Seconda tappa personale al ROF, in un teatro praticamente esaurito, con Sigismondo (quarta e penultima recita).
Parliamo subito della regìa, affidata a Damiano Michieletto, che era uno dei cardini del ROF-31. Orbene, la trama (termine eccessivo) del Foppa sarà pur farraginosa quanto si vuole, ma ruota attorno ad un aspetto centrale che dovrebbe risultar chiaro anche ad un bambino (ma, si sa, un regista à-la-page mica può abbassarsi a quel livello): la doppia identità di Aldimira-Egelinda, da cui nascono tutti gli improbabili sviluppi del dramma. Volendo proprio inventare qualcosa di moderno, il regista poteva proporci una storia tipo Bruneri&Canella, per fare un esempio a caso.
Invece no, Michieletto vuol strafare e scrive di sana pianta una sceneggiatura demenziale (sic!): prendendo lo spunto dai vaneggiamenti del povero Sigismondo, ambienta tutto il primo atto in un manicomio (e poi ci fa riferimento anche nel finale) dove Zenovito (che dovrebbe comparire solo nella seconda parte) è il primario. Ma non inventa proprio nulla, chè già tempo fa il bad-boy Peter Sellars aveva ambientato in un ospedale nientemeno che la Cantata 82 di Bach… Insomma, una regìa da festival, si usa dire, che dovrebbe portare idee e innovazioni; invece siamo alle solite: non ci fosse la musica (di Rossini, nella fattispecie, o di Verdi, o Wagner, o Puccini, o Bach) messinscena come queste – parliamoci chiaro - faticherebbero a trovare spazio in teatrini underground. Insomma, qui nel manicomio ci dovrebbero internare il regista (smile!)
La novità interessante è invece rappresentata dal maestro Michele Mariotti che – a dispetto dei risvolti nepotistici del suo ingaggio al ROF – conferma le sue buone qualità, e sfata il vecchio adagio nemo profeta in patria: guida sicura dell'orchestra e attacchi precisi ai cantanti, con quella sinistra manina-morta sospesa per aria, à-la-Abbado, che taluni gli rimproverano, ma che pare davvero efficace, stanti i risultati che ottiene. Lo risentiremo domenica nel conclusivo Stabat Mater. L'altro trionfatore della serata è Sigismondo, al secolo l'imponente (per stazza fisica e vocione) Daniela Barcellona.
Dopo la deliziosa sinfonia, che Mariotti conduce con gran verve e rispetto dei dettagli, ricambiato da scroscianti applausi, il sipario si apre su uno stanzone di manicomio, per ora occupato da persone rispettabili, vestite di tutto punto (dignitari del povero Sigismondo? che cantano il coro di apertura O prence misero). Il primario (apprenderemo molto più tardi trattarsi di Zenovito) si aggira fra i letti, per ora muto, seguito da Radoski (Enea Scala) e Anagilda (Manuela Bisceglie) che si uniscono ai lamenti. C'è anche Ladislao - che sappiamo essere il responsabile dell'ammattimento del Re, avendone calunniato la sposa Aldimira, mandata a morte - alias Antonino Siragusa, in uniforme marziale, che canta L'immago tiranna, raccogliendo consensi, a dispetto delle chiare difficoltà che mostra (e sempre mostrerà) sugli acuti.
