affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 agosto, 2024

Il ROF-2024 alla radio.

Radio3, fedele alla tradizione, irradia le prime del Festival, che quest’anno sono quattro e non tre, in omaggio allo status di Capitale italiana della cultura di cui gode Pesaro per il 2024.

Rompere il ghiaccio, nel rinnovato Auditorium Scavolini, è toccato a Bianca&Falliero, alla quarta presenza al ROF (dopo 1986-89 e 2005). A guidare dal podio la OSN-RAI era Roberto Abbado; Giovanni Farina ha diretto il Coro del Teatro Ventidio Basso.

Nei quattro ruoli principali figurano due (ormai) vecchie glorie del ROF: le voci acute di Bianca di Jessica Pratt e di Contareno (suo padre!) di Dmitry Korchak; affiancate da quelle più gravi di due promesse già battezzate al ROF in anni recenti: il(la) Falliero di Aya Wakizono e il Capellio di Giorgi Manoshvili.

Premesso che l’ascolto tecnologico ha sempre i suoi limiti, mi sento di giudicare positivamente la prova di Abbado, almeno sul lato delle agogiche. Bene anche il coro di Farina.

Quanto alle voci, la Pratt ha subito approfittato delle opportunità di coloratura offerte da Rossini per sciorinare i suoi proverbiali sovracuti (DO#, RE e persino MI) chiudendo il rondò finale con uno stentoreo e lunghissimo MIb. La cantante aussie ormai di casa qui da noi mi è parsa anche la voce più centrata sul personaggio.

Non così le altre tre voci. Korchak più che discreto, ma forse questa parte di bari-tenore non gli è proprio congeniale (ascoltare il Merritt del 1986…) così lui se l’è cavata sopperendo con il mestiere. Per la Wakizono stesso discorso: voce assai bella ed espressiva, ma non certo di contralto (ascoltare la Horne del 1986 ma anche la Barcellona 2005…) anzi di mezzo spinto (DO acuti come nulla fosse) che soprattutto nei duetti con Pratt si faticava a distinguere dal soprano. Fin troppo grave e cavernosa invece la voce di Manoshvili. Doveroso segnalare anche la Costanza di Carmen Buendìa, il Doge di Nicolò Donini, e poi Claudio Zazzaro e Dangelo Dìaz.

Accoglienza per tutti più che calorosa, anche se… ristretta. Forse il pubblico era esausto per l’autentica maratona durata dalle 20 fin quasi a mezzanotte! In effetti l’opera mostra tutte le sue contrastanti caratteristiche: quelle di una summa di tutto lo scibile del teatro musicale messa insieme da Rossini a partire dalla Camerata dei Bardi per arrivare ai giorni suoi, Beethoven incluso! Lunghissime scene, duetti, terzetti, quartetti e concertati con coro di splendida ma ipertrofica fattura, alternate a recitativi accompagnati in declamato e pure a recitativi secchi (ieri proprio nulla è stato tagliato!)


Insomma, ci si spiega ancor oggi la reazione ammirata del pretenzioso pubblico della Scala del 1819, ma anche la contemporanea stroncatura degli spocchiosi critici di allora.   
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2. L’equivoco stravagante.

Quarta comparsa al ROF (dopo 2002-08-19) anche per La terza opera di Rossini (seconda ad essere rappresentata) che ha fatto riaprire i battenti al glorioso Teatro intitolato al Maestro e rimesso in sesto dopo il terremoto del 2022 che ne aveva compromesso la sicurezza.

Opera che – causa bando dai teatri per divieti di censori-bacchettoni - ha generosamente imprestato sue parti a parecchie sorelle arrivate dopo di lei; citerò solo tre macroscopici esempi: il Coro introduttivo dell’Atto II, che verrà reimpiegato in Ciro in Babilonia e poi in Tancredi; il quintetto dell’atto II (Speme soave) ripreso nel corrispondente Spera se vuoi (Pietra di paragone, a 21’55”); e l’aria finale di Ernestina (qui a 43”) passata ancora nella Pietra di paragone a Clarice (qui a 1’28”).

Michele Spotti (al suo terzo impegno importante al Festival: Barbiere streaming 2020 e Bruschino 2021) sta facendo grandi progressi e ha diretto da par suo la Filarmonica Rossini, dando un taglio davvero mozartiano a questa partitura del todeschino, che al Teofilo si ispirò assai nei suoi primi anni di carriera. Mirca Rosciani ha guidato il Coro del Teatro della Fortuna ad una prestazione più che apprezzabile.

