intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

29 agosto, 2010

La stagione della “Verdi” inizia il 5/9 alla Scala

Domenica 5 settembre, dopo i due concerti di apertura del MI-TO con Chailly e la Gewandhaus, la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2010-11 dell'Orchestra Verdi. A propinarci un'autentica abbuffata beethoveniana salirà sul podio Xian Zhang, la cinesina di ferro, alla seconda stagione di direzione musicale dell'Orchestra, dopo quella d'esordio, davvero lusinghiera.

La stagione in abbonamento (dal 9 settembre) comprenderà poi ben 38 concerti (2 in più della precedente) ripetuti su tre turni (normalmente giovedi-venerdi-domenica) oltre ad un ciclo cameristico, al barocco e ad interessanti monografie. Fanno spicco nell'agenda l'integrale delle sinfonie di Schumann e quella (ottava esclusa) delle sinfonie di Mahler, per celebrare le rispettive ricorrenze.

27 agosto, 2010

La scomparsa di Christoph Schlingensief

La scomparsa di una persona è di per sé notizia grama. Uno dei campioni del Regietheater tedesco è morto di un cancro diagnosticatogli anni fa.

A Bayreuth lo ricordano come un grande per un Parsifal che era – a dir poco – da codice penale.

Pace all'anima sua.

25 agosto, 2010

Le inaugurazioni di Riccardo Chailly

La leggendaria Orchestra del Gewandhaus di Lipsia (che ancora conserva gelosamente i cromosomi di tale Mendelssohn) guidata da Riccardo Chailly sarà a breve protagonista di due inaugurazioni di festival: dapprima – il 2 settembre – aprirà la fase culminante della Sagra Musicale Malatestiana n° 61; il giorno dopo sarà alla Scala per inaugurare il MI-TO 2010.

Adriatico quindi ancora in evidenza, sul fronte musicale: dopo il ROF-31, ecco la Sagra riminese, che già dal 4 agosto ha aperto i battenti per proporre una serie di quattro appuntamenti bachiani, e che vedrà la sua fase culminante concertistica tra il 2 e il 19 settembre. Dopo il concerto inaugurale saranno ospiti del festival – di livello rimarchevole, a conferma di una tradizione che si è ormai consolidata dall'ultimo dopoguerra - Constantinos Carydis, con la Mahler Chamber, Semyon Bychkov con la Filarmonica della Scala, Ion Marin con la Filarmonica ceca e Kent Nagano, con l'Orchestra bavarese. I concerti si tengono al (vecchio) Palacongressi, in attesa che il nuovo (ubicato proprio di fronte) venga inaugurato a fine settembre.

Il MI-TO – dal 3 al 24 settembre – arriva quest'anno alla quarta edizione, con un'agenda ricchissima di eventi, fra i quali ovviamente spicca la musica, con ospiti di altissimo livello. Oltre a Chailly, saliranno sui vari podi, fra gli altri: Maazel, Bychkov, Salonen, Tilson Thomas e si esibiranno solisti prestigiosi come Pollini, Zimmermann, Lang Lang, Accardo. Ma l'offerta è davvero corposa (c'è ad esempio una Terza di Mahler, aggiunta specialmente per il MI-TO al programma stagionale dell'Orchestra Verdi).

Fa piacere che – in tempi di vacche magrissime per la cultura e la musica in particolare – manifestazioni come queste continuino ostinatamente a vivere.

23 agosto, 2010

Il ROF-2010: Stabat Mater



Lo Stabat Mater ha chiuso ieri sera il ROF XXXI, un’edizione che forse non entrerà negli annali, ma di cui – dati i tempi – penso ci si possa accontentare.  

In un Teatro Rossini stracolmo e con il palcoscenico invaso dall’orda di musicanti, è toccato ancora a Michele Mariotti (profeta-in-patria, una volta tanto) di guidare i suoi bolognesi, i quattro solisti e il coro di Paolo Vero lungo i 10 numeri di questa straordinaria composizione del Rossini maturo, ormai auto-pensionatosi a Parigi. Dove si trovano tracce dell’intera civiltà musicale occidentale, dai fiamminghi a Bach, da Pergolesi a Mozart; e dove si prefigurano future e grandi tappe della medesima civiltà, dal Requiem di Brahms all’ipertrofico Stabat Mater di Dvorak, alla Messa di Verdi.

Un’occhiata alla disposizione degli esecutori: orchestra in layout moderno, ma con scambio di leggìi fra violoncelli e viole, portate in prima fila, a destra di Mariotti. Solisti in foreground, proprio sul proscenio. L’ambiente è ancora delimitato dalle scene del second’atto di Sigismondo, che ha chiuso sabato la sessione operistica del festival.  

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d’impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l’opera) cui si arriva dopo che violoncelli e fagotti hanno aperto con una scala ascendente di RE maggiore. L’introduzione, tutta in staccato e sincopi, che Mariotti attacca con gran cipiglio, ci porta nel clima mesto, ma agitato dello Stabat, intonato prima dal coro (bassi, poi tenori, soprani e contralti) a canone e poi dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente. Una breve sezione centrale è nella relativa SIb maggiore, dove è Antonino Siragusa a presentarsi in primo piano. Subito lo accompagnano le due soliste e poi il basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat. Rientra il coro, sul Juxta crucem, scandito su SOL ff ribattuto dell’orchestra, fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta al dolorosa, cantato sotto voce, e poi al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell’introduzione, negli archi, e i due perentori accordi di SOL minore.  

2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo, con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l’orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese. Pericolo che il bravo Mariotti scongiura alla grande, rispettando l’agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora a Siragusa esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi la sezione nella relativa FA minore, quindi la ripresa nella tonalità principale, e la coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l’impervia salita alla sottodominante, il REb acuto, sull’ultimo poenas incliti, che Siragusa stacca alla grande, senza apparire impiccato, come viceversa gli era capitato, per molto meno, nel Sigismondo. Efficacissimo poi Mariotti nell’esecuzione della stupefacente cadenza finale.

3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l’incipit largo e misterioso dei corni, in MI maggiore, e poi l’improvviso erompere della scala ascendente, che introduce nel Qui est homo Marina Rebeka (sarà una piacevole conferma, questa giovane lèttone) poi affiancata da Marianna Pizzolato (ancora zoppicante per i postumi dell’incidente di venerdi in Cenerentola) sul Qui non posset (Rossini prescrive in effetti un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal contralto, data l’estensione limitata al SOL#). Le due se la cavano egregiamente in questo brano assai virtuosistico, prima che i corni re-introducano la bellissima cadenza iniziale.

4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell’opera, e tocca a Mirco Palazzi di… impersonarlo. Si parte in LA minore, per poi modulare a maggiore (il procedimento si ripete due volte). Palazzi regge bene l’impegno, voce calda e mai forzata, salvo alla fine, quando peraltro bisogna passare sopra il fracasso orchestrale.

5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con una fugace modulazione alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora col basso. Qui Palazzi conferma le sue buone doti, a dispetto di una voce non proprio profonda, che qui fatica un poco a passare, nei toni gravi. Perfettamente a suo agio invece sui due FA di Fac ut ardeat cor meum.

