affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

18 settembre, 2024

Chailly e i Gurre alla Scala

Ieri sera la Scala - affollata, ma non proprio esaurita - ha ospitato il terzo ed ultimo dei concerti dedicati da Riccardo Chailly alla riproposta dei monumentali Gurre-Lieder di Arnold Schönberg (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) che non risuonavano nel teatro da più di 10 lustri (Mehta, 1972 e 73). Da parte sua, Chailly ci ha lasciato una pregevole registrazione dell’opera, datata 1990 a Berlino.

Per l’occasione, al Coro della Scala (Alberto Malazzi) si è aggiunto quello – altrettanto prestigioso – della Radio Bavarese (Peter Dijkstra).

Le voci protagoniste erano Andreas Schager (Re Waldemar) e Camilla Nylund (Tove), affiancati da Okka von der Damerau (Waldtaube), Michael Volle (Bauer e Sprecher) e Norbert Ernst (Klaus Narr). Come si vede, un cast davvero di prim’ordine.
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È lo Schönberg che transita dal tardo-tardo-romanticismo (1900, stesura originaria della composizione) verso l’atonalità (1911, completamento della strumentazione).

Il soggetto, tripartito, basato su poemi del danese Jens Peter Jacobsen, presenta, dopo un’introduzione strumentale, un primo ciclo di 9 Lieder (regolarmente alternati per la voce maschile di Re Waldemar e quella femminile della piccola Tove, di cui il Re è follemente invaghito) che sembrano seguire il modello della grande scena d’amore Tristan-Isolde, e si chiudono con presentimenti di morte.

Dopo un nuovo interludio, ecco l’esplosione del dramma: una colomba (Waldtaube) annuncia – nel 10° Lied - la morte violenta di Tove per mano della gelosa regina Helwig.

La seconda parte, relativamente breve, consta di un unico Lied cantato da Re Waldemar, che impreca contro Dio per il tremendo dolore che gli è stato inflitto con la morte dell’amata.

La terza parte (La folle caccia) ha un sapore misterioso, onirico e (salvo un siparietto buffo) parecchio truce, per poi sfociare in un finale ottimistico. Waldemar (Lied 1) richiama dalla tomba i suoi guerrieri, per marciare su Gurre. Un Contadino (Lied 2) si prepara al peggio, paventando distruzioni da parte di quelle orde. I Guerrieri di Waldemar (Lied 3) si preparano alla caccia selvaggia. Re Waldemar (Lied 4) crede di vedere la povera Tove in ogni angolo: bosco, lago, stelle e nuvole. È il suo autentico delirio d’amore.

Klaus, il buffone (Lied 5) ricorda a sua volta il passato e si augura che nel giorno del giudizio il Creatore lo chiami lassù…  Re Waldemar (Lied 6) sfida ancora Dio a tenerlo separato dalla sua Tove: non accetterà che lei finisca in Paradiso, e lui all’Inferno! Al levar del giorno i guerrieri di Waldemar (Lied 7) si preparano a tornare nelle tombe.

Un lungo interludio evoca ora la folle caccia del vento estivo. Tutta la natura ne è sconvolta, come ci descrive il Recitante (Lied 8). Poi il giorno si fa largo, e i fiori tornano ad aprirsi!

La chiusura è riservata al Coro misto (Lied 9) e al suo inno al sole.     
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Schager e Nylund – non a caso apprezzati Tristan e Isolde nelle recenti recite della Handlung wagneriana sulla verde collina – hanno dato vita ad una prima parte assai coinvolgente, ricca di pathos, in piena integrazione spirituale (ed erotica, va detto…) con la natura circostante, romanticamente amica, complice e protettrice dei loro impulsi amorosi.

Molto efficace il Lied della von der Damerau, che ha drammaticamente evocato la devastante atmosfera seguita alla scoperta della morte di Tove.

Con lei ha sciorinato tutte le sue eccellenti qualità vocali ed espressive il grande Michael Volle, altrettanto convincente come Singer che come Sprecher. Norbert Ernst ha messo la sua chiara voce tenorile al servizio dello stralunato buffone Klaus.

Impeccabili i cori della Scala e della Radio bavarese, che hanno suggellato, nella terza parte, una prestazione complessivamente memorabile, grazie all'Orchestra e a Chailly, che ha guidato tutti con l’autorità e l’autorevolezza che ne contraddistinguono la consuetudine con questo repertorio.

Esito a dir poco trionfale!

16 settembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano. Concerto inaugurale 24-25.

Anche quest’anno si è rinnovato il tradizionale appuntamento de laVerdi con la Scala, per l’apertura della nuova stagione. Su podio - per la prima volta, dopo tre presenze (19-21-23) al Piermarini come solista al violino - il nuovo Direttore Musicale, il vulcanico Emmanuel Tjeknavorian (30 anni non ancora compiuti!) viennese di origini armene e figlio d’arte (papà Loris è pure direttore).  

