15 e 16, dove Gelone è spassoso protagonista, dapprima narrando un suo sogno e poi scoprendo Alidoro svenuto (dopo lo scontro con Orontea e Silandra); nella scena 7 del terz’atto è soppresso il suo divertente Balordo è chi non sa… (subito dopo è tagliata l’esternazione di Corindo).

Alidoro viene privato (atto primo, scena 10) della seconda strofa della sua esternazione dopo il suo secondo incontro con Orontea.    

A Silandra viene tolta (atto primo, scena 11) l’ultima strofa del suo incontro con Alidoro, prima del conclusivo a due, dove lei ammette di aver avuto altri amanti (Corindo, ndr) ora scordati dopo aver incontrato lui.

Davvero inspiegabile anche il taglio della seconda delle tre strofe (Adorisi sempre) di Orontea (atto 2, scena 1).

Nella scena 7 del second’atto è omessa una parte del dialogo fra Aristea e Giacinta, con le profferte della prima e i dinieghi della seconda; Giacinta è privata (atto 3, scena 10, Infelice cor mio) dei rimorsi per aver attentato alla vita di Alidoro, di cui ora è innamorata! Subito dopo è Aristea che perde la sua esternazione (Il pianto, i sospiri…) sulla maggior efficacia dell’oro rispetto all’amore! Poi, nella scena 12, dopo la sua dichiarazione ad Alidoro, Giacinta è privata delle due strofe finali, con il suo accorato Il mio ben dice ch’io speri…

Insomma, per questa nuova e importante produzione si poteva osare di più (imitando Jacobs e Bolton) anche a costo di anticipare l’orario d’inizio dello spettacolo alle 19:30 (tanto chi poi si annoia, se ne va ugualmente…) [Il prossimo, intonso Rosenkavalier inizierà, giustamente, alle 19!]
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Sul piano musicale, convincenti le scelte di strumentazione di Antonini (dove l’Autore lascia ampia libertà di approccio al Direttore) volte a garantire perfetta udibilità dell’orchestrina (20 elementi in tutto) nell’immenso spazio del Piermarini.

Tutti da elogiare i membri del cast vocale.

Stéphanie d’Oustrac si cala perfettamente nella personalità dissociata (sicura > insicura > innamorata > gelosa > irosa) della Regina, cui dà la sua voce con tutta la necessaria varietà di accenti.

Carlo Vistoli è un perfetto Alidoro: narciso, sciupafemmine, incostante, cinico, è il naturale contraltare dell’insicura Orontea (che si merita proprio un marito come lui!)

Mirco Palazzi riveste della sua corposa e morbida voce di basso il personaggio di Creonte, una specie di Mazzarino, o di Richelieu, cocciutamente legato alla Realpolitik.

Francesca Pia Vitale è l’interprete ideale (per la voce sempre ben proiettata e per la presenza scenica davvero… ehm… stimolante) per il volubile e un po’ carognesco personaggio di Silandra. E, analogamente alla coppia Orontea-Alidoro, anche l’ingenuo Corindo di Hugh Cutting sembra proprio fatto apposta per accoppiarsi con quell’incostante ragazzina un po’ viziata.

Marcela Rahal (cui manca solo qualche decibel) si è ben calata nella parte della babbiona assatanata di sesso, anche lei perfettamente accoppiata con l’enigmatica e subdola Giacinta (opportunamente travestita da easy-rider) che Maria Nazarova ha interpretato con verve e bella voce squillante.

Luca Tittoto è stato un Gelone praticamente perfetto, e proprio per questo non avrebbe meritato tutti i tagli che lo hanno… mutilato! Con lui, Sara Blanch è stata un convincente Tibrino, suddito fedele, valletto, aspirante guerriero e, chissà, pure lui (lei) colpito/a dal fascino di Alidoro.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutta la compagnia di musicanti. Su Carsen e i suoi due soci è piovuta qualche sporadica contestazione, ma ampiamente sommersa dai consensi.

