intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

30 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 10

Come da tradizione, l’ultimo concerto dell’anno prende anche per l’Orchestra Sinfonica di Milano (aka laVerdi) il nome di Concerto-di-Capodanno ed è come sempre dedicato alla Nona beethovenianaA dirigerlo il sempre più lanciato Thomas Guggeis, già protagonista (in streaming, allora, con la Terza) del capodanno di due anni fa.

Auditorium praticamente esaurito e trionfo annunciato per tutti: in primis il giovanissimo Direttore, che ad ogni ricomparsa convince sempre di più, per l’autorevolezza degna di un veterano e il lavoro di cesello sulle parti più sensibili dell’opera (mi riferisco in particolare all’Adagio-Andante, invero una fucina di emozioni); poi al grandioso Coro, diretto da un altro giovane, Massimo Fiocchi Malaspina; ai quattro solisti, tutti all’altezza del compito: Senn e Kallenberg, impeccabili nelle loro parti proibitive; e le due voci femminili, Engebretson e Cirilli, sempre svettanti nelle impervie scalate cui le costringe il Ludovico.

E, naturalmente, l’Orchestra, praticamente perfetta in tutti i reparti, dal Konzertmeister Dellingshausen alla timpanista Mologni.

Ripetute chiamate e applausi ritmati hanno sottolineato questa pregevole serata di musica.

Visto che siamo al nuovo anno, colgo l’occasione per pubblicizzare il link già da qualche tempo presente nella colonna sinistra del blog (contenuti selezionati, in progressivo arricchimento) proponendo alcune mie considerazioni e curiosità sulla Nona.

Con ciò: buon 2023 (che… fate voi… ce lo mandi bbuono!)

16 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 9

Come il precedente, anche il 9° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano è aperto da Mozart, per poi essere seguito da un’originale proposta di teatro musicale: Wagner!

Sul podio dell’Auditorium fa il suo esordio il 45enne Pablo Heras-Casado, il che spiega il perché del Wagner in programma: il prossimo 25 luglio 2023 il direttore andaluso scenderà (primo spagnolo nella storia) nella fornace dell’Orchestergraben di Bayreuth per dirigervi (a 141 anni di distanza dalla prima) l’opera inaugurale (e quindi più importante) dell’edizione 111 del Festival, che il nostro sta quindi cominciando a preparare per tempo!   

Però si comincia col Teofilo e la sua Sinfonia n. 38 K 504, detta Praga perché presentata all’inizio del 1787 nella capitale ceca, che pochi mesi dopo avrebbe portato alla luce il capitale Don Giovanni. Sinfonia che – a dispetto dei tre soli movimenti, mancando del Menuetto – è assolutamente innovativa, nella forma e nella sostanza, avendo ben poco da invidiare al terzetto delle ultime!

Heras-Casado ne ha ben messo in evidenza le qualità, a partire dal solenne e quasi bombastico Adagio introduttivo in stile haydn-iano dal quale esplode poi l’Allegro che presenta – in luogo dei classici due temi della forma-sonata - dei gruppi tematici e dei motivi che animano poi lo sviluppo e la ripresa. Analoga caratteristica dell’Andante, ricco di spunti motivici organizzati e trattati anche qui con esposizione, sviluppo e ripresa. La forma-sonata, assai liberamente interpretata, innerva anche il Presto finale, che il Direttore scandisce davvero a gran velocità mettendo a dura prova la compattezza dell’orchestra.

Accoglienza molto vivace da parte di un pubblico ristretto (forse la giornata proprio autunnale non invitava ad uscire di casa…)
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Pubblico che mi è parso rinforzarsi di numero dopo l’intervallo, mosso forse dalla curiosità per questa insolita proposta: il secondo atto di Parsifal. Che certo è il più adatto (o il meno complicato) dei tre da presentare in un concerto di questo tipo: tre soli interpreti (tenore-mezzosoprano-baritono, praticamente uno dei classici terzetti da melodramma) più un’infornata di soprani: sei soliste divise in due gruppi (sono le Fanciulle-Fiore di Klingsor: Claire Coolen, Miriam Gorgoglione, Min Ji Kim, Barbara Massaro, Noemi Muschetti, Nicole Wacker) e il coro femminile (guidato da Massimo Fiocchi Malaspina) pure in due gruppi; una scena di fatto statica e una durata non proprio biblica.

Le sei soliste si schierano proprio davanti al coro, mentre ai lati del podio trovano posto: a sinistra (per chi guarda) Marina Prudenskaya  (Kundry) che canta dall’inizio alla fine; a destra: dapprima Samuel Youn (Klingsor) poi Tuomas Katajala (Parsifal). Per il suo ultimo intervento (a scagliare la sacra lancia contro Parsifal) Youn si sposta in… galleria.