Sala piacevolmente affollata. Presenti in platea Riccardo Chailly, Direttore Onorario dell’Orchestra e mentore del suo giovane successore; e Ruben Jais, ex-Direttore Generale e Artistico, che ha introdotto Tieknavorian nell’ambiente prima di passare al più alto incarico di Sovrintendente della Toscanini di Parma.

I primi due brani del concerto sono stati scelti da Emmanuel in ricordo di quelli del suo primo podio (calcato a 17 anni, in un ospedale di Vienna!)

Si parte con Dmitri Shostakovic e la breve Ouverture Festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione. Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto nel 1954, quindi parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Inizia con 26 battute di solenne fanfara introduttiva di trombe, corni e tromboni (Allegretto, 3/4, LA maggiore) cui seguono i due temi dell’Esposizione (Presto, 4/4 alla breve): il primo è assai spiritato, nella tonalità d’impianto, esposto inizialmente dai clarinetti, subito raggiunti dai flauti, poi ripreso dagli archi.

Dopo un moderato ritorno della fanfara il primo tema viene ripetuto e infine sfocia nel secondo che, scolasticamente, è nella dominante MI maggiore. È un tema che giustamente contrasta con il primo anche nell’andamento, più sostenuto e severo, esposto da corni e celli e ripreso ancora dagli archi.

Si passa quasi subito, dopo breve transizione, alla Ricapitolazione: al primo tema in LA ecco seguire, secondo i sacri canoni codificati nell’800, il secondo, adeguatosi ossequiosamente alla tonalità del primo.

Arriva poi la Coda (Poco meno mosso, 3/2) sul Tema della fanfara Introduttiva; e infine la vorticosa Stretta finale (Presto, 4/4 alla breve) sul secondo tema assai accelerato.

Davvero un brano trascinante, assai utile per scaldare i motori di Orchestra e… pubblico che non risparmia applausi a tutti.

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La Seconda Sinfonia in RE maggiore di Beethoven (1800-03) ci riporta proprio agli anni in cui la forma-sonata, timidamente sbocciata nel Settecento, si faceva largo come struttura portante di movimenti di Sinfonie, Quartetti e Concerti. Sinfonia che meriterebbe miglior fama di quella che le si attribuisce, in quanto pari, da chi considera capolavori solo le sinfonie dispari

E invece Tjeknavorian ce ne ha sciorinato tutte le interessanti qualità, che già il pubblico delle prime esecuzioni aveva chiaramente percepito, rimanendone allo stesso tempo ammirato e disorientato.  

Insomma, un’opera che supera di slancio le fanciullaggini (copyright Berlioz) della Prima per inoltrarsi verso il futuro dell’Eroica!

A partire dall’introduzione lenta (Haydn faceva ancora scuola, in quegli anni…) che mostra però arditezze prima sconosciute, come la modulazione a SIb o la perentoria figurazione in RE minore a 11 battute prima dell’Allegro on brio, che anticipa addirittura i precipizi della nona!

L’Esposizione ci presenta il primo tema, in RE maggiore, dapprima nervoso e poi sfociante in maschie e decise cascate di accordi in staccato; dopo una divagazione a RE minore, gli fa da contraltare il secondo, nella dominante LA maggiore, che principia con leziosità femminile e tono scanzonato (come vorrebbe la tradizione) ma poi mostra a sua volta un suo lato più serioso e impegnato. Una cadenza in cui tornano lacerti del primo tema chiude l’esposizione.

Dopo la ripetizione (che Tjeknavorian ha lodevolmente rispettato) ecco lo Sviluppo, dove i due temi ricompaiono variati, in particolare il primo, in SOL minore, fugato, e poi il secondo che viene ora esposto nella sottodominante SOL maggiore; quindi il primo porta alla Ricapitolazione, con il secondo che si adegua al RE maggiore. Un’insolitamente corposa Coda, quasi un nuovo sviluppo del primo tema, conduce alla perentoria chiusura.    

Mirabile la resa del successivo Larghetto in LA maggiore, un movimento solo apparentemente settecentesco, lezioso e disimpegnato, con struttura bitematica (LA e MI maggiore, con soggetto e controsoggetto) in forma-sonata – esposizione-sviluppo-ripresa-coda - ma nel quale Beethoven innesta idee che lo proiettano decisamente nel futuro. Il Direttore sembra centellinarlo proprio come si fa con un vino pregiato, facendocene gustare e apprezzare ogni sfumatura.

E poi lo Scherzo, in RE maggiore, di per sè una sconvolgente novità – scalzare il Menuetto! - per quel periodo. Forse per questo Beethoven non ha poi esagerato con eccessive bizzarrie (un paio di modulazioni a SIb minore e DO, ma anche il Trio resta in RE maggiore) per sfogare poi tutte le sue energie nel concitato Allegro molto, sempre in forma-sonata, RE e LA maggiore.

