Riecco in Auditorium Aldo Ceccato, per riprendere dopo un po’
di tempo (e di acciacchi…) il ciclo dedicato all’intera produzione orchestrale
di Antonin Dvořàk. Le quattro opere
presentate in questa occasione (in un Auditorium tornato al suo affollamento… medio) si collocano in un decennio (1873-1883) più o meno
baricentrico rispetto alla produzione del compositore boemo, le cui prime opere
risalgono al 1856 e le ultime al 1893.
Nella prima
parte del concerto ascoltiamo una Ouverture e due brani per violino e
orchestra, interpretati dal Konzertmeister
di casa, Luca Santaniello. Ceccato (per
tutto il concerto) sposta i quattro corni alla sua destra, sotto i tromboni, facendo
traslare a sinistra il pacchetto degli strumentini: scelta evidentemente meditata,
e del resto una costante di Ceccato in questo repertorio.
L’Ouverture Husitskà è una composizione del 1883 di carattere commemorativo (l’epopea, risalente
al Rinascimento, delle lotte civili e religiose degli adepti di Jan Hus) e come tale ha un tasso elevato
di retorica ed enfasi, inversamente proporzionale a quello dell’ispirazione (non vorrei
sembrare offensivo, paragonandola alla quasi coeva ciajkovskiana Ouverture 1812 - smile!) Dvořàk,
ormai compositore maturo e famoso, la costruisce peraltro con perizia e
mestiere, giustapponendo nelle tre sezioni i due temi: quello
del Cristianesimo povero ma buono (di Venceslao, per intenderci) e quello degli Hussiti, riformatori-ribelli alla Chiesa
romana del cristianesimo degenerato (cattivo
e secolarizzato) che poi vengono a fondersi nel finale ottimistico.
Su questo tema
patriottico, più profondo era stato l’approccio – pochi anni prima – di Smetana, che aveva costruito sul corale hussita l’intero quinto
poema sinfonico (Tábor) e uno
scorcio del sesto (Blaník) del ciclo Má
Vlast:
L’interpretazione
di Ceccato francamente mi è parsa di basso profilo, forse proprio per ridurre al
minimo l’enfasi… però resta il fatto che quella è la partitura e non mi pare la
si renda migliore attenuandone i contrasti. Un esempio per tutti, la cadenza finale,
veramente moscia moscia.
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Luca
Santaniello
(stasera rimpiazzato sulla sedia di spalla
da Dellingshausen) si pone ora al
centro dell’attenzione con i due brani successivi. Il primo dei quali è la Romanza per violino e orchestra in Fa minore. Opera composta nel 1873 per accompagnamento
di pianoforte e pochi anni dopo ripresa per l’accompagnamento orchestrale. Opera
piena di freschezza ed anche di una certa leziosità. Curioso che vi si trovi
una cadenza del solista che ricomparirà molti anni più tardi nel finale del Concerto
di Sibelius:
Segue a ruota la Mazurek in Mi minore per violino e orchestra. Pezzo brillante, à la Sarasate, di uno Dvořàk ormai avviato alla notorietà (1879).
Impeccabile la prestazione di Santaniello, che ci regala un bis bachiano, facendosi accompagnare in pizzicato dai colleghi della sezione archi.
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Nel percorso a
ritroso nel tempo lungo la strada delle sinfonie,
siamo arrivati alla Quinta, secondo la moderna numerazione, stilata nel secolo
scorso sulla base della cronologia delle composizioni di Dvořàk.
Simrock in realtà la
pubblicò nel 1888 come Terza (dopo la
6 op. 60 e la 7 op.70) e con un numero d’opera (76) assai alto, per farla
passare come fosse una primizia, mentre l’opera giaceva nei cassetti di Dvořàk
da più di 13 anni ed era già stata anche eseguita a Praga quasi 10 anni prima!
