ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

28 gennaio, 2008

L’ultima di Calixto

La bizzarra moda di rappresentare il (presunto) significato, e non il significante, che sta alla base del cosiddetto Regietheater, ha trovato negli ultimi anni un nuovo campione in Calixto Bieito.

Costui - come altri sedicenti artisti - magari avrà anche delle idee originali in testa, quali: la disumanità del capitalismo, la perdita di valori nella nostra società, l’incomunicabilità fra gli uomini, la mercificazione del sesso, e altri simili arditi filosofeggiamenti. Orbene, invece di prendersi la briga, come ci si dovrebbe aspettare da un artista, di scrivere piéces teatrali sui suoi soggetti, magari musicandole egli stesso, o facendole musicare da qualcuno... e poi cercare di rappresentarle da qualche parte, cosa fa un tipo alla Bieito?

Si propone come regista di drammi wagneriani (o di opere mozartiane o verdiane) calati nella nostra moderna società. Con ciò ottiene alcuni interessanti (per lui) risultati:

1. non fa alcuna fatica a scrivere parole, nè musica: li trova già bell’e pronti;
2. non ha alcun problema di promozione della sua immagine, poichè utilizza quella di artisti e di opere collaudati da decenni, se non da secoli di successi in tutti i teatri del mondo;
3. più il pubblico fischia le sue regie, meglio per lui! È il miglior modo per farsi pubblicità ed essere scritturato da teatri la cui importanza è inversamente proporzionale alla preparazione e alla serietà dei rispettivi sovrintendenti.

L’ultima? Una performance a Stoccarda, dove si rappresenta uno spaccato dell’infernale società capitalistica moderna: un manager che ha perso il posto, che vede intorno a sè soltanto disumanità ed arrivismo e che si riduce disperato a cospargersi di benzina, minacciando di darsi fuoco; un gommone che trasporta clandestini, guidato a frustate da un manager in carriera; una donna-oggetto, che vede ogni sua sensibilità soffocata da una famiglia di benpensanti e diventa ossessionata dal far del bene a qualcuno; manager e impiegati di aziende concorrenti che si abbandonano ad orgiastici festini - con conigliette (che escono come cagnolini da una cuccia) e champagne - distruggendo frigoriferi e lavatrici (i prodotti del capitale, già, perchè c’è anche il consumismo!) Il lato davvero debole, quasi incomprensibile, di questa straordinaria opera d’arte è il lieto fine che la conclude, col povero manager disoccupato che trova nella donna pia amore, pace, pietà e tutti i valori positivi!

L’opera, chiederete... Ma perchè, non basta quanto sopra?

E invece sì, c’è anche l’opera: il Fliegende Holländer di Wagner.

Ma, a supportare adeguatamente il capolavoro di Bieito, potevano andar benissimo anche Tannhäuser o Lohengrin, statene pur certi. Il Ring invece lo hanno già interpretato a loro modo altri registi più famosi, e il Calixto dovrà aspettare... però chissà che i prossimi Leiter di Bayreuth non ci facciano un pensierino.

17 gennaio, 2008

Cominciamo a pensare al Parsifal di Gatti a Bayreuth

Il 25 luglio 2008 Daniele Gatti inaugurerà il 97° Festspiele, dirigendo la rappresentazione n°. 2395 (includendo 12 concerti) dell’intera storia del Festspielhaus.

Daniele è il 26° direttore (il terzo italiano, dopo Toscanini e Sinopoli) a cimentarsi con Parsifal a Bayreuth. Questi i suoi illustri predecessori:

1. Hermann Levi
2. Franz Fischer
3. Felix Mottl
4. Anton Seidl
5. Karl Muck
6. Michael Balling
7. Franz Beidler
8. Siegfried Wagner
9. Willibald Kaehler
10. Arturo Toscanini
11. Richard Strauss
12. Franz von Hoeßlin
13. Wilhelm Furtwängler
14. Hans Knappertsbusch
15. Clemens Krauß
16. André Cluytens
17. Pierre Boulez
18. Horst Stein
19. Eugen Jochum
20. James Levine
21. Daniel Barenboim
22. Giuseppe Sinopoli
23. Christoph Eschenbach
24. Christian Thielemann
25. Adam Fischer

Fino ad oggi sono 490 le rappresentazioni di Parsifal nel Festspielhaus; Gatti porterà il totale a 496. Il dramma sacro è il più rappresentato a Bayreuth, davanti a Meistersinger con 283 (che saliranno quest’anno a 289).

Il sito ufficiale di Bayreuth non ha ancora annunciato il cast, ma solo i nomi dei 5 “principali responsabili”: direttore, regista (Stefan Herheim), scenografo (Heike Scheele), costumista (Gesine Völlm) e drammaturgo (Alexander Meier-Dörzenbach).

C’è però in web un “indizio” non da poco: il giorno 5 settembre (praticamente una settimana dopo l’ultima rappresentazione del 28 agosto, che chiuderà il Festival) il Parsifal è in programma - in forma di concerto - nella Frauenkirche di Dresda. Si tratta di una manifestazione esplicitamente organizzata in collaborazione con il Festspiele, per cui è lecito pensare che i protagonisti - a parte orchestra e coro, che sono ovviamente quelli del luogo (Staatskapelle) - siano gli stessi che hanno recitato a Bayreuth. E quindi, dalla locandina della Frauenkirche possiamo “insinuare” chi siano i cantanti che delizieranno gli spettatori del Festspielhaus (e gli ascoltatori via etere) sotto la bacchetta del Daniele. Ecco qua:

Christopher Ventris, Parsifal
Mihoko Fujimura, Kundry
Kwangchul Youn, Gurnemanz
Detlef Roth, Amfortas

Roth è anche nel cast della rappresentazione - sempre in forma di concerto - che Gatti dirige fra pochi giorni (19, 21 e 23 in radio) a Santa Cecilia e che ci darà modo di intuire “di che pasta sarà” il Parsifal del nostro beniamino.

14 gennaio, 2008

Aggiornamento: Il Ring come se l’era immaginato Wagner

Wilhelm Keitel si sta dando da fare per mettere in piedi il suo rivoluzionario Ring di settembre, e sostiene di aver già prenotazioni per il 50% dei biglietti disponibili.

Tutto il baraccone (che verrà dato alle fiamme al termine del più realistico Götterdämmerung mai inscenato) verrà a costare circa 10M€, per 2000 posti e 5 serate (4 per il Ring + Bruckner per la religiosa benedizione delle ceneri).

Il luogo è stato individuato, poco a sud di Speyer, precisamente ad Altrhein, su un’ansa del fiume che parrebbe essere rimasta esattamente come era nel 1875, poichè “isolata” da una scorciatoia che fa passare il traffico fluviale più a est.


















Non mancano naturalmente i detrattori: fra questi Jürgen Flimm, che evidentemente preferisce Bayreuth e Salzburg, dove poter esibire il suo Regietheater.

11 gennaio, 2008

Sarkò e la musica...

In questo interessante post sul suo blog Soho-the-Dog, Matthew Guerrieri mette in rilievo le ascendenze musicali delle donne di Sarkò.