Oltre a orchestra e coro, anche il cast è totalmente rinnovato rispetto alla stessa produzione del 2019 (allora ospitata nella smisurata Vitrifrigo Arena). Artisti quasi tutti (Alaimo escluso) di recente frequentazione dell’Accademia. La debuttante nel cartellone principale del ROF, Maria Barakova, veste i panni della protagonista Ernestina, alla quale presta in modo convincente (cavatina, duetti e rondò finale) la sua bella e calda voce di mezzosoprano lirico. 

I due buffi sono il navigato trascinatore Nicola Alaimo (Gamberotto) e il quasi esordiente (dopo la Cambiale del 2018) Carles Pachòn (Buralicchio): entrambi degni di elogio nelle rispettive cavatine/arie ma anche nel duetto (con gag) del primo atto e nei concertati.

Pietro Adaìni (già nel Turco del 2018 e ne La Gazzetta del 2022) impersona il romantico Ermanno e lo fa con buon profitto: voce squillante e acuti (incluso un DO#) senza sbavature.     

I suoi due sodali per la conquista della cinica Ernestina (Rosalia e Frontino) sono Patricia Calvache (praticamente all’esordio) e Matteo Macchioni, già presente nella Gazza del 2015 e in Adina del 2018. Anche per loro (cui Rossini riserva le classiche arie da sorbetto) note più che positive.

Da ultimo sottolineo ancora il perfetto affiatamento di tutti nei pezzi d’insieme: duetti, quartetto, quintetto e finali d’atto.

Insomma, almeno all’ascolto radio, una riproposta più che positiva.

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3. Ermione.

Ermione rappresentò per Rossini un (fugace) momento di rottura dei collaudati schemi (napoletani) dell’opera seria, tanto che fu categoricamente bocciata dal pubblico e messa in naftalina dallo stesso compositore, per essere poi dimenticata lì per decenni. Questa fu – ante-litteram – un’operazione di tipo breakthrough (come usano dire i moderni barbari…) che solo 30 anni dopo troverà il massimo epigono in tale Wagner!

Se oggi ne possiamo apprezzare tutta la straordinaria modernità, è soprattutto grazie al recupero fattone dalla Fondazione Rossini e dal ROF, che lo mette in scena oggi per la terza volta, dopo 1987 e 2008.

E poi - ça va sans dire – il merito va anche riconosciuto a Direttori come Michele Mariotti, che la concerta qui per la prima volta proprio a casa sua, sapendone esaltare tutte le straordinarie qualità e la grande varietà di accenti, dal dolente, al lirico, alle esplosioni degli animi esacerbati. In ciò assecondato alla grande dalla OSN-RAI, davvero senza una sola sbavatura, e dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Ma anche il cast ovviamente conta, e quello messo in campo in questa produzione ha avuto la sua punta di diamante nella protagonista, la sempre più convincente Anastasia Bartoli, già segnalatasi lo scorso anno come Cristina: davvero torreggiante, soprattutto nelle due grandi scene del second’atto.

Molto bene anche l’appassionata Andromaca di Viktoria Yarovaya, anche lei ormai veterana del ROF (esordio nel Demetrio del lontano 2010). 

Praticamente scontato il successo per il Direttore Artistico del Festival, tale J.D.F. (Oreste) ormai ultra-decano del ROF (esordio 1996!) che ha sciorinato il meglio del suo bagaglio virtuosistico. 

Maluccio, ahilui e ahinoi, il Pirro di Enea Scala. Al quale credo proprio manchi il phisique-du-role per questo personaggio. Senza scomodare il sontuoso Merritt, basterà aver presenti un Kunde o uno Spyres per fare confronti impietosi. Ma poi, a parte la vocalità naturale, ier sera mi è parso anche fuori forma, con difficoltà di intonazione, acuti gutturali e spesso ghermiti dal semitono sottostante, oltre ai gravi quasi inudibili. Peccato davvero!

Buone notizie invece per Antonio Mandrillo (Pilade) che ieri è stato, per meriti sul campo, il secondo e non il terzo tenore del cast.

Più che dignitose le prove di Michael Mofidian (Fenicio), Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Comunque accoglienza calorosissima per tutti, con punte per Mariotti, Florez e Bartoli.

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4. Il barbiere di Siviglia.