25 settembre, 2024

Nuovo appuntamento con il Barocco alla Scala: L'Orontea.

La terzultima offerta operistica della Scala per il 23-24 (prima dei botti finali con Strauss e Wagner…) è riservata ad una nuova proposta barocca: L’Orontea di Marco Antonio Cesti (messa in scena originariamente ad Innsbruck, 1656). La nuova produzione (la precedente, in quel salotto poi mandato in vacca che si chiamava Piccola Scala, con Bartoletti-Squarzina e la leggendaria Berganza, risale al 1961!) è affidata alla solida coppia formata dallo specialista Giovanni Antonini e dal creativo Robert Carsen: ci sono quindi tutte le premesse per uno spettacolo di alto livello.

Venerdi 20 settembre il foyer Toscanini ha ospitato un interessante convegno sull’opera, introdotto e moderato da Raffaele Mellace, con autorevoli interventi di Lorenzo Bianconi (che già nel lontano 1982 aveva scritto l’introduzione alla registrazione di Jacobs) che ha inquadrato la figura e l’opera di Cesti nel suo tempo (Monteverdi, Cavalli…); di Paolo Fabbri, che ha proposto un’articolata esegesi dell’opera; di Davide Daolmi che ne ha esemplificato, con ascolti, i fondamenti musicali. È intervenuto anche il Direttore Antonini per spiegare l’approccio alla concertazione dell’opera, dove il concertatore è chiamato a mettere parecchia farina del suo sacco, stante l’essenzialità (canto e continuo, e poco più…) di ciò che si ritrova sui righi vergati dall’Autore.

Altre interessanti considerazioni di Antonini e Carsen riguardo i tratti salienti (musicali e registici) dell’opera sono pubblicate sulla Newsletter di Settembre del Teatro.  

Chi vuol prepararsi adeguatamente alla visione, o rinfrescarsi la memoria, può trovare in rete almeno due registrazioni di alto livello: quella già citata, che ha fatto epoca, di Jacobs del 1982 e quella più recente (2015) di Bolton. La durata netta supera le 3 ore (Jacobs) ed è di 2h55’ (Bolton). Assai interessante è anche questa produzione australiana del 2022, nonostante sia sfregiata da varie sforbiciate, soprattutto negli atti 2 e 3 (2h30’).

A proposito di tagli, il sito del Teatro annuncia una durata netta di 2h33’ (48+48+57 minuti) quindi paragonabile a quella della citata produzione australiana, di 35’ e 20’ più breve delle registrazioni di Jacobs e Bolton. Stando al libretto pubblicato sul sito, essi riguardano: l’intero Prologo (quindi non vedremo né Filosofia, né Amore, perdendoci così un pertinente riferimento a ciò che seguirà immediatamente dopo). Poi alcune esternazioni del gaudente Gelone (distribuite nei tre atti). Nel second’atto l’aria Adorisi di Orontea, uno scambio di battute Aristea-Giacinta e le intere scene 15 e 16 (Gelone, Alidoro, Orontea). Nel terz’atto, oltre a Gelone (Scena 7) parte del monologo di Giacinta (Scena 10, Infelice cor mio) e la conclusione del monologo di Aristea (Scena 10, Il pianto, i sospiri) oltre all’esternazione di Giacinta (Scena 12, Il mio ben…)

Un maligno può pensare che questi tagli servano più che altro a far terminare lo spettacolo ben prima di mezzanotte e/o a rispettare vincoli di natura sindacale…
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Il soggetto (già un paio di volte musicato da altri a Venezia e Napoli, prima della proposta di Cesti a Innsbruck, e successivamente ancora a Vienna e Chantilly) si deve all’Academico instancabile D. Hiacinto Andrea Cicognini (testo modificato e completato poi per Cesti da Giovanni Filippo Apolloni). Ci racconta una storia semiseria ambientata in Egitto, avente per protagonista nientemeno che la Regina (Orontea, appunto). Che ci viene subito presentata come una Turandot ante-litteram: una femmina frigida e totalmente chiusa ad ogni sentimento o contatto con l’altro sesso.