Questo atto presenta una musica ben lontana dall’atmosfera sacra e austera (e, per taluni, insopportabile) degli altri due atti: qui Wagner – per sua stessa ammissione – tira fuori tutta la sua variegata palette sonora: per chiarirci quali trucchi e inganni l’arte degenerata del degenerato Klingsor metta in atto con l’obiettivo di traviare l’artista puro Parsifal (=Wagner) servendosi di Kundry e delle Fanciulle-fiore come facili esche e false muse. (Qui alcune mie note che spiegano questa interpretazione del dramma.)

Che dire: per essere il primo approccio a questa musica, orchestra e coro hanno ancora una volta mostrato di quanto sono capaci, evidentemente guidate con autorevolezza da Heras-Casado e Malaspina.

Più che apprezzabile la prestazione dei tre personaggi protagonisti: metterei su tutti Youn (veterano ormai a Bayreuth); poi la Prudenskaya (anche lei ha già cantato lassù) e infine il finnico Katajola, voce non proprio da Heldentenor, ma che insomma ha fatto la sua onorevole figura.

Grande accoglienza del pubblico che ha più volte richiamato al proscenio, anche con applausi ritmati, solisti e direttori. Insomma: una bella serata di musica e per Heras-Casado un buon viatico nel lungo cammino verso il tempio del Gral! 

11 dicembre, 2022

Scala: il Boris live.

Scala non proprio esaurita per questa prima recita vera del Boris Godunov, il che pare confermare che il gigantesco sforzo mediatico-mondano del SantAmbrogio non basta da solo a fare moltitudini di proseliti per il teatro musicale.

Liquido brevemente la parte registica, chè lo spettacolo in teatro ormai si apprezza assai meno che dalle riprese televisive, assai più ricche di dettagli e particolari di quanto non colga l’occhio che osserva da lontano e da angolazione fissa (a qualcosa, ma poco, serve un binocolo, che consente allo spettatore almeno di farsi lui i primi-piani che crede). Spettacolo godibile e frutto di sincretismo stilistico per accontentare tutti (tradizionalisti e non) che lascia il dubbio sull’efficacia del rapporto costi-benefici: appunto, fatto per illustrare il SantAmbrogio, più che il titolo in cartellone.

Il fronte musicale mi sento invece di promuoverlo (magari senza lode e bacio-in-fronte) a partire dai cori (di Malazzi e Casoni) veri protagonisti (giustamente ovazionati) della serata. Ottima l’Orchestra, capace di supportare al meglio la scena (e in questo Musorgski la cosa non è per nulla scontata, data la siderale distanza rispetto alle opere più di repertorio). Orchestra che ovviamente ha goduto dell’amorevole cura messa – come sempre, del resto – dal Direttore nell’interpretare al meglio ogni dettaglio – le dinamiche, in particolare - della difficile partitura. Ribadisco la mia personalissima perplessità soltanto riguardo l’agogica, che avrei preferito meno sostenuta: Chailly chiude a 145’ contro, ad esempio, i 130’ di Gergiev-1997 e i 126’ di Nagano-2019…  

Ildar Abdrazakov merita l’eccellenza per presenza scenica, recitazione e capacità di esternare tutta la varietà di sentimenti e angosce che contraddistinguono il personaggio: qualcuno gli imputa la voce più baritonale che da basso profondo, ma non è detto che il Boris più moderno sia ancora quello di Scialiapin! I due monologhi, in particolare, sono proprio da manuale dell’interpretazione, oltre che di espressività del canto. Strameritato quindi il suo trionfo.

Ain Anger è un Pimen che dal vivo ha quasi del tutto riscattato le perplessità che mi aveva lasciato l’ascolto tv: forse la voce sarà un filino usurata, ma in teatro fa ancora una gran figura.

Sicuro e tronfio il Varlaam di Stanislav Trofimov, autorevole interprete della sua truce ballata al confine lituano, inneggiante Ivan il Terribile.

Bella figura ha fatto anche Dmitry Golovnin, calatosi apprezzabilmente nella parte del… suo falso: certo per lui sarebbe ben altro impegno cantare il Boris-2!

Efficace anche l’altro tenore, Yaroslav Abaimov, nella parte dello Yurodivi, piccola ma estremamente significativa nell’economia del dramma.   

Alexei Markov è stato un passabile Scelkalov, mentre devo ritirare in parte il giudizio positivo su Norbert Ernst (Šujskij) che dal vivo ha mostrato evidenti limiti vocali.