Da quest’anno il Barbiere diventa recordman in solitaria in fatto di presenze al ROF (7, senza contare lo streaming dell’autunno 2020 in epoca Covid, contro le 6 della Scala). Consideriamolo un doveroso tributo a quella che è indiscutibilmente ancora l’opera più nota e gettonata del grande Gioachino.

E per omaggiarla se ne omaggiano quest’anno alcuni iconici interpreti. A partire da uno che calcò le scene del ROF, vestendo i panni di Assur, nel remoto 1992 (!!!) Michele Pertusi. Il quale ha cantato come DonBasilio nelle ultime apparizioni. E anche ieri la sua Calunnia ha mandato il pubblico in visibilio!

Un altro navigatissimo del ROF (Siége del 2000 dopo presenza in una kermesse del 1996) è Carlo Lepore, che impersona, come nello streaming del 2020, il mangiapane-a-tradimento Don Bartolo. Anche la sua è stata un’interpretazione sontuosa, che ha avuto la punta di diamante nell’aria del primo atto, caratterizzata da quella incredibile raffica di scioglilingua che lascia sempre di stucco. 

Ma a proposito di veterani, che dire di Patrizia Biccirè, che fu Giulia ne La scala di seta del 1992! E che già fece Berta nel 1997! E anche ieri ha raccolto ovazioni dopo a sua arietta del vecchiotto

Dopo i decani, ecco i promettenti giovani della nuova leva di cantanti rossiniani. Il protagonista è Andrzej Filonkzyk, in terminologia goliardica un fagiolo, essendo alla seconda apparizione al ROF, dopo il Raimbaud (Ory) del 2022. Il suo è un accattivante Figaro: voce potente, buon portamento, subito esibiti nella celebre cavatina d’esordio. Certo, l’esperienza gli gioverà per migliorare ancora. 

Come lui, viene dall’Ory di due anni fa anche la Rosina di Maria Kataeva. E anche per lei vale lo stesso discorso: una prova superata con voto più che discreto, voce dal timbro morbido, bene impostata su tutta l’ampia tessitura mezzosopranile, oltre a buona sensibilità interpretativa.   

Jack Swanson (già Florville nel Bruschino del 2021) è oggi il lezioso Conte/Lindoro, cui ha prestato la sua bella voce chiara e dagli acuti squillanti. Anche per lui il futuro si prospetta roseo, a patto di continuare a... studiare.

Alla terza uscita (dopo 2018 e streaming 2020) come Fiorello/Ufficiale è William Corrò, che ha dato il suo valido contributo al buon successo della serata.

Successo propiziato dall’energica direzione – tempi a volte persin troppo parossistici - di Lorenzo Passerini, alla guida della solida Sinfonica Rossini, ben coadiuvati dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.   

Insomma, un Barbiere più che positivo, un’esibizione che il pubblico ha giustamente accolto con grandissimo calore.

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Ecco, chiuso il ciclo radiofonico delle prime, ora non mi resta che assistere dal vivo… dopo Ferragosto.

Ma intanto, Ernesto Palacio ha già annunciato il cartellone del 2025:

·       Zelmira (Sagripanti/Bieito)

·       Italiana (Korchak/Cucchi)

·       Turco (Ceretta/Livermore)

·       Messa per Rossini
 

31 luglio, 2024

Aperto Bayreuth, all’orizzonte si affaccia il ROF-2024.

Pesaro, Capitale italiana 2024 della Cultura, non poteva certo esimersi dal mettere nel giusto risalto uno dei suoi concittadini più famosi, rinforzando, se possibile, quel Festival di cui si celebra proprio quest’anno la 45ma edizione.  

Solo per restare al cartellone principale, esso si ingrossa di un terzo, passando da 3 a 4 opere (sempre in 4 rappresentazioni). Si spazierà quindi dal 7 al 22 agosto. La chiusura del 23 sarà dedicata ancora ad un’opera, Il Viaggio a Reims, che verrà eseguita in forma di concerto, per celebrare i 40 anni dalla storica produzione diretta dal grande Claudio. [Il Viaggio è tuttora, come da anni e anni, oggetto di due recite mattutine – 16 e 18, ore 11 – come palestra per giovani voci rossiniane allevate dall’Accademia.]

