Fra la domenca di ferragosto e il
martedi successivo si è concentrato il mio personale pellegrinaggio a Pesaro
per le tre opere del cartellone principale del ROF-42. Per la verità nella
prenotazione avevo chiesto appuntamenti più diluiti nel tempo, ma il boxoffice del Festival deve aver avuto i
suoi bei problemi per soddisfare tutte le richieste e così mi ha assegnato
proprio le tre date alternative da me
indicate... pazienza.
E a proposito di problemi con i posti,
il Teatro Rossini deve averne creati
parecchi, dato che all’epoca di apertura delle prenotazioni vi erano previsti
anche quelli di platea, mentre alla fine si è dovuta riproporre la stessa
configurazione del 2020, con la platea invasa dall’orchestra e inagibile al
pubblico.
___
Eccomi quindi ad iniziare questo
commento proprio dal Bruschino, ospitato nella piccola
bomboniera di Piazza Lazzarini. L’assetto particolare della sala e il pubblico
forzatamente scarso (2 persone per palco) ha un po’ rattristato, ricordando
troppo da vicino i tempi grami dell’estate scorsa (che speriamo non ritornino!) ma per fortuna lo spettacolo
della premiata coppia Barbe & Doucet ha ampiamente
riscattatato queste miserie...
Per sua natura un’opera buffa (o una farsa giocosa come in questo caso) si
presta bene a riproposizioni e reinvenzioni senza che ne venga snaturata
l’essenza originale: così i due registi-scenografi-costumisti hanno potuto
impunemente trasfomare il castello di campagna di Gaudenzio in un barcone di
quelli che si ha ancora l’occasione di vedere sull’Adriatico e che potrebbe
plausibilmente rappresentare il pied-à-terre
estivo del ricco possidente. Le luci di Guy
Simard hanno poi contribuito a sottolineare le diverse atmosfere che
caratterizzano la vicenda.
Parimenti apprezzabile il fronte dei
suoni, dove il giovane e allampanato Michele
Spotti ha guidato con il piglio di un veterano voci e strumenti, a partire
dalla scintillante Sinfonia che ha
permesso alla Filarmonica Gioachino
Rossini di sfoggiare le sue qualità (qui la trovata rossiniana dei colpi di
archetto vibrati sul leggio dai secondi violini ha però giocato un brutto
scherzo alla strumentista di concertino, cui si è spenta la luce costringendola
a suonare per parecchio tempo al buio... prima che per sua fortuna il
contatto si ristabilisse). Un figurone ha fatto invece Ilaria de Maximy con il suo corno
inglese, nel mirabile accompagnamento obbligato
dell’aria di Sofia Ah donate il caro
sposo ad un’alma che sospira.
E proprio la Sofia di Marina Monzò è stata la
trionfatrice della serata: dal suo debutto del 2017 in un ruolo di contorno (Pietra del paragone) direi che sia
cresciuta moltissimo, per controllo dell’emissione e duttilità di espressione,
impersonando adeguatamente il ruolo di ragazza apparentemente ingenua (non è
certo il predicozzo del tutore a... svezzarla)
ma invece ben decisa ad ottenere ciò che desidera.
I due buffi Giorgio Caoduro e Pietro
Spagnoli hanno ben caratterizzato le diverse personalità dei due procuratori di nozze di interesse che
alla fine vedono sfumare il loro disegno e devono accettare la dura (per loro!)
realtà della vita, fatta di pupille emancipate e figli dissipatori.
Discreta la prestazione del Florville di Jack Swanson, un debuttante che non
potrà che migliorare, avendo doti naturali di tutto rispetto. Gianluca Margheri è un Filiberto che -
forse con l’intenzione di strafare - finisce per esibire qualche sguaiatezza di
troppo. Onorevoli le prestazioni degl altri tre comprimari (la navigata
Marianna di Chiara Tirotta, il
tronfio Commissario di Enrico Iviglia
e il povero figlio-di papà Manuel Amati).
Serata tutto sommato piacevole, accolta
dal pubblico con calore inversamente proporzionale al... numero di mani
disponibili.
___
Passiamo ora al piatto forte del
Festival, quel Moïse et Pharaon che tornava al ROF dopo l’unica apparizione
del 1997, edizione che aveva fatto epoca per l’allestimento del compianto Graham
Vick, allora alla sua prima presenza a Pesaro, cui ne seguiranno altre,
sempre accolte da contestazioni e scandali, ma anche da lodi sperticate...