Ma che – al contrario del dramma pucciniano - si tratti di cosa assai poco seria lo scopriamo ben presto: non appena le viene presentato un bel giovine pittore (Alidoro), povero migrante rifugiato laggiù dalla Fenicia e scampato ad un tentato omicidio, la gelida Orontea non solo si sgela sull’istante, ma è già bell’e che cotta a puntino! E, dopo aver esternato sorpresa e insieme disagio per ciò che le sta accadendo, si dichiara senza pudore innamorata del ragazzo, suscitando le ire dell’aio e confidente Creonte, che la vorrebbe sposa ad un sovrano.

Naturalmente accadranno poi lungo le tre ore dell’opera mille altre peripezie, in particolare un turbinio di improvvisi amori, disamori e riamori, innescati dal fascino irresistibile che Alidoro esercita su ogni fanciulla del circondario (oltre che sul giovane Tibrino, soprano en-travesti, suo salvatore). Principalmente su tale Silandra, che per lui (che ne è ben felice) pianta in asso, appena dopo un romantico duetto, il promesso Corindo, provocando le ire della gelosa Orontea che la sorprende con il bel pittore e passa subito dall’amore all’odio per il fedifrago, facendo però così scoprire all’ignara Silandra il parallelo legame di Alidoro con la Regina. 

La quale cambia di nuovo idea e lascia ad Alidoro una lettera traboccante d’amore e con la promessa di farne il suo consorte! Alidoro esulta, lasciando l'illusa Silandra (ubi major…) con un palmo di naso. Ma è il severo Creonte che ora impone alla Regina di cacciare il giovane amante; e lei stavolta, sia pur a malincuore, inspiegabilmente acconsente; il beffato Alidoro allora prova a consolarsi ricorrendo al back-up Silandra, che però adesso lo maledice a sua volta, come fedifrago, per poi tornare mogia e pentita dal suo Corindo! 

Alidoro suscita allora l’interesse della bella Giacinta, interpretata da un soprano ma travestitasi da bel ragazzo (Ismero) che si scopre fosse il responsabile dell’attentato al pittore. La quale Giacinta è a sua volta fatta oggetto delle attenzioni (qui si anticipano problematiche LGBTQ+@#§%$&£...) dell’attempata Aristea (sedicente madre di Alidoro) interpretata da un tenore (peraltro alla Scala sostituito da un mezzosoprano)!

Il tutto condito poi da scenette da puro avanspettacolo, protagonista Gelone, vecchio epicureo perennemente ubriaco, che commenta insieme a Tibrino gli avvenimenti d’attualità con salace distacco. 

Si dovrà necessariamente aspettare la fine del terz’atto per gustare il definitivo scioglimento, in gloria e felicità per tutti, di questo dramma giocoso: quando un’improbabile catena di indizi, messi in fila da Creonte (fattosi anche investigatore alla Sherlock Holmes) dopo il ritrovamento di alcuni ritratti di Alidoro, permetterà di riconoscere nel povero migrante un nobile di alto lignaggio (figlio nientemeno che del Re dei Fenici) e degno quindi di impalmare la Regina!
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Ecco, un plot che non poteva non colpire l’immaginazione del pubblico del 17° secolo. Ovviamente anche per merito della musica di Cesti. Che ci apprestiamo a godere da domani sera.

19 settembre, 2024

La farsa di Rota chiude in bellezza il suo ritorno in Scala.

Ieri sera il Piermarini (pubblico non oceanico) ha ospitato l’ultima recita de Il cappello di paglia di Firenze, ritornatovi dopo ben 26 anni (1998, Direttore Campanella, regìa di Pizzi e Florez protagonista).