La spinta esercitata sulle istituzioni cittadine dal privilegio riservato a Pesaro ha anche prodotto un (sia pur parziale) buon risultato: la riapertura – rimandata per anni e anni a causa di beghe di bottega francamente deplorevoli - del glorioso Palafestival, oggi ribattezzato Auditorium Scavolini, che ospiterà le 4 recite di Bianca&Falliero e il finale concerto del 23 (oltre alle dure recite del Viaggio accademico…) Ermione e Barbiere rimarranno confinate nella remota Vitrifrigo Arena, mentre L’equivoco stravagante sarà ospitato dal finalmente ripristinato (dopo terremoto) Teatro Rossini.

Due delle quattro produzioni (Bianca ed Ermione) sono nuove di zecca, le altre due (Barbiere ed Equivoco) sono riprese rispettivamente da quelle (fortunate) del 2018 e 2019: la prima è legata all’eterno Pier Luigi Pizzi, la seconda alla coppia Leiser-Caurier.

La OSN-RAI sarà ancora impegnata in tre delle cinque proposte (Bianca, Ermione e Viaggio) mentre i due restanti titoli saranno affidati alle due orchestre pesaresi che recano il nome di Rossini: la Sinfonica (Barbiere) e la Filarmonica (Equivoco). Come ormai da anni i due cori impegnati nel Festival sono il Ventidio Basso (Giovanni Farina) e la Fortuna (Mirca Bosciani).

Fra i Direttori spiccano i nomi del profeta-in-patria Michele Mariotti (Ermione) e di Roberto Abbado (Bianca); con loro Diego Matheuz (Viaggio), Michele Spotti (Equivoco) e Lorenzo Passerini (Barbiere).

Non potevano infine mancare alcune storiche voci del Festival: a cominciare dal venerabile Michele Pertusi (Barbiere); e poi Jessica Pratt (Bianca); ancora il Direttore Artistico Juan Diego Florez (Ermione); Dmitry Korchak (Bianca e Viaggio); Nicola Alaimo (Equivoco e Viaggio); Enea Scala (Ermione); Carlo Lepore (Barbiere); Erwin Schrott e Vito Priante (Viaggio).

Per gli amanti delle fredde statistiche ecco una tabella aggiornata al 2024 delle 45 annate del ROF. Vi si può scorrere la cronologia dell’intera produzione (131 recite) nella storia del Festival; la sequenza delle prime esecuzioni al ROF e della presenza successiva del singoli titoli; e l’intero catalogo cronologico della produzione rossiniana.

Quanto alla diffusione via etere, si dovrebbe supporre che Radio3 rimanga fedele alla tradizione, irradiando le prime quattro serate (7-10) alle ore 20.

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Mentre le due opere oggetto di ripresa (Equivoco e Barbiere) si collocano nel periodo che possiamo definire ancora giovanile di Rossini (quello che va dal 1810 al 1814, delle opere buffe e delle farse, con le dovute eccezioni di Demetrio, Ciro, Tancredi e Sigismondo), le altre due (Ermione e Bianca&Falliero, oggetto di nuove produzioni) sono espressione della piena maturità del compositore, cresciuto nelle esperienze delle opere serie (soprattutto a Napoli).

Ne sono testimonianza le strutture imponenti (nel caso di B£F si arriva a dimensioni… wagneriane) e alcuni riferimenti (sommariamente definiti come auto-imprestiti) che legano le due opere in questione ad altre dello stesso periodo (e anche del successivo, quello parigino).

Emblematica è al proposito la ricorrenza di questo motivo:

Esso compare addirittura in quattro opere, composte in meno di due anni, fra il 1819 e il 1821. Dapprima in Ermione, a 4’40” dell’Ouverture e poi nel coro del second’atto (Il tuo dolor ci affretta). Quindi viene ripreso nell’Ouverture di Eduardo£Cristina, a 5’22”; indi in quella di Bianca£Falliero, a 3’40”, che apre con il motivo (qui nuovo) che Rossini impiegherà a Parigi per Le Siège.  Lo ritroviamo ancora nell’Ouverture di Matilde di Shabran, a 5’21”Ma c’è anche di più: una sua versione variata ricorre infatti nell’Ouverture del Maometto II, a 5’35”!

A proposito di B£F, l’aria finale di Bianca (Ah, padre!) con il successivo rondò (a 4’11”, O padre!) è presa da un’altra opera napoletana, di soli tre mesi anteriore, La Donna del Lago (Tanti affetti e poi Fra il padre, a 4’03”). [Verrà poi re-impiegata pari-pari (per Colbran) nel Maometto II di Venezia (1822).]