6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore, soprano, basso e contralto entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sulla relativa FA minore e poi sul DO minore, all’ingresso del basso (Fac me vere) e del contralto. I quattro solisti fanno qui sfoggio di affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. 

7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta da un attacco, dolce, dei corni, che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata al soprano secondo, e quindi è la Pizzolato ad esibire grande cantabilità e portamento.     

8. Inflammatus et accensus. Mariotti toglie le briglie agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni, invero tracotanti, negli incisi discendenti, prima che la Rebeka stacchi il SOL forte, sul primo Inflammatus, per poi passare subito al sotto voce, ben eseguito, sul secondo. Arriva il coro (In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all’inizio della sezione nella relativa MIb maggiore, dove la Rebeka canta Fac me cruce custodiri, contrappuntata dal coro. Si torna a DO minore e poi, sul successivo Fac me, a DO maggiore, dove la solista lèttone stacca assai bene (senza urla sguaiate) i due consecutivi DO acuti, prima che tutta l’orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po’ come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). Davvero impressionante! Qui termina la fatica dei quattro solisti: da adesso padrone della scena sarà il coro.

9. Quando corpus. L’orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l’unico numero dell’opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. Si potrà discutere sulla scelta di affidarlo al coro e non ai solisti, ma uomini e donne di Paolo Vero mostrano di meritarsi alla grande questa preferenza e questo onore. Principia in SIb, per poi passare alla relativa SOL minore. Un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova i cantanti, che se la cavano a meraviglia.  

10. In sempiterna saecula, Amen. Il SOL minore – tonalità di base dello Stabat - torna a farla da padrone in questa colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest’opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora nell’Andantino moderato, per l’Amen. Prima che arrivi la strepitosa cadenza finale, degna in tutto e per tutto di accompagnare il sipario che cala su un melodrammone (nella fattispecie, il ROF XXXI).

In verità… il sipario non cala ancora, poiché il pubblico è in delirio: urla selvagge e battimani ritmati che costringono, più che convincere, Mariotti a concedere un bis, riproponendo l’ultimo travolgente numero, col coro che ancora si supera. Il maestro riceve anche un affettuoso omaggio dai suoi, che fanno tremare il tavolato del Rossini.


Ancora tutti in trionfo e poi, quasi controvoglia, ci si alza per guadagnare l’uscita, in questa tiepida serata di fine-festival.

21 agosto, 2010

Il ROF-2010: Cenerentola

Ier sera quarta ed ultima rappresentazione de La Cenerentola in un'affollatissima Adriatic Arena (una volta cattedrale-nel-deserto, ora circondata e soffocata da nord da edifici costruiti e costruendi) nella ripresa dell'allestimento di Ronconi.

Una regìa da lungo tempo apprezzata, che tornava per la terza volta al ROF. Prendendosi, come unica libertà rispetto all'originale di Ferretti-Rossini, di re-introdurre nella trama un pizzico – ma poco-poco, la cicogna che trasporta al ballo Cenerentola - della magìa di Perrault, da cui gli autori l'avevano invece accuratamente depurata, convinti che il pubblico moderno (dell'anno di grazia 1817) faticasse a digerirla (Ferretti stesso scrisse della delicatezza del gusto romano, che non soffre sul palcoscenico, ciò che lo diverte in una storiella accanto al fuoco). Evidentemente a noi (del terzo millennio) invece un poco di magìa non dispiace affatto… salvo però quando la si trova già nell'originale, chè allora applaudiamo a chi la toglie di mezzo - si veda l'Alcina di Carsen. (Come dice Wotan? Wandel und Wechsel liebt, wer lebt!)

In compenso la protagonista Marianna Pizzolato è una Cenerentola che più realista di così si muore: pare la Concettina, moglie della guardia-giurata Vito Catozzo (famosa macchietta di Faletti al Drive-in) cientoquaranta-pè-cientoquaranta, praticamente 'na scfera… Simpaticamente stridente il confronto con le due sorellastre (al secolo Manon Strauss Evrard e Cristina Faus) che hanno fisici da modelle (ma la voce purtroppo non altrettanto nobile). Ieri sera poi, nel primo atto, dovendosi destreggiare sulle cataste di mobili di cui Ronconi ha riempito il palco, la povera Marianna è incappata in una piccola caduta: lì per lì è parsa una cosa prevista dal copione, ma nell'intervallo è stato annunciato che la protagonista si era procurata una seria distorsione ad una caviglia, e avrebbe continuato la recita, ma con qualche handicap di carattere scenografico. Ed infatti lei è rientrata con la caviglia destra abbondantemente fasciata ed imbragata in uno stivaletto ortopedico (una piccola vendetta della scarpina di vetro di Perrault, bandita dagli autori?) zoppicando vistosamente. E così è apparsa a noi come una Cenerentola ancor più patetica e quindi simpatica. Però la voce è davvero bella, piena e calda, le manca solo un pizzico di potenza in più per essere quasi perfetta. Per lei un gran trionfo lungo l'intera serata.

Don Ramiro era Lawrence Brownlee, la cui vocina ha una potenza direttamente proporzionale alla sua stazza fisica, da peso-piuma. Peccato, perché intonazione, espressione ed acuti sono apparsi eccellenti.

Paolo Bordogna ha trionfato come Don Magnifico: sia sotto l'aspetto vocale che attoriale, una vera macchietta, perfettamente aderente al personaggio.

Nicola Alaimo, nei panni di Dandini, ha ricevuto un'autentica ovazione dopo la cavatina d'esordio. Per il resto: una prestazione vocalmente discreta, e ottima dal lato della presenza scenica.

Alex Esposito è stato un dignitoso Alidoro, che ha ben retto l'impatto con la nobile e difficile aria del primo atto, composta da Rossini in un secondo tempo, a rimpiazzare quella originale scritta in sua vece da Luca Agolini.

A proposito del quale, perfino la Strauss Evrard ha avuto la sua messe di applausi, dopo l'esecuzione dell'aria scritta appositamente per Clorinda.

Tutti insieme efficaci nei concertati; uno su tutti il sestetto del second'atto, con quell'inizio in versi di italica Stabreim: Questo è un nodo avviluppato / Questo è un gruppo rintrecciato / Chi sviluppa più inviluppa / Chi più sgruppa più raggruppa dove Rossini raggiunge vette davvero eccelse.

Sempre all'altezza della situazione il coro di Paolo Vero.

Yves Abel ha guidato l'Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in modo pulito, pur senza suscitare entusiasmi.

Come sempre, applausi a scena… cangiante durante le due (principali) mutazioni di ambiente ideate dal duo Ronconi-Palli.

Al termine gran trionfo per tutti, con parecchi minuti di applausi, e fragor di tavolato: uno spettacolo ancora e sempre godibilissimo, al di là del livello non stratosferico degli interpreti. Insomma, ci voleva un allestimento vecchio di 12 anni e dai tratti assolutamente tradizionali per riscattare le regìe - più strampalate che interessanti - delle due novità di questo Festival.