Questa produzione è affidata all’Accademia scaligera e dà quindi l’opportunità di mettersi in mostra a cantanti, coristi e strumentisti di belle speranze. E la farsa di Rota si adatta perfettamente a questo scenario.

Opera composta nel primo dopoguerra, in piena temperie da Neue Musik, da un musicista 34enne che rimase sempre testardamente legato alla tonalità, diventando quindi beniamino del pubblico normale, e bersaglio di lazzi e sberleffi da parte dei bidelli di Darmstadt. Ma in definitiva il tempo, essendo galantuomo, ha dato ragione a lui!

Donato Renzetti – non per nulla dirige stabilmente la Filarmonica Rossini di Pesaro! – è proprio il Direttore più adatto a cogliere i sotterranei (ma anche espliciti) richiami di Rota alla tradizione sette-ottocentesca, trasmettendoci tutta la freschezza e la poesia di questa partitura. E i ragazzi in buca lo hanno lodevolmente assecondato con una prestazione spumeggiante.

Lo stesso dicasi per il Coro di Salvo Sgrò, super-impegnato nelle folli peregrinazioni per Parigi e dintorni, cui è involontariamente costretto dall’imperativo categorico del povero Fadinard: trovare a qualunque costo il maledetto cappello di paglia!

Il cast vocale (che ha previsto nel corso delle cinque recite sette avvicendamenti, su 12 interpreti) era lo stesso della prima del 4/9 con l’unica eccezione di Anaide. E devo dire che tutti hanno mostrato ottime qualità vocali ed efficace immedesimazione nelle caratteristiche dei personaggi. Merito sicuramente di Renzetti e Acampa. Sarebbe ingeneroso per tutti stilare classifiche e assegnare voti, per cui mi limito – come del resto ha fatto il pubblico entusiasta alla fine dello spettacolo - ad accomunare tutti in un incondizionato elogio.
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L’allestimento di Mario Acampa - coadiuvato dalla scena rotante di Riccardo Sgaramella, assai adatta ai continui mutamenti di ambiente, dai simpatici costumi di Chiara Amaltea Ciarelli, dalle luci di Andrea Giretti e dalle coreografie di Anna Olkhovaya – sposta l’ambientazione in avanti di un secolo, portandoci più o meno all’epoca della prima rappresentazione della farsa (1955).

Inoltre, l’intera vicenda è vissuta come un sogno di Fadinard, povero e bistrattato garzone di bottega nella cappelleria E.Rota&Fils, che deve subire un paio di round di boxe contro il violento Emilio, che, come si dice in gergo, con un paio di cazzotti ben assestati lo manda nel mondo dei sogni! Dal quale si risveglierà proprio sulle ultime battute dell’opera, nelle braccia della sua amata Elena. Tutto ciò ci viene spiegato da Acampa nelle note sul programma di sala, ed esplicitato a scanso di equivoci con una grande scritta su uno striscione issato sopra la scena del ring.

Mah, diamo atto al regista di aver provato a metterci del suo, anche se la ri-ambientazione temporale e la trasposizione onirica sono merce ormai quasi abusata. La prima toglie francamente un po’ di rilevanza proprio all’oggetto del titolo, così centrale nell’ambiente retrivo della nobiltà parigina dell’800, ma francamente trascurabile e ininfluente in quello assai più aperto e disincantato del mondo di 70 anni fa, dove non era certo un cappellino a certificare fedeltà o infedeltà coniugali… Quanto al riferimento onirico, beh, va considerato che il genere farsa (al quale l’opera appartiene in tutto e per tutto) già di per sé comporta aspetti di irrealismo, inverosimiglianza, improbabilità e stranezze, senza doverle necessariamente spiegare con il ricorso al sogno. Insomma, tutto lo spettacolo girerebbe comunque a meraviglia anche senza questa impostazione originale!