08 gennaio, 2008

Ancora sul Regietheater

“Immaginate un Parsifal ambientato in una moderna megalopoli, dove Klingsor è un magnaccia impotente che gestisce un bordello; egli usa Kundry per sedurre i membri del circolo del Gral, una banda rivale di spacciatori. Il Gral è gestito da Amfortas, ferito, il cui padre, Titurel, è perennemente in delirio da extradose; Amfortas è messo terribilmente sotto pressione dai membri della sua banda, che pretendono da lui il rituale, cioè la distribuzione della razione giornaliera di droga. Parsifal è un giovane inesperto, figlio di una ragazza-madre senza fissa dimora, è in cerca di droga, e ”prova il dolore”, rifiutando le avances di Kundry, mentre questa gli fa sesso orale...”

Niente male, vero? Chissà se Stefan Herheim ci propinerà un’opera d’arte di questo genere, il prossimo 25 luglio a Bayreuth! (speriamo proprio di no, anche se ci sono precedenti inquietanti, che ce lo mostrano come un antesignano di tale Calixto Bieito).

Tanto comunque - possiamo starne certi - ci penserebbe il nostro bravo Daniele a salvar tutto, facendo emergere dall’Orchestergraben quell’unico, inossidabile, indistruttibile, incorruttibile blob che è la musica di Wagner, che si fa un baffo di qualsivoglia offesa si cerchi di arrecarle, e che resiste - altera - ad ogni attacco di approfittatori senza scrupoli, assoldati da Spielleiter a loro volta imbecilli e rincoglioniti, o più spesso in cerca di pubblicità a buon mercato.

La messa-in-scena virgolettata sopra è stata - per nulla scherzevolmente - immaginata da Slavoj Zizek, un’autentica autorità nel campo della filosofia e della psicanalisi, oltre che wagneriano sopraffino, che l’ha definita “il mio sogno privato”. Sostenendo che Wagner, per continuare a mantenersi vivo, deve alimentarsi con sempre nuovi allestimenti, di tutte le tendenze e di tutte le fogge.

Ahilui non accorgendosi che - invece - il nesso causa-effetto è esattamente l’opposto! Troppo spesso la regia, le scene, i costumi, invece che essere il mezzo che serve a far arrivare al pubblico l’opera che l’Artista ha voluto propinarci (che è il fine) vengono fatti assurgere a fine, per raggiungere il quale ci si serve, come mezzo di sicuro successo, dei drammi di Wagner.

Insomma, la differenza che passa fra: servire e servirsi di.
(nobbuono)

06 gennaio, 2008

Il Ring: una “vision” pazza? (VI)

Concludiamo il sunto dell’analisi del Ring di Paul Brian Heise con le conclusive considerazioni, relative a Götterdämmerung.

Questo dramma finale racconta le tragiche conseguenze del tradimento di Siegfried. L’involontario tradimento del segreto dell’inconscia ispirazione artistica e del tesoro proibito di auto-conoscenza dell’Umanità, portato da Siegfried alla luce, alla conoscenza aperta. Siegfried, involontariamente, così predice il tradimento della sua musa Brünnhilde: in risposta alla dichiarazione della donna, che afferma il suo amore per lui essere unicamente motivabile dal fatto che lo ispira a intraprendere nuove avventure (eroci atti di manifestazione artistica) e gli ricorda di avergli donato ciò che gli dèi le avevano insegnato (un Tesoro di sacre rune) Siegfried afferma di aver ricevuto da lei di più di quanto egli sappia custodire.

In effetti Siegfried ci ha qui riassunto l’intera vicenda del Götterdämmerung: l’insegnamento di Brünnhilde lascia Siegfried ignorante poichè lei è la sua mente inconscia, da cui lui può trarre ispirazione, pur rimanendone inconsapevole; dicendo a Brünnhilde che lei gli ha dato più di quanto lui sappia custodire, Siegfried involontariamente anticipa che potrebbe rivelare quel segreto taciuto - che a lei era stato trasferito da Wotan e che lei gli aveva nascosto - pur rimanendone inconsapevole.

L’Anello racchiude tutte le virtù delle sue imprese, dice Siegfried, perchè il Tesoro di conoscenza di Alberich (la maledizione) e la futile aspirazione di Wotan di redimersi da esso, inconsciamente ispirano Siegfried a creare le sue imprese artistiche redentrici. È solo attraverso le virtù di Brünnhilde, dice Siegfried, che egli ancora intraprenderà nuove avventure: è lei che sceglie per lui le sue imprese, poichè l’autentica inconscia ispirazione dell’Artista è involontaria, non comporta una scelta consapevole, ma sgorga da una necessità naturale.

Adesso vediamo come Hagen, lo spirito scientifico e scettico del mondo moderno, forzi Siegfried a disfarsi della sua ispirazione artistica, dandola in pasto al suo uditorio, i Ghibicunghi. Le due pozioni di Hagen, prese insieme, rappresentano la meravigliosa summa del Ring! Che condensa l’eredità di tutta l’esperienza umana, il nostro tesoro di conoscenza (che Siegfried ha ereditato, uccidendo Fafner) in un’unica opera d’arte, e che ha sintetizzato questo patrimonio di significati - derivati da esperienze ampiamente diffuse in tempo e spazio - in motivi musicali, che contengono la potenza del tutto.

Loge rappresenta le nostre capacità artistiche di auto-inganno, e guarda caso i temi del Tarnhelm, della trasformazione di Loge e della pozione di Hagen sono strettamente apparentati. Siegfried in effetti è l’involontario esponente dell’artistico auto-inganno di Loge. Proprio come Loge potè redimere gli dèi dalla loro prima crisi, co-optando il potere dell’Anello e del Tarnhelm, per riscattare Freia, l’ideale degli dèi, dall’immanente reclamo dei Giganti... così Siegfried ha evitato la loro potenziale seconda crisi strappando Anello e Tarnhelm a Fafner, con ciò tenendo il potere dell’Anello lontano da Alberich. E ciò ha consentito a Siegfried di risvegliare Brünnhilde per ottenere dal lei ispirazione a produrre imprese artistiche che diano all’ideale lascito del Walhall una nuova, seppur breve, occasione di vita.

Non ci si deve perciò sorprendere che Alberich e Loge abbiano divinato che Loge tradirà gli dèi, e che Alberich e Wotan abbiano previsto che Alberich avrebbe aizzato gli eroi di Wotan contro di lui. Il destino di Siegfried materializza quelle profezie: egli è l’eroe su cui Hagen, rappresentante della cultura di Alberich, getta un maleficio per far sì che Siegfried tradisca la speranza di redenzione degli dèi attraverso l’amore, cioè la redenzione attraverso l’Arte.

Siegfried soddisfa l’involontario appetito di auto-inganno di Gunther e Gutrune, proprio come Loge aveva soddisfatto quello degli dèi. La sala dei Ghibicunghi è, in effetti, un secolare Walhall. Trasformandosi, grazie alla magìa del Tarnhelm, in Gunther, per tradire la sua musa Brünnhilde e metterla nelle mani di Gunther, e sposando la falsa-musa Gutrune (questo rappresenta il tradimento che Wagner perpetra nei confronti del segreto della sua musa, in vista dell’approvazione del suo pubblico) l’artista Siegfried rende l’uditorio dei Ghibicunghi indistinguibile da se stesso, rivelando a loro quei segreti che la sua mente inconscia aveva nascosto a lui stesso. Wagner infatti disse che lui, l’artista, attraverso i suoi motivi musicali rende l’uditorio consapevole del segreto del suo intento poetico. Così possiamo capire perchè Wagner afferma che, per l’autentico artista, la sua arte rimane un mistero.