In realtà quello del 1997 - almeno a giudicarlo con gli occhi di oggi -
non era stato per nulla un allestimento scandaloso, almeno dal punto di vista
della sostanziale coerenza con i contenuti originali del dramma: in questa
(mediocre davvero) ripresa video si può constatare come Vick
racconti abbastanza fedelmente la vicenda di natura biblico-storica con
l’immancabile risvolto di rapporti umani di odio-amore. L’unico tratto di attualizzazione
della storia lo si rileva solo al finale, quando la terra promessa si
scopre essere la Palestina della prima metà del ‘900, che (Balfour
intercedendo) diventò la casa nazionale degli ebrei (e infine lo Stato
di Israele).
Ebbene, Pier Luigi Pizzi, che ha un approccio registico
unanimemente ritenuto agli antipodi rispetto a quello di Vick, nella sostanza
ne ripete pari-pari l’idea, presentandoci per tutta l’opera l’ambientazione
egizia, ma con il finale precisamente collocato nella moderna Palestina.
(Fu con il Mosè in Egitto del 2011 che Vick fece davvero
scandalo, impiegando la musica di Rossini come colonna sonora per narrare le
efferatezze degli ebrei - Deir Yassin, per dire - nel loro processo di
instaurazione dello Stato e trasformando Mosè in un estremista alla Jabotinski...)
Persino aspetti della scenografia recano somiglianze fra lo spettacolo
di Vick e quello di Pizzi: ad esempio la passerella che avvolge l’orchestra: in
Vick era assai più estesa e venne impiegata, olre che per farci transitare e
sostare i cori e gli interpreti (proprio come fa Pizzi) anche - abbastanza
cervelloticamente - per una processione di 5 minuti senza musica all’inizio del
terz’atto, uno degli aspetti più criticabili di quella messinscena.
Pizzi riprende anche l’idea di Vick (mostrarci un giovane ebreo moderno
proprio durante il Cantique finale) e la estende anche all’inizio dello
spettacolo, dove il piccolo ebreo è presentato come simbolo del futuro.
Per il resto Pizzi resta fedele al suo clichè estetico, sia nelle scene
(stilizzate e squadrate) che nei costumi (eleganti ma sobri) come anche nella
gestione dei personaggi e nei movimenti delle masse. Assai efficaci le luci di Massimo
Gasparon, soprattutto a sottolineare gli eventi miracolosi che si ripetono
lungo l’arco della storia. E fa storia a sè (come sempre, quando viene
eseguito) il lungo intermezzo di danze, dove è il coreografo di turno (qui Georghe
Iancu) ad esibire - magari con pregi e difetti - la sua inventiva.
Impeccabili i primi danzatori, Maria Celeste Losa e Gioacchino
Starace.
Sul fronte musicale, ottime notizie, innanzitutto da Giacomo
Sagripanti, che ha guidato con sicurezza ed equilibrio la splendida Orchestra
Sinfonica Nazionale RAI, ormai divenuta un asset insostituibile per le
principali produzioni del ROF. (Vi ho riconosciuto con piacere, alla seconda
tromba, quell’Alex Caruana che per anni fu prima parte de laVerdi.)
Il Coro del Teatro Ventidio Basso (istruito da Giovanni
Farina) sta parimenti guadagnandosi - in pochi anni - i galloni di titolare
del ROF, con prestazioni di assoluto valore, ricche di espressioni, sfumature e
colori che caratterizzano la partitura rossiniana.
Vasilisa
Berzhanskaya è stata di gran lunga la
trionfatrice della serata, offrendoci una Sinaïde di
gran spessore: voce solidissima e acuti potenti (meno penetrante l’ottava
bassa); da stadio l’interminabile accoglienza che il pubblico ha riservato alla
sua grande aria in chiusura dell’atto secondo.
Buona la
prestazione di Eleonora Buratto, capace
di modellare le diverse e inconciliabili sfaccettature della personalità di Anaï,
perennemente combattuta fra amore e fede religiosa: la grande aria dell’atto
quarto (la rinuncia all’amore in favore della fede) ne è stata chiara
testimonianza.
I capi dei due popoli, Roberto Tagliavini ed Erwin Schrott,
sono stati resi (nella vocalità, ma anche nell’interpretazione) in modo
assolutamente adeguato alle caratteristiche dei personaggi: austero, severo e
intransigente Moïse, quanto tronfio, volubile e un po' vanesio Pharaon:
una coppia davvero perfettamente assortita.