E così infatti è stato: un vortice (la scena che si nuove come l’elica di un frullatore) che non dà mai un attimo di respiro e segue alla perfezione lo scorrere caotico di questa pazza giornata parigina. Scena che consente al regista anche di mostrarci dettagli che il libretto lascia solo immaginare, tipo le continue effusioni erotiche dei due amanti peccatori (Emilio-Anaide) mentre stazionano nell’appartamento di Fadinard.

Lascio da ultimo l’epocale diatriba sul famigerato verso È una negra! che il protagonista pronuncia nel terz’atto per convincere il cornificato Beaupertuis che non è sua moglie quella che staziona a casa sua. Ecco, già nella produzione del 1998 la frase era diventata È una scimmia! (il che sarebbe pure quasi peggio); ora abbiamo invece È un fantasma! Insomma, anche in Italia siamo ormai arrivati a ridicole censure…   

Ma in conclusione: una bella festa di giovani promesse della lirica, uno spettacolo godibilissimo e una produzione fra le migliori della stagione.

18 settembre, 2024

Chailly e i Gurre alla Scala

Ieri sera la Scala - affollata, ma non proprio esaurita - ha ospitato il terzo ed ultimo dei concerti dedicati da Riccardo Chailly alla riproposta dei monumentali Gurre-Lieder di Arnold Schönberg (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) che non risuonavano nel teatro da più di 10 lustri (Mehta, 1972 e 73). Da parte sua, Chailly ci ha lasciato una pregevole registrazione dell’opera, datata 1990 a Berlino.

Per l’occasione, al Coro della Scala (Alberto Malazzi) si è aggiunto quello – altrettanto prestigioso – della Radio Bavarese (Peter Dijkstra).

Le voci protagoniste erano Andreas Schager (Re Waldemar) e Camilla Nylund (Tove), affiancati da Okka von der Damerau (Waldtaube), Michael Volle (Bauer e Sprecher) e Norbert Ernst (Klaus Narr). Come si vede, un cast davvero di prim’ordine.
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È lo Schönberg che transita dal tardo-tardo-romanticismo (1900, stesura originaria della composizione) verso l’atonalità (1911, completamento della strumentazione).

Il soggetto, tripartito, basato su poemi del danese Jens Peter Jacobsen, presenta, dopo un’introduzione strumentale, un primo ciclo di 9 Lieder (regolarmente alternati per la voce maschile di Re Waldemar e quella femminile della piccola Tove, di cui il Re è follemente invaghito) che sembrano seguire il modello della grande scena d’amore Tristan-Isolde, e si chiudono con presentimenti di morte.

Dopo un nuovo interludio, ecco l’esplosione del dramma: una colomba (Waldtaube) annuncia – nel 10° Lied - la morte violenta di Tove per mano della gelosa regina Helwig.

La seconda parte, relativamente breve, consta di un unico Lied cantato da Re Waldemar, che impreca contro Dio per il tremendo dolore che gli è stato inflitto con la morte dell’amata.

La terza parte (La folle caccia) ha un sapore misterioso, onirico e (salvo un siparietto buffo) parecchio truce, per poi sfociare in un finale ottimistico. Waldemar (Lied 1) richiama dalla tomba i suoi guerrieri, per marciare su Gurre. Un Contadino (Lied 2) si prepara al peggio, paventando distruzioni da parte di quelle orde. I Guerrieri di Waldemar (Lied 3) si preparano alla caccia selvaggia. Re Waldemar (Lied 4) crede di vedere la povera Tove in ogni angolo: bosco, lago, stelle e nuvole. È il suo autentico delirio d’amore.

Klaus, il buffone (Lied 5) ricorda a sua volta il passato e si augura che nel giorno del giudizio il Creatore lo chiami lassù…  Re Waldemar (Lied 6) sfida ancora Dio a tenerlo separato dalla sua Tove: non accetterà che lei finisca in Paradiso, e lui all’Inferno! Al levar del giorno i guerrieri di Waldemar (Lied 7) si preparano a tornare nelle tombe.