Ponendo la sua mente inconscia (Brünnhilde - cioè i suoi motivi musicali, che hanno conservato il segreto del suo intento poetico) nelle mani del suo uditorio, e rivelando il tesoro proibito della pericolosa auto-conoscenza (rappresentata dall’Anello, il cui potere Brünnhilde aveva tenuto al sicuro) invece di dare al suo uditorio un’opera d’Arte redentrice, Siegfried ora rivela al pubblico ciò che il suo capolavoro avrebbe dovuto nascondere perfino a se stesso, l’inconscia fonte di ispirazione della sua Arte. Egli dà al suo uditorio il Not di Alberich, invece del Wahn di Wotan. Ciò spiega perchè Hagen grida che il pericolo (Not) si avvicina (e i suoi vassalli rispondono di conseguenza) e osserva che Siegfried ha protetto fino ad ora Gunther (il suo uditorio) da questo pericolo, quando annuncia l’arrivo di Gunther con Brünnhilde!

Brünnhilde collabora con Hagen per distruggere Siegfried perchè questi ha involontariamente tradito il segreto, precedentemente mantenuto dalla sua incosapevole mente, al mondo scientifico. Perciò l’ammonimento di Alberch a Wotan (che il suo tesoro sarebbe alla fine salito dalle oscure profondità alla luce del giorno, e che gli eroi di Wotan avrebbero servito Alberich) si avvera, dacchè Siegfried stesso ha innalzato il tesoro di Alberich alla luce del giorno. Brünnhilde lo conferma quando confessa ad Hagen e Gunther che lei diede tutte le rune (il tesoro di conoscenza che Wotan le aveva insegnato, dopo averlo a sua volta ricevuto da Erda) a Siegfried, solo per vedersi poi da lui consegnata a Gunther.

Quindi, Siegfried ha rivelato quella conoscenza proibita, che Wotan - confessandola a Brünnhilde, aveva presupposto dovesse rimanere per sempre taciuta - costringendo Brünnhilde a sposare Gunther (il suo pubblico) senza amore, e strappando a forza, dalle sue mani protettive, l’Anello. Con ciò Siegfried ha privato se stesso e il suo pubblico della redenzione di Brünnhilde dalla maledizione di Alberich, la maledizione della consapevolezza. Come Brünnhilde rivela ad Hagen, Siegfried è rimasto inconsapevole di essere protetto dalle di lei magiche rune nella parte anteriore del corpo; cioè, proteggendo Siegfried dalla preveggenza di Wotan della sua inevitabile e vergognosa fine, la magìa di Brünnhilde rese Siegfried senza paura. Tradendo ora Brünnhilde, Siegfried ha perso il dono della sua protezione (fatto cui alluderanno le Figlie del Reno più tardi) e ha quindi tradito il segreto della sua vulnerabilità ad Hagen, che lo potrà quindi colpire alle spalle, con il fatale ricordo della sua vera identità.

Wagner può aver derivato la nozione di Brünnhilde, che protegge Siegfried dalla conoscenza del futuro, dalla figura di Prometeo (che dice “grazie a me l’Umanità ha cessato di prevedere la sua morte”). In effetti questa storia assomiglia molto a quella di Brünnhilde, che - come la madre Erda - dà all’Uomo la preveggenza di ciò che egli teme (insegna a Siegfried la paura) e nello stesso tempo redime l’Uomo da quella conoscenza e dalla paura da essa ingenerata (così Siegfried può dimenticare la paura che lei stessa gli ha insegnato). In altre parole: l’Arte di Siegfried gli è inconsciamente ispirata da quella stessa conoscenza del significato della paura dell’Uomo, che essa cerca di nascondere.

Quando Siegfried, nel suo orgoglio, rifiuta di dare l’Anello alle Figlie del Reno, in modo che esse possano lavare via la maledizione di Alberich, in effetti egli rifiuta di cercare rifugio nella musica (il canto di Brünnhilde). Si rifiuta di consegnare la conoscenza all’oblìo della mente inconscia per redimersi dalla Verità e con ciò - come gli dicono le Figlie del Reno - involontariamente rinuncia al dono di Brünnhilde, la sua protezione. In effetti, Brünnhilde, l’inconscio di Siegfried, nelle cui mani protettrici lui aveva lasciato l’Anello, era per lui l’artificiale surrogato al seguire il consiglio di Loge (gettare l’Anello della consapevolezza nel Reno del pre-conscio). Rifiutando sprezzantemente l’offerta delle Figlie del Reno di por fine alla maledizione dell’Anello (poichè esse hanno fatto appello alla sua paura) per la prima volta Siegfried è divenuto concettualmente conscio dell’originale credenza di Wotan, facendo proprio il principio secondo cui la Vita non sarebbe degna di essere vissuta se egli dovesse riconoscere che la paura (Fafner) è una motivazione più forte dell’Amore.

Conseguentemente, quando Hagen ritrova Siegfried, annuncia ai Ghibicunghi di aver trovato dove Siegfried (cioè l’impulso religioso di Wotan) si è rifugiato: il Reno. Il desiderio di restituire l’Anello della consapevolezza al Reno della pre-consapevolezza è la metafora di Wagner di ciò che egli stesso descrisse come il futile tentativo dell’Umanità di ripristinare la perduta innocenza. Wagner capiva che questo era stato il motivo principale alla base della storia dell’Umanità, un desiderio soddisfacibile solo attraverso Religione ed Arte. E non a caso era stato proprio Loge, il dio dell’auto-inganno, a insistere perchè l’oro di Alberich fosse restituito alle Figlie del Reno.

Come riesce Hagen ad esporre Siegfried alla distruzione, visto che in Siegfried la fede religiosa è retrocessa dal pensiero al sentimento, dalla testa al cuore, dalla potenza all’amore? Hagen chiederà a Siegfried di rivelare come imparò a interpretare il linguaggio degli uccelli. Siegfried userà la musica - i temi musicali di Wagner - come chiave per aprire il suo inconscio (Brünnhilde) ed esporre così il suo tesoro proibito di conoscenza alla luce del giorno. Istigato da Hagen, Siegfried - e Wagner con lui! - userà la musica come pensiero. Così come il pensiero di Wotan era stato trasformato in sentimento da Brünnhilde, Siegfried, rivelando il significato del canto dell’Uccellino del bosco, ritrasformerà il sentimento nel pensiero (finora taciuto) che lo aveva originariamente ispirato. Molto a proposito quindi, alla domanda di Siegfried “Brünnhilde gli (a Gunther) provoca pena?”, Hagen risponde “Se egli potesse capirla come tu comprendi il canto degli uccelli!”

Quando Siegfried versa il vino - chiamato da Gunther il suo sangue - sul terreno, dicendo che rinfrescherà Madre Terra, egli involontariamente riconosce che soccomberà ad Hagen come sacrificio di espiazione a Erda, la madre-terra, per aver perpetuato il peccato religioso di Wotan di negazione del mondo, di pessimismo, attraverso l’Arte. Alberich aveva maledetto l’Anello proprio per punire questo peccato, il peccato di Wotan contro tutto ciò che fu, è e sarà (la saggezza di Erda) e Siegfried sarà per questo martirizzato.

L’incitamento di Hagen (il suo spirito scientifico) a Siegfried perchè egli interpreti concettualmente la musica dell’Uccellino per il suo pubblico (i Ghibicunghi) e il fatto che Siegfried narri l’eroica storia della sua vita col canto, raccontando la favola di come Wagner ereditò sia il tesoro dell’Umanità di amara conoscenza della Verità, sia il religioso imperativo di consegnarlo all’oblìo per sostituirlo con una consolante fantasia, è la descrizione che Wagner ci fa della sua presentazione del Ring a noi, il suo pubblico. Egli lo visse come un atto di musica reso visibile.