Delle tre parti femminili quella più rilevante è la Xenia di Anna Denisova, che ha sfoggiato voce ben impostata e passante, e un portamento consono a quello della giovine in pena per il lutto che l’ha colpita. Han fatto il loro dovere l’ostessa Maria Barakova e la nutrice Agnieszka Rehlis (anche per loro vale il discorso fatto per Grigori-Dimitri).

Il piccolo Feodor è stato ben impersonato – en-travesti - da Lilly Jørstad.

Oneste le prestazioni degli altri quattro comprimari.

Alla fine, successo pieno e indiscusso per tutti.

07 dicembre, 2022

SantAmbrogio: il Boris in TV.

Beh, è già qualcosa aver constatato – in corpore vili – che ciò che viene presentato è effettivamente il Boris-1 del 1869 (ovviamente nell’ipotesi di dar credito a due studiosi seri come Lamm e Lloyd-Jones) e non un libero collage di pezzi del meccano-Boris, tipico passatempo di svariati direttori e registi in cerca di facile quanto caduca notorietà. (Alle mie orecchie grida tuttora vendetta la scellerata produzione del Regio di Torino del 2010, targata Noseda-Konchalovsky, tanto per dire…)  

Sulla prestazione sonora mi astengo dal dare giudizi inappellabili, date le circostanze (la ripresa non mi è parsa impeccabile, ecco). Abdrazakov ha riscosso un prevedibile trionfo, per la fama che gode anche qui in Scala e per l’oggettiva autorevolezza con la quale si è calato nel ruolo. Buona impressione, salvo verifiche dal vivo, per Norbert Ernst (Šujskij) e Stanislav Trofimov (Varlaam). Ovviamente da apprezzare i cori, se non altro perché avran dovuto sudare per via della lingua.

Chailly mi è parso un filino troppo sostenuto con i tempi, ma è questione di gusti. Orchestra apparentemente in buona salute, ma da giudicare dal vivo.  
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Quel furbacchione di Kasper Holten si è inventato un approccio originale alla messinscena: né quello iper-tradizionalista e talebanamente rispettoso della lettera dell’opera (1598-1605); né quello di portarci all’epoca della creazione del lavoro (1869); né quello di ambientare la vicenda ai nostri giorni. Ecco: lui ce li ha messi tutti e tre in una volta (ad esempio coprendo con mantelli seicenteschi giacche e cravatte moderne…) Sperando così di accontentare un po’ tutti i gusti (o di non scontentarne alcuno). Certo: si può intuire che questa compresenza di costumi (anche di suppellettili, per la verità…) di epoche diverse stia a significare che usanze (e prepotenze!) umane non tramontano mai (della serie Putin=Stalin=Nicola=Pietro=Boris=Ivan=…)

Da vecchio responsabile dell’opera alla ROH, Holten si è anche permesso (senza pagarne i diritti?) di scopiazzare dalla produzione di Richard Jones del 2016 il vecchio Pimen che dipinge le sue storie a mo’ di affresco su una parete bianca. Ha invece fatto un doveroso omaggio all’Autore mostrando, mentre si ascolta la breve introduzione strumentale, gli ottusi critici del Marinski che strappano platealmente copie della partitura che ci viene presentata.

Per il resto regìa innocua e velleitariamente didascalica, col rischio di rendere ancor più incomprensibile l’intreccio, vedi la costante presenza del piccolo Dimitri coperto di sangue o la riproduzione per partenogenesi di personaggi nella scena finale. Nella quale riappare il simpatico Grigori-Dimitri per assistere con sprezzante sogghigno alla morte (mica naturale, ma per mano di un suo sicario!) dell’odiato zar. (Poi, se si volesse proseguire nel racconto delle vicende storiche, allora lui avrebbe poco da ridere, visto che dopo un anno verrà letteralmente fatto a fettine, poi impastate in polvere da sparo, da quelli stessi che si erano serviti di lui per combattere Boris…)   

All-in-all: una produzione che – personalmente – avrei collocato (tipo Chovanščina) a febbraio…  
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Curiosità: Il sogno di Grigori 1872-1869

                   Gergiev – 1977                                            Nagano - 2019

04 dicembre, 2022

Oggi è in arrivo a Milano Бори́с Фёдорович Годуно́в

Questa sera i diversamente anziani terranno a battesimo il contestato Boris Godunov, fatto oggetto settimane fa dell’operazione-culturale-speciale di Kyiv, fortunatamente sventata sul nascere dagli eroici resistenti scaligeri.