Un lungo interludio evoca ora la folle caccia del vento estivo. Tutta la natura ne è sconvolta, come ci descrive il Recitante (Lied 8). Poi il giorno si fa largo, e i fiori tornano ad aprirsi!

La chiusura è riservata al Coro misto (Lied 9) e al suo inno al sole.     
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Schager e Nylund – non a caso apprezzati Tristan e Isolde nelle recenti recite della Handlung wagneriana sulla verde collina – hanno dato vita ad una prima parte assai coinvolgente, ricca di pathos, in piena integrazione spirituale (ed erotica, va detto…) con la natura circostante, romanticamente amica, complice e protettrice dei loro impulsi amorosi.

Molto efficace il Lied della von der Damerau, che ha drammaticamente evocato la devastante atmosfera seguita alla scoperta della morte di Tove.

Con lei ha sciorinato tutte le sue eccellenti qualità vocali ed espressive il grande Michael Volle, altrettanto convincente come Singer che come Sprecher. Norbert Ernst ha messo la sua chiara voce tenorile al servizio dello stralunato buffone Klaus.

Impeccabili i cori della Scala e della Radio bavarese, che hanno suggellato, nella terza parte, una prestazione complessivamente memorabile, grazie all'Orchestra e a Chailly, che ha guidato tutti con l’autorità e l’autorevolezza che ne contraddistinguono la consuetudine con questo repertorio.

Esito a dir poco trionfale!

16 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano. Concerto inaugurale 24-25.

Anche quest’anno si è rinnovato il tradizionale appuntamento de laVerdi con la Scala, per l’apertura della nuova stagione. Su podio - per la prima volta, dopo tre presenze (19-21-23) al Piermarini come solista al violino - il nuovo Direttore Musicale, il vulcanico Emmanuel Tjeknavorian (30 anni non ancora compiuti!) viennese di origini armene e figlio d’arte (papà Loris è pure direttore).  

Sala piacevolmente affollata. Presenti in platea Riccardo Chailly, Direttore Onorario dell’Orchestra e mentore del suo giovane successore; e Ruben Jais, ex-Direttore Generale e Artistico, che ha introdotto Tieknavorian nell’ambiente prima di passare al più alto incarico di Sovrintendente della Toscanini di Parma.

I primi due brani del concerto sono stati scelti da Emmanuel in ricordo di quelli del suo primo podio (calcato a 17 anni, in un ospedale di Vienna!)

Si parte con Dmitri Shostakovic e la breve Ouverture Festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione. Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto nel 1954, quindi parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Inizia con 26 battute di solenne fanfara introduttiva di trombe, corni e tromboni (Allegretto, 3/4, LA maggiore) cui seguono i due temi dell’Esposizione (Presto, 4/4 alla breve): il primo è assai spiritato, nella tonalità d’impianto, esposto inizialmente dai clarinetti, subito raggiunti dai flauti, poi ripreso dagli archi.

Dopo un moderato ritorno della fanfara il primo tema viene ripetuto e infine sfocia nel secondo che, scolasticamente, è nella dominante MI maggiore. È un tema che giustamente contrasta con il primo anche nell’andamento, più sostenuto e severo, esposto da corni e celli e ripreso ancora dagli archi.

Si passa quasi subito, dopo breve transizione, alla Ricapitolazione: al primo tema in LA ecco seguire, secondo i sacri canoni codificati nell’800, il secondo, adeguatosi ossequiosamente alla tonalità del primo.

Arriva poi la Coda (Poco meno mosso, 3/2) sul Tema della fanfara Introduttiva; e infine la vorticosa Stretta finale (Presto, 4/4 alla breve) sul secondo tema assai accelerato.