La fatale pozione che Siegfried potè rifiutare allorquando gli venne offerta dalla razionalità di Wotan (Mime) poichè era allora protetto dalla musica dell’Uccellino, e dalla sua mente inconscia (Brünnhilde), adesso Siegfried l’accetta da Hagen precisamente nel momento in cui narra dell’insuccesso di Mime nel cercare di fargliela bere. Non per nulla, il motivo della pozione di Hagen è imparentato con quelli del Tarnhelm (Mime) e della trasformazione di Loge.

Ora che Siegfried (Wagner!) ha tradito il suo inconscio alla consapevolezza, il suo raccontarci di come creò il Ring ha risvegliato la memoria della sua stessa identità. Wagner sembra qui dirci che se i motivi musicali del suo Ring, che contengono la chiave del profondo segreto della sua ispirazione, il taciuto segreto del suo (e di Wotan) intento poetico, sono correttamente interpretati, ciò porrà fine all’Arte di ispirazione inconscia, poichè Brünnhilde - inconscia mente e musa dell’Artista - si sveglierà per sempre. Gli occhi di Brünnhilde, come ci dicono le ultime parole di Siegfried “sono adesso aperti per sempre”. Wagner qui confessa di aver - inconsciamente e involontariamente - collaborato con il mondo moderno nel vanificare quella redenzione per ottenere la quale aveva immaginato la sua Arte rivoluzionaria.

Il Ring si chiude con l’estremo giudizio di Brünnhilde su di noi, la specie umana, per aver usato l’innocenza dell’eroe-artista come involontario servizio alla nostra paura ed ipocrisia, per sacrificarlo, in fin dei conti, alla scienza moderna, alla maledizione della consapevolezza. Il suo giudizio su Wotan (wagneriana metafora dell’Uomo storico) è che, nel coinvolgere l’eroe-artista nel suo crimine di auto-inganno, egli ha predestinato l’eroe a distruzione certa per mano della Verità, ciò che inevitabilmente noi finiamo per portare alla luce. Gunther e Gutrune, rappresentanti dell’Uomo moderno - il pubblico di Wagner - inorridiscono all’idea di aver permesso al pensiero scientifico e secolare (Hagen) di trascinarli, per sete di potere, a martirizzare quell’eroe, l’eroe-artista-saggio, che aveva dato un significato alla loro vita.

La tragedia, come dice Brünnhilde, è che Siegfried ha dovuto tradire l’Amore e la Musica affinchè la sua mente inconscia, una donna (lei) potesse divenire saggia perchè completamente conscia. Ora Brünnhilde conosce tutto in modo cosciente e la conoscenza di sua madre (Erda) non svanisce più dinanzi a lei.

Il colmo dell’ironia in questa tragedia è che, nel tentativo di garantire al mistero religioso un ulteriore spazio di vita in un mondo sempre più scientifico e de-mitologizzato, Wagner il Nibelungo ha involontariamente sollevato l’ultimo rifugio della Religione, il mistero dell’inconscia ispirazione artistica, dalle silenziose profondità della sua mente inconscia, alla luce del giorno. In tal modo esponendo alla consapevolezza e rivelando apertamente l’ultimo mistero dell’esistenza, fin lì tenuto segreto nel suo notturno seno.

(fine)

05 gennaio, 2008

A proposito di messe-in-scena wagneriane

Adolphe Appia ebbe per primo delle folgoranti intuizioni, anche a seguito delle sue dirette esperienze a Bayreuth, dove fu testimone delle produzioni di fine ‘800.

Si rese conto che la potenza e le intime caratteristiche - dal punto di vista del genere dell’opera - dei drammi wagneriani ne rendevano straordinariamente difficile la messa in scena, dovendo questa fatalmente sottostare ai limiti materiali imposti dallo spazio scenico e soprattutto dai materiali e strumenti impiegabili. In sostanza, capì (come Wagner stesso aveva peraltro intuito già nel 1876, alla prima del Ring) come un allestimento inadeguato rischiasse di trasformare, agli occhi dello spettatore, i capolavori wagneriani in stupide e ridicole farse, sostanzialmente annullandone la straordinaria potenza e mistificandone i filosofici e psicologici contenuti.

Di Leo Tolstoj è rimasto famoso lo sfogo - fra il sarcastico e lo sprezzante - seguito ad una rappresentazione del Siegfried, dove il drago di cartapesta che canta da un megafono, e i personaggi vestiti di pelli e con le corna in testa suscitavano più che altro ilarità, al pari dei clown del circo equestre... e buonanottealsecchio per Wagner e i suoi nobili intenti!

Appia ebbe - se non altro - il grande merito di individuare i problemi e i rischi che si nascondono dietro all’allestimento dei drammi wagneriani. Quanto però alle soluzioni... anche lui non fu mai del tutto convincente, come dimostrano le innumerevoli stroncature da lui ricevute, e non solo da parte di ottusi conservatori.

Tanto per fare un esempio semplice, preso proprio dalle considerazioni di Appia: se dobbiamo mettere in scena Siegfried che si muove dentro la foresta, e cerchiamo di rappresentare la foresta nel modo più veristico possibile (mettendo tronchi di albero e foglie di carta mosse da cordicelle) corriamo il rischio di fare una stupidaggine, poichè avremo comunque degli alberi finti, e in più lo spettatore verrà sgradevolmente distratto da quella foresta posticcia; mentre ciò che lo spettatore dovrebbe avvertire è tutt’altro, precisamente: ciò che prova Siegfried inoltrandosi dentro la foresta.

Perfetto, fin qui: abbiamo ben chiaro il problema e i rischi. Adesso, facciamo un salto di 60 anni dai tempi di Appia e guardiamo la scena di Siegfried nella foresta nell’allestimento bayreuthiano di Harry Kupfer. Cosa vediamo sulla scena, al posto della foresta? Un reattore nucleare dopo un meltdown! (Chernobyl era proprio fresca-fresca) E si badi bene che Kupfer, a confronto di altri, è un tradizionalista (almeno non stravolge la personalità dei protagonisti)! Ora, la domanda che viene spontanea anche a un bambino, è: mi fate capire perchè io dovrei deprimermi, e perdere sensazioni e significati vedendo una foresta finta, o dipinta, e invece esaltarmi e - soprattutto - provare magicamente tutte le sensazioni di Siegfried che va nella foresta, guardando quell’ammasso di lamiere contorte e bruciacchiate?

In sostanza: giusto e sacrosanto porsi i problemi e paventare i rischi. Ma - di grazia - dateci dei rimedi che non siano peggio della malattia!

Altrimenti, conviene fare come il vecchio Brahms: quando voleva sentire un buon Don Giovanni, si sdraiava sul sofà di casa, e apriva la partitura...

03 gennaio, 2008

Il Tristan di Chéreau-Peduzzi-Bickel: spettacolo sì... ma era Wagner?

Questa messa in scena del Tristan della Scala è stata da molti osannata e da alcuni vituperata. Fin qui, tutto normale, come si addice a qualunque circostanza del genere. Ma, come spesso accade, peana e stroncature sono motivati più da considerazioni estranee allo spirito e alla lettera della Handlung wagneriana, che non da precise valutazioni di merito.