Poi ci sarà la kermesse di SantAmbrogio e, dal 10, si comincerà a… fare sul serio. Quindi prepariamoci a dovere, cercando intanto di chiarirci su che cosa andremo a vedere e ascoltare.

Sì, perchè è facile dire Boris Godunov, ma è come dire formaggio-grana: ma sarà grana-padano o parmigiano-reggiano? O per caso una mescolanza dei due, ottenuta in laboratorio dalle abili mani di qualcuno che – magari in perfetta buona fede – pretende di migliorare le innate qualità dei due prodotti originali? 

La domanda non ha come scopo di stilare la classifica fra i famosi prodotti (genuini o manipolati) delle nostre premiate e ben foraggiate vacche (ciascuno ha il diritto di stilarne una sua propria…) ma semplicemente di sapere in anticipo – per approfondirne i contenuti allo scopo di goderne al meglio - quale delle leccornie ci apprestiamo ad assaporare, avendo ciascuna di esse (naturali o manipolate che siano) caratteristiche peculiari e inconfondibili.

In sostanza: in circolazione – escludendo elaborazioni più o meno cervellotiche di sedicenti addetti-ai-lavori – troviamo tre diverse versioni dell’opera: due di propria mano di Musorsgki (chiamiamole Boris-1 e Boris-2, rispettivamente datate 1869 e 1872) e una terza, ottenuta dalla rielaborazione del Boris-2, di Rimski-Korsakov (perfezionata nel 1908). Per gran parte del ‘900 è stata proprio la versione-Rimski l’unica ad essere rappresentata, in attesa che qualche solerte studioso riportasse alla luce le due versioni originali dell’Autore. (Un mio modesto contributo a chi voglia raccapezzarsi nel ginepraio delle versioni e delle loro differenti impostazioni è leggibile qui.)

Nel 2002 - precedente presenza dell’opera alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) - fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quel pericoloso putiniano che risponde al nome di Valery Gergiev, allora reduce dall’aver messo per primo sul mercato le due versioni originali (1869-1872) del formaggio-grana Boris, ricostruite a partire dalle edizioni critiche di Lamm (1929) e Lloyd-Jones (1975).

E, come allora, anche oggi è la prima versione dell’opera (Boris-1, del 1869) ad essere rappresentata, a cura della premiata coppia Chailly-Holten. A chi vuol apprezzare entrambe le versioni dirette da Gergiev senza spendere un centesimo basterà entrare in rete e mettersi comodo. E sempre in rete si trovano diverse registrazioni della versione spuria di Rimski.

Dato però che anche il Boris-1 di Gergiev presenta qualche deviazione rispetto all’originale di Musorsgki, consiglio ai puristi questa edizione svedese (diretta da Kent Nagano) che mi pare del tutto fedele alla lettera, oltre che allo spirito, dell’originale.  
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Questa immagine, invero assai cruda, che accompagna la locandina dello spettacolo e sta facendo un certo scalpore, ritrae il piccolo Dimitri, fatto uccidere per sgozzamento da Boris – così lo storico Karamzin cui si ispirò, via Puškin, Musorgski - alla tenera età di 7 anni, allo scopo di toglier di mezzo un potenziale concorrente nella corsa al trono.

È precisamente il personaggio invisibile (ma che il regista renderà visibilissimo, a scanso di equivoci) che occupa in permanenza la mente dello zar, fino a condurlo sulla soglia della pazzia e, in definitiva, alla morte. È proprio la tormentata figura dello zar alle prese con il governo di una realtà sociale caratterizzata da disperazione e fatalismo autodistruttivo che sta al cuore di questa prima versione del Boris. (La seconda farà invece emergere, in contrasto con l’incurabile crisi dello zar, un ruolo più consapevole e determinato del popolo russo, alla confusa ricerca di riscatto e libertà.)

Ecco, staremo a vedere e sentire, prima dalla TV e poi dal vivo.

03 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 8

Mentre ancora risuonavano in Auditorium le note del Messiah eseguito giovedi sera da laBarocca di Ruben Jais, ecco un classico Mozart seguito da due poemi sinfonici (Sibelius - Strauss) dare forma all’8° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio Jaume Santonja, da quest’anno uno dei Direttori Ospiti dell’Orchestra.

Insieme a lui entra subito in scena l’israeliano Tom Borrow, ex-bambino-prodigio e giovane speranza del pianismo internazionale, per inoltrarsi nel complesso groviglio del K488 mozartiano, un concerto invero innovativo nella forma e nei contenuti. (Una mia personale esplorazione dell’opera – poggiante su un’esecuzione della coppia Horowitz-Giulini alla Scala - si può leggere qui, inserita in un commento ad un concerto de laVerdi del 2015.)