Tjeknavorian – che ha diretto tutto il concerto a memoria, chiaro segno della cura dedicata allo studio e alla scrupolosa preparazione - ha dimostrato di padroneggiare il brano alla perfezione, ottenendo un meritato successo da un pubblico davvero tutto per lui.

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Chiusura travolgente con la famigerata Quarta di Ciajkovskiuna Sinfonia che l’Autore stesso caricò, con le sue esegesi, di significati e contenuti francamente discutibili; e che potrebbe facilmente portare un giovane entusiasta a strafare, esaltandone l’esteriorità, la retorica e l’enfasi. Ma il simpatico Emmanuel ha mostrato di essere già più maturo di tanti colleghi più navigati di lui, misurando ogni passaggio con meticolosa attenzione: dalle sonorità abbaglianti degli ottoni nei movimenti esterni, alla composta liricità dell’Andantino, con la stupefacente irruzione di clarinetti e fagotti nel Più mosso che ne anima la parte centrale; all’altro lancinante contrasto (nello Scherzo) far il sotterraneo pizzicato ostinato degli archi e l’impertinente ingresso dell’oboe (Meno mosso).  

Insomma, una lettura convincente, coniugata con una piena sintonia fra podio e orchestra: tutti tesi come un sol corpo (e… anima!) per emozionarci una volta di più.

Il pubblico ha congedato tutti con ovazioni e applausi ritmati. Ecco, come esordio, dal Direttore Musicale non ci si poteva aspettare di meglio!


02 settembre, 2024

Chung e gli olandesi a Rimini.

La serie dei Concerti Sinfonici della 75ma Sagra Musicale Malatestiana è stata aperta ieri sera, nella monumentale cornice del Teatro Galli, dalla prestigiosa Concertgebouworkest diretta da Myung-whun Chung.

Ad aprire il programma è stata eseguita l’Ouverture del Freischütz di Carl Maria vonWeber, un’opera che deve essere assai cara al Maestro coreano, che ne diresse l’ultima apparizione alla Scala, nell’ottobre del 2017.

Si tratta di una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, incentrato sulla lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nell’arcano scenario della natura, a sua volta splendente, maestosa oppure oscura e minacciosa.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada alla seducente melodia in DO maggiore dei quattro corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. Essa si chiude però in modo minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

Compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando dal DO minore, che aveva occupato la scena, alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi, è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato dalla pia Agathe, e la sua nobile aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare il DO minore, con il truce motivo di Caspar, poi ricomparire Agathe, ora in SOL maggiore, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora al DO minore dei motivi di Max e Caspar, e poi ancora alla sinistra presenza di Samiel.

Dopo un drammatico, interminabile silenzio, una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, adesso in forma enfatica e trionfale, poi ancora ripreso a chiudere in gloria.

Strepitosa invero, e accolta da un uragano di applausi, l’esecuzione dei tulipani, che Chung ha guidato con il suo proverbiale (apparentemente distaccato) atteggiamento ascetico.

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Avrebbe dovuto toccare ad András Schiff di sedersi alla tastiera per interpretare quello che è comunemente ritenuto il più difficile dei cinque concerti beethoveniani: l’Op.58, in SOL maggiore. Purtroppo, il pianista ungherese ha dovuto dare forfait per improvvisa indisposizione, e così il suo posto è stato preso da un conterraneo del Direttore, il trentenne Seong-Jin Cho, vincitore nel 2015 del più prestigioso concorso pianistico del pianeta, quello intitolato a Chopin

E lui non ha mancato di dare la sua impronta fin dalle cinque battute con le quali si apre – nel silenzio generale – questo autentico capolavoro.

Per poi farsi un pisolino mentre l’orchestra suona da sola (per 68 battute!) i temi principali dell’esposizione.

Da qui però il simpatico quanto riservato Seong ha avuto modo di inebriarci con il suo tocco delizioso, facendo sgorgare dallo strumento mirabili cascatelle di note, culminate nella massacrante cadenza dell’iniziale Allegro moderato. Quasi espressionista la resa del centrale Andante con moto, e nuovamente liquido il conclusivo Rondò, che Chung ha accompagnato evitando eccessiva enfasi.   

Gran trionfo per lui, che ringrazia suonando, anzi sognando, un (Kinder) Schumann!

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Chiusura davvero in bellezza con Brahms e la sua ultima Sinfonia, l’Op. 90. Che Chung cesella da par suo, coniugando la severità del burbero amburghese con il suo confuciano distacco.

Ovazioni per il Maestro e per tutta la splendida Orchestra, che ci mandano a nanna (…) con un altro Brahms: la prima Danza magiara! 


24 agosto, 2024

ROF-2024: chiusura con Il viaggio a Reims da… Piazza del Popolo.

