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26 luglio, 2025

Bayreuth: per Gatti buona la prima.

Con le doverose riserve da fare riguardo la qualità dell’ascolto radiofonico, questo mi è parso un esordio abbastanza positivo per questo Festival. E proprio grazie alla concertazione di Gatti, un approccio abbastanza sostenuto, ma scevro da eccessiva enfasi e retorica. Mirabile il Vorspiel per scavo minuzioso del suo contenuto squisitamente sinfonico.

Così come il concertato finale del second’atto, condotto con trasparente chiarezza, laddove spesso si ode un informe e magmatico vulcano sonoro. E poi il Preludio del terz’atto, una cosa da mozzare il fiato, con l’accorata meditazione di Sachs che anticipa strumentalmente il grandioso Wacht auf! cantato poi dal popolo in omaggio al wonnigliche Nachtigall, l’usignolo del Wittenberg, padre della moderna cultura tedesca.

Orchestra e coro sui loro altissimi standard. 

Quanto alle voci principali, personalmente promuoverei il Walther di Spyres e la Eva della Nilsson. Non mi hanno invece incantato né il Sachs di Zeppenfeld, voce quasi sgradevole per un personaggio di grande nobiltà, né il Beckmesser di Nagy, eccessivamente parodistico. Tanto per fare riferimento alla produzione scaligera del 2017, Volle e Werba erano di parecchi gradini al di sopra…

Non male il Pogner di Park, a parte la pronuncia alla barone-Ochs di straussiana memoria. Bene anche il segretario della Gilde, Kothner, impersonato da Shanahan e il David di Stier, con la sua babbiona Magdalene (Mayer al secolo).

Della regia posso solo prendere atto del benevolo giudizio della Susanna Franchi, inviata sul posto da Radio3; ma devo proprio esecrare l’impiego davvero esorbitante di applausi sulla scena, nel finale ritrovo sulla spianata della Pegnitz, ridotto a carnevalata che copriva la musica.   

A proposito di Radio3, trasmetterà in diretta anche i prossimi padre-figlio (Parsifal-Lohengrin) rispettivamente il 30/7 e il 1/8.

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Nel frattempo, è stato annunciato il Festival del 150° anniversario. Tre le novità principali: il 25 luglio sarà la Nona di Beethoven ad aprire la kermesse; poi l’esordio assoluto a Bayreuth di Rienzi (una vecchia promessa, ora mantenuta, della tenutaria Kathi) con ben 9 recite, e il Ring booleano (10010110, che è poi 150 in notazione binaria, impiegata da tutte le diavolerie elettroniche che ci circondano) manco a dirlo affidato al figliol prodigo Thielemann (nei cast manca Alberich!) Completano il palinsesto i già noti Parsifal e Holländermentre resta a riposo proprio il nuovo Meister.

22 luglio, 2025

Ancora un anno interlocutorio a Bayreuth.

Possiamo ben immaginare che la padrona di casa Kathi e la sua squadra siano tutti presi nella preparazione dell’edizione 2026, dove il Festival (e con lui il Ring) compirà 150 anni. Ma ciò non significa che anche quest’anno non venga prodotto un nuovo allestimento di uno dei drammi del sommo Richard.

Il prossimo 25 luglio tocca quindi aprire il Festival a Die Meistersinger, che vedrà il ritorno sul podio di Daniele Gatti, dopo l’esperienza non proprio trionfale del Parsifal (2008 e anni successivi). Noi scaligeri abbiamo ancora nelle orecchie la sua impeccabile direzione del marzo 2017 e possiamo ben sperare che il Meister (a proposito!) si faccia onore anche lassù. Vedremo anche come se la caverà l’esordiente Michael Spyres nel ruolo di Walther.

Completano il quadro i collaudati Tristan (Bychkov), Parsifal (Heras-Casado) e Ring (Young). Più il ritorno a casa, dopo due stagioni sabbatiche, di Christian Thielemann, che riprende il cammino lasciato nel 2022 con il suo Lohengrin del 2018. Chissà se si tratti di un ritorno di sintonia con la Kathy e magari proprio in vista del prossimo, fatidico Ring.

Ecco qui le mie solite tabelle statistiche sul mondo della verde collina.

Quanto alle possibilità di ascolto, la Radio Bavarese è ovviamente presente (quasi sempre) in diretta per le prime. Che saranno anche trasmesse (almeno Cantori, Anello e Parsifal) dagli spagnoli di Radio Clasica. Radio3 pare limitata, per ora, alla prima del 25.    

  

11 luglio, 2025

Un bel Trovatore in Auditorium.

Folto pubblico ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler per questo fuori-programma operistico dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretta da Vincenzo Milletarì e accompagnata dal Coro dell’Opera di Parma guidato da Massimo Fiocchi Malaspina. Pubblico anche… ehm, variegato, se nell’intervallo (dopo il second’atto) più di uno spettatore chiedeva alle maschere se il concerto fosse finito lì o continuasse ancora (!)