Davvero un brano trascinante, assai utile per scaldare i motori di Orchestra e… pubblico che non risparmia applausi a tutti.

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La Seconda Sinfonia in RE maggiore di Beethoven (1800-03) ci riporta proprio agli anni in cui la forma-sonata, timidamente sbocciata nel Settecento, si faceva largo come struttura portante di movimenti di Sinfonie, Quartetti e Concerti. Sinfonia che meriterebbe miglior fama di quella che le si attribuisce, in quanto pari, da chi considera capolavori solo le sinfonie dispari

E invece Tjeknavorian ce ne ha sciorinato tutte le interessanti qualità, che già il pubblico delle prime esecuzioni aveva chiaramente percepito, rimanendone allo stesso tempo ammirato e disorientato.  

Insomma, un’opera che supera di slancio le fanciullaggini (copyright Berlioz) della Prima per inoltrarsi verso il futuro dell’Eroica!

A partire dall’introduzione lenta (Haydn faceva ancora scuola, in quegli anni…) che mostra però arditezze prima sconosciute, come la modulazione a SIb o la perentoria figurazione in RE minore a 11 battute prima dell’Allegro on brio, che anticipa addirittura i precipizi della nona!

L’Esposizione ci presenta il primo tema, in RE maggiore, dapprima nervoso e poi sfociante in maschie e decise cascate di accordi in staccato; dopo una divagazione a RE minore, gli fa da contraltare il secondo, nella dominante LA maggiore, che principia con leziosità femminile e tono scanzonato (come vorrebbe la tradizione) ma poi mostra a sua volta un suo lato più serioso e impegnato. Una cadenza in cui tornano lacerti del primo tema chiude l’esposizione.

Dopo la ripetizione (che Tjeknavorian ha lodevolmente rispettato) ecco lo Sviluppo, dove i due temi ricompaiono variati, in particolare il primo, in SOL minore, fugato, e poi il secondo che viene ora esposto nella sottodominante SOL maggiore; quindi il primo porta alla Ricapitolazione, con il secondo che si adegua al RE maggiore. Un’insolitamente corposa Coda, quasi un nuovo sviluppo del primo tema, conduce alla perentoria chiusura.    

Mirabile la resa del successivo Larghetto in LA maggiore, un movimento solo apparentemente settecentesco, lezioso e disimpegnato, con struttura bitematica (LA e MI maggiore, con soggetto e controsoggetto) in forma-sonata – esposizione-sviluppo-ripresa-coda - ma nel quale Beethoven innesta idee che lo proiettano decisamente nel futuro. Il Direttore sembra centellinarlo proprio come si fa con un vino pregiato, facendocene gustare e apprezzare ogni sfumatura.

E poi lo Scherzo, in RE maggiore, di per sè una sconvolgente novità – scalzare il Menuetto! - per quel periodo. Forse per questo Beethoven non ha poi esagerato con eccessive bizzarrie (un paio di modulazioni a SIb minore e DO, ma anche il Trio resta in RE maggiore) per sfogare poi tutte le sue energie nel concitato Allegro molto, sempre in forma-sonata, RE e LA maggiore.

Tjeknavorian – che ha diretto tutto il concerto a memoria, chiaro segno della cura dedicata allo studio e alla scrupolosa preparazione - ha dimostrato di padroneggiare il brano alla perfezione, ottenendo un meritato successo da un pubblico davvero tutto per lui.

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Chiusura travolgente con la famigerata Quarta di Ciajkovskiuna Sinfonia che l’Autore stesso caricò, con le sue esegesi, di significati e contenuti francamente discutibili; e che potrebbe facilmente portare un giovane entusiasta a strafare, esaltandone l’esteriorità, la retorica e l’enfasi. Ma il simpatico Emmanuel ha mostrato di essere già più maturo di tanti colleghi più navigati di lui, misurando ogni passaggio con meticolosa attenzione: dalle sonorità abbaglianti degli ottoni nei movimenti esterni, alla composta liricità dell’Andantino, con la stupefacente irruzione di clarinetti e fagotti nel Più mosso che ne anima la parte centrale; all’altro lancinante contrasto (nello Scherzo) far il sotterraneo pizzicato ostinato degli archi e l’impertinente ingresso dell’oboe (Meno mosso).  