Festival che chiude oggi il programma operistico, con l'ultima del Sigismondo. Domani lo Stabat Mater metterà il definitivo sigillo, e poi si guarderà al n° 32, i cui titoli sono di tutto rispetto: Mosè, Adelaide e Scala (più un Barbiere in forma di concerto).

19 agosto, 2010

Il ROF-2010: Sigismondo


Seconda tappa personale al ROF, in un teatro praticamente esaurito, con Sigismondo (quarta e penultima recita).
Parliamo subito della regìa, affidata a Damiano Michieletto, che era uno dei cardini del ROF-31. Orbene, la trama (termine eccessivo) del Foppa sarà pur farraginosa quanto si vuole, ma ruota attorno ad un aspetto centrale che dovrebbe risultar chiaro anche ad un bambino (ma, si sa, un regista à-la-page mica può abbassarsi a quel livello): la doppia identità di Aldimira-Egelinda, da cui nascono tutti gli improbabili sviluppi del dramma. Volendo proprio inventare qualcosa di moderno, il regista poteva proporci una storia tipo Bruneri&Canella, per fare un esempio a caso.
Invece no, Michieletto vuol strafare e scrive di sana pianta una sceneggiatura demenziale (sic!): prendendo lo spunto dai vaneggiamenti del povero Sigismondo, ambienta tutto il primo atto in un manicomio (e poi ci fa riferimento anche nel finale) dove Zenovito (che dovrebbe comparire solo nella seconda parte) è il primario. Ma non inventa proprio nulla, chè già tempo fa il bad-boy Peter Sellars aveva ambientato in un ospedale nientemeno che la Cantata 82 di Bach… Insomma, una regìa da festival, si usa dire, che dovrebbe portare idee e innovazioni; invece siamo alle solite: non ci fosse la musica (di Rossini, nella fattispecie, o di Verdi, o Wagner, o Puccini, o Bach) messinscena come queste – parliamoci chiaro - faticherebbero a trovare spazio in teatrini underground. Insomma, qui nel manicomio ci dovrebbero internare il regista (smile!)
La novità interessante è invece rappresentata dal maestro Michele Mariotti che – a dispetto dei risvolti nepotistici del suo ingaggio al ROF – conferma le sue buone qualità, e sfata il vecchio adagio nemo profeta in patria: guida sicura dell'orchestra e attacchi precisi ai cantanti, con quella sinistra manina-morta sospesa per aria, à-la-Abbado, che taluni gli rimproverano, ma che pare davvero efficace, stanti i risultati che ottiene. Lo risentiremo domenica nel conclusivo Stabat Mater. L'altro trionfatore della serata è Sigismondo, al secolo l'imponente (per stazza fisica e vocione) Daniela Barcellona.
Dopo la deliziosa sinfonia, che Mariotti conduce con gran verve e rispetto dei dettagli, ricambiato da scroscianti applausi, il sipario si apre su uno stanzone di manicomio, per ora occupato da persone rispettabili, vestite di tutto punto (dignitari del povero Sigismondo? che cantano il coro di apertura O prence misero). Il primario (apprenderemo molto più tardi trattarsi di Zenovito) si aggira fra i letti, per ora muto, seguito da Radoski (Enea Scala) e Anagilda (Manuela Bisceglie) che si uniscono ai lamenti. C'è anche Ladislao - che sappiamo essere il responsabile dell'ammattimento del Re, avendone calunniato la sposa Aldimira, mandata a morte - alias Antonino Siragusa, in uniforme marziale, che canta L'immago tiranna, raccogliendo consensi, a dispetto delle chiare difficoltà che mostra (e sempre mostrerà) sugli acuti.
Entra poi Sigismondo (e la Barcellona riceve subito applausi sul Non seguirmi, ormai t'invola) con camicia di forza, spinto su una sedia a rotelle e in preda a tremori da alzheimer. Ora, il Re di Polonia sarà pure in preda a vaneggiamenti e incubi, ma che sia tutt'altro che impazzito ce lo dimostra dì lì a poco il suo argomentare con Ladislao, laddove il Re spiega al suo plenipotenziario (traditore) che Ulderico, Re d'Ungheria e padre di Aldimira, sta riarmandosi per fargli guerra e riprendersi la figlia, e che ci si deve quindi preparare per contrastarlo; non solo, ma lui ha già bell'e pronta in testa una strategia, che prevede per Ladislao il ruolo di ricognitore nelle file nemiche. Viceversa, se è matto il Re, allora, vista l'agitazione che lo possiede (per i rimorsi del passato tradimento) anche lo stesso Ladislao dovrebbe portare – in luogo dell'uniforme - la camicia di forza fin da subito, e non solo alla fine dell'opera, quando verrà giustamente punito…
A questo punto, nell'originale, dovremmo avere un cambiamento radicale di ambiente: dalla reggia (sic!) di Sigismondo (dove l'atmosfera è… pesante) alla dimora agreste e bucolica di Zenovito, in cui è custodita la (creduta) morta Aldimira, sotto l'identità di Egelinda (al secolo Olga Peretyatko). Lì dovrebbero sopraggiungere dapprima Sigismondo con i suoi per una finta battuta di caccia, e poi Ladislao, cui il Re (un interdetto, stando a Michieletto!) aveva dato lì appuntamento, avendolo mandato in perlustrazione ai confini con l'Ungheria del minaccioso Ulderico. Invece siamo sempre al manicomio, e Aldimira-Egelinda vi arriva all'ora delle visite, recitando O tranquillo soggiorno (smile!) e cantando la sua aria Oggetto amabile, con qualche incertezza della sua vocina non proprio potente. Il pubblico però apprezza (nel seguito devo dire che la bella Olga non sfigurerà per nulla). Finalmente parla, e poi canterà, anche il primario Zenovito, Andrea Concetti , mentre il coro (sempre impeccabile, sotto la guida di Paolo Vero) canta Al bosco, alla caccia.
Ecco Ladislao, che fa al Re (matto?) un allarmato briefing sulle sue perlustrazioni e poi scorge Egelinda-Aldimira e ne resta scioccato (Vidi, ah no… che allor sognai) al punto che di Egelinde ne vede addirittura altre tre, spuntate da sotto i letti del manicomio (quindi, caro Michieletto, almeno qui dovevi decidere di internare pure lui!) Sigismondo e Aldimira finalmente si incontrano e Barcellona/Peretyatko ci offrono un illustre esempio di bel canto, nella squisita Tanti affetti, accolte da una vera ovazione.
Ora Zenovito comincia a mettere in atto il suo disegno (smascherare Ladislao): gli propone di presentare Egelinda - al popolo e poi a Ulderico – come la vera Aldimira. Ladislao, sempre più turbato, si prepara a contrastare il disegno, mentre Zenovito canta alla finta figlia Tu l'opra tua seconda, dove Concetti – anche se non potentissimo - mette in nostra una bella sicurezza, ben assecondato dal violoncello obbligato.
Torna Ladislao per prendersi Egelinda, ma Zenovito non è fesso, e gli comunica che la ragazza rifiuta di venire. Ecco quindi il duetto (mentre assistiamo ad un gratuito tentativo di stupro) Perché obbedir disdegni, con incisi della basiliana calunnia, fra Ladislao ed Egelinda, concluso da Siragusa-Peretyatko con il Dubbiosa, smarrita, accolto da convinti applausi.
La scena del finale primo si apre con Sigismondo (Quale, o ciel, d'idee funeste) sempre più turbato dalla somiglianza di Egelinda con Aldimira. Sullo schubertiano Dimmi, Egelinda, in corte chiede alla ragazza di seguirlo alla reggia, presentandosi come Aldimira. Lei accetta a patto di essere garantita della sua incolumità. La fanfara di guerra e il coro annunciano il sopraggiungere delle truppe di Ulderico, e tutti corrono alla reggia di Sigismondo per preparare la difesa. In realtà Michieletto ci rappresenta tutto ciò come il processo di dimissione del paziente Sigismondo dal manicomio (?!) mentre un matto si appiccica, a mo' di alter-ego, a ciascun protagonista (mah!) Meno male che cantanti e orchestra pongono rimedio all'affronto, concludendo alla grande, fra scroscianti applausi.
Il secondo atto è ambientato – toh, più o meno come nel libretto, anche se sullo sfondo si vedono dei matti contorcersi dentro alcune nicchie - in un salone della reggia di Sigismondo, ma con mobili accatastati come fosse disabitata da chissà quanto; mobili che vengono poi pian-piano risistemati. Michieletto ci presenta un Sigismondo in uniforme sì, ma sempre come ubriaco e fuori di sé, anche quando fa una specie di discorso alla nazione, incentrato sull'emergenza che si deve affrontare. Per poi presentare Egelinda come Aldimira, al che il coro prorompe nel Viva Aldimira, nostra regina.
Qui abbiamo il duetto Sigismondo-Aldimira, in cui il Re cerca di appurare la verità, e Aldimira è tentata di svelarla, ma sempre si trattiene (Tomba di morte e orrore, e poi Sospiro, deliro). Il duetto si conclude con Affetti teneri, accolto dal pubblico con un grande applauso a Barcellona e Peretyatko.
Radoski e Anagilda hanno la certezza che Egelinda è in realtà Aldimira: lui è pentito di aver affiancato Ladislao nel tradimento, lei si sente tradita da lui e vede svanire la prospettiva di sposare Sigismondo: qui la Bisceglie canta l'unica aria a lei destinata (Sognava contenti) e tutto sommato se la cava più che dignitosamente, meritandosi il suo applauso a scena aperta. Poi estrae una pistola (?!) e minaccia Radoski, che fugge.
Ecco Ladislao, in preda a dubbi sempre più neri (di Egelinde adesso ne vede quattro!) che canta passabilmente Giusto ciel che i mali miei, accolto da applausi. Poi Radoski passa ad Aldimira una lettera (scrittale a suo tempo dall'amante respinto Ladislao) che servirà alla fine per chiarire tutto.
Si prepara l'incontro-scontro con Ulderico, e Aldimira dichiara la sua fedeltà a Sigismondo (Ah Signor, nell'alma mia) dove la Peretyatko, che è andata in crescendo nella serata, guadagna grandi applausi, così come il coro (D'allori nobili).
Ora entra Ulderico, vero padre di Aldimira, impersonato dallo stesso Andrea Concetti, che nel primo atto vestiva i panni del padre finto della regina. Ladislao cerca di salvarsi spifferandogli il presunto inganno (Egelinda-Aldimira). All'apparire di Aldimira, Ulderico resta colpito, ma perplesso, e la scena precipita nella più alta suspence, con il quartetto Qual silenzio periglioso cantato da Sigismondo, Aldimira, Ladislao e Ulderico (dove Michieletto, ancora, fa appiccicare un matto ad ogni protagonista, come a dire che, tanto, son tutti matti). La scena si conclude con la dichiarazione di guerra di Ulderico (All'armi, all'armi) accolta come sempre da applausi.
Siamo al finale: i polacchi sono in rotta, sconfitti dai magiari (coro O sorte barbara). Sigismondo vorrebbe ancora combattere, ma è catturato da Ulderico. Abbiamo qui il definitivo show-down, con Ladislao che, nel libretto, cade battendo la testa e riacquista così un minimo di onestà, confessando tutto. Per Michieletto invece è Radoski, pentito, che spara un colpo di revolver all'ex-sodale e lo ferisce, riducendolo a più miti consigli.
Tocca alla Barcellona (Io sono un disperato! Alma rea) dare spettacolo di canto e interpretazione, chiudendo con il Fremi pur, io non ti temo, gloria morte a me sarà, che fa letteralmente cadere il teatro dagli applausi.
Poi la meritata punizione per i cattivi fratelli (Ladislao e Anagilda) e il definitivo sigillo del concertato che chiude in bellezza.
Trionfo ultra-meritato per tutti (i musicanti, sia chiaro!)
Per me una corsa folle – ma benedetta - per acchiappare l'ultimo treno per Rimini.