Ormai si tende purtroppo a considerare - e quindi a giudicare - la messa-in-scena come un corpo separato dal resto dell’Opera, uno spettacolo fine a se stesso, senza tener conto che - massimamente in Wagner - essa è invece parte integrante del Gesamtkunstwerk e che le precise indicazioni didascaliche poste in partitura dovrebbero avere la stessa rilevanza - e meritare lo stesso rispetto - che si deve alle notazioni musicali e alle parole cantate dagli interpreti.

Intendiamoci: che Chéreau sia in grado di mettere in piedi una regia geniale, nessuno lo mette in dubbio (oltre ad averne le doti, è pagato - ed assai profumatamente - per questo); idem per le scene di Peduzzi o i costumi della Bickel. Ma geniale - e di sicurissimo effetto - sarebbe anche (per dirla con James Levine) lo scambio delle parti musicali fra la sezione degli archi e quella dei fiati (domanda: perchè ad un geniale musicista come Barenboim non è ancora venuta in mente, questa fantastica idea?)

Come è chiaro da questa premessa, non sarò affatto tenero con gli addetti ai lavori extramusicali di questo Tristan (musicisti, cantanti e direttore sono invece stati di livello assolutamente mitteleuropeo).

Qualche osservazione, dopo esperienza diretta dell’ultima rappresentazione, del 2 gennaio 2008.

La principale critica cui si espone questo allestimento sta nel fatto che esso, deviando ampiamente (quando non apertamente contraddicendole) dalle prescrizioni dell’Autore, finisce per trasmettere allo spettatore significanze e sensazioni diverse da quelle che l’Autore stesso aveva immaginato. O, nel migliore dei casi, introduce tali e tanti elementi di distrazione dell’attenzione dello spettatore da ciò che viene detto (cantato) sulla scena, da rendergli ardua la comprensione stessa del dramma, già di per se difficile per chi non conosce la lingua tedesca, o non si è più che assiduamente preparato facendo i compiti a casa, prima di andare a Teatro.

In particolare le scene (un poco anche i costumi) sono tali da appiattire i contrasti fra il mondo esteriore (ciò che appunto si vede) e gli stati d’animo dei protagonisti; e la regia, introducendo arbitrariamente elementi di eccessiva mobilità, contribuisce a distrarre lo spettatore, impedendogli di concentrarsi adeguatamente sui contenuti (di testo e musica).

Insomma: un allestimento che rende un cattivo servizio allo spettatore, prima e oltre che a Wagner; e che si fa apprezzare in misura inversa al grado di preparazione dello spettatore medesimo.


Atto I.
Nella prima scena Wagner prescrive un ambiente chiuso (da un tendaggio) e arredato con preziosi tappeti, mentre Isolde è abbandonata su un divano, con la testa fra i cuscini. Vuole evidentemente mostrarci lo stridente contrasto fra lo sfarzo materiale da cui Isolde è circondata (una Principessa che va sposa ad un Re, non so se mi spiego!) e la totale miseria spirituale che invece possiede il suo animo. L’attenzione deve essere tutta concentrata su questa dissociazione che caratterizza la psiche di Isolde, perdutamente innamorata di un uomo che non potrà avere (ma che dovrà vedersi accanto quotidianamente) e costretta a subire la vuota apparenza esteriore delle ricchezze che la circondano. Insomma: l’idea di una prigione dorata. Solo così si comprende appieno il drammatico sfogo di Isolde: “che questa nave se ne vada in malora, con tutto e tutti!”

Chissà perchè, invece, la scena di Peduzzi è uniforme, spoglia, tetra e grigia, e lo spazio è da subito aperto, lasciando più che intravedere le prosaiche attività della vita di bordo; su un vascello, per di più, che è l’esatto opposto di una ricca nave regale, ma assomiglia ad uno sgangherato e lurido mercantile. Se si voleva ambientare la scena nei nostri tempi, allora si doveva prendere una love-boat, non certo una carretta del mare, dove oggigiorno si stipano dei disgraziati clandestini! Quindi quel contrasto - fra lo sfarzo esteriore e la condizione psicologica di Isolde - si perde totalmente: anzi, lo spettatore riceve l’impressione - del tutto fallace - che lo stato d’animo di Isolde, e la sua successiva imprecazione, siano conseguenza della miseria di quell’ambiente inospitale, mentre le cose stanno in ben altro modo, come sappiamo!

Alla fine della prima scena Brangäne scosta la tenda, a seguito dello sfogo di Isolde (Luft!, Luft!): ora - ma solo ora, cari Chéreau-Peduzzi - nella seconda scena, si deve vedere tutta la nave, in particolare Tristan. C’è lui, indubitabilmente, dietro il “bisogno di aria“ di Isolde, che infatti immediatamente lo individua - così prescrive Wagner - e lo fissa intensamente, mentre lui guarda il mare, pensieroso. L’atteggiamento sbracato di Kurwenal ancora qui deve rappresentare un altro contrasto, quello che oppone l’oscuro sentimento che divora Tristan al goliardico cameratismo del suo entourage.

Ma, invece di marinai col morale alto, noi vediamo qui una ciurma di salariati, che sembra quasi sulla soglia dell’ammutinamento, il che stride maledettamente con ciò che si ascolta: l’intervento del coro dopo le parole di Kurwenal, caratterizzato da sana virilità e da allegro sarcasmo!

Altro particolare, non proprio secondario: qui è Brangäne che si deve muovere verso Tristan, attraversando la nave da prua a poppa; solo all’inizio della quinta scena sarà Tristan a muoversi verso Isolde, dimenticandosi il pretesto di dover reggere il timone, pretesto che invece viene impiegato qui per rifiutare l’invito di Brangäne. Queste due diverse direzioni di traffico non sono per nulla casuali, ma sono parte del sottile gioco psicologico, un vero e proprio braccio di ferro, che è in atto fra i due protagonisti.

Se invece i movimenti dei personaggi sono abbastanza caotici (Brangäne che va e e viene, e parla più rivolta a Isolde che a Tristan, Tristan che scende dalla cabina di pilotaggio del cargo e avanza verso il centro della scena) quella differenza sostanziale non si percepisce e con ciò si perde comprensione delle implicazioni psicologiche che essa contiene.

Kurwenal (seguito poi dal coro) deve cantare dietro a Brangäne che si allontana, come un cane che continua ad abbaiare ad un intruso che viene cacciato. E il canto è pieno di sarcasmo, è quasi uno sfottò. Invece ciò che si vede è in totale stridore con ciò che si ascolta: Kurwenal e la ciurma che si muovono quasi con cattiveria, addirittura arrivando a spintonare qua e là la povera ancella...

Tornando da Isolde, Brangäne deve richiudere ermeticamente (sic! Wagner) la tenda poichè, nella terza scena, avrà luogo il colloquio riservato di Isolde con l’ancella, tutto incentrato sul racconto dei precedenti intercorsi fra Isolde e Tantris-Tristan, sulla disperante prospettiva che Isolde confessa a Brangäne e sulla sua conseguente decisione di servirsi del filtro di morte per metter fine alle sue pene. Invece qui resta tutto aperto e la cosa si aggiunge alla miseria dell’arredamento (e in particolare delle suppellettili: una lurida cassona rimpiazza il prezioso scrigno che conserva i filtri) nel distrarre la concentrazione dello spettatore.