La poca
chiarezza sulla numerazione delle sinfonie del boemo fu anche colpa dell’autore
medesimo, che trattava così maldestramente le sue composizioni da perderle per
strada (come accadde alla prima
sinfonia, il cui manoscritto, inviato ad un concorso, non gli fu mai
restituito) o da vederle confiscate dal rilegatore (la seconda) che Dvořàk non aveva i soldi per pagare (!) Così per anni
e anni circolarono solo alcune delle nove sinfonie, nell’ordine la 6-7-5-8-9
che erano numerate da 1 a 5. Si sospetta che Dvořàk giocasse anche un po’ con
la cabala, inventando trucchi pur di non arrivare al fatidico nove…
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La Quinta è catalogata fra le sinfonie pastorali, non solo perché in FA
maggiore come quella di Beethoven, ma anche perché intrisa di spunti e melodie
popolari e di richiami alla natura. Ma è anche una costruzione ardita e complessa,
che pur nel rispetto dei canoni classici, presenta interessanti innovazioni.
Già l’iniziale
Allegro ma non troppo è un classico
tempo in forma-sonata, ma vi si
possono scorgere diversi strappi alle
regole, che denotano volontà innovatrice, ma insieme anche un certo
velleitarismo. L’incipit del primo tema, di piglio effettivamente pastorale, esposto inizialmente dai
clarinetti (con le seste e terze tipicamente boeme) sembrerebbe una reminiscenza da un inciso delle trombe nel Finale della Renana, di quello Schumann
per il quale Dvořàk nutriva una grande ammirazione:
Il tema
sfocia in una salita da tonica a mediante - contrappuntata da ondeggianti
semicrome dei violini - che ricomparirà ciclicamente
proprio verso la fine dell’intera Sinfonia (dove anche l’incipit del tema vi
farà capolino!)
Poi,
prima di presentarci il secondo tema, ecco che l’Autore si lascia, come dire,
prendere la mano dalla smania di strafare: reiterando più volte negli archi
l’incipit del tema, introduce un gran crescendo
che sfocia in tre battute occupate da pesanti terzine di tutta l’orchestra dopo
le quali si presenta, sempre nel FA maggiore di impianto, una seconda idea (grandioso) ancor più maschile della prima:
Ma non
basta, perché a questa segue una transizione piuttosto corposa e articolata,
che avvicina progressivamente – dopo il riapparire della seconda idea - l’entrata
del secondo tema, assai contemplativo
(e fin qui siamo nel pieno rispetto dei sacri canoni) che però è in RE maggiore,
invece che sulla dominante (DO):
È un motivo
che sembra quasi anticipare il Franck del finale della Sinfonia in RE minore
(composta proprio mentre Simrock pubblicava questa di Dvořàk). Viene ripetuto, com’è consuetudine, un’ottava sopra, ma
poi i corni lo ripetono ancora, stavolta in FA (? cosa canonicamente da ricapitolazione!)
E qui abbiamo
un’altra strana novità: come detto, la tonalità si è spostata
verso il FA, e sulle terzine per terze
dei flauti e poi dei clarinetti ci fa presagire il termine dell’esposizione e la sua ripetizione col da-capo. Invece Dvořàk ci infila piuttosto
gratuitamente un’altra lunga transizione che presenta in particolare il secondo
tema, dapprima ancora in FA e poi tornando in RE, due presenze intervallate da
pesanti accordi di tutta l’orchestra, quasi che si fosse già nello sviluppo; mentre per arrivarvi manca
ancora la coda dell’esposizione e tutto
il ritornello della stessa (!)
Lo sviluppo si basa principalmente su
elaborazioni del tema principale, esposto in SOL maggiore (anche questa una
scelta piuttosto bizzarra) e con successive virate a MI e a DO. Il secondo tema
rientra in MIb e viene improvvisamente (e ancora una volta, abbastanza inverosimilmente)
soppiantato dall’entrata in grandioso
della seconda idea, sempre in MIb. Una modulazione ci riporta al FA, dove i
corni preparano, esponendo il tema principale su un tappeto di terzine degli
strumentini, il ritorno dei clarinetti che danno inizio alla ricapitolazione.