Entra poi Sigismondo (e la Barcellona riceve subito applausi sul Non seguirmi, ormai t'invola) con camicia di forza, spinto su una sedia a rotelle e in preda a tremori da alzheimer. Ora, il Re di Polonia sarà pure in preda a vaneggiamenti e incubi, ma che sia tutt'altro che impazzito ce lo dimostra dì lì a poco il suo argomentare con Ladislao, laddove il Re spiega al suo plenipotenziario (traditore) che Ulderico, Re d'Ungheria e padre di Aldimira, sta riarmandosi per fargli guerra e riprendersi la figlia, e che ci si deve quindi preparare per contrastarlo; non solo, ma lui ha già bell'e pronta in testa una strategia, che prevede per Ladislao il ruolo di ricognitore nelle file nemiche. Viceversa, se è matto il Re, allora, vista l'agitazione che lo possiede (per i rimorsi del passato tradimento) anche lo stesso Ladislao dovrebbe portare – in luogo dell'uniforme - la camicia di forza fin da subito, e non solo alla fine dell'opera, quando verrà giustamente punito…
A questo punto, nell'originale, dovremmo avere un cambiamento radicale di ambiente: dalla reggia (sic!) di Sigismondo (dove l'atmosfera è… pesante) alla dimora agreste e bucolica di Zenovito, in cui è custodita la (creduta) morta Aldimira, sotto l'identità di Egelinda (al secolo Olga Peretyatko). Lì dovrebbero sopraggiungere dapprima Sigismondo con i suoi per una finta battuta di caccia, e poi Ladislao, cui il Re (un interdetto, stando a Michieletto!) aveva dato lì appuntamento, avendolo mandato in perlustrazione ai confini con l'Ungheria del minaccioso Ulderico. Invece siamo sempre al manicomio, e Aldimira-Egelinda vi arriva all'ora delle visite, recitando O tranquillo soggiorno (smile!) e cantando la sua aria Oggetto amabile, con qualche incertezza della sua vocina non proprio potente. Il pubblico però apprezza (nel seguito devo dire che la bella Olga non sfigurerà per nulla). Finalmente parla, e poi canterà, anche il primario Zenovito, Andrea Concetti , mentre il coro (sempre impeccabile, sotto la guida di Paolo Vero) canta Al bosco, alla caccia.
Ecco Ladislao, che fa al Re (matto?) un allarmato briefing sulle sue perlustrazioni e poi scorge Egelinda-Aldimira e ne resta scioccato (Vidi, ah no… che allor sognai) al punto che di Egelinde ne vede addirittura altre tre, spuntate da sotto i letti del manicomio (quindi, caro Michieletto, almeno qui dovevi decidere di internare pure lui!) Sigismondo e Aldimira finalmente si incontrano e Barcellona/Peretyatko ci offrono un illustre esempio di bel canto, nella squisita Tanti affetti, accolte da una vera ovazione.
Ora Zenovito comincia a mettere in atto il suo disegno (smascherare Ladislao): gli propone di presentare Egelinda - al popolo e poi a Ulderico – come la vera Aldimira. Ladislao, sempre più turbato, si prepara a contrastare il disegno, mentre Zenovito canta alla finta figlia Tu l'opra tua seconda, dove Concetti – anche se non potentissimo - mette in nostra una bella sicurezza, ben assecondato dal violoncello obbligato.
Torna Ladislao per prendersi Egelinda, ma Zenovito non è fesso, e gli comunica che la ragazza rifiuta di venire. Ecco quindi il duetto (mentre assistiamo ad un gratuito tentativo di stupro) Perché obbedir disdegni, con incisi della basiliana calunnia, fra Ladislao ed Egelinda, concluso da Siragusa-Peretyatko con il Dubbiosa, smarrita, accolto da convinti applausi.
La scena del finale primo si apre con Sigismondo (Quale, o ciel, d'idee funeste) sempre più turbato dalla somiglianza di Egelinda con Aldimira. Sullo schubertiano Dimmi, Egelinda, in corte chiede alla ragazza di seguirlo alla reggia, presentandosi come Aldimira. Lei accetta a patto di essere garantita della sua incolumità. La fanfara di guerra e il coro annunciano il sopraggiungere delle truppe di Ulderico, e tutti corrono alla reggia di Sigismondo per preparare la difesa. In realtà Michieletto ci rappresenta tutto ciò come il processo di dimissione del paziente Sigismondo dal manicomio (?!) mentre un matto si appiccica, a mo' di alter-ego, a ciascun protagonista (mah!) Meno male che cantanti e orchestra pongono rimedio all'affronto, concludendo alla grande, fra scroscianti applausi.