All’inizio della quarta scena, Kurwenal deve irrompere spostando le tende, per annunciare che Tristan aspetta Isolde per accompagnarla dal Re. Tanto che Isolde sobbalza letteralmente! Qui invece lo si vede arrivare... da lontano. Poi Isolde, uscito Kurwenal, ordina all’ancella di preparare il filtro. E qui c’è un apparentemente piccolo particolare: la coppa destinata a ricevere il filtro deve essere d’oro (sic! infatti Isolde lo canta, proprio esplicitamente: “In die goldne Schale...“). Non è certo questo uno sfizio decadente di Wagner, ma la volontà di rappresentarci - ancora una volta - lo stridente contrasto fra la preziosità del contenitore materiale - che dovrà essere usato nientemeno che in occasione di un ufficiale brindisi diplomatico, a suggello di un trattato di pace! - e la miseria del suo contenuto spirituale. Questo contrasto si perde totalmente se - grazie a Chéreau e Peduzzi - si impiega una volgare, bianca scodella da latte, presa dalla misera dotazione di bordo, che non fa che appiattire tutto, e per di più contraddice in modo quasi ridicolo le precise parole pronunciate da Isolde. Ecco qui un piccolissimo, ma significativo, esempio delle gratuite stupidità del Regietheater.

La quinta scena si apre con l’ingresso di Tristan nel locale che ospita Isolde. Tutta la scena che porta al brindisi dovrebbe svolgersi a porte chiuse; soltanto quando si odono le voci dei marinai, che vengono dall’esterno, Tristan e Isolde si svincolano dall’abbraccio, prima che le tende vengano scostate. E dopo che le tende sono state aperte, e la ciurma ha potuto avere accesso alla vista di Tristan e Isolde, questi restano in reciproca contemplazione, fino a che Brangäne pone il manto regale sulle spalle di Isolde e Kurwenal pronuncia l’epicinio di Tristan. A questo punto Isolde deve cadere svenuta (sic!) nelle braccia di Tristan, e Brangäne la fa soccorrere dalle donne, mentre Tristan canta “O voluttà piena di frode! O felicità consacrata dall'inganno!”, prima della cadenza finale del coro, sul sipario che cala. E ancora una volta Wagner ci vuol mostrare un lancinante contrasto: fra la tempesta che si agita nei cuori dei due amanti - che deve ovviamente essere in primo piano - e la gran festa esteriore, che le fa da sfondo (Wagner lo scrive chiaramente: dall’esterno).


Invece i nostri fanno irrompere in primissimo piano e anzitempo masse di gente, a mescolarsi con i due protagonisti, col mantello che, invece che da Brangäne, viene portato a Isolde da diverse comparse e con Tristan addirittura sequestrato in un angolo da altre; e finalmente fanno apparire a bordo Re Marke. Di lui sappiamo, da Kurwenal, che è su una scialuppa che si avvicina alla nave, osannato dalla folla e dai marinai, che sventolano i berretti. L’ultima didascalìa del primo atto, subito prima che il sipario cali, quindi dopo che Isolde è svenuta fra le braccia di Tristan, ci informa che della gente è salita a bordo, scavalcando il parapetto della nave, su cui altri hanno appoggiato una passerella, e che tutti sono in attesa dell’arrivo degli attesi. Insomma: nessun indizio preciso ci porta a pensare che Re Marke sia già salito sulla nave, anzi la cosa sembrerebbe proprio da escludersi. La scena della consegna della promessa sposa a Re Marke ci verrà descritta con maggiori dettagli nel secondo atto, da Brangäne, che racconterà di Isolde, appena in grado di reggersi, portata verso il Re dalla mano tremante di Tristan, e di Melot che scruta insistentemente l’atteggiamento dell’eroe.

Invece Chéreau-Peduzzi ci mostrano Marke che raccoglie Isolde dal pavimento, mentre Tristan è sempre trattenuto in disparte da un gruppo di comparse. Così vediamo un sacco di gente, e Re Marke in persona, testimoni di una situazione - del tutto gratuita qui - di “tresca in flagrante“, che invece dovrà caratterizzare la fine del secondo atto (è lì che Re Marke deve fare la sua apparizione fisica, che sarà tanto più efficace proprio perchè prima, di lui abbiamo solo sentito parlare).


Insomma, tutto lo spirito della conclusione dell’atto viene stravolto, facendovi prevalere il gran bailamme esteriore, che invece dovrebbe restare sullo sfondo, a far da contrasto con il dramma dei due amanti.

Atto II.
È un atto così nudo e statico che soltanto una pervicace volontà distruttiva di regista e scenografo potrebbero fargli seri danni... e grazie al cielo Chéreau e Peduzzi si sono ben guardati dallo scatenare il loro genio in questa direzione. Ma una critica si può anche qui avanzare: perchè ostinatamente si devono bandire i segni esteriori?

Se Wagner scrive di un sedile fiorito, su cui si svolge quasi interamente la seconda scena, non lo fa di certo con intento banalizzante, ma per mostrare - qui, agli antipodi rispetto al primo atto - la totale assenza di contrasto fra lo spirito che ora alberga nei due cuori e la natura circostante, che adesso è benigna, amica, quanto era stata in precedenza ostile ed insopportabile. Peduzzi si attiene ad un certo minimalismo, che almeno è innocuo, ma che toglie non poco all’insieme. E poi - per dimostrare di esistere? - fa proprio una cosa da bastian-contrario. Nella scena del duetto d’amore, abbiamo un tetro e freddo ambiente, senza un filo d’erba e men che meno fiori. Poi, nella terza scena, dove avviene il fattaccio, si apre lo sfondo e ci fa vedere un pezzo di castello con verdi piante ornamentali!

Anche qui la regia - per mettersi in luce? - si prende delle libertà gratuite: in tutta la seconda scena Tristan e Isolde devono stare vicini, che più vicini non si può... invece qui li vediamo per lo più disgiunti, addirittura a metri e metri di distanza, come se ancora si fosse nel primo atto dove fra i due si svolgevano psicologiche schermaglie.

Atto III.

Didascalìa di pugno di Wagner: ambiente dimesso, castello semi-diroccato, erbacce ovunque, un gran tiglio, sotto il quale giace Tristan. Sarà anche una sua fissazione, ma per Wagner - come per altri tedeschi, musicisti e no - il tiglio deve pur significare qualcosa: lo troviamo nel Siegfried, a ristorare lo stanco eroe e ad ispirargli il pensiero della madre (pensiero che prende anche la mente di Tristan); e nei Meistersinger, dove profuma l’aria della splendida notte d’estate ed è testimone del commovente colloquio fra Eva Pogner e il padre Veit.

Per carità, Chéreau-Peduzzi abbassarsi a tanta sdolcinata oleografia? Che geni sarebbero? Mica sono ripetitivi loro, come quel routinario di un Barenboim che si ostina - più di 150 anni dopo! - a suonare ancora il Preludio Atto III proprio come Wagner lo ha scritto sul pentagramma, senza spostare una sola nota o un arco di legatura! No, per i nostri geni Kurwenal ha depositato Tristan ferito in un posto che assomiglia ad una delle stazioni della metropolitana di Roma, costruite nel '90 per i mondiali, e poi abbandonate: in un posto dove non c’è un filo d’erba, sullo sfondo il muro romano (vero!) e un pò di terrapieni e fondazioni incompiute, altro che tigli! Però, allorquando Tristan si desta e chiede a Kurwenal “dove mi trovo?”, lo scudiero candidamente risponde: “ma sei a Kareol, nel castello dei tuoi avi, non lo riconosci?”