È ormai tradizione da quando esiste quella diavoleria chiamata streaming che l’ultimo atto del ROF venga irradiato su maxischermo nella piazza principale di Pesaro, che su due dei suoi lati contigui (nord e est) ospita rispettivamente la sede storica e quella moderna del Comune della città, sponsor dell’iniziativa.

Quest’anno per il gran finale è stato proposto Il viaggio a Reims, in forma concertante, eseguito nel ritrovato Auditorium Scavolini. Ricorrono infatti i 40 anni dalla prima uscita al ROF di questo autentico gioiello, illustrato allora dalla prima edizione critica di Alberto Zedda e da una coppia di artisti semplicemente passata alla storia: Claudio Abbado e Luca Ronconi, coadiuvati allora da un cast che definire stellare è ancora riduttivo.  

E anche io ho deciso – non è la prima volta – di assistere allo spettacolo seduto su una (piuttosto scomoda) sedia nella Piazza, in mezzo a tanta gente che magari non frequenta abitualmente teatri e sale da concerto, ma che nondimeno segue questi eventi con passione e… applaude proprio come a teatro.

Per evidenti ragioni non farò qui alcun commento sulla parte musicale dell’evento, limitandomi a riferire dell’entusiastica accoglienza del pubblico, quello all’interno (dell’Auditorium) e quello all’esterno (in piazza).

Chiude così i battenti anche questa edizione particolare del Festival. Che ci ha riservato (come quasi sempre, del resto) interessanti novità, attese conferme e… un benefico e ubriacante diluvio di note rossiniane!    


23 agosto, 2024

ROF-2024 live: Il barbiere di Siviglia.

Ultima (ma temo solo per questa stagione…) visita alla Vitrifrigo Arena per l’ultima recita del Barbiere, ripresa della produzione del 2018, già ripetuta in Covid-streaming nel 2020.

Quel grande studioso rossiniano che fu il compianto Alberto Zedda scrisse a proposito del Barbiere un saggio che ancor oggi costituisce un punto di riferimento per inquadrare l’opera nella sua essenza più genuina, a dispetto delle mille ferite infertegli dalla cosiddetta tradizione esecutiva. E la sua edizione critica, ancor oggi riproposta al ROF, lo sta ampiamente a dimostrare.  

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Sulla regìa di non posso che ripetere i miei commenti allo spettacolo di sei anni fa. Pier Luigi Pizzi non si smentisce e – da architetto, per studi universitari, e da scenografo… di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi proprio, trova) un più che accettabile compromesso, evitando gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni tradizionali (o tradizionaliste…) che, da commedia con venature di buffo, riducono spesso il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.

Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane… non fanno mai scadere lo spettacolo a becera farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che circonda l’orchestra e che è da sempre una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto e poi alle uscite finali.

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Un tremuoto, un temporale… è l’espressione che meglio si addice a descrivere ciò che deve aver colpito Lorenzo Passerini sul podio dell’Arena: un corpo letteralmente morso dalla tarantola! E forse i suoi gesti quasi spiritati possono aver dato la (fallace) impressione che i tempi da lui tenuti siano eccessivamente forsennati: in realtà mi pare che ciò ieri non sia accaduto, il che va comunque a suo merito. La solida Sinfonica Rossini evidentemente lo ha assecondato nella sostanza, al di là della forma, piuttosto gigionesca!

Assai bene anche il Coro (soli signori) del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.  

Nel ruolo del titolo, il polacco Andrzej Filonkzyk ha messo in mostra la sua voce dal timbro caldo e ben tornito, di cui qualche eccesso di forzatura degli acuti non ha troppo compromesso la resa complessiva. Più che discreta anche la sua presenza scenica.

Il suo protetto (Almaviva/Lindoro) è lo yankee Jack Swanson: voce leggera, dal timbro non molto corposo, in specie nelle note più gravi, ma svettante negli acuti. In complesso, più che apprezzabile la sua prova.

Parimenti apprezzata la Rosina di Maria Kataeva. Assai efficace e ben proiettata negli acuti, il mezzosoprano russo mi è parsa meno efficace nell’ottava bassa, ma anche lei ha brillantemente superato la prova, mettendo in mostra anche una consumata sensibilità interpretativa.

Assai bene anche William Corrò, che vestiva i panni duplici di Fiorello e Ufficiale: voce benissimo impostata e potente, dal timbro assai gradevole.

Resta da dire dei senior della serata. Su tutti l’imponente figura di Michele Pertusi, un Don Basilio che probabilmente si sentiva anche a… Pesaro! E che ha portato gli applausi del pubblico al parossismo.

Così come l’altro decano del Festival, Carlo Lepore, un Bartolo di gran spessore, nella voce (non ha perso una sola sillaba nei diversi scioglilingua che Rossini impone al personaggio) e nelle multiformi movenze delle sue esternazioni.