Il secondo atto è ambientato – toh, più o meno come nel libretto, anche se sullo sfondo si vedono dei matti contorcersi dentro alcune nicchie - in un salone della reggia di Sigismondo, ma con mobili accatastati come fosse disabitata da chissà quanto; mobili che vengono poi pian-piano risistemati. Michieletto ci presenta un Sigismondo in uniforme sì, ma sempre come ubriaco e fuori di sé, anche quando fa una specie di discorso alla nazione, incentrato sull'emergenza che si deve affrontare. Per poi presentare Egelinda come Aldimira, al che il coro prorompe nel Viva Aldimira, nostra regina.
Qui abbiamo il duetto Sigismondo-Aldimira, in cui il Re cerca di appurare la verità, e Aldimira è tentata di svelarla, ma sempre si trattiene (Tomba di morte e orrore, e poi Sospiro, deliro). Il duetto si conclude con Affetti teneri, accolto dal pubblico con un grande applauso a Barcellona e Peretyatko.
Radoski e Anagilda hanno la certezza che Egelinda è in realtà Aldimira: lui è pentito di aver affiancato Ladislao nel tradimento, lei si sente tradita da lui e vede svanire la prospettiva di sposare Sigismondo: qui la Bisceglie canta l'unica aria a lei destinata (Sognava contenti) e tutto sommato se la cava più che dignitosamente, meritandosi il suo applauso a scena aperta. Poi estrae una pistola (?!) e minaccia Radoski, che fugge.
Ecco Ladislao, in preda a dubbi sempre più neri (di Egelinde adesso ne vede quattro!) che canta passabilmente Giusto ciel che i mali miei, accolto da applausi. Poi Radoski passa ad Aldimira una lettera (scrittale a suo tempo dall'amante respinto Ladislao) che servirà alla fine per chiarire tutto.
Si prepara l'incontro-scontro con Ulderico, e Aldimira dichiara la sua fedeltà a Sigismondo (Ah Signor, nell'alma mia) dove la Peretyatko, che è andata in crescendo nella serata, guadagna grandi applausi, così come il coro (D'allori nobili).
Ora entra Ulderico, vero padre di Aldimira, impersonato dallo stesso Andrea Concetti, che nel primo atto vestiva i panni del padre finto della regina. Ladislao cerca di salvarsi spifferandogli il presunto inganno (Egelinda-Aldimira). All'apparire di Aldimira, Ulderico resta colpito, ma perplesso, e la scena precipita nella più alta suspence, con il quartetto Qual silenzio periglioso cantato da Sigismondo, Aldimira, Ladislao e Ulderico (dove Michieletto, ancora, fa appiccicare un matto ad ogni protagonista, come a dire che, tanto, son tutti matti). La scena si conclude con la dichiarazione di guerra di Ulderico (All'armi, all'armi) accolta come sempre da applausi.
Siamo al finale: i polacchi sono in rotta, sconfitti dai magiari (coro O sorte barbara). Sigismondo vorrebbe ancora combattere, ma è catturato da Ulderico. Abbiamo qui il definitivo show-down, con Ladislao che, nel libretto, cade battendo la testa e riacquista così un minimo di onestà, confessando tutto. Per Michieletto invece è Radoski, pentito, che spara un colpo di revolver all'ex-sodale e lo ferisce, riducendolo a più miti consigli.
Tocca alla Barcellona (Io sono un disperato! Alma rea) dare spettacolo di canto e interpretazione, chiudendo con il Fremi pur, io non ti temo, gloria morte a me sarà, che fa letteralmente cadere il teatro dagli applausi.
Poi la meritata punizione per i cattivi fratelli (Ladislao e Anagilda) e il definitivo sigillo del concertato che chiude in bellezza.
Trionfo ultra-meritato per tutti (i musicanti, sia chiaro!)
Per me una corsa folle – ma benedetta - per acchiappare l'ultimo treno per Rimini.