Tristan dovrebbe rimanere sempre nel suo giaciglio, al massimo sollevandosi un poco, fino all’annuncio dell’arrivo di Isolde, e Kurwenal accanto a lui, a raccoglierne i deliranti ricordi. Nessun altro, salvo il pastore di cui si dovrebbe vedere solo il busto che emerge da un parapetto. Bene, qui abbiamo (almeno quelle che ho contato io) ben altre otto comparse affaccendate attorno a Tristan! E poi Tristan che si alza anzitempo dal giaciglio e percorre strisciando o carponi mezzo teatro, salendo gradini e raccontandoci in questo modo le sue deliranti esperienze esistenziali. Altra comica allorquando Kurwenal, pronunciando chiaramente le parole “tu Tristan rimani sul tuo letto” lo adagia su un lurido cassone di legno, di cm.50x50x70, isolato in mezzo alla scena!

In sostanza: invece di una scena che doveva essere tutta concentrata su un Tristan quasi immobile, che ci canta il suo strazio, abbiamo qui una messe di elementi dispersivi, che finiscono per distrarre anche lo spettatore più preparato (o forse sono appositamente realizzati per evitare che lo spettatore impreparato si esasperi e se ne vada anzitempo?)

Altra incongruenza gratuita: l’incontro fra Tristan e Isolde. Wagner ci dice che, mentre Isolde entra in scena, Tristan - che solo ora si deve alzare dal giaciglio - le si fa incontro barcollando e cade nelle sue braccia. Che vediamo invece qui? Isolde che arriva dal fondo della scena e Tristan che si trascina bocconi fino sul limitare del proscenio, quasi stesse cercando di sfuggirle! E Isolde dietro a rincorrerlo!

Poi c’è un’altra forzatura allorquando arrivano Melot e Marke: Wagner ci descrive con pochi tratti di didascalìa e con poche parole di Kurwenal, del timoniere e poi di Melot e Marke stessi una lotta fra assedianti e assediati. Poi ci si dovrebbe concentrare solo sui personaggi principali: Marke, Kurwenal, Isolde - china su Tristan morto - e Brangäne che la soccorre e sostiene. Qui invece abbiamo un bailamme indescrivibile in cui persino la morte di Kurwenal si perde, in mezzo a mosse di karatè e a calci e cazzotti menati in tutte le direzioni!

E veniamo - amarus in fundo - al Liebestod, il momento conclusivo. Secondo le precise indicazioni di Wagner, Isolde lo dovrebbe cantare fissando continuamente il cadavere di Tristan, sul quale deve alla fine scivolare - come trasfigurata - sostenuta, e quasi accompagnatavi, da Brangäne, che la tiene fra le braccia già da quando Marke canta l’ultima sua accorata esternazione. Anche qui, c’è un preciso significato di ciò che si dovrebbe vedere sulla scena. Il rapporto fra Tristan e Isolde, fin dall’inizio, è stato mediato dall’ancella: è lei che porta il primo messaggio a Tristan, è lei, soprattutto, che versa il filtro d’amore nella coppa, è lei che, nel secondo atto, cerca di dissuadere Isolde dal prendere un rischio eccessivo, mettendola in guardia da Melot, e poi veglia sulla notte d’amore dei due (incastonando mirabilmente il suo “Habet acht!” proprio sul motivo che farà da base al Liebestod); è lei, infine, che giunge premurosa a raccogliere Isolde dopo il suo ultimo canto. Insomma, Brangäne rappresenta quasi la coscienza dei due (incoscienti) amanti. Che i tre personaggi, Tristan, Isolde e Brangäne debbano restare vicini, quasi abbracciati, alla conclusione del dramma (come Wagner scrive, e prescrive in partitura!) ne è una necessaria implicazione.

E invece, cosa vediamo noi oggi, grazie al Regietheater di Chéreau? Brangäne seduta del tutto in disparte, mescolata ad altre comparse, e Isolde che - dopo poche battute del Liebestod - si alza e se ne va per i fatti suoi, con un rivolo di sangue che le scende dalla fronte (una trovata spettacolare questa, geniale quanto gratuita!) e infine stramazza al suolo (due volte, essendoci forse i saldi da ultima rappresentazione?) nell’atto di abbandonare la scena, sola soletta...
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Morale? Avec Wagner tout se tient, avec Chéreau... (ahilui e ahinoi!)

02 gennaio, 2008

Il Ring: una “vision” pazza? (V)

Continuando a seguire Paul Brian Heise nella sua feuerbachiana analisi del Ring, arriviamo al Siegfried.

Come abbiamo visto, nella Walküre Wotan ha preso la sua epocale decisione: ha rinunciato alla lotta della Religione (perdente senza scampo) contro la Scienza (Alberich, di cui Erda ha annunciato la vittoria), ha trasferito al suo subconscio (Brünnhilde) l’insopportabile fardello della Verità, e si è rifugiato nella consolante prospettiva artistica, incarnata da Siegfried.

Ora Wotan assiste, nei panni del Viandante (Wanderer) allo snodarsi delle vicende cosmiche: ad Alberich dice che non competerà più per l’Anello, poichè ha proclamato la liberazione dell’Arte dalla paura della Verità. Tuttavia Siegfried, ricordando la propria nascita, avvenuta attraverso la morte della madre, ammette involontariamente di essere erede del Wotan che ha peccato contro Madre Natura, rinunciando alla Realtà.

Mime rappresenta tutto ciò che Wotan aborrisce di se stesso. Dietro la volgare, egoistica intenzione di Mime di sfruttare a suo profitto l’opera di Siegfried si nasconde l’altrettanto egoistica, anche se apparentemente nobile, intenzione di Wotan di redimersi dalle sue colpe attraverso Siegfried. Wotan è spinto dalla paura, non dall’amore. Dato che Siegfried altro non è se non Wotan, ma privo dell’autocoscienza, il disprezzo che egli mostra verso Mime altro non è se non l’auto-disprezzo di Wotan medesimo, la speranza riposta nell’eroe che, sconfiggendo Wotan, ne realizzi in realtà il desiderio.

Mime incarna la concezione di Wagner secondo cui l’egoismo è alla base di tutte le manifestazioni umane: pensiero, sentimento e azione (colpe che Wagner inconsciamente attribuisce agli Ebrei).

Grazie al fatto che Wotan ha represso la sua paura e il suo auto-disprezzo in Brünnhilde (il suo inconscio), Siegfried può uccidere sia Fafner (la paura) che Mime (l’auto-disprezzo). E lo fa con Nothung, il cui tema non a caso richiama quello dell’alba del mondo. Siegfried ripristina artificialmente con Nothung (artificialmente ricostruita) l’ingenua originaria innocenza della Natura, facendo ciò che secondo Wagner è la vera missione dell’Arte. Mime non può riforgiare Nothung perchè troppo “saggio”, cioè troppo conscio.

Fafner è la wagneriana metafora della paura della Verità, il simbolo della fede religiosa che tiene in ostaggio la libertà di pensiero (Alberich). È il guardiano di Anello, Tarnhelm e Tesoro (la conoscenza) per impedire che Alberich se ne reimpossessi. L’artista-eroe Siegfried (erede di Wotan, cioè della Religione) deve uccidere Fafner (la paura della Verità) in modo da liberare l’essenza della Religione, l’Arte e l’Amore, dalle contraddizioni intellettuali della fede religiosa. In tal modo Siegfried può prendere possesso del tesoro di conoscenza del mondo tragico di Alberich, per trasformarlo attraverso l’immaginazione artistica in qualcosa di sublime, che funzioni da antidoto alla maledizione di Alberich. Così quel tesoro di conoscenza diventa il simbolo dell’amore che Siegfried e Brünnhilde condividono.