17 agosto, 2010

Il ROF-2010: Demetrio e Polibio

Ieri sera, terza e penultima rappresentazione di Demetrio&Polibio per il ROF, al Teatro Rossini, direi affollato, anche se forse non gremito all'inverosimile nei suoi (ad occhio e croce) meno di 800 posti. Pubblico, come vedremo, assai ben disposto e - direbbero i maligni - di bocca fin troppo buona.

La recita comincia con… la fine di un'altra, svoltasi in un teatro virtuale situato al di là del fondo scena: vediamo il protagonista (di spalle) che raccoglie gli applausi del pubblico e quelli dei macchinisti dietro di lui, fa gesti di giubilo a mo' di centravanti dopo un gol, finchè il sipario del suo teatro si chiude. Entrano ora gli addetti alle operazioni di chiusura del teatro. Tutto ciò mentre si suona la sinfonia dell'opera da rappresentare per davvero, il Demetrio&Polibio, per l'appunto.

È chiaro che è tutto invenzione del regista, il fantasioso professor Livermore (che fa opportunamente rima con Stranamore… e non per nulla si avvale dei trucchi del mago Alexander) e non certo dell'autrice del libretto, tale Vincenzina Viganò Mombelli, che ci mise tutta la sua (più o meno povera) immaginazione per ambientare l'opera nella reggia di Polibio, Re dei Parti! Ma sappiamo che la musica di Rossini è talmente flessibile, malleabile e scenario-independent (direbbe un albionico) da farsi apprezzare qualunque cosa le si appiccichi addosso. Peraltro notiamo che il testo – un poema degno in verità della vispa-teresa – viene invece rispettato alla lettera, anche quando contiene profondità filosofiche del tipo: Non assiste ragion i sensi tuoi, ma ben chiami ragion ciò che tu vuoi.

Ignorati del tutto – e meno male – i due comprimari Onao(Alcandro) e Olmira che, in una versione dell'opera, intervengono – con soli recitativi – all'inizio della seconda scena, alla fine della terza e, nell'atto II, all'inizio della seconda, quarta e quinta scena.