La
quale è invece assai lineare, presentando il tema principale (anche qui
seguito, in grandioso, dalla seconda
idea) e poi il secondo tema che si allinea rispettosamente al FA maggiore di
impianto. Una sua cadenza appoggiata sulla tonica porta direttamente alla Coda, interamente occupata dal primo
tema, che passa da flauti a clarinetti e poi, morendo, risale da clarinetti a
flauti e infine si assesta sui corni, che chiudono il movimento in un’atmosfera
di quiete davvero pastorale.
L’Andante con moto che segue è un movimento
monotematico, in LA minore (3/8), che viene normalmente catalogato come una Dumka, genere di origine popolare
ukraina, dal sapore tipicamente elegiaco e meditabondo; l’agogica infatti lo
vuole espressivo e dolente:
Il
movimento si suddivide in tre sezioni: le due estreme occupate dal tema
principale; quella centrale da sue varianti e modulazioni.
Le
prime 4 note sono le stesse che troviamo nell’apertura del Concerto in SIb minore di Ciajkovski, così come nel secondo tema
della sua Polacca, composti quasi
contemporaneamente alla Sinfonia di Dvořàk. Ne avevamo visto l’origine (più plausibile
in Ciajkovski, forse meno in Dvořàk) dalla Reformation
di Mendelssohn.
Nella
prima sezione il tema è esposto per tre volte: inizialmente dai violoncelli, in
forma ristretta; poi dai violini, che ne prolungano la durata; infine, in forma
variata, dal flauto, che poi si alterna con gli archi per svilupparlo ancor
più, sfiorando diverse tonalità, prima di chiudere sul LA minore.
La
sezione centrale (Un pochettino più mosso)
è in chiave di LA maggiore. Il motivo pare derivato per sottrazione dal tema
principale (mancandovi la terza nota, la sopratonica):
scende quindi da dominante a mediante a tonica, in tempo più dilatato. Poi si
riavvicina alla struttura originaria, con le crome ascendenti che accelerando
ci portano al DO maggiore. Qui il tempo torna tranquillo e il motivo della
sezione centrale si sposta dal DO al FA maggiore, dove un poco a poco crescendo e stringendo avvia una pesante perorazione
chiusa da tre battute di crome puntate in fortissimo che cadenzano sul MI,
dominante del LA di impianto. Una lunga transizione caratterizzata
dall’insistito pedale di MI degli archi bassi - su cui svolazzano le biscrome
degli archi e sul quale compaiono come spettri gli incisi giambici degli
strumentini – ci porta verso la sezione conclusiva del movimento.
Torna
quindi il tema in LA minore, in flauti e oboi; poi nei violoncelli, ancora nei
flauti e violini. Adesso l’atmosfera si surriscalda, violini secondi e viole,
poi i fiati martellano biscrome insistenti sul povero tema, fino a sfociare in
un’autentica tregenda, scandita da quattro battute di pesantissimi rintocchi
(LA e MI) del timpano, al placarsi dei quali il tema ricompare nei flauti,
dando inizio ad una cadenza – in cui riappare anche un simulacro del motivo centrale
- dove i suoni si disgregano, fino alla conclusiva
esposizione del tema (flauti, oboi e violini) chiusa da un deciso accordo di LA
minore, seguito da due crome puntate e dalla corona finale, nei fiati.
È
questo movimento una parentesi elegiaca e nobile, ma l’assenza di veri
contrasti la rende anche piuttosto… stancante (non dico proprio noiosa).
Senza
alcuna soluzione di continuità si passa ad nuovo Andante con moto, quasi l’istesso Tempo: si tratta di 16 battute
introduttive, dove i fiati riprendono il LA, ma lo armonizzano come sensibile
di SIb, sul quale i violoncelli, imitando la melodia del movimento precedente,
preparano un’atmosfera sulla dominante, dalla quale tutti gli archi
(contrabbassi esclusi) si distaccano percorrendo una salita cromatica, dal FA
al LA e quindi al SIb, dove inizia il classico Scherzo con Trio.
