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consulta e zecche rosse

29 marzo, 2020

Bach vs Covid


Seguendo, non proprio alla lettera, il suggerimento che Paolo Isotta ha lanciato il 26 u.s. dalle colonne del Fatto Quotidiano di combattere il Covid19 ascoltando Bach (lui proponeva in verità Das wohltemperierte Clavier) ho messo mano a vecchie mie carte riguardanti Die Kunst der Fuge, il che ha orientato la mia scelta (come si vedrà) riguardo quale delle millanta esecuzioni privilegiare.

Ora, a monte dell’esecuzione sta però la versione che viene eseguita, poichè di questa, che è for di dubbio la più strabiliante delle opere di Bach, esiste (un po’ anche per colpa sua...) una serie nutrita di edizioni e ancor più di presentazioni.

Una tabella sinottica riportata da Wikipedia in italiano ci informa di almeno 14 diverse edizioni, a partire da quella originale del 1751-52 predisposta da Johann Heinrich Schübler (verosimilmente con la... consulenza di Carl Philipp Emanuel Bach) per arrivare a quella di Walter Kolneder del 1977. Ma molte altre sono state prodotte nel corso degli anni (Rogg, Moroney, Wolff, Göncz, Dentler, Tovey, Hofmann, Berio, ...)  

La tabella ha appunto come base di riferimento la prima edizione del 1751, costituita da 24 brani, compreso lo spurio corale conclusivo: le altre 13 edizioni si differenziano come minimo per la disposizione in sequenza dei brani, che poco o tanto si discosta sempre da quella originale. Lo stesso articolo citato fornisce anche qualche plausibile spiegazione di tali divergenze, motivate dalla visione che ciascun redattore ha dell’opera (aspetti musicali, ma anche... metafisici e pure esoterici). Dato poi che Bach non lasciò la minima indicazione sulla strumentazione dei brani, ognuno si è sbizzarrito ad eseguirli sui più svariati strumenti, e ciò ha ulteriormente moltiplicato la disponibilità di offerta di quest’opera (il che è un gran bene, sia chiaro!)

Chi si districa con il crucco può trovare esaurienti notizie e chiarimenti sulla Kunst a questo indirizzo web.
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Per esorcizzare il coronato quanto indesiderato ospite, prima di infilarmi le cuffie per ascoltare questo Bach ho cercato di riordinarmi le idee proprio sui contenuti dell’opera, e così ho messo, per così dire, in bella copia alcuni vecchi appunti relativi alla struttura della Kunst.

A partire proprio dalla sua materia prima principale: il cosiddetto manoscritto autografo P200 conservato tuttora a Berlino, che fu ovviamente la fonte (peraltro non unica) della prima edizione del 1751.


Il manoscritto, cui una mano aliena - si sostiene essere stata quella di un genero di Bach, Johann Christoph Altnickol - appose il titolo Die Kunst der Fuga, è costituito da 40 pagine numerate, 38 delle quali fittamente popolate dalle note scritte dal sommo Johann Sebastian. Vi si trovano, quasi sempre senza titoli, ma con semplice numerazione romana (non di mano di Bach, peraltro) 15 brani (I-XV). Un’appendice (3 Beilage) al fascicolo principale, associata però al P200, contiene altri tre brani (che portano il totale a 18): il primo (A1) è una quasi-ripetizione del brano XV del manoscritto principale; il secondo (A2) è la Fuga a 2 clavicembali, in versione rectus e inversus, di fatto l’adattamento per due tastiere del brano XIV; il terzo è la famosa Fuga a 3 (o 4, come sostiene qualche indovino...) soggetti, rimasta sospesa a metà, quando la penna d’oca cadde dalla mano del Bach spirante (quale retorica in tutto ciò... Bach era cieco da tempo) che ha appena vergato, sul rigo della terza voce, la sesta apparizione del suo proprio nome: SIb-LA-DO-SI.

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La prima evidenza che balza all’occhio confrontando il manoscritto con l’edizione del 1751 è la totale mancanza di rispetto, in ciò che venne stampato, della sequenza con la quale Bach aveva compilato il suo manoscritto. Quindi già il buon Schübler (magari imbeccato da C.P.E. Bach) aveva stravolto l’ordine originale dei brani. E subito non mancarono i critici di questa operazione, salvo poi permettersi - come si è visto - di proporre altre soluzioni tutte regolarmente diverse non solo da Schübler, ma anche da... Bach!