E infine Patrizia Biccirè, che esordì al ROF addirittura 32 anni orsono! E che ancora ha saputo dare il suo apporto allo spettacolo e soprattutto – con l’arietta a lei riservata - alla musica.

Applausi scroscianti a scena aperta dopo ciascun numero e poi un generale trionfo finale, con tutti gli interpreti in passerella a ricevere un interminabile applauso ritmato!

  

22 agosto, 2024

ROF-2024 live: L’equivoco stravagante.

Ieri L’equivoco stravagante, una ripresa della fortunata produzione del 2019 affidata alla coppia registica di Moshe Leiser e Patrice Caurier (che allora avevo personalmente apprezzato assai) ha chiuso il suo ciclo di quattro recite a questo ROF-45. Dico subito che mi sento di riconfermare in pieno quell’apprezzamento, anzi di innalzarlo ulteriormente, grazie anche allo spostamento delle recite dalla dispersiva Vitrifrigo Arena all’ambiente più raccolto, cittadino e quindi familiare del glorioso Teatro Rossini, riaperto per l’occasione.

Sul pruriginoso soggetto di Gasbarri e sulla regìa non sto quindi a dilungarmi oltre rispetto a quanto scritto allora. Manche perché molto più e molto meglio ne scrisse il venerabile Alberto Zedda.

Ma buone notizie sono arrivate anche dal nuovo apparato musicale, interamente rinnovato rispetto a quello ben distintosi nel 2019, che poteva contare sull’apporto della OSN-RAI e del coro del Ventidio Basso. Che la meno blasonata ma agguerrita Filarmonica Rossini e la piccola pattuglia del coro (14 tenori-baritoni-bassi, interpreti di contadini, letterati e soldati) del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani non hanno fatto per nulla rimpiangere.

Tutti guidati dalla bacchetta di Michele Spotti, che dall’anonima Cesano Maderno che gli ha dato i natali 30 anni orsono è oggi arrivato a dirigere l’importante teatro e la filarmonica di Marsiglia e a calcare podi in giro per il mondo. Rimarchevole la sua capacità di far emergere tutta l’accattivante freschezza di questa terza partitura di Rossini, che tanti bei momenti trasferirà ad opere successive. Gesto a volte enfatico o lezioso, ma evidentemente efficace, a giudicare dal consenso manifestatogli non solo del pubblico, ma degli stessi strumentisti.    

Nicola Alaimo è il motore assoluto dello spettacolo: il baritono palermitano, (all’ottava presenza nel cartellone principale del ROF, dopo l’esordio nel lontano 2010 in Cenerentola) ha incantato con la sua verve sempre raffinata, la sua presenza scenica mai sopra le righe e – superfluo aggiungerlo – la sua splendida voce! Ammirata già nell’iniziale duetto con Buralicchio (Ah, vieni al mio seno) poi nelle due arie (Talpa in mortale ammanto e Il mio germe) come nei pezzi d’insieme (Quartetto Ti presento a un tempo istesso e Quintetto Speme soave) oltre che nei due movimentati finali. È senza dubbio lui il trionfatore di questa riproposta dell’Equivoco.      

L’esordiente Maria Barakova (passata per l’Accademia nel 2018) veste i pani della protagonista Ernestina, la ragazza saputella e svampitella che vive nel mondo dei sogni per poi migrare in quello della realtà, complice… l’amore. Davvero apprezzabile la sua prestazione, a partire dalla cavatina d’esordio (Nel cor un vuoto) e poi nel Duetto con Ermanno (Se una speme). Nel second’atto si distingue nel Duetto con Buralicchio (Vieni pur) e nel Rondò con coro (Se per te lieta ritorno) che precede il finale. Importante anche il suo contributo ai pezzi d’insieme. (Se proprio devo trovarle il pelo nell’uovo, è qualche decibel che manca nell’ottava bassa.)

Al Nemorino-ante-litteram della situazione (il romantico Ermanno) ha prestato la sua limpida voce Pietro Adaìni (alla sua terza importante presenza al ROF). Acuti svettanti (fino al DO#) e bella proiezione di suono, unite a perfetta immedesimazione nel personaggio. Oltre all’esordio a freddo (Si cela in quelle mura) e al citato duetto con Ernestina (Sì, trovar potete) e ai pezzi concertati, ha pienamente convinto nella sua concitata aria (Sento da mille furie) e nella successiva cavatina (D’un tenero ardore).  

Il ricco nullafacente Buralicchio (l’altro buffo della situazione) è il quasi esordiente Carles Pachòn, che si è subito messo in mostra nella sua cavatina d’esordio (Occhietti miei vezzosi) e poi si è distinto nel citato duettino con Gamberotto (Ah padre! Mi stringi). Nel second’atto poi ha degnamente assecondato Ernestina nel duetto (Più la guardo) oltre a dare il suo valido contributo ai pezzi concertati.  