Va da sé che gli auto-plagi valgono anche per le altre due opere, in specie per quanto attiene al riutilizzo delle rispettive Ouverture: Barbiere figlio di Elisabetta e nipote dell'Aureliano; L’equivoco presa di peso dalla Cambiale.
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Ermione: un’opera rivoluzionaria

Il venerabile Alberto Zedda, che fu uno dei protagonisti della Rossini-renaissance e uno degli artefici delle successive fortune del ROF, ebbe a confessare di essere stato folgorato sulla via di… Pesaro da un’esecuzione in forma di concerto dell’Ermione all’Accademia Chigiana, nel lontano 1977.

Da quel momento gli si aprirono gli occhi sulla straordinaria grandezza del Rossini-serio, che lui stesso fino ad allora tendeva a snobbare come una velleitaria quanto secondaria faccia dello stereotipato, nonché idolatrato, Rossini-buffo.

Giudizio severo che furono proprio i napoletani della prima al SanCarlo di sabato 27 marzo 1819 ad emettere senza appello, convincendo Rossini a ritirare l’opera, con l’ammissione che solo dopo almeno un secolo avrebbe potuto essere pienamente compresa ed accettata.

E ancora due secoli dopo l’opera suscita allo stesso tempo stupita ammirazione e perplessità sull’allestimento, come certifica questo fulminante articolo di Alberto Mattioli.  


Merito del ROF (e della Fondazione Rossini per quanto riguarda l’edizione critica) è aver contribuito con due produzioni (1987 e 2008) alla rivalutazione dell’opera. Segnalo anche un paio di allestimenti extra-moenia: 1995 Glyndebourne e 2019 SanCarlo. Staremo a vedere che risultati darà questo atteso ritorno.
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Bianca e Falliero: temporanea restaurazione?

La caduta di Ermione spinse probabilmente Rossini a tornare – in fatto di estetica musicale - sui suoi passi, e già meno di un mese dopo, a Venezia, si divertì a costruire quel mirabile centone (Eduardo£Cristina) messo insieme re-impiegando intere scene e parecchi motivi di precedenti opere, prevalentemente napoletane: Mosè; Ricciardo£Zoraide; Ermione, appunto; oltre alla romana Adelaide.

Sei mesi dopo (ottebre 1819) Rossini tornò al SanCarlo con La donna del lago, che riprende il cammino (temporaneamente) abbandonato, dopo Ricciardo, con la fuga-in-avanti di Ermione. Cammino che dopo soli altri due mesi prosegue ulteriormente alla Scala proprio con la mastodontica (posso azzardare: pleonastica?) Bianca£Falliero. Dove - indizio già segnalato - Rossini riprende di peso l’aria principale di Elena per gratificarne Bianca.  

Sulla stessa strada, ancora Napoli (Maometto e Zelmira), Roma (Matilde) e Venezia (Semiramide) chiuderanno la gloriosa stagione italiana. Poi lo spirito innovatore dell’Ermione, fecondato per così dire dalla contaminazione con l’ambiente della ville lumière, porterà fino al canto del cigno del Tell, supremo ed estremo cedimento al nuovo-che-avanzava              

Ecco i due contributi del ROF alla diffusione dell’opera: 1986 e 2005E questa registrazione albionica in studio.

25 luglio, 2024

Bayreuth: un discreto Tristan ha aperto il Festival 2024.

Per quanto posso giudicare dall’ascolto radiofonico, mi sembra che il Festival (ancora?) più famoso nel mondo dell’opera sia partito con il piede giusto. 

Merito principale (secondo me) di Semyon Bychkov, che ha guidato con grande autorità i formidabili complessi orchestrali (e corali, non impegnati allo spasimo in questo dramma) tenendo tempi assai sostenuti, fin dal Preludio, invero grandioso, e poi specialmente nel secondo atto, dove ha chiesto il massimo ai due protagonisti.

La Camilla Nylund è stata un’Isolde dignitosa, anche se non proprio trascendentale, e Andreas Schager – un po’ penalizzato dai tempi del Direttore – ha pagato lo sforzo dell’atto centrale con un paio di LA e SI abbassati di un’ottava nella massacrante scena del delirio all'arrivo di Isolde, nell’atto conclusivo.

Bene la Brangäne di Christa Mayer e più che bene il Marke di Günther Groissböck, come pure Olafur Sigurdarson come Kurwenal.

Oneste le prestazioni di Birger Radde (Melot) e di Matthew Newlin, il giovane marinaio che ha l’impervio compito di rompere oil ghiaccio, cantando oltretutto a cappella

Daniel Jenz (pastorello) e Lawson Anderson (marinaio) hanno completato il cast facendo il loro minimo sindacale.