Il
quale è appunto in Allegro scherzando,
sempre 3/8, in SIb maggiore. Il tema dello Scherzo
è di una chiarezza e semplicità mirabili e fa quasi pensare a certo… Bruckner:
Vi si
possono distinguere tre sezioni: la prima battuta, che stabilisce per così dire
la mascolinità del tema; la seconda e
terza battuta, caratterizzate da crome su intervalli di quarta e quinta; la
quarta battuta, fatta prevalentemente di semicrome. Queste sezioni verranno
impiegate anche separatamente nel seguito.
Il tema
viene esposto una prima volta dagli strumentini, poi subito ripreso dagli
archi; segue una risposta sulla sottodominante, nei fiati, pure ripresa dagli
archi. Una transizione che manipola la seconda e terza sezione del tema ci
riporta con ondeggianti semicrome dei violini al SIb, dove il tema principale
viene sottoposto ad una sorta di sviluppo: dapprima riesposto da flauti e
clarinetti, stavolta contrappuntato a canone stretto dai primi violini e quasi
troncato sul nascere; poi, dopo una battuta vuota, viene appunto vivisezionato
nelle sue tre parti e i frammenti sono sparsi tra strumentini (crome) e archi
(semicrome). Questo sviluppo – prevalentemente in MI minore - culmina con un crescendo costellato da pesanti crome
delle tombe sul secondo tempo della battuta, chiuso da un poderoso accordo di
FA che introduce una nuova transizione, tutta in semicrome che percorrono onde
discendenti e infine effettuano una risalita imperiosa al SIb, dove il tema
viene esposto con la massima enfasi dall’intera orchestra.
Come
all’inizio, c’è la ripetizione (piano) del soggetto e poi la risposta sulla sottodominante
(forte – piano) dopodiché si avvia una cadenza che porta, su semicrome di
clarinetti e poi di oboi e violini, all’ultima comparsa del tema nelle viole, contrappuntato
da clarinetti e flauti, prima dei due secchi accordi di sensibile-tonica che
chiudono lo Scherzo.
Qui undici misure di transizione, in cui primi violini
e viole variano il tema dello scherzo, ci conducono in terreno di REb maggiore,
dove si svolge il Trio. Scopertissimo
nel ritmo il richiamo al Trio della Grande (Schubert era proprio venerato da
Dvořàk):
Questo
Trio si struttura con due sezioni (ripetute) e una coda: la prima sezione è
piuttosto concisa (nell’incipit par quasi di vedere… Elsa!) mentre la seconda si sviluppa in maggiore ampiezza, compreso
un enfatico passaggio centrale. Il ritmo schubertiano
si alterna o mischia con l’esposizione – per terze soprattutto negli strumentini – di melodie di chiara
derivazione popolare boema. La coda è assai corposa (48 battute) e include
anche un nuovo motivo esposto dai flauti prima e dai violini poi, prima del
ritorno verso il SIb per la ripresa dello Scherzo.
Per me,
questo movimento è un autentico gioiellino, il vero pezzo forte dell’opera, che
si meriterebbe davvero di stare in tutt’altra compagnia!
Si
chiude con il Finale, Allegro molto, 4/4, una specie piuttosto
eterodossa di forma-sonata. La
tonalità riprenderà il FA maggiore d’impianto dell’intera sinfonia, ma solo più
avanti. Per ora abbiamo quella che si potrebbe chiamare una (lunga) Introduzione, dove viene presentato,
come in anteprima, il tema principale, che si assesta – anche questa è un’idea
che sta fra l’innovativo e il bizzarro – sul LA minore (cosa che peraltro ricorda
l’ambientazione del secondo tempo). Ma vedremo che il tema principale toccherà
anche altre tonalità, oltre a quella… giusta. Inizialmente è esposto dagli
archi bassi:
Un tema
assai ben scolpito, che vagamente - nell’atto di raggiungere la tonica passando
per la mediante superiore e la sottostante sensibile – ci ricorda Bruch e il suo Concerto per violino, composto quasi 10 anni prima.