Bella figura hanno fatto anche i due comprimari, servitori di Gamberotto e alleati di Ermanno alla conquista del cuore di Ernestina. Patricia Calvache, voce per la verità non molto penetrante, si distingue nella sua arietta Quel furbarel d’amore, oltre che nel quintetto e nei finali d’atto. Matteo Macchioni è a sua volta un simpatico (e geniale ideatore dell’Equivoco!) Frontino, cui Rossini riserve la sua applaudita aria di sorbetto (Vedrai fra poco nascere).

Ma a parte i numeri solistici o concertati, la compagnia di canto ha sempre mantenuto alti il ritmo e la tensione della commedia, in ogni scena, proprio senza un solo momento di stasi, dall’inizio alla fine.  

Pubblico entusiasta, che ha accolto ogni numero con applausi a scena aperta, per poi decretare un trionfo generale – con punte al calor bianco per Alaimo - alla fine dello spettacolo. 


20 agosto, 2024

ROF-2024-live: Bianca£Falliero.

Finalmente si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.

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Felice Romani, oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage (lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).

Un soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro (Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).

L’opera arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza proprio sul versante degli affetti.

E non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti (appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato (Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).

Storici e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta, e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto) e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai di più.

E che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?) enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata, e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la stava sfondando)!

Insomma, è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da Gluck, Mozart e Cherubini.

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Roberto Abbado (a mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente, ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è parsa proprio eccellente, ecco.

Come per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza al ROF.

Come già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e temerarie iniziative).

Va da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve rispetto alla prima) il finale rondò.

Aya Wakizono ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole. Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere (cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.

Ai due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di (bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto (la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver professionalmente dato il meglio di sé.

Dmitry Korchak, da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati consensi.

Giorgi Manoshvili impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo: sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità (leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano, paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.

Più che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.

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Lo spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene, costumi e oggetti di Rudy Sabounghiilluminati anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità: all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…) alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…

La gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno: movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro, ecco.    

Domanda: ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini) dopo vent’anni di convivenza con Falliero?

A parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.  

Che invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi applausi 

18 agosto, 2024

ROF-2024-live: Ermione.

Ho riservato la mia prima presenza al ROF45 a quella che (non solo io) considero l’opera più innovatrice e moderna di Rossini: Ermione.

Il mio interesse era anche solleticato dalla presenza sul podio di Michele Mariotti, che ebbi occasione di vedere ed ascoltare proprio al suo battesimo al ROF, nell’ormai lontano 2010, con Sigismondo (prima ed ultima, al momento, rappresentazione) e con lo Stabat Mater. Da allora il direttore pesarese che, come molti suoi pari, del resto, ha avuto molto dalla sorte (essere figlio del fondatore-sovrintendente del Festival ed essere quindi cresciuto a pane-e-Rossini) di strada ne ha fatta assai ed oggi eccelle non solo in Rossini ma in una vasta area dell’immenso repertorio del teatro musicale.

E dico subito che, a conferma della buona impressione generale lasciatami dall’ascolto radiofonico della prima, anche questa terza recita ha per me meritato un voto ampiamente positivo.

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Ermione (tratto da Tottola dall’Andromaque di Racine, a sua volta liberamente derivata da quella di Euripide) è un soggetto tutto incentrato sulla psicologia (-schizofrenia?) dei quattro protagonisti (tutti, Andromaca esclusa, della generazione successiva a quella dei belligeranti di Troia) e sull’incredibile catena di rapporti conflittual-sentimentali che intercorrono fra gli stessi:

- Oreste (che ha appena vendicato il padre Agamennone, ammazzando sua madre Clitemnestra e l’amante di lei, il cornificatore Egisto) è invaghito della figlia di Menelao e della fedifraga Elena, la spartana Ermione;

- costei è patologicamente innamorata di Pirro (figlio del leggendario Pelide);

- il quale si è trovato in casa, come bottino di guerra, la povera Andromaca (più il figlioletto di lei Astianatte, che Racine e Tottola hanno tutto l’interesse a mantenere in vita, invece che credere alla sua morte per scaravento giù dalle mura troiane, da parte del futuro Odisseo) e se ne innamora all’istante, dimenticando una futile promessa fatta ad Ermione;

- ma Andromaca (unico personaggio con la testa sulle spalle, va subito detto, in mezzo a quei tre scavezzacollo figli/e di papà…) resta inflessibilmente fedele alla memoria del marito Ettore, fatto secco a Troia proprio dal padre del suo attuale spasimante!

Insomma, un inestricabile groviglio di sentimenti: l’infatuazione selvaggia, di Oreste per Ermione, di Ermione per Pirro e di Pirro per Andromaca, tutti amori impossibili e inquinati da cieca gelosia, che inevitabilmente potranno trovare sbocco solo in totale tragedia.      