Applausi (direi condivisibili) per tutti i Musikanten. Invece parecchi buh (che segnalo solo per dovere di cronaca, in assenza di… immagini) per il battesimo registico di Thorleifur Örn Arnarsson.

Con tutti i limiti che comporta il particolare tipo di fruizione, devo dire che le sei ore passate in compagnia di questo capolavoro ti risollevano il morale, ecco.

21 luglio, 2024

Bayreuth di routine.

Ancora per questa e per la prossima stagione Bayreuth si mantiene su un profilo prudente, in attesa della storica edizione 2026 che celebrerà i 150 anni dalla fondazione del Festival, che aprì i battenti nell’agosto 1876 con tre rappresentazioni del ciclo del Ring. E c’è da immaginare cha sarà ancora il Ring il protagonista della ricorrenza.

Quest’anno il programma è lo stesso (come titoli e allestimenti) di quello del 2023, salvo il titolo di apertura, la nuova produzione di Tristan (a soli due anni di distanza dalla precedente) affidata a Bychkov/Arnarsson e con protagonisti Schager/Nylund. Cambia anche la distribuzione delle recite: Holländer (da 5 a 3); Tannhäuser (da 5 a 6); Ring (da 3 a 2); Tristan (da 2 a 7) e Parsifal (da 7 a 6).

Per gli amanti delle statistiche, qui un paio di tabelle riassuntive di tutte le 112 edizioni del Festival e dei Direttori succedutisi sul podio. A proposito del quale, due interessanti novità del 2024 riguardano le quote rosa destinate a calcarlo: oltre all’ormai collaudata Oksana Lyniv (Holländer) vi saliranno per la prima volta Nathalie Stutzmann (Tannhäuser) e Simone Young (Ring). Heras-Casado resta al proprio posto per Parsifal.

Ancora lontano dalla verde collina – come già nel 2023 - Christian Thielemann, decano delle direzioni (185). Di cui peraltro si dà per scontato il rientro in quella che per un quarto di secolo è stata praticamente casa sua. Infatti nel 2025, dopo il trasferimento da Dresda (dove gli subentrerà Gatti) a Berlino (dove tornerà come erede di Barenboim…) il 65enne direttore sarà protagonista del suo amato Lohengrin.

A proposito del quale anni fa nacque una certa polemica fra il Maestro e la tenutaria del Festival Katharina Wagner. La quale, per rinforzare la sua presa di distanza dagli anni bui della Nazi-Bayreuth, chiese all’allora factotum musicale del Festival di impiegare, nel finale dell’opera, il nobile epiteto di Schützer al posto di quello, divenuto infamante, di Führer, con il quale lo stesso argenteo cavaliere apostrofa il riesumato Gottfried. E Thielemann – che sarà pure di idee conservatrici ma non certo reazionarie e menchemeno… nostalgiche – oppose il rigore filologico e il rispetto del testo originale. Sta di fatto che, dopo avere avuto il prestigioso incarico di Musik Direktor, Thielemann ne è stato successivamente privato… Vedremo fra un anno se si tratti solo di acqua passata.

Quanto alle possibilità di ascolto, la Radio Bavarese è ovviamente presente (quasi sempre) in diretta per le prime. Che saranno anche in parte trasmesse dagli spagnoli di Radio ClasicaMeno chiara la copertura di Radio3, pare limitata per ora alla prima del 25.    

26 giugno, 2024

Il funerale di Puccini secondo Livermore

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima del nuovo allestimento di Turandot, firmato dalla coppia Davide Livermore / Michele Gamba.

Sul piano dei contenuti del soggetto (libretto e musica) si tratta di un prudente, conservativo ritorno alla normalità, che garantisce l’alto gradimento del vasto pubblico: Alfano-Toscanini, tanto per intenderci, salvo che il libretto, pubblicato sul programma di sala e in Internet, è quello – udite, udite – con il testo del finale di Berio!!! [Ah, scherzi del cut&paste, fatto dall'edizione del 2015 anziché da quella del 2011…]

In ogni caso, ingressi esauriti per tutte le sette recite!

Vengo subito all’allestimento di Livermore. Partendo proprio dal… trapasso. Quello di Liù, che coincide con quello da... Puccini ad Alfano. Il regista ha interpretato a suo modo la ricorrenza dei 100 anni dalla morte del Maestro coinvolgendo l’intero teatro (masse interpreti della produzione e il pubblico in sala) in una cerimonia commemorativa che ha sospeso la rappresentazione per un minuto di raccoglimento, con mezze luci in sala, e minuscoli lumini elettrici di cui sono stati dotati anche gli spettatori.