La tabella che segue evidenzia in modo spettacolare le discrepanze fra l’ordine con il quale Bach mise sul pentagramma la sua Kunst e quello con il quale essa fu pubblicata: il groviglio di incroci fra le frecce rosse ne dà un’idea sinteticamente lampante:


Si noti anche come Bach abbia titolato di sua mano solo tre dei 18 brani (IX, XIIb e XV) mentre tutti gli altri titoli nell’edizione 1751 sono evidentemente dell’editore. Come detto, la prima appendice (A1) è una riedizione del brano XV (che è in 4/4, chiave di soprano) semplicemente a lunghezze raddoppiate, ma con dimezzamento del tempo (4/4 alla breve, chiave di violino): ciò è evidenziato in figura con la freccia curva che collega XV ad A1. Tutte le edizioni hanno privilegiato la forma A1 a quella XV, evidentemente considerata obsoleta. La seconda (A2) ripropone su 4 righi (2 tastiere) e in pagine separate (inversus-rectus) ciò che il brano XIV espone su coppie sovrapposte (a specchio) di 3 righi. Diverso è il caso del brano XIII, che reca, come il XIV, il rectus e inversus su coppie sopvrapposte (a specchio), ma di 4 righi ciascuna: in pratica quindi direttamente eseguibili su due tastiere.

La figura ci dice anche come il numero XII di Bach (il canone alla quarta inferiore presentato in due forme: ampia, a due righi, XIIa; e concisa, a un rigo, XIIb) non sia stato incluso nell’edizione a stampa (ha lo stesso incipit del XV). In compenso 5 brani (evidenziati in giallo) dell’edizione a stampa non si ritrovano nel manoscritto originale di Bach: a parte lo spurio Choral, c’è solo una parentela fra il Contrapunctus 10 a 4 alla decima e il brano VI (divenuto poi Contrapunctus a 4) di cui incorpora alcune parti; vaghe le notizie sull’origine degli altri tre.

Un altro esempio che testimonia della proliferazione di versioni (o meglio, di ristrutturazioni della sequenza esecutiva) è dato dalla casa editrice Breitkopf&Härtel, che nel tempo si è cimentata (almeno) quattro volte (1841, 1878, 1926, 1950) nell’impresa di mettere in stampa la Kunst. Mi sono divertito (!?) a mettere due di queste versioni (1878 e 1926) a confronto con il manoscritto, ed anche qui il risultato è eloquente, dimostrando non solo la divergenza delle due versioni dall’originale, ma anche la profonda differenza fra le stesse:



In particolare l’edizione di Graeser pare proprio cervellotica (e non sono certo io a dirlo...) Se poi si volesse fare un elenco delle esecuzioni e incisioni della Kunst, credo ne uscirebbe un’enciclopedia... ce n’è davvero per tutti i gusti!

Ma ciò che in generale disorienta chi si avvicina all’ascolto di quest’opera è la colossale babele delle titolazioni dei brani, poichè ciascun editore li titola a suo piacimento, cosicchè accade che - e mi limito ad un esempio fra mille - il Contrapunctus XII di Graeser (dal brano IX, Canon in Hypodiapason nel manoscritto) nulla ha a che vedere con il Contrapunctus 12 di Rust, che è il brano XIII del manoscritto originale: e ciò è tanto più irresponsabile se si pensa che si tratta di due versioni della stessa Casa Editrice!
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Vabbè, basta ora con questo arido tormentone, e veniamo al sodo e alla mia personale scelta scaccia-Covid (certo non definitiva, ci mancherebbe...) Che è stata dettata dalla curiosità di ascoltare una buona volta la Kunst proprio come Bach ce l’ha lasciata sui suoi manoscritti.

E per condividerla ho cercato - e trovato - in rete l’oggetto del desiderio (con un difettuccio, ma è meglio di niente): (quasi) tutto il manoscritto di Bach suonato - nella sequenza originale - al clavicembalo da Fabio Bonizzoni e Mariko Uchimura. Il difettuccio? Aver ignorato il mirabile XIIa (suonando il XV in quella posizione). Ecco qui il contenuto della proposta di Bonizzoni: 

brano
tempo
I
-
II
3’10”
III
6’06”
IV
8’47”
V
11’52”
VI
14’37”
VII
18’02”
VIII
22’34”
IX
26’42”
X
29’08”
XI
36’16”
XV
43’21”
XIII-r
48’31”
XIII-i
50’30”
XIV-r
52’29”
XIV-i
54’47”
A3
57’10”

Quanto al piccolo difettuccio (il canone Hypodiatesseron) si può rimediare così... 

E comunque - date retta a me - a questo Bach non c’è coronavirus che possa resistere!

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