Due sostituzioni della penultima ora (per i ruoli di Leonora e del Conte) rispetto alla locandina originaria sono state ben assorbite e il risultato complessivo è stato più che lusinghiero, almeno a giudicare dall’autentico entusiasmo – applausi a scena aperta dopo ogni numero (arie, duetti, terzetti) - con cui il pubblico ha accolto tutti i protagonisti dell’impresa.

A cominciare dal Coro parmense, compatto e autorevole protagonista dei numerosi interventi che costellano i quattro atti dell’opera. E poi all’Orchestra, che mostra di non avere timori reverenziali nemmeno nei riguardi del grande Peppino, trovando sempre – grazie a Milletarì – i tempi, le dinamiche, l’espressività e la tracotanza che convivono in questa grande partitura.

Cito un paio di dettagli… logistici: dietro la quinta di sinistra del palco (da dove entravano e uscivano di scena i protagonisti) era sistemata l’arpa che accompagna Manrico nei due interventi da remoto; dietro quella di destra la campana che risuona nel primo, secondo e quarto atto. 

Note generalmente positive per i quattro protagonisti principali. Angelo Villari impersona abbastanza efficacemente un Manrico affetto da amore totalizzante, per la (presunta?) madre e per la donna angelicata, che lo spinge a imprese eroiche dagli esiti contrastanti (monastero-Leonora, Aliaferia-Azucena). Ed anche a maledire l’amata (Ha quest’infame…) per poi maledire se stesso come maledicente (Ed io quest’angelo…) Voce ben impostata, chiara e squillante, acuti solidi. A proposito: la pira? Beh, qui francamente siamo un po’ ai saldi di fine stagione: mutilata dell’esposizione e dell’intervento di Leonora, con i sovracuti apocrifi in… DO SI!

Alessia Panza (che ha preso il posto di Maria Novella Malfatti) è davvero convincente, per morbidezza di voce in tutta la gamma, nei panni di Leonora affetta da amore totalizzante (Tacea la notte placida…) proprio come quello di Manrico, che la spinge a sacrifici estremi (clausura – suicidio). Un particolare trionfo per lei dopo le due arie dell’atto conclusivo.

Ernesto Petti (subentrato a Daniel Luis de Vicente) sfoggia una voce rotonda e potente, capace di tutte le sfaccettature che caratterizzano il Conte dal carattere brutale, ma capace anche di slanci poetici insospettabili (Il balen…)

Silvia Beltrami interpreta la figlia dell’Abbietta zingara, un’Azucena dalla mente disturbata e dissociata, che confonde e mescola figlio e vittima, amore e vendetta, sogni e fatalismo. E lo fa con grande sensibilità ed espressività, sfoggiando una voce corposa in tutta la gamma, mai sconfinante in gratuite sguaiatezze.

I due comprimari si sono pure fatti onore. Adolfo Corrado, un solido e autorevole Ferrando; e Alessia Camarin, una Ines premurosa e comprensiva.

I tre membri del Coro (Gianluca Gheller che dà voce al fido Ruiz; Angelo Lodetti, Un vecchio zingaro; e Marco Gaspari, Un messo) hanno degnamente completato il cast.

In conclusione: esito trionfale e scommessa ampiamente vinta.

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E domenica altro appuntamento verdiano al Castello Sforzesco! 

08 luglio, 2025

L’Orchestra Sinfonica di Milano si dà… all’opera.

Di tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen, Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia verdiana a Piacenza, con Lanzillotta.]

Sul podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio, con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro, che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico, oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.

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Giusto per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno) pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è ancora fargli un panegirico…

Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.

Protagonisti sono due maschi (il Conte di Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la presenza in scena come minimo di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che il baritono sia persona di potere ed anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono. 

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli (salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del Conte.

Invece qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño) è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Quanto all’età dei due al tempo dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata, che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?

Se dobbiamo giudicare tutta la questione dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.

Infine, non è da trascurare l’effetto (su cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito (Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato dettava legge…  

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano) imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei protagonisti!  

Veniamo adesso a qualche critica sulla plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.

Comincio dalla quarta scena della prima giornata di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso) per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino. Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto con cui Verdi va a nozze!!   

La suspense che grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo proprio suo figlio!

E qui abbiamo una delle infinite inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede ingenuamente: e chi son io, chi dunque? Dopodichè accetta come nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare il suo racconto!

Ma subito dopo è proprio lui a raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora: ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un gelido brivido gli scuote le membra… mentre un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”

Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima occasione manderà il Conte al creatore!

Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news, mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare la festa al rivale!

Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.

Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.   

Altro schizofrenico comportamento nella prigione: dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne; quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli (Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!

Gratuita anche la circostanza relativa all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.

Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.

Ecco: il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!  

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DO di petto o SI di frodo?

Non può mancare ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo di mezzo (intervento di Leonora, in DO minore); riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):


battute
agogica
voci
verso
1-32
Allegro
Manrico
Di quella pira…
33-39
Più vivo
 
…e teco almen…
39-49
 
Leonora
Non reggo a colpi
50-81
Allegro
Manrico
Di quella pira…
82-88
Più vivo
 
…e teco almen…
88-124
Poco più mosso
Ruiz-Coro / Manrico
All’armi! All’armi! / Madre infelice
124-131
 
Cadenza orchestrale

La nota più alta toccata dal tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo…)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI!

Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche… adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il Topone e il sommo sacerdote HvK!

A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del truffaldino SI che prepara la cabaletta.

Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!

In memoriam… ascoltiamo invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore Licitra (con Frittoli e il filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì ai DO e SI di petto…] 


28 giugno, 2025

Norma carbonara alla Scala.

Ieri sera alla Scala – dopo il reiterato messaggio NO-WAR proiettato a luci spente - è finalmente ricomparsa la belliniana sacerdotessa di Irminsul, che vi mancava da 48 anni, cioè da quel 1977 quando Gianandrea Gavazzeni ne diresse per l’ultima volta i suoni sulle scene avveniristiche (per allora… veramente un po’ alla Wieland Wagner) di Mauro Bolognini e con protagonista la somma Montserrat Caballè.

Oggi i protagonisti sono Fabio Luisi sul podio, Olivier Py alla regìa e Marina Rebeka negli scomodi quanto impegnativi panni della protagonista. 

E, a proposito, la Rebeka, ormai consolidata interprete del title-role (qui ascoltabile in una recente incisione, con Casta Diva in SOL… ma qui tornata al FA) mi è parsa appena-appena all’altezza delle aspettative: la salita agli acuti pare sempre problematica. I sonori buh incassati alla fine (ma anche dopo il Casta Diva) misti ad applausi sono forse immeritati, ma… l’eccellenza è un’altra cosa.

L’italo-albionico Freddie De Tommaso è un mediocre Pollione: la voce ci sarebbe anche, ma necessiterà di sudore per essere gestita come si deve. Per lui misto di approvazioni e brontolii di contestazione.

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa) è la migliore del gruppo, giustamente osannata alla fine.

Michele Pertusi impersona Federico Confalonieri Oroveso e se la cava al meglio delle sue sempre notevoli possibilità.

Flavio è Paolo Antognetti, diciamo senza infamia. Merita un incoraggiamento l’accademica Laura Lolita Perešivana per la sua discreta prestazione come Clotilde.

Una sicurezza, come sempre, il Coro di Alberto Maletti.

Da Fabio Luisi forse ci si poteva aspettare di più: una direzione senza pecche, ma con pochi momenti davvero memorabili (uno: l’introduzione del second’atto, con la gran cavata dei celli). I buh non proprio isolati, rimediati all’uscita finale, forse erano eccessivi, ma non del tutto pretestuosi.

Insomma, sul fronte dei suoni ci si può appena accontentare, ecco.

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Difficile invece accontentarsi della regìa di Py (scene-costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografie di Ivo Bauchiero) che è di una banalità disarmante. Ci troviamo nella Milano del 1831, davanti alla Scala, ai tempi della prima dell’Opera. Già durante la Sinfonia assistiamo a moti rivoluzionari supportati da coreografie da avanspettacolo.

C’è la fucilazione di un rivoltoso da parte dei viennesi, seguita da un rito che si vede ogni giorno a Gaza: cadavere trascinato via in un lenzuolo bianco, poi ricoperto dal tricolore, compianto da compagne e compagni. Arriva, appunto, Federico Confalonieri, l’Oroveso capo dei carbonari ad aizzare i milanesi contro l’aguzzino occupante: Norma o Tell, tutto fa brodo, il Risorgimento è salvo.

La scena è posta sull’immancabile piattaforma girevole, che ci presenta la facciata della Scala e, sul retro… scale e scaloni che ospiteranno le vicende del dramma. Costumi dell’epoca, con i notabili carbonari vestiti da becchini e i militari occupanti in luminose divise immacolate.   

Simboli necrofili in abbondanza: teschi dorati, tre figuranti a creare l’atmosfera da tragedia greca, una toilette da teatro per Norma con la scritta MEDEA, chè non sfugga a nessuno il legame con l’abusato soggetto. Due candidi pupazzi-bambinelli fanno intuire l’insana attitudine di Norma-Medea nei loro confronti. E Norma, appunto, è una veggente, quindi scruta una sfera di cristallo scuro per… schiarirsi le idee.

Poi vedremo anche i bambinelli veri che sembrano il paparino in persona, con tanto di bianche uniformi e berretti in tinta (insomma, l’imperialismo austro-ungarico detta legge anche sui cromosomi…) giocare con i rispettivi pupazzetti mentre la mamma sta pensando a come farli secchi.

Alla fine del primo atto la Scala è quella ridotta a macerie dai bombardamenti americani viennesi (a futura memoria?)

L’epilogo non è un rogo (in effetti par di vedere una barricata incendiata): no, è una nuova fucilazione, operata dai patrioti milanesi per punire l’occupante e l’indegna traditrice della patria.

Allo spettacolo però – un vero peccato - è mancato lo spontaneo aggiungersi dell’intero pubblico al coro guerra! guerra!, come avveniva a quei tempi.

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Ecco perché, all’uscita finale, Py e Weitz hanno innescato nel secondo loggione… le 5 giornate di Milano. Che dire? Con normativa misericordia potremmo implorare per loro: Deh, non volerli vittime…

24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

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Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

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La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…