Sopra il palco era calata un’enorme immagine a mezzo busto (del tipo di quelle che si incastonano sulle lapidi funerarie) di Puccini, recante la scritta delle poche parole pronunciate da Toscanini il 25 aprile 1926 in occasione della prima, dopo aver deposto la bacchetta e chiuso così quella storica recita.

E francamente avrebbe potuto essere la conclusione (da condividersi) anche della serata di ieri… ma evidentemente i contratti con l’editore (Ricordi) prevedono anche uno dei due finali posticci (Alfano o Berio) e quindi la recita è ripresa con Alfano-II. Ma anche con una geniale sorpresa che Livermore ci ha offerto, e di cui scriverò tra poco.

Il regista si è attenuto strettamente al soggetto della fiaba, senza minimamente inquinarlo con personali iniziative, ma interpretandolo con un magniloquente approccio che definirei da versione 2.0 di un de Ana o di uno Zeffirelli.

Le scene (sue e di Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco) ci mostrano le due facce di Pachino: quella del degrado degli slum dove vive il popolo, un verminaio di esseri perennemente in agitazione, nella quasi oscurità e vestiti di cenci dalle cento sfumature di… nero; e quello, opulento e sfarzoso, della città proibita, con luci (Antonio Castro) sfavillanti, costumi (di Mariana Fracasso) preziosi ed eleganti e cortigiani rigidamente inquadrati in schiere militaresche, tipo il famoso esercito di terracotta, per intenderci.

E poi una serie di oggetti dalla simbologia più o meno chiara, come l’enorme sfera che scende sulla scena; o i riferimenti agli enigmi (tre gabbiani meccanici che svolazzano fissati sulla punta di aste portate in giro da ragazzi, o i tre principini in erba che accompagnano le altrettante fasi della tenzone di sapienza); e poi la sagoma di un bianco cavallo (animato da tre figuranti) che irrompe sula scena prima e dopo gli enigmi, forse a rappresentare l’attitudine di Calaf all’avventura…     

Il tutto accompagnato da immagini video (D-WOK) proiettate sullo sfondo o all’interno della sfera di cui sopra.

Infine Livermore fa comparire in scena il povero Principino di Persia che la folla fin da subito si diverte a bistrattare in ogni modo, umiliandolo e bullizzandolo fino a lasciarlo proprio nudo come un verme, forse a punirne le ingenue velleità… Ma soprattutto ci mostra – e qui mi ricollego al finale – la rinsecchita figura dell’ava Lo-u-Ling, che incombe dietro alla pronipotina a ricordarci la causa del formarsi della gelida personalità di Turandot.

Ebbene, nella scena finale del duetto Calaf-Turandot la trisavola si frappone continuamente tra i due, come per difendere la pronipote dagli assalti di Calaf. Ma poi, ecco la grande trovata di Livermore, che avrebbe potuto persino dare a Puccini l’idea giusta per chiudere lui stesso l’opera in modo conveniente. Invece dell’ultimo assalto – con prosaico bacio - al corpo di Turandot, ecco che Calaf si dirige sull’antica progenitrice e la fa oggetto di un toccante gesto di comprensione, quasi a voler riparare il tremendo torto da lei subito in gioventù.

E così ecco che lo sgelamento di Turandot si giustifica con la parallela presa di coscienza di Calaf! [Tanto di cappello al regista!]  

Aggiungerò un altro paio di idee registiche che mi sembrano degne di nota, perché rivelano qualcosa della natura di due personaggi: il pugnale con cui Liù si ferisce non viene strappato ad un soldato, ma dalle mani di… Calaf! E l’Imperatore Altoum ci viene presentato nei panni – anche materiali - di un innocuo e rassegnato ospite di una RSA!

Ecco, uno spettacolo di gran livello, dove magari è la forma a prevalere, ma dove anche la sostanza non solo non viene adulterata (come troppo spesso accade) ma addirittura nobilitata.
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Michele Gamba (subentrato al designato Harding) conferma le sue buone attitudini per l’opera, già emerse in precedenza qui alla Scala (Foscari, Elisir, Rigoletto). La sua dimestichezza con la musica contemporanea evidentemente lo aiuta a mettere in risalto le molte modernità della musica di Turandot, assai innovativa anche rispetto allo stesso Puccini delle opere precedenti.