Dopo la
presentazione in LA minore, lo riprendono gli strumentini in… SOL minore (!)
poi gli archi lo scimmiottano sul FA (!) finchè sono violini e oboi a
riesporlo, in fortissimo, sul LA,
seguiti subito da viole e violoncelli. Ma poi si sbanda ancora di tonalità,
passando per RE minore e quindi tornando al SOL minore, sul quale si avvia una
transizione caratterizzata dal SOL acuto e poi sovracuto tenuto dai flauti,
dopodiché una progressione negli archi ci porta, indovinate… al FA!
Possiamo
qui individuare l’inizio della canonica esposizione
dei due temi. Il primo finalmente in FA maggiore, sembra uscire dai… binari, espandendosi
a dismisura, sui colpi sincopati dei corni. Si rimane comunque per un po’ sul FA
maggiore, dove il tema si sviluppa con una figurazione di cui si ricorderà
nientemeno che Strauss nell’avvio del suo Rosenkavalier:
Per il
secondo tema cambia ovviamente la tonalità: SOL bemolle. È una melodia che
contrasta con quella nervosa del primo tema, e si muove per gradi contigui
discendenti.
Ora
abbiamo una transizione, dove uno scoppio dei corni sul FA ci riporta verso
l’atmosfera irrequieta del primo tema, che dà inizio ad una specie di sviluppo, in tonalità di DO minore.
Segue una parentesi idilliaca in LAb, prima di ritornare al protervo tema
principale, ora in RE minore, nei violini, seguito da una nervosa sequenza di
accordi che sfociano in un MI dei corni, dominante del LA sul quale l’oboe
ripropone il tema principale in LA minore, ripreso dal clarinetto basso che
chiude lo sviluppo.
I primi
violini iniziano la ricapitolazione
ancora in LA minore, proprio come nell’introduzione, seguiti dagli strumentini
in MI minore, fino all’arrivo del tema principale in FA maggiore, che si
sviluppa come nell’esposizione e poi fa spazio al secondo tema. Il quale non
può non accettare, a questo punto, di accodarsi alla tonalità principale (FA) e
lo fa trascinando poi una lunga cadenza che scende dalla mediante LA alla
dominante DO (chiara reminiscenza del mendelssohn-iano Sogno) ripetuta da diversi strumenti, a canone largo, e che conduce
alla coda.
Qui
ricompare negli strumentini il motivo ascendente (da tonica a sopratonica e
mediante) che viene dalla coda del primo tema della Sinfonia. Esso porta una
breve pausa di calma, presto rotta da un crescendo orchestrale che ha il culmine
in due accordi che ricordano il climax della Leonore-3 e introduce la travolgente chiusa, dove frammenti del
tema principale la fanno da padroni.
Su un accordo
pieno di FA maggiore, a partire da 13 battute prima della conclusione, e anticipando
il consueto fracasso degli schianti finali, i tromboni ci fanno riascoltare, per
due volte, anche l’incipit del primo tema dell’Allegro ma non troppo, che mette quindi il suo sigillo sull’intera Sinfonia.
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In
conclusione, una sinfonia che presenta una narrativa
piuttosto articolata, magari anche un tantino contorta e discutibile, ma tutto sommato
abbastanza… digeribile, se è vero che anche un tipo non proprio di bocca buona –
perlomeno a giudicare dall’accoglienza riservata alla Totenfeier di Mahler! - come Hans
von Bülow, dedicatario dell’opera, se ne dichiarò entusiasta.
Come l’ho
sentita ieri? Mah, il buon Ceccato neanche qui mi ha propriamente entusiasmato:
passi per l’omissione del ritornello dell’esposizione (forse ha voluto togliere
le castagne dal fuoco all’Autore, smile!)
ma imperdonabile giudico il taglio del da-capo del Trio, che ha pesantemente compromesso l’equilibrio del terzo
movimento. Per il resto un’esecuzione lodevole dal punto di vista tecnico
(perdonabile un’incertezza delle trombette sugli accordi finali) da parte dei
ragazzi, ma il complesso non è stato a mio modesto avviso del tutto convincente.
Finalmente rivedremo il Direttore principale John Axelrod in un
programma di… quarte.