Dicevamo, la sinfonia: è un po' come rivedere un filmato dei palleggi di Maradona quindicenne… si capisce già cosa ne verrà fuori a breve! Peccato che i lodevoli sforzi di Corrado Rovaris e dei bravi ragazzi dell'Orchestra Rossini siano alquanto vanificati dallo strampalato vai-e-vieni che imperversa in scena, che finisce per distrarre lo spettatore. Domanda: come mai una tradizione pluricentenaria prevedeva che – durante la sinfonia – il sipario rimanesse rigorosamente chiuso? Vuoi vedere che era per far sì che il pubblico si concentrasse completamente sulla musica? Comunque l'esecuzione è accolta da discreti applausi.

Allontanatisi gli addetti e i pompieri, al termine dell'ispezione di routine, da alcuni bauli e cassoni fuoriescono ora – a mo' di fantasmi – i personaggi dell'opera da rappresentare, vestiti con costumi da primo ottocento (1800, dopo, non prima, di Cristo!) A proposito, scene e costumi sono opera degli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino.

I primi a cimentarsi sono Mirco Palazzi (Polibio ) e Victoria Zaytseva (Siveno) che vengono subito messi alla prova, con le arie della prima scena (Mio figlio non sei e Laccio sì caro) in cui il Re dei Parti e il figlio adottivo arrivato dalla Siria esternano il reciproco amore suggellato poi dalla promessa di Polibio di dare in sposa a Siveno la figlia Lisinga, al che la Zaytseva canta la bellissima Pien di contento in seno. I due se la cavano discretamente e gli applausi non mancano. Già da questo abbrivio compare qualche modesto trucco del mago Alexander, come lo sdoppiamento dei personaggi (ottenuto facendo entrare e muovere in scena delle loro controfigure) o la levitazione di candele e candelabri, che vagano su e giù nello spazio, o lingue di fuoco che si sprigionano dal palmo delle mani dei protagonisti.

Adesso si presenta Yijie Shi nei panni di Eumene (Demetrio, Re di Siria sotto mentite spoglie) per avanzare a Polibio la richiesta – sdegnosamente respinta - di riavere Siveno (per riconsegnarlo appunto al Re di Siria): tutto ciò viene esposto in un lungo recitativo, a cui segue il duetto Non cimentar lo sdegno concluso da un rapinoso Odio, furor, dispetto, in cui esplode la reciproca avversione tra i due sovrani. Quest'ultima parte della seconda scena è presentata invero bene, e i due (Palazzi-Shi) si meritano applausi. Il mago Alexander qui usa degli specchi trasparenti per mostrarci i personaggi, che vi si specchiano, e le loro controfigure, che traspaiono da dietro (?!)

La terza scena è dedicata alla cerimonia dello sposalizio fra Siveno e Lisinga. L'ambiente sembra una lavanderia industriale, con centinaia di abiti appesi a lunghe funi ad altezze diverse (ambientazione che tornerà anche più avanti). Il coro Nobil, gentil donzella (discreto l'esordio dei praghesi di Lubomìr Màtl) introduce la giovane, al secolo Marìa Josè Moreno, che subito deve affrontare una delle diverse prove assai difficili di cui Rossini la gratifica: Alla pompa già m'appresso. Portata a termine non senza affanno, ma generosamente premiata dal pubblico. Poi lei e la Zaytseva si esibiscono nel bellissimo e ispirato duetto Questo cor ti giura amore, ben portato e accolto con grande favore dal pubblico. Segue poi il recitativo in cui Polibio esterna agli sposi i suoi timori (riguardo ad Eumene) al che Siveno, ma più ancor Lisinga promettono di combattere fieramente per opporsi ai siriani. E qui c'è il terzetto con coro Sempre teco ognor contenta che in realtà poggia in prevalenza sulle spalle della Moreno, che in certi momenti sembra faticare a tener botta agli innumerevoli virtuosismi di cui il brano è disseminato e mostra anche qualche calo di troppo. Applausi comunque per tutti, poi la scena si chiude con il recitativo di Polibio e Siveno, che pregano che il pericolo passi.

Nella quarta scena torniamo da Eumene, che organizza con i suoi il rapimento di Siveno (coro Andiamo taciti). I seguaci del siriano recano delle fiaccole, e ciò è effettivamente in linea con il libretto, visto che poi appiccheranno incendi alla reggia di Polibio. Eumene spiega, nel recitativo, di aver corrotto tutti gli uomini di Polibio e poi impartisce gli ordini per l'azione (sembra il dapontiano metà di voi qua vadano, ed altri vadan là…) prima di attaccare la grande e impegnativa aria (con coro) All'alta impresa tutti, che Shi porta a termine con buona sicurezza, meritandosi un grande applauso.

Ora arriviamo alla quinta scena, dove troviamo Lisinga in atto di mettersi a letto. In realtà è sdraiata su un pianoforte a coda, che si libra a mezz'aria (!?) La breve aria Mi scende sull'alma è un'altra perla degna del Rossini maturo: la Moreno qui non va affatto male, e viene gratificata da applausi a scena aperta. Eumene, che era lì accanto fin da prima con i suoi, li ferma – nel recitativo accompagnato - e si appresta a rapire quello che pensa essere Siveno. Invece scopre trattarsi di Lisinga, che prende comunque in ostaggio. Qui inizia il duetto Eumene-Lisinga (Ohimè, crudel, che tenti) che poi sfocia direttamente, con l'arrivo di Polibio e Siveno e del coro - e mentre divampa un incendio appiccato dai seguaci di Eumene - nel grande concertato del finale primo, dove è sempre la Moreno ad aver la parte più ardua. Grandi applausi al termine dell'atto, mentre arrivano in scena i vigili del fuoco, a spegnere l'incendio.

Il secondo atto si apre con il coro Ah che la doglia amara, nobile e mesto, che compiange il povero Polibio, privato della figlia. Tutti sono sdraiati a terra, come moribondi per il dolore. Polibio ora canta (per bocca di Palazzi) Come sperar riposo, un'aria assai difficile, che poi trasmuta in duetto, per l'intervento di Siveno (Venite, o fidi miei) cui si aggiunge ulteriormente il coro (Si voli dunque a lei). Buona prestazione di Palazzi-Zaytseva e scroscianti applausi.

La seconda scena principia con il recitativo di Lisinga ed Eumene (che tiene in ostaggio la ragazza) che precede il sopraggiungere di Polibio e Siveno. Siamo ancora in una tintoria-lavanderia, anche se gli abiti appesi sembrano sgualciti e sbrindellati. Qui abbiamo il grande quartetto Donami omai Siveno, che si può così sommariamente articolare: battibecco Eumene-Polibio, ciascuno dei quali punta un pugnale alla gola del/la figlio/a dell'altro; Lisinga e Siveno che si offrono come vittime, pur di salvare l'altro/a; esternazione di Eumene, che dichiara essere il padre di Siveno; scambio di prigionieri e quartetto Padre/figlia/figlio qual gioia io provo, dove i padri si rallegrano per aver riavuto i figli e questi sperano (illusi!) in una generale riappacificazione; Eumene che rifiuta di riconciliarsi con Polibio (All'armi, o fidi miei) e trascina via Siveno, che si dispera con l'amata (Tu mi dividi, o dèi!) Una cosa musicalmente strabiliante, se si pensa che fu composta da un ragazzo! Qui i quattro protagonisti e Rovaris con l'orchestra ce la mettono davvero tutta e – in un modo o nell'altro, mentre i cantanti sono appollaiati sulla catasta di bauli fatti vorticosamente ruotare dalle loro controfigure e da altre comparse – riescono a sfangarla senza troppi danni, così meritandosi l'apprezzamento del pubblico.