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Mamma mia, come si vede, un soggetto di per sé fuori dall’ordinario, dal quale uno come il 27enne Rossini, all’apice del furore creativo degli anni napoletani, non poteva non rimanere soggiogato al punto da riservargli un trattamento adeguato, quindi fuori dall’ordinario

A cominciare già dall’Ouverture, che si apre in atmosfera cupa, dolente e poi agitata, presto interrotta dall’insolito ingresso del coro (!) dei deportati troiani; poi seguita da un motivo leggero e spiritoso e dal proverbiale crescendo, che Rossini si auto-impresterà in ben tre Ouverture di opere immediatamente successive (Eduardo, Bianca e Matilde).

L’opera inizia poi con la presentazione dei quattro personaggi principali e delle rispettive menti disturbate. E si capisce quindi come la musica, per seguirne questi psicologici labirinti, ne sia inevitabilmente contagiata, discostandosi dagli stilemi usuali. Al confronto anche le innovazioni dell’ultimo Gluck o di Cherubini sembrano solo dei timidi tentativi.

Dapprima si presenta Andromaca, che trepida per la sorte del figlio, ma contemporaneamente apprende delle profferte di amore da parte di Pirro, disposto per di più ad adottare Astianatte qual figlio ed erede al trono! Ma la sua coscienza le impedisce di tradire la fedeltà alla memoria del consorte, Ettore. Da qui il suo stato di prostrazione.

Ecco poi Ermione, circondata da premurose ancelle in un’atmosfera apparentemente idilliaca. Ma subito rotta dal cruccio che attanaglia la principessa spartana: Pirro la sta tradendo per Andromaca!  

Ed ecco appunto arrivare Pirro, in cerca della troiana. Ermione lo affronta a viso aperto, ma il Re si vanta della sua autorità e della sua decisione, pur con l’animo oppresso dall’incertezza riguardo le intenzioni di Andromaca, che non pare proprio disposta a… dargliela!

Ora tocca ad Oreste entrare in scena ed esporre subito la lancinante contraddizione che ne caratterizza la personalità: il suo amore non corrisposto per Ermione; e l’ingrato compito che lo attende, che ha risvolti per lui esiziali: convincere Pirro a dimenticare Andromaca, giustiziarne il figlio e quindi inducendolo a tornare da Ermione, col che lui perderebbe per sempre la sua amata!

Inizia adesso l’azione vera e propria. Pirro convoca Oreste e i greci per ascoltarne le ragioni, presenti anche Ermione e Andromaca. Dopo che Oreste lo ha invitato a liberarsi dei troiani, in particolare di Astianatte, Pirro, con tono arrogante, dichiara apertamente le sue determinazioni: impalmare Andromaca e porre in futuro Astianatte sul trono, ignorando bellamente il mortale rischio che ciò farebbe correre alla Grecia.

Ermione si dispera, mentre Oreste, ovviamente, spera (mors tua… etc,) Ma Andromaca ha fatto sapere a Pirro di non accettare le sue profferte. Al che il Re non esita a ricattarla, ipocritamente offrendo, per ingelosirla, la sua mano ad Ermione, e contemporaneamente gettando Astianatte, perché venga giustiziato, nelle mani di Oreste, che quindi raggiungerebbe il fine politico, ma a spese di quello sentimentale. Un mirabile concertato generale ci propone le quattro diverse attitudini dei protagonisti rispetto a questa drammatica quanto insostenibile situazione.   

Andromaca allora non vede altra via d’uscita che quella - poi scopiazzata in più di un melodramma - di fingere di promettersi a Pirro per averne in cambio il giuramento di salvar la vita al figlio, per poi suicidarsi prima di concedersi a quell’invasato. È in quest’atmosfera carica di tensione e incertezza che si chiude – con un finale concertato -  il primo atto.

Il secondo si apre con Pirro che esulta, informato della decisione di Andromaca di accettare le sue profferte. E proprio i due sono protagonisti di un incontro dove la gioia del Re, che finalmente vede coronarsi il suo sogno, si scontra con il cruccio di Andromaca, ormai preparata all’estremo sacrificio pur di salvare il figlioletto.

Dopo un fugace incontro-scontro di Ermione con la povera Andromaca, oggetto del disprezzo della prima, che ne ignora il tremendo stato di necessità, eccoci arrivati alla gran scena di Ermione. Davvero il compendio di tutte le straordinarie novità introdotte da Rossini: si va dalla vana speranza di un ripensamento di Pirro, alla constatazione del crollo di ogni prospettiva futura, al risentimento contro l’uomo che l’ha tradita e la donna che è stata causa del tradimento! 