Borrow – a dispetto dell’età o proprio a causa di essa – è tanto perfetto tecnicamente quanto algido emozionalmente: il suo Mozart scorre senza un’increspatura, ma quasi roboticamente, ecco. Gli applausi non sono mancati, certo, perché Mozart accontenta sempre. C’è da dire che il pubblico ieri era proprio scarsino (c’è chi dice a causa dello sciopero dei mezzi pubblici) e forse il ragazzo si è un filino deconcentrato: fatto sta che non ci ha nemmeno regalato un bis… 
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La seconda parte della serata è occupata, come detto, da due poemi sinfonici, di fatto due opere prime (o quasi…) nel genere reso famoso da Franz Liszt.

Il primo è En Saga, composto in origine da un 27enne Jan Sibelius nel 1892, ma poi riveduto, corretto e… ristretto (-142 battute su 952) 10 anni più tardi (guarda caso, dopo aver ascoltato Strauss dirigere il suo Don Juan!) e da allora entrato in quest’ultima versione nei repertori delle principali orchestre. La versione originale è stata riportata alla luce da poco, e si può ascoltare – anche per compararla alla seconda – in questa incisione finnica che le presenta entrambe. Volendo, si può andare ancor più indietro, e ascoltare il Settetto (frutto peraltro di una contestata ricostruzione americana) che fu verosimilmente il primo germoglio della composizione.

Il titolo dell’opera resta un mistero: letteralmente si tratta di una storia, o di una leggenda, o di un’avventura, ma Sibelius si rifiutò sempre di esplicitare un programma extra-musicale per la sua composizione (siamo all’eterno dilemma dell’estetica musicale, che si perpetua da Hanslick, come minimo, in poi…) Peraltro (vedi Mahler) nel corso degli anni ne lasciò immaginare addirittura un paio (!): il DNA della Finlandia e le saghe islandesi (Saemund & Snorri, per intenderci). Ma ogni volta poi concluse (ancora seguendo Mahler) che questa musica altro non esprime se non ciò che è inesprimibile con segni o parole (per citare Goethe: Das Unbeschreibliche, Hier ist’s getan): sensazioni interiori e stati d’animo o stati della mente del compositore.

Sì, però: siamo sicuri che l’ascolto di queste note ingeneri in noi precisamente le stesse sensazioni e gli stessi stati mentali (entrambi a noi ignoti) che spinsero Sibelius a vergarle, quelle note? Mah, visto che nemmeno l’Autore ci può e vuole aiutare a raggiungere l’obiettivo, che possiamo fare? Forse ci conviene – ancora una volta – abbandonarci alla musica senza pregiudizi, per sentire… l’effetto che fa sulle nostre corde interne: certo, scoprendone allo stesso tempo, se esiste, una narrativa, un racconto (per l’appunto, una… saga?) che ha per protagonista non un eroe o un ideale, o gli stati d’animo del compositore, ma solo i temi, i motivi musicali che ricorrono all’interno del brano.     

E quest’opera giovanile di Sibelius si fa apprezzare proprio per la ricchezza dei temi e per il racconto di cui essi sono protagonisti. Proviamo ad esplorarla sommariamente - osservando la partitura - in questa incisione di Ashkenazy con la Philharmonia. Qui segue una raccolta dei principali temi e motivi dell’opera:

L’introduzione (Moderato assai) ci porta all’orecchio sommessi arpeggi degli archi sulla scala di LA minore, mentre i violini primi tremolano la quinta vuota LA-MI: su questo tappeto sonoro un fagotto e i corni espongono un classico lamento (motivo-A, MI-FA-MI-FA…)  

A 20” appare nei legni un nuovo motivo-B in DO maggiore, dalla natura ostinata, che viene interrotto (41”) da un’irruzione sul LAb dei flauti, reiterata poco dopo (53”) in presenza, nella tromba, del motivo-C, che anticipa le caratteristiche di attacco dei due primi temi. E in effetti i tre motivi esposti finora diventeranno germogli, per così dire, di temi o incisi che riappariranno nel corso del brano.