Si passa alla terza scena, dove Eumene racconta a Siveno di come lo fece trasferire, sotto mentita paternità, dalla Siria, per salvarlo da una sanguinosa rivoluzione. Siveno comprende, ma confessa di non poter vivere ormai lontano dalla sua famiglia acquisita (Perdon ti chiedo, o padre). Qui la Zaytseva è abbastanza convincente, per lo meno sul pubblico presente in sala, che non lesina gli applausi.

All'inizio della quarta scena troviamo Lisinga che lamenta l'assenza dello sposo, invocando la morte. Ma suo padre l'avverte che Eumene non è lontano, e Lisinga si offre di combattere in prima persona, per liberare Siveno. Dopo aver arringato i suoi, canta – contrappuntata dal coro - un'aria davvero irta di difficoltà e costellata di acuti: Superbo, ah tu vedrai. Forse non è l'ideale per la volonterosa Moreno, che tuttavia riesce a non andare in tilt e il generoso pubblico non le fa mancare il suo applauso.

All'inizio della quinta scena troviamo un Eumene vaneggiante, essendo stato abbandonato dal figlio Siveno, andato in cerca di Lisinga. Lungi dal figlio amato è cantata da Shi con sufficiente portamento, ben sostenuto anche dal coro. Sopraggiungono Lisinga e i suoi (Eumene scellerato) e si apprestano a trucidare il siriano, quando subentra Siveno, a difendere il padre, frapponendosi fra lui e la punta di una sciabola (!?) brandita da Lisinga. Eumene finalmente si decide ad arrendersi e benedice gli sposi, mentre i cori inneggiano a Siria e Persia. Applausi per tutti.

La scena finale si apre col coro Festosi al Re si vada. Polibio resta interdetto vedendo Lisinga con Eumene, ma questi svela finalmente la sua vera identità: è Re Demetrio. Che chiude la sua esternazione con due versi da antologia: La nostra fede con più tenaci nodi ora si stringa / Siven viva felice con Lisinga. Poi tocca ancora all'ormai esausta Moreno aprire il coro finale (Quai moti al cor io sento) sul quale si chiude in bellezza. Trionfo per tutti, con ovazioni per i quattro protagonisti e per Rovaris e Màtl.

Tutto sommato, uno spettacolo dignitoso, in linea con la definizione datane dagli stessi organizzatori: low-cost. Senza privare di nulla il pubblico, e senza offesa per Livermore e gli accademici di Urbino, poteva diventare benissimo anche un low-low-cost, se presentato in forma di concerto (ma in tal caso, col pubblico meno distratto dalle magìe, per voci e suoni sarebbe stata davvero un'altra musica…)

11 agosto, 2010

Quel che sia Consonanza, Dissonanza, Harmonia & Melodia.


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DA i Mouimenti tardi & ueloci, adunque, insieme proportionati nasce la Consonanza, considerata principalmente dal Musico, la qual dichiarando da nuouo dico, ch'ella è compositione di suono graue & acuto, che peruiene alle nostre orecchie soauemente & uniformemente, & hà possanza di mutare il senso; ouero è (secondo che la definisce Aristotele) Ragion de numeri nell'acuto & nel graue. Dallequali definitioni potiamo comprendere, che la Consonanza nasce, quando due suoni, che sono tra lor differenti senz'alcun suono mezano, si congiungono concordeuolmente in un corpo; & è contenuta da una sola proportione. Ma perche di due opposti, ritrouandosi l'uno in essere, è necessario, che si ritroui anco l'altro, & si habbia di loro una istessa scienza; però essendo la Dissonanza contraria alla Consonanza, nel modo ch'io la dichiarai nel principio del Secondo delle Dimostrationi; non sarà difficile saper quello, ch'ella sia; percioche ella è compositione di suono graue & d'acuto, laquale aspramente peruiene alle nostre orecchie. Et nasce in tal maniera, che mentre tali Suoni non si uogliono vnire l'un con l'altro, per la disproportione, che si ritroua tra loro; & si sforzano di restar nella loro integrità; offendendosi l'un l'altro peruengono senz'alcuna soauitade all'Vdito. Ne solamente si ritrouano due Suoni tra loro distanti per il graue & per l'acuto, che consonino; ma tali Suoni anco si odono molte fiate tramezati da altri suoni, che rendono soaue concento; com'è manifesto; & sono contenuti da più proportioni; però i Musici chiamano tal compositione Harmonia. Onde si dè auertire, che l'Harmonia si ritroua di due sorti; l'una dellequali chiamaremo Propria, & l'altra non Propria. La Propria è quella, che descriue Lattantio Firmiano, in quello dell'Opera di Dio, dicendo; i Musici nominano propriamenteHarmonia il concento di chorde, ò di uoci consonanti ne i loro modi, senza offesa alcuna delle orecchie; intendendo per questa il concento, che nasce dalle modulationi, che fanno le parti di ciascuna cantilena, per fino à tanto che siano peruenute al fine. Harmonia propria adunque è compositione, ò mescolanza de suoni graui & de acuti tramezati, ò non tramezati, la qual percuote soauemente il senso; & nasce dalle parti di ciascuna cantilena, per il proceder che fanno accordandosi insieme, fin à tanto, che siano peruenute al fine; & hà possanza di dispor l'Animo à diuerse passioni. Et questa Harmonia non solamente nasce dalle Consonanze; ma dalle Dissonanze ancora; percioche i buoni Musici pongono ogni loro studio di fare, che nelle Harmonie le Dissonanze accordino; & che con marauiglioso effetto consonino di maniera, che noi la potiamo considerare in due modi; cioè, Perfetta & Imperfetta. La Perfetta quando si ritrouano molte parti in una cantilena, che uadino cantando insieme, di modo che le estreme siano tramezate dall'altre; & la Imperfetta, quando solamente due uanno cantando insieme, senza esser tramezate da alcun'altra parte. La non propria è quella, c'hò dichiarato di sopra; la quale più presto si può chiamare Harmoniosa consonanza, che Harmonia; conciosia che non contiene in se alcuna modulatione; ancora c'habbia gli estremi tramezati da altri suoni; & non hà possanza alcuna di dispor l'Animo à diuerse passioni; come l'Harmonia detta Propria; laquale di molte harmonie Non proprie si compone. Et se ben pare, che l'Harmonia Propria non habbia da se tal forza; tuttauia l'acquista col mezo del Numero & dell'Oratione; cioè, del Parlare, ò delle Parole, che se le accompagnano; le quali tanto più, ò meno commuouono; quanto più ò meno sono accommodate al Rhythmo, oueramente al Metro con proportione. La onde poi da tutte queste tre cose aggiunte insieme; cioè, dall'Harmonia propria, dal Rhythmo & dall'Oratione; nasce (come uuol Platone) la Melodia. Ma come l'Harmonia Non propria si diuida in quella, ch'è detta Semplicemente, & nella detta Ad un certo modo; & quello che sia l'una & l'altra; da quello, ch'io hò scritto nella Quarta & Quinta definitione del Secondo delle Dimostrationi, si potrà comprendere; come etiandio si potrà dalla Prima & dalla Seconda conoscer quello che sia Consonanza Propriamente & la Communemente detta; nelle quali essa Consonanza si uiene à diuidere.


ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Seconda Parte. Capitolo 12. (MDLVIII)

07 agosto, 2010

Il ROF-2010

Snobbati (quasi) del tutto Bayreuth e Salzburg (colpevolmente, ma il mare della Sardegna è una giustificazione più che valida) si torna alla musica sul più casereccio Adriatico dove, da lunedi 9 agosto, va in onda (smile!) il ROF edizione 31. Con due novità assolute e una ripresa: Sigismondo, Demetrio&Polibio e Cenerentola.

Le prime (9-10-11) saranno tutte trasmesse in diretta su Radio3 (ore 20).

Io invece, trovandomi da quelle parti, ho costruito il mio personale programma post-ferragostano in modo da percorrere quattro tappe in rigorosa successione cronologica di composizione: quindi prima Demetrio&Polibio (1806) poi Sigismondo (1814) indi Cenerentola (1817) e – per chiudere in bellezza – lo Stabat Mater (1842).

Demetrio&Polibio è di fatto l'opera prima di un Rossini appena quattordicenne. Il che rende l'ascoltatore ancora più stupefatto, di fronte alla grande maestrìa che l'imberbe ragazzino mette in mostra. I personaggi, oltre al coro, sono solo quattro (l'opera fu scritta per essere interpretata dalla famiglia Mombelli, più il maggiordomo!) La trama – partorita dalla fantasia della moglie del Mombelli - è di quelle classiche per l'epoca (un po' come i reality dei giorni nostri):

  • Polibio, Re dei Parti (basso) ha adottato come figlio un ragazzo, Siveno (contralto en-travesti) arrivato dalla Siria in circostanze piuttosto misteriose;
  • Demetrio, Re di Siria e padre di Siveno (tenore) fa visita (sotto le mentite spoglie di Eumene) a Polibio, per recuperare il figlio;
  • Polibio glielo nega, celebrando invece le nozze di Siveno con Lisinga, sua figlia (soprano);
  • Eumene cerca di rapire Siveno, ma al suo posto si trova fra le mani Lisinga, che usa come ostaggio per reclamare il figlio;
  • Eumene annuncia a tutti di essere il padre di Siveno;
  • Polibio ed Eumene si scambiano Lisinga e Siveno e si separano;
  • Eumene racconta a Siveno i retroscena della vicenda, e Siveno lo lascia per andare a prendere Lisinga;
  • Polibio e Lisinga decidono di affrontare Eumene; Lisinga è sul punto di ucciderlo;
  • Siveno arriva e ferma Lisinga, mentre Eumene svela la sua vera identità: Demetrio;
  • generale riappacificazione e tutti vissero felici e contenti!

In alcune versioni del libretto si trovano altri due personaggi: Olmira (tata di Lisinga, soprano) e Onao (o Alcandro? fedelissimo di Polibio, tenore) che peraltro sono impegnati soltanto in brevi recitativi di contorno (al ROF, stando alla locandina, verranno giustamente ignorati).

Ma è la musica, come detto, a lasciare stupefatti: a partire dalla sinfonia, per passare ad arie, duetti, quartetti, cori e concertati. E non per nulla già da questa prima opera Rossini si farà imprestare spunti e brani musicali da impiegare in opere successive.

Sigismondo soffre di un libretto (di Giuseppe Foppa) che definire squinternato è fargli un complimento. Ma sappiamo che, nel caso di Rossini in particolare, anche i testi più squallidi vengono nobilitati dalla strabiliante vena musicale. Che peraltro qui mostra qualche scadimento, rispetto ad opere immediatamente precedenti (Tancredi e l'Italiana) tanto che Rossini stesso non esitò ad incoraggiare il pubblico a fischiare!

Nell'opera manca qualsiasi azione, e tutto il plot si incentra su un'improbabile serie di scatole cinesi di equivoci incentrati sull'identità di una donna (Aldimira, soprano) moglie del Re Sigismondo di Polonia (contralto en-travesti) creduta morta dopo essere stata ripudiata dal Re dietro false accuse di Ladislao (dignitario traditore, tenore, spalleggiato dalla sorella Anagilda, mezzosoprano e dal confidente Radoski, tenore) e che invece è viva e vegeta, col nome di Egelinda, in casa di Zenovito (fedele al Re, basso). Sigismondo incontra per caso Egelinda, viene attratto dalla sua somiglianza (sfido!) con la (creduta) defunta moglie e, consigliato da Zenovito, che vuole smascherare Ladislao, decide di presentarla come la rediviva Aldimira al popolo e al di lei padre Ulderico (Re di Ungheria, basso) onde placarne le ire. Lo sbifido Ladislao cerca di approfittare della situazione avvertendo Ulderico dell'inganno. Battaglia fra polacchi e magiari, che prevalgono, poi tutto si chiarisce quando Aldimira mostra uno scritto galante di Ladislao a lei indirizzato (e conservato da Radoski) che certifica la sua vera identità. Tutti felici e contenti quindi, salvo il fetentone Ladislao, meritatamente punito.

Davvero una roba da chiodi! È un miracolo che Rossini ci abbia comunque scritto sopra della musica sopraffina, oggetto di altri imprestiti ad opere successive.

Cenerentola è opera affermata da sempre e non ha bisogno di lunghe presentazioni. Anche qui – come spessissimo in Rossini - il ruolo della protagonista è affidato ad un contralto. Il principe Don Ramiro è ovviamente un tenore; i suoi collaboratori sono Dandini (baritono) e Alidoro (basso). Tisbe e Clorinda (mezzosoprano e soprano) sono le sorellastre cattive di Angelina (Cenerentola). Don Magnifico (basso) è il padre delle ragazze. La trama, che Jacopo Ferretti chiaramente mutuò – peraltro eliminando tutti gli effetti magici - dalla fiaba di Charles Perrault, è al solito infarcita di travestimenti, scambi di persona, e quindi di agnizioni, che portano al lieto fine. È per certi versi anche parente della trama del Barbiere, dove Rosina si innamora dello squattrinato Lindoro, per poi scoprire che è il Conte: qui Cenerentola si innamora del (finto) cameriere, che alla fine si manifesta come il principe.

Come suo solito, Rossini si auto-imprestò per la Cenerentola la sinfonia e brani musicali da opere precedenti.

Lo Stabat Mater è un capolavoro del Rossini maturo (e ormai in via di auto-pensionamento). In 10 numeri, impegna i quattro classici solisti (soprano, mezzosoprano, tenore e basso) più il coro. Musica più da teatro che da chiesa, è stato scritto. Un po' come per il Requiem di Verdi… quindi straordinaria!

05 agosto, 2010

Un altro orecchio ai Proms-2010

Valery Gergiev è stato il protagonista assoluto del Prom-26, dirigendo le due sinfonie mahleriane che sono comunemente definite come i due fronti del confine che separa il ciclo-Wunderhorn dal resto della produzione sinfonica del boemo (definizione suggestiva, quanto fallace, peraltro).