Ora ci si avvicina allo scioglimento del dramma. E ci pensa Ermione ad… accontentare tutti: consigliata dalla fida Cleone, che le suggerisce di usare la sua influenza su Oreste - uno che per lei sarebbe disposto a tutto, per amore e per… esperienza pratica - finge di accettare le smanie di cui costui la fa bersaglio, lo convince a ripetere quel gesto di cui lui è ormai specialista universalmente riconosciuto: ammazzare il fedifrago Pirro! Omicidio che Oreste compie, non senza schizofreniche dissociazioni psichiche. 

Ma la stessa Ermione, in una seconda scena di altissima drammaticità, pentitasi subito dell’ordine impartito ma ormai non più revocabile, altrettanto schizofrenicamente maledice il sicario, al quale non resta che lasciarsi trascinare via dai compagni di missione.

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Beh, se ancor oggi noi scafati spettatori del terzo millennio, passati attraverso mille esperienze e rivoluzioni (e vessazioni?) restiamo sconvolti ed allibiti di fronte a simile esplosione di creatività musicale, possiamo capire perché per quasi 150 anni nessuno più si curò di tale autentico tesoro nascosto, meritoriamente ritrovato qui da noi negli anni’70 e poi definitivamente riportato alla ribalta dalla Fondazione Rossini e dal ROF.
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Johannes Erath ci propone una scena (di Heike Scheele) praticamente fissa, un ambiente incastonato in una cornice di neon (luci di Fabio Antoci) e abitato ora da personaggi della corte di Pirro, in abbigliamento moderno e vistoso (costumi di Jorge Jara) e dediti a libagioni e gozzoviglie, ora dal coro (il popolo dell’Epiro) rigorosamente in anonimi abiti neri. La passerella che circonda l’orchestra è parsimoniosamente impiegata per accogliere, portandoli proprio alla ribalta, i più drammatici incontri fra le coppie (Ermione-Pirro o Ermione-Oreste).

Sullo fondo della scena e ai due lati appaiono saltuariamente immagini marine (video di Bibi Abel) oppure i palchi del Teatro Rossini. Fin troppo invadente l’impiego di un mimo ad impersonare l’immanente presenza di Cupido, le cui frecce (da guerre stellari) sortiscono peraltro (come vuole il soggetto di Tottola) solo esiti nefasti. Eccessivamente duro mi è parso il trattamento riservato al povero Astianatte, perennemente bistrattato da tutti (mamma esclusa, per fortuna…)

Per il resto, la gestione dei personaggi è assai curata, mettendo nel dovuto risalto tutti i lati deteriori delle rispettive psiche.

In sintesi, una proposta intelligente e di buon gusto, ma soprattutto aderente allo spirito del testo.

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Torno ora al piano sonoro, ribadendo la meticolosa attenzione riservata da Mariotti ad ogni minimo dettaglio della partitura, testimoniata da passaggi in punta di cesello, affidati a strumenti solisti, a improvvisi strappi e scoppi orchestrali per sottolineare ogni sfumatura delle menti disturbate dei protagonisti. E una maniacale attenzione al canto, dei singoli e del coro, sempre guidati con millimetrica precisione. Più che meritata la lunga ovazione finale per il Direttore di casa.

Ma come non lodare il coro del Ventidio Basso e il suo curatore Giovanni Farina, alle prese con compito assai gravoso e fondamentale nell’economia dello spettacolo; compito assolto con il massimo dei voti per compattezza, potenza e omogeneità di suono.

Anastasia Bartoli è stata ancora una volta la trionfatrice della serata: voce senza sbavature, svettante nella parte alta della tessitura e davvero imponente negli sfoghi di passione e odio di questo personaggio: delirio per lei dopo la grande scena, e meritate ovazioni all’uscita finale.

Enea Scala non mi aveva convinto alla prima ascoltata per radio: acuti spesso ingolati e con vibrato piuttosto sgradevole. Ieri devo dire che si è – in buona misura – riscattato, anche se mi limiterò a dargli una piena sufficienza, non di più. Il pubblico per la verità è stato assai più indulgente, riservandogli un’accoglienza calorosa.

Assai più calorosa ancora quella ricevuta da Florez, che sa supplire con mestiere ed esperienza alle purtroppo naturali conseguenze… dell’età, ecco. In ogni caso, il suo è un Oreste forse meno svalvolato di quanto Tottola e Rossini non lo dipingano in versi e note, ma il suo carisma resta tuttora intatto.

Chi dalla ripresa radiofonica aveva tratto vantaggi forse eccessivi è stata l’Andromaca di Viktoria Yarovaya, che dal vivo ni è parsa meno autorevole, in specie bella parte bassa della tessitura, non proprio impeccabile.

Hanno confermato invece le buone impressioni sia Antonio Mandrillo (Pilade) che Michael Mofidian (Fenicio): voci ben impostate su tutta la gamma, che gli hanno meritato anche l’applauso dopo il loro siparietto nel finale. Oneste le prestazioni di Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Davvero una bella serata di musica, che il foltissimo pubblico della Vitrifrigo Arena ha accolto con grande entusiasmo.