Luci e ombre
sull Aménophis di Andrew Owens, bella
voce chiara e squillante (RE sovracuto incluso) ma un poco in impaccio nel
rendere al meglio la personalità schizoide (speculare a quella di Anaï) sempre
in bilico fra desiderio - carnale per lo più - e ferocia vendicativa del principe ereditario.
Più che apprezzabile la prova dell’Eliézer di Alexey Tatarintsev,
che ha saputo mettere le sue ottime doti naturali al servizio del personaggio,
che mescola la severità del fratello con tratti di pietas e di apprensione.
Efficaci Nicolò Donini (Osiride e Voce dal cielo) e Matteo
Roma (Aufide) mentre una particolare citazione va all’inossidabile Monica
Bacelli, una Marie quale meglio non si potrebbe immaginare.
Inutile aggiungere che il successo è stato davvero trionfale.
___
Infine Elisabetta Regina d’Inghilterra.
Opera seria, come viene catalogata. Livermore in questi casi non ha mezze
misure (tradotto: mantenere un minimo di equilibrio e di fedeltà al testo). Lui
o fa ri-ambientazioni in chiave pesantemente politica (cito solo i suoi Vespri torinesi...) oppure la butta in (avan)spettacolo. Ecco: qui ha scelto la seconda strada (immagino che la politica
la tenga in serbo per il prossimo Macbeth
di SantAmbrogio).
Per la verità c’è anche la
ri-ambientazione, ma non è una cosa seria, chè prendere Leicester per Townsend che svolazza su uno Spitfire e i cugini scozzesi per i nazifascisti fa appunto sorridere. (Un po’ come il
suo Tamerlano scaligero ambientato
nella Rivoluzione d’ottobre, dove Stalin e Lenin si contendono una figlia dello
Zar.) Ma il regista ragiona così (in occasione della prima ai microfoni di Radio3): visto che il libretto è pura
invenzione e di autenticaamente storico ha ben poco, allora anch’io mi sento
autorizzato ad inventarmi ciò che mi pare e piace! E così di apprezzabile resta appunto
solo la spettacolarità di scene (Gio Forma)
costumi (Gianluca Falaschi) luci (Nicolas Bovey) ed effetti video (D-Wok). Oltre ad un continuo e
francamente stucchevole (perchè insensato) e ripetitivo movimento di persone
e soprattutto di cose (che magari
scendono dall’alto, trovata da inflazione galoppante).
Certo, bisogna riconoscere che l’opera è
assai difficile, ostica e di non immediata digeribilità: sappiamo che Rossini
era (positivamente) ossessionato dal fare colpo sull’esigente platea
napoletana, dove era atteso con sospetto pari alla curiosità; e così scelse
alcuni brani (a partire dalla sinfonia) di sue opere già collaudate e li
immerse in un mare di recitativi
accompagnati. I quali però, se non adeguatamente sostenuti dall’orchestra,
rischiano di diventare più noiosi di quelli secchi, che per lo meno possono
essere esposti in gran fretta.
E qui vengo perciò a Evelino Pidò, la cui direzione mi è
parsa carente proprio nel sostegno ai recitativi, mentre assai meglio ha
supportato arie, concertati e cori, grazie alla gran forma della OSN-RAI.
Non perfettamente assortito il cast
vocale, dove si potrebbe persino parlare di... scambi di persona: Elisabetta-Matilde
e Leicester-Norfolc! Karine Deshaves mi
è parsa piuttosto timorosa nell’affrontare il ruolo della famigerata Virgin Queen e quando ci ha provato ha
emesso acuti non sempre puliti; Salome Jicia
invece cantava come fosse... la Regina, sovraccaricando troppo la mite e arrendevole Matilde.
Sergey
Romanovsky non
ha centrato completamente il personaggio eroico di Leicester, anche se ha fatto
assai meglio dell’ormai logoro Barry Banks,
voce chioccia e oggi del tutto inadatta per un cattivone alla Iago.
Onorevoli le prestazioni dei due
comprimari: Marta Pluda, en-travesti
come Enrico; e Valentino Buzza, Guglielmo.
Sempre all’altezza il Coro di Giovanni Farina.
In definitiva, che dire? Che - nel mio
caso - non posso parlare di questa chiusura di trittico come di dulcis-in fundo!
___
Ma il fundo
ancor non l’ho toccato, poichè mi incombe venerdi 20 uno Stabat Mater
(in forma scenica) che non mancherò di commentare.