A 1’11” gli archi riprendono ad arpeggiare, passati adesso in DO# minore, preparando in questa tonalità l’arrivo (1'19") nel fagotto e archi bassi del Tema-1, dall’aspetto mesto e dolente. L’atmosfera si ravviva (1’54”) con quattro battute di improvviso crescendo e stringendo dell’orchestra, in cui spiccano saltellanti semiminime dei flauti, che ci portano a RE minore (o al modo dorico) introdotto (2’01”) da altri arpeggi degli archi. Si è così preparato il terreno per l’entrata (2’10”) del Tema-2 in corni e celli; questo tema mutua dal Tema-1, trasponendola in alto di un semitono, tutta la prima parte, per poi svilupparsi ulteriormente (2’26”) accompagnato ancora dalle saltellanti semiminime di tutti i legni. Ritroveremo verso la fine questo tema in posizione preminente. Un nuovo crescendo e stringendo (2’51”) è interrotto inopinatamente (2’58”) con la ripresa del tempo precedente, che però porta ora ad una rapida transizione che prepara il passaggio al tempo Allegro (3’21”).

Siamo tornati – momentaneamente – al DO maggiore, ed ascoltiamo, in clarinetti e primi violini, il nuovo Tema-3, che mutua l’incipit e poi lo sviluppo precisamente dalla seconda frase del Tema-2. Si passa a DO minore (3’40”) per lo sviluppo del tema, che (4’16”) innesca negli archi una rapida scalata che porta (4’20”) all’arrivo del Tema-4, esposto dalla prima viola. Esso si caratterizza per riprodurre al suo interno un arco di note mutuato (trasposto) dal motivo-B dell’Introduzione. Spentosi il Tema-4, ecco comparire prepotentemente (5’12”) negli archi il Tema-5, subito sviluppato dai legni e poi reiterato dagli ottoni e chiuso perentoriamente. 

Ora tocca al Tema-4 tornare (6’30”) in primo piano, sottoposto poi ad altri consistenti sviluppi. A 7’54” sembra di piombare nella nebbia più fitta: i soli archi, suonando in tremolo sul ponticello, evocano una specie di indistinto ronzio, dal quale si esce (8’14”) ritrovandoci inaspettatamente in SOL# minore: dove (8’21”) torna ad imperversare il Tema-5. Che poi (8’47”) svaria in MI minore per preparare il ritorno (8’56”) al DO minore, dove il tema viene reiterato, prima di cominciare a spegnersi (9’21”) quasi sfaldandosi progressivamente. Ora è il Tema-4 a dare gli ultimi sussulti (9’46”) nei violini e poi nelle viole, contrappuntate dai legni, poi ancora (10’14”) in violini e viole; sussulti che non arrestano tuttavia l’inevitabile collasso del tema. Adesso è il Tema-5 a tornare mestamente nell’oboe (10’44”) e poi nel flauto (11’15”) che, scortati dal clarinetto, ne testimoniano la fine. Otto battute degli archi (12’24”, Lento assai) e quattro del corno ne siglano la sepoltura, poi (13’05”) negli archi, quindi nel corno, si conclude il compianto.

Tutto finito? Non proprio: come dice Macbeth, dopo la visione di Banqo? La vita riprendo… Ecco, anche qui (13’39”) si ricomincia a vivere. È l’oboe (Moderato) a riprendere l’arco sonoro della terza battuta del Tema-5 e ad innescare un progressivo crescendo culminante in un fragoroso tutti orchestrale che salta dal MIb al DO minore e prepara (Allegro molto) l’ingresso trionfale dei corni (14’17”) sul Tema-2. Che si sviluppa poderosamente culminando (14’49”) nell’esposizione, in DO maggiore, di una variante (Tema-2b) della seconda sezione del tema originale, variante che evoca sogni (sfumati?) di gioventù. L’orgia sonora prosegue fino ad interrompersi bruscamente (15’51”) per poi spegnersi sul MIb. 

Moderato e tranquillo: è il clarinetto solo a scrivere (16’25”) sul Tema-2 accompagnato dal motivo-A negli archi, un epitaffio in MIb minore, dove però ricorre (17’33”) la variante, ora patetica (Tema-2b) in modo maggiore. Infine (18’16”) sono i violoncelli (poi solo il primo) a riprendere sommessamente il Tema-4, sul MIb minore di clarinetto e archi, con il timpano a finire (quasi niente) sul morendo degli archi.  
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Adesso che lo conosciamo un po’ meglio, potremmo anche azzardare una descrizione sommaria della macro-struttura del brano: che si apre con un’Introduzione cui segue l’Esposizione dei 5 temi principali (Tema-1 e Tema-2 sempre in Moderato assai; Tema-3, Tema-4 e Tema-5 in Allegro); quindi Tema-4 e Tema-5 sono sottoposti ad uno Sviluppo che si chiude sul Lento assai. Segue (Moderato, poi Allegro molto) una grandiosa Ripresa del Tema-2 (con Tema-2b). Infine la mesta Coda, con il Tema-2 e poi il Tema-4.