L'Orchestra era davvero particolare: la World Orchestra for Peace, fondata dal venerabile Georg Solti 15 anni fa, che riunisce – per particolari eventi – fra i migliori musicisti del pianeta; con un po' di sano patriottismo, elenco i membri che provenivano stasera da orchestre italiane (3 su 92):

  • Valentina Bernardone, secondo violino della Mozart di Bologna;
  • Simone Briatore, secondo violino della Santa Cecilia;
  • Sandro Laffranchini, violoncello della Scala.

Insieme a colleghi arrivati dal Giappone, dalla Palestina, dalla Cina, dall'Australia e naturalmente da tutti i Paesi europei e americani, ci hanno dimostrato che esiste anche il volto umano della globalizzazione.

04 agosto, 2010

Un orecchio ai Proms-2010

La Terza di Mahler, andata in onda questa sera sotto la direzione sopraffina di Runnicles, è solo un mattone del mastodontico edificio dei Proms, una manifestazione che davvero non ha pari al mondo, e non solo per la quantità delle proposte.

Restando a Mahler, in questa edizione vengono presentate 6 delle 9 sinfonie e i principali cicli di Lieder. Domani stesso sarà Gergiev a dirigere la Quarta e la Quinta.

Impressionante poi la dotazione documentale disponibile in web: per ciascun concerto è accessibile fra l'altro il programma di sala, sempre corposo e curatissimo.

Tutti i programmi restano poi accessibili on-demand per 7 giorni dopo la diretta, in modo che ciascuno li possa ascoltare con calma.

Il sito web è ricchissimo di funzioni di ricerca: per data, per compositore, per artista…

L'11 settembre, all'interno dell'enorme concerto di chiusura, ci sarà nientemeno che Renée Fleming, che canterà lieder di Strauss e arie di Dvorak e Smetana.

Eh sì, è proprio la bi-bi-sì

02 agosto, 2010

Il Ring secondo Thielemann

Confesso di aver preferito il mare della Sardegna agli ascolti radiofonici del Ring di Bayreuth (complimenti ad Amfortas per l'abnegazione e le splendide recensioni!) Per pura curiosità mi sono collegato domenica sera per ascoltare il finale del Crepuscolo, dove ho avuto l'ennesima conferma di una invenzione del pur grandissimo Thielemann (oggi indubbiamente il miglior interprete wagneriano).

Si tratta dell'ultima pagina della partitura, dove Wagner fa morire il vecchio mondo e il vecchio ordine costituito e ne fa nascere – o ce ne fa intravvedere - altri, nuovi. Su questa pagina il buon Christian ha – da tempo - aggiunto di sana pianta una sua personale notazione, come riporto in figura (ho omesso le ultime due battute e mezza, dove suona soltanto l'accordo di REb maggiore). È ormai come un marchio, una di quelle pisciatine che i cani lasciano sul loro percorso per segnalare la loro presenza: e non è una caratteristica esclusiva del maestro tedesco, ma un atteggiamento comune a molti grandi direttori.








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Come si può notare, dopo l'ultima esposizione del tema (1) del Crepuscolo (prime due battute nella figura) Wagner introduce le ultime 7 battute, dove espone il tema (2) cosiddetto della Redenzione, semplicemente omettendo qualunque segno di legato a cavallo della barretta verticale. Perciò prescrivendo solo un'impercettibile cesura fra i due motivi (Crepuscolo-Redenzione): una semplice presa di respiro (anche la tonalità non cambia). Quindi non ci dice che finisce un mondo, punto (come fa Thielemann, che ci aggiunge una vera e propria corona puntata, che domenica ha fatto durare almeno due semiminime!) e poi ne comincia un altro, con tanto di Redenzione: ci dice invece che il mondo che viene è la diretta continuazione di quello che è andato in rovina.

Analizziamo allora queste ultime sette misure: esse sono occupate dal tema della Redenzione in violini e flauto che porta all'accordo finale (3 misure) di REb; apparentemente sembra la pura e semplice riesposizione di una melodia ottimistica e beneaugurante, ma in realtà la partitura d'orchestra contiene mille riferimenti e reminiscenze, quasi a condensarvi l'intero Ring!

Intanto chiediamoci: cosa ci rappresenta, il tema della Redenzione, a dispetto della consolante etichetta? Esso era comparso, in precedenza, solo in una ben precisa ed isolata circostanza (terzo atto di Walküre): l'annunciazione da parte di Brünnhilde a Sieglinde della sua prossima maternità; ed allora, perché non pensare che il tema null'altro rappresenti se non il Siegfried appena concepito, e quindi, visto lo svolgersi successivo dei fatti, una promessa non mantenuta?

La caduta di settima (3) che si ripete tre volte, altro non è che la maledizione dell'amore di Alberich (si veda il so verfluch' ich die Liebe del Rheingold!) Dopo le due prime cadute abbiamo una risalita sull'intera scala di REb, fino alla tonica. Questa risalita (4) è in realtà un frammento di due terzine che si trova nell'esposizione originale del tema nella Walküre, ma che qui richiama scopertamente le Figlie del Reno dell'inizio atto, là risalendo, in tonalità SOL, da tonica a sesta, qui da sopratonica a sensibile. Sulle prime due cadute di settima, ottoni e legni suonano (5) la seconda maggiore discendente (il tema del Rheingold) già associata (nel racconto di Waltraute del primo atto, e poco prima nell'esortazione di Brünnhilde) al Wotan che sogna la restituzione dell'anello al Reno, come strumento di salvezza, se non per lui personalmente, almeno per il suo ordine costituito.

Poi c'è l'accompagnamento dei bassi (6) con una discesa che ci ricorda la chiusa del tema del Walhall, come presentatoci nel Rheingold. Quindi abbiamo nientemeno che la comparsa del tema della schiavitù (7) ottenuta facendo "scendere" tutti i fiati, flauti esclusi, di una seconda minore, SIb-SIbb. Ciò è funzionale all'introduzione dell'accordo di sesta minore (8) che ci ricorda chiaramente l'anello (!)

In sostanza, in sole quattro misure, accanto alla presunta Redenzione, Wagner ci ricapitola: la fallace speranza riposta in Siegfried, il Walhall, l'amore maledetto da Alberich, le Figlie del Reno, la speranza di salvezza di Wotan, la schiavitù e l'anello!

Di fatto: il mondo che viene si porta dietro tutti i cromosomi di quello che muore.

Servono delle conferme? Prima: chi sopravvive al cataclisma? Le Figlie del Reno e Alberich (toh!) Seconda: sapete qual'è il salto di tonalità fra l'originale esposizione del tema della Redenzione, nella Walküre (SOL) e quella di quest'ultima comparsa (REb)? Precisamente un tritono, lo sbifido diabolus in musica!

Insomma, è come se Wagner abbia voluto chiudere la sua divina commedia non con un gesto di religiosa speranza, ma con un ghigno beffardo!

Ecco perché trovo quella corona puntata di Thielemann davvero fuori posto…