Insomma, una lettura convincente, coniugata con una piena sintonia fra podio e orchestra: tutti tesi come un sol corpo (e… anima!) per emozionarci una volta di più.

Il pubblico ha congedato tutti con ovazioni e applausi ritmati. Ecco, come esordio, dal Direttore Musicale non ci si poteva aspettare di meglio!


02 settembre, 2024

Chung e gli olandesi a Rimini.

La serie dei Concerti Sinfonici della 75ma Sagra Musicale Malatestiana è stata aperta ieri sera, nella monumentale cornice del Teatro Galli, dalla prestigiosa Concertgebouworkest diretta da Myung-whun Chung.

Ad aprire il programma è stata eseguita l’Ouverture del Freischütz di Carl Maria vonWeber, un’opera che deve essere assai cara al Maestro coreano, che ne diresse l’ultima apparizione alla Scala, nell’ottobre del 2017.

Si tratta di una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, incentrato sulla lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nell’arcano scenario della natura, a sua volta splendente, maestosa oppure oscura e minacciosa.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada alla seducente melodia in DO maggiore dei quattro corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. Essa si chiude però in modo minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

Compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando dal DO minore, che aveva occupato la scena, alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi, è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato dalla pia Agathe, e la sua nobile aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare il DO minore, con il truce motivo di Caspar, poi ricomparire Agathe, ora in SOL maggiore, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora al DO minore dei motivi di Max e Caspar, e poi ancora alla sinistra presenza di Samiel.

Dopo un drammatico, interminabile silenzio, una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, adesso in forma enfatica e trionfale, poi ancora ripreso a chiudere in gloria.

Strepitosa invero, e accolta da un uragano di applausi, l’esecuzione dei tulipani, che Chung ha guidato con il suo proverbiale (apparentemente distaccato) atteggiamento ascetico.

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Avrebbe dovuto toccare ad András Schiff di sedersi alla tastiera per interpretare quello che è comunemente ritenuto il più difficile dei cinque concerti beethoveniani: l’Op.58, in SOL maggiore. Purtroppo, il pianista ungherese ha dovuto dare forfait per improvvisa indisposizione, e così il suo posto è stato preso da un conterraneo del Direttore, il trentenne Seong-Jin Cho, vincitore nel 2015 del più prestigioso concorso pianistico del pianeta, quello intitolato a Chopin

E lui non ha mancato di dare la sua impronta fin dalle cinque battute con le quali si apre – nel silenzio generale – questo autentico capolavoro.

Per poi farsi un pisolino mentre l’orchestra suona da sola (per 68 battute!) i temi principali dell’esposizione.

Da qui però il simpatico quanto riservato Seong ha avuto modo di inebriarci con il suo tocco delizioso, facendo sgorgare dallo strumento mirabili cascatelle di note, culminate nella massacrante cadenza dell’iniziale Allegro moderato. Quasi espressionista la resa del centrale Andante con moto, e nuovamente liquido il conclusivo Rondò, che Chung ha accompagnato evitando eccessiva enfasi.   

Gran trionfo per lui, che ringrazia suonando, anzi sognando, un (Kinder) Schumann!

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Chiusura davvero in bellezza con Brahms e la sua ultima Sinfonia, l’Op. 90. Che Chung cesella da par suo, coniugando la severità del burbero amburghese con il suo confuciano distacco.

Ovazioni per il Maestro e per tutta la splendida Orchestra, che ci mandano a nanna (…) con un altro Brahms: la prima Danza magiara!