Che dire, un racconto musicale godibile, costruito con sapienza e ispirazione, che Santonja ha cercato di valorizzare, mettendone in risalto i contrasti, fra le zone di quasi-silenzio degli archi e le esplosioni degli ottoni. Certo, è difficile trasformare un buon-lavoro in un… capo-lavoro.
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Come è invece Don Juan, composto da Richard Strauss (nato 18 mesi prima del collega finnico) a soli 24 anni. Qui, almeno sulla carta, rispetto a Sibelius le cose sono un po’ meno equivoche, poiché il titolo dell’opera non lascia adito a dubbi: Strauss intende programmaticamente proporci la sua musicale visione della personalità del burlador (versione Lenau, peraltro). Del quale sbozza in altrettanti temi musicali il piglio scanzonato e irriverente, le pulsioni della libido e gli slanci ideali.

Dopodichè starà pur sempre a noi giudicare la riuscita del suo sforzo compositivo: e decideremo se apprezzarlo per la coerenza della musica con il soggetto ispiratore, oppure (come alla fine magari accade) semplicemente per l’irresistibile fascino che da quella musica emana, del tutto indipendentemente dalla presenza di (e dalla fedeltà a) quel medesimo soggetto ispiratore…

E chissà che non scopriamo che dietro, o sotto, la crosta dello spunto extra-musicale esiste in realtà un rigoroso impianto formale (esposizione e sviluppo dei temi) che regge l’intera costruzione.

Grande prestazione dell’Orchestra, che in questo repertorio ha pochi rivali. Santonja ha saputo cavarne il meglio, assecondato dalle prime parti che hanno qui ruoli da protagonista. Per lui applausi convinti anche da parte di Dellingshausen&Co.

25 novembre, 2022

laVerdi 22-23. 7

Un ardito accostamento viene proposto dal 7°concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano: Shostakovich e Beethoven!

Ne è protagonista Luigi Piovano, da una vita primo violoncello a SantaCecilia, che affianca esibizioni solistiche alla direzione d’orchestra. E in questo doppio ruolo si presenta qui in Auditorium.

Dapprima per interpretare il primo Concerto per violoncello di Dmitri Shostakovich. Concerto di alta difficoltà, come logico, essendo stato composto espressamente per - e dedicato a - quel mostro che rispondeva al nome di Mstislav Rostropovich. Due giorni dopo la prima leningradese (domenica 4 ottobre, 1959) con Mravinski sul podio, autore e interprete si spostarono a Mosca per realizzare (con la locale Filarmonica diretta da Gauk) la prima registrazione dell’opera, cui si fa riferimento nelle note successive.
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Come sempre, Shostakovich resta formalmente fedele ai modelli classici e al diatonismo, ma li riempie di contenuti innovativi e spesso dissacranti. Basti considerare proprio l’attacco dell’iniziale Allegretto, in forma-sonata, dove troviamo tre bemolli indicati in chiave:

Sarà MIb maggiore o DO minore? Ah, saperlo, anche perché la prima battuta, occupata dal solo violoncello, contiene le prime tre note (SOL-FAb-DOb) del motto che informerà tutto il movimento e tornerà anche nel terzo e infine a chiudere il concerto: tre note che enarmonicamente lette altro non sono se non la triade perfetta di MI minore (SOL-MI-SI) assai lontana dalle tonalità prospettate in chiave. Ma poi, alla seconda battuta, il motto chiude scendendo di una seconda minore, al Sib, cui si aggiungono il MIb e il SOL dei legni, il che finalmente ci porta alla triade maggiore di MIb, tonalità classicamente evocante natura, religione o eroismo.  Ma c’è chi invece ci vede l’individuo intellettualmente libero che cerca (triade di MI minore) di elevarsi al di sopra delle convenzioni, o delle ideologie, o dei regimi, rappresentati dal MIb maggiore! Insomma: Shostakovich vs Stalin? E del resto qui c’è un MIb maggiore quasi irriconoscibile (vi manca per caso l’armonia?) che non è certo quello dell’Eroica

Dopo una breve transizione (1’27”) Il secondo tema (1’33”) è canonicamente in DO minore, con melodia più spiegata e distesa:

Melodia reiterata dal solista (2’15”) e poi (2’24”) dal clarinetto, che ci porta allo sviluppo (2’37”) che è prevalentemente occupato dal primo tema in cui spicca in particolare il corno. Poi la ripresa (4’35”) è assai variata (e accorciata) rispetto all’esposizione (il secondo tema, nel corno - 4’56” - resta però in DO minore). Segue (5’39”) la coda, monopolizzata dal primo tema, ma chiusa repentinamente (6’17”) dall’incipit del secondo nel violoncello, in MIb maggiore!