L’Uccellino della Foresta avverte Siegfried dell’uso che egli può fare di Anello e Tarnhelm, ma Siegfried, riemergendo dalla caverna di Fafner, già se lo è scordato: ciò sta a significare che Siegfried ha avuto dalla musica dell’Uccellino semplicemente l’intuizione artistica del Tesoro di Alberich. Lo ha avvertito, ma non lo ha pensato: lo conosce solo in modo subliminale, inconscio, musicale. Ma attraverso l’Uccellino chi parla sono in effetti la paura e il desiderio di Wotan, trasferiti e impartiti a Brünnhilde durante la sua confessione. Infatti Siegfried, quasi sotto dettatura, esegue tutto ciò che Wotan desiderava lui facesse:

(1) prende possesso di Anello e Tarnhelm, in modo che Alberich non possa riacquistarne il potere;
(2) uccidendo Mime, elimina tutto ciò che Wotan aborriva di se stesso, tanto da non poterne sopportare la coscienza; e
(3) lascia l’Anello nelle mani protettive di Brünnhilde, in modo da salvaguardarne il potere, rendendone innocua la maledizione e soddisfacendo la speranza di redenzione di Wotan, almeno temporaneamente.

Secondo Wagner, la Musica è l’estremo rifugio del morente credo religioso, del dio che si ritira nella profondità del cuore (il Reno) dell’artista individuale, di fronte alla mancanza d’amore e allo scetticismo scientifico del mondo moderno, dove la divinità non può trovare dimora. Non potendosi più sostenere come concetto, il divino si ritira nel sentimento. La Musica, il canto dell’Uccellino, rappresenta il filo che conduce Siegfried a ritrovare quel tesoro di paurosa conoscenza, che era la sua originale fonte di ispirazione, il suo programma segreto. Così il canto dell’Uccellino indirizza Siegfried verso il proprio inconscio, Brünnhilde, dove riposa la sua pericolosa auto-consapevolezza.

Nel suo incontro diretto con Erda, Wotan esprime le sue preoccupazioni in forma puramente retorica. Lui non può accettare la Verità, nè rassegnarsi al suo pauroso destino: ma ha appena finito di dire ad Alberich che ormai egli desidera solo osservare, non più agire. Quando chiede quale utilità possa avere per lui Brünnhilde, si risponde da solo, chiedendosi come possa il dio vincere le proprie preoccupazioni. Ma proprio durante la sua confessione alla figlia, Wotan, esprimendo il suo desiderio - l’inconscio intento poetico - per un eroe libero, aveva posto i semi per la nascita di Siegfried, il libero eroe senza paura.

Confidente che un Walhall di puro idealismo, purificato dal credo religioso, potrà rinascere nell’amore di Siegfried per Brünnhilde, portando la redenzione del sentimento religioso attraverso l’Arte, Wotan proclama ad Erda che la di lei conoscenza (l’ancestrale paura della Madre) svanisce di fronte alla sua volontà. Cioè, la conoscenza, depositata in Erda, svanisce di fronte alla mente inconscia di Wotan, Brünnhilde, in cui il dio ha trasferito la paurosa conoscenza che Erda gli aveva trasmesso.

È attraverso la magica protezione di Brünnhilde, inconscia mente di Siegfried e sua fonte di ispirazione, che Siegfried è liberato dalle conseguenze della maledizione della conoscenza di Alberich. Quando Wotan - sul motivo dell’Eredità del Mondo - dice a Erda che Brünnhilde, risvegliata da Siegfried, compirà il gesto di redenzione, non intende riferirsi alla restituzione dell’Anello al Reno (cui il dio comincerà a pensare solo dopo il fallimento di Siegfried) ma all’unione della musa Brünnhilde con Siegfried, la metafora wagneriana dell’inconscia ispirazione di imprese artistiche, che temporaneamente redimerà il Walhall (nella sua nuova incarnazione come Arte secolare) dalla distruzione.

La paura di Siegfried di fronte a Brünnhilde viene dal fatto che lei custodisce, per Siegfried, la paurosa conoscenza - che Wotan non potè sopportare - della sua vera identità e del suo destino. Di fronte alla prospettiva sessuale, Siegfried è timoroso poichè, dopo aver detto a Fafner “Io ancora non so chi sono”, si sente dire da Brünnhilde “Io sono te stesso, se solo tu mi amerai. Io conosco per te ciò che tu ignori”. Brünnhilde rivela a Siegfried di aver avvertito ciò che Wotan pensava, e Siegfried conferma di non saper cogliere ciò che lei canta, ma soltanto di provare passione per lei. Qui Wagner ci sta dicendo che i suoi motivi musicali, il canto di Brünnhilde, contengono la chiave di volta dello stesso Ring, il segreto non rivelato che spinse Wagner a crearlo.

Come Siegfried, anche Brünnhilde prova paura di fronte al sesso poichè, come sua mente inconscia e depositaria della paurosa conoscenza trasmessale da Wotan, lei ha la premonizione che Siegfried tradirà il segreto dell’inconscia ispirazione artistica, cioè tradirà il loro amore. E se Siegfried lo farà, sarà rivelando quell’insopportabile Verità (l’Anello e la sua maledizione) che la sua stessa ispirazione artistica dovrebbe nascondere, durante un’impresa artistica ispirata da Brünnhilde. Se i pensieri repressi di Wotan (dell’Umanità) venissero rivelati, allora Hagen potrebbe approfittarne per distruggere la speranza di Wotan di redenzione attraverso l’Arte.

Ma tuttavia Brünnhilde decide di ispirare, con il suo amore, l’Arte di Siegfried, poichè lui è “il Tesoro del Mondo”, il guardiano inconsapevole del tesoro di conoscenza del mondo di Erda, che Alberich afferma. In effetti, essendo egli, insieme a Brünnhilde, il mago artista che custodisce gli ultimi misteri religiosi, i segreti dell’inconscia ispirazione artistica, è anche la sola speranza che l’Umanità può conservare di redimersi dalla Verità. Egli può, attraverso la sua Arte, consegnare all’oblio la conoscenza (di Erda) di tutto ciò che fu, è e sarà. È attraverso tale ispirazione artistica che, secondo Wagner, la tragica Realtà del Mondo può essere trasformata esteticamente in un ornamento di delizia e amore.

Siegfried e Brünnhilde possono dimenticare, almeno temporaneamente, le loro paure, se Brünnhilde ispirerà a Siegfried tali redentrici opere dell’Arte. Ciò spiega l’apparente criptica frase di Siegfried a Brünnhilde “Per me devi essere ciò che, paurosa, fosti e sarai”; in altre parole, Siegfried chiede a Brünnhilde di operare quell’atto di redenzione cui alludeva Wotan dicendo ad Erda che la di lei conoscenza cedeva di fronte alla sua volontà. E infatti Siegfried, proprio mentre Brünnhilde gli si sta finalmente offrendo, esclama: “La paura che non ho mai imparato, e che tu mi hai scarsamente insegnato, adesso - sciocco quale sono - l’ho completamente dimenticata!”

(continua)