Il centrale Andante (LA minore, e relativa FA# minore) è in una forma - volutamente? – ambigua: c’è infatti chi lo riconduce ad uno spurio (in quanto tronco) rondò (A-B-A-C-A-B) e chi lo classifica come un macroscopico ternario X-Y-X (AB-AC-AB). In altri termini: uno sbeffeggio tutto shostakovich-iano alle classiche forme.  

Il ritornello A viene esposto (6’25”) dagli archi e completato (6’49”) dall’intervento del corno:

Ecco ora il primo episodio B:

esposto (7’03”) dal solista, che poi (7’36”) lo reitera, imitato (8’19”) dal clarinetto, che ne lascia al violoncello il completamento.

Ricompare negli archi (9’33”) il ritornello A in FA# minore, ma qui senza l’appendice del corno. 

Ora (10’22”) siamo al secondo episodio C, davvero esteso e complesso, di cui notiamo almeno due motivi:

Il motivo a è ripreso a 11’26”, il b a 11’58”. Poi si procede ad un progressivo intensificarsi dell’atmosfera sonora, fino a raggiungere un climax che sfocia nella reiterazione (13’48”) del ritornello A, sempre in FA# minore nella sua prima parte, poi tornando a LA minore (13’58”) con il corno che lo completa. L’ultima apparizione dell’episodio B (14’18”) è avvolta in un’atmosfera irreale, creata dagli armonici del violoncello e dall’ingresso della celesta.

Spentosi così l’Andante, attacca subito (16’35”) la Cadenza, invero ipertrofica e massacrante, basata prevalentemente su motivi del precedente Andante, ma con reminiscenze del motto. E appunto, senza soluzione di continuità si attacca al finale Allegro con motto moto.

La forma è uno spurio rondo (A-B-A-C) oppure un mozzicone di forma-sonata, dove in realtà C la fa da padrone, sfociando in un enfatico ritorno del motto. L’inizio (21’50”) non è che la conclusione della precedente Cadenza, poi ecco (21’56”) il brillante tema A, esposto da oboi e clarinetti:

In seguito (22’19”) lo riprende il violoncello, che prepara l’arrivo (22’34”) dell’episodio B, dentro il quale Shostakovich nasconde abilmente (22’52”) una citazione impertinente della canzone popolare (si dice piacesse a Stalin!) Suliko:

Torna quindi (23’07”) il tema A, un’ottava sopra, sempre in oboi e clarinetti cui si aggiunge il flauto.

Ecco ora (23’23”) la parte più corposa del movimento, con l’episodio C, che inizia con un brusco cambiamento di ritmo, da binario a ternario:

Il tema è ripreso poco dopo (23’33”) dal solista che attacca un crescendo che porta (24’01”) alla progressiva, vaga ricomparsa del motto, che poi appare davvero protervo (24’47”); motto che poi (24’58”) si allarga ulteriormente (corno) e poi (25’09”) è ripreso dal solista che innesca una progressione che si fa forsennata, finchè si arriva (25’04”) alla coda, dove ancora il motto si scatena e vi ri-occhieggia Suliko. All’ultimo, su un SOL tenuto saldamente dal solista (in tripla corda, su tre ottave!) ottavino e flauto ripetono il motto per l’ultima volta; poi restano solo due secche crome (di tutti, ottavino escluso) fatte di MIb-SOL, su sette martellate del timpano.
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Tale è il rilievo riservato (data la grandezza del dedicatario e primo interprete) al solista che l’orchestra quasi non esiste, riducendosi ad interventi (a loro volta solistici) di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta). E ciò rende certo più agevole il compito a chi, come Piovano, opera con due cappelli in testa (anzi con un archetto e una virtuale bacchetta).

Successo strepitoso per lui, accolto da applausi ritmati dal pubblico… selezionato dell’Auditorium. E allora lui, facendosi accompagnare dall’orchestra, ci regala un vorticoso bis (qui con il suo Direttore ceciliano). 
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Ecco infine la Settima beethoveniana. Piovano l’ha mandata a memoria e la dirige con piglio enfatico: gesto ampio, ammiccamenti alle diverse sezioni, insomma una direzione plateale che – oltre l’udito - accontenta anche… la vista. L’Orchestra si lascia coinvolgere e suona come un sol uomo, suscitando, dopo il travolgente e ubriacante Allegro con brio, l’entusiasmo generale.