L’orchestra è stata praticamente perfetta, ricreando a meraviglia tutte le atmosfere fiabesche, crude, liriche e drammatiche che caratterizzano la partitura.

E il Coro di Malazzi è stato se possibile ancor più sontuoso del suo solito: in quest’opera trova effettivamente il terreno sul quale dispiegare tutta la sua forza e il suo proverbiale affiatamento.

Di Anna Netrebko mi sento paradossalmente di dire che canti fin troppo bene per abbassarsi ai panni di questa cattivona (!) La sua è stata una prestazione di assoluta eccellenza. Come lo sarebbe forse ancor più se lei vestisse i panni del tritagonista (come quio qui).

La quale Liù è invece la casertana Rosa Feola, che non è (ancora?) la… divina Anna, ma insomma mi pare se la sia cavata – e proprio nelle due arie di cui sopra - più che dignitosamente.

Yusif Eyvazov non ha cambiato (…ehm) i connotati al timbro di voce, il che perpetua la sua qualità meno nobile, ecco. Peccato, perché per il resto nulla gli manca come potenza ed espressività.

Più che discreto il Timur di Vitalij Kowaljow, bel vocione potente ed efficace presenza scenica. Raúl Giménez è stato a sua volta – anche grazie al regista - un patetico Imperatore.

I tre piccoli porcellin alti funzionari statali: Ping (Sung-Hwan Damien Park) Pang (Chuan Wang) e Pong (Jinxu Xiahou) han fatto più che dignitosamente la loro parte, tutt’altro che secondaria, in specie il primo nei suoi patetici ricordi dell’Honan.

Oneste le prove del Mandarino (Adriano Gramigni) e delle due ancelle (Silvia Spruzzola e Vittoria Vimercati.)

Haiyang Guo è il tenore che ha in assoluto la parte più massacrante in tutta la storia del melodramma; dovendo cantare – oltretutto da dietro le quinte (altrimenti ieri sera avrebbe dovuto apparire in pubblico tutto nudo!) - nientemeno che questo:

Beh, ecco: ha superato di slancio l’impervio ostacolo!
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In definitiva: una proposta accolta trionfalmente dal pubblico, con lunghe ovazioni e consensi per tutti, con punte – ça va sans dire – per la divina Anna. Da non perdere!
   

22 giugno, 2024

Arriva alla Scala la Principessa congelata di Livermore.


Introduco l’argomento in modo semiserio con il segnalare un concettuoso contorto intervento su Puccini di tale Giovanni Giammarino, Direttore d'orchestra poi datosi all’ippica alla gastronomia.
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Il redivivo Davide Livermore guida una nuova produzione scaligera: Turandot, che ritorna in Scala dopo 9 anni dalla precedente, che presentava come novità – voluta da Chailly - il finale di Luciano Beriouno dei cinque (almeno) esistenti.

Oggi, con Michele Gamba sul podio, si ripropone l’antico – quanto controverso - finale di Franco Alfano(-Toscanini). Quindi, questa sarà una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita. Gli altri finali sono di rara proposta: a parte la Scala, si va da qualche intraprendente Festival a iniziative più o meno estemporanee.

Che si continui a presentare prevalentemente il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - pretende il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del povero Giacomo. E dire che ci sarebbe invece una versione che metterebbe tutti (o quasi…) d’accordo!   

Le versioni (ad oggi esistenti) del finale.

Oltre a quella presentata qui oggi (la Alfano-II, rivista e soprattutto barbaramente tagliata da Toscanini) esiste la Alfano-I, l’originale proposta del compositore partenopeo, di circa 6’ più lunga.

Poi ci sono due versioni straniere: quella della zelante americana Janet Maguire (mai registrata, per quanto se ne sa) e quella più recente del cinese Hao Weiya, che fa solo piccole modifiche al libretto di Adami-Simoni.

Infine - in fiduciosa attesa di una nuova commissione aggiudicata al nostro grande Mozart contemporaneo (Giovanni Allevi) o, più seriamente, a qualcuno che provi almeno a mettersi nei panni (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da molte parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l’impresa – esiste appunto la versione commissionata da Ricordi (copyright owner…) a Luciano Berio (2000) inaugurata da Chailly nel 2001 e dallo stesso incisa con laVerdi nel 2004 (da 7’33”) e infine portata qui al Piermarini nel 2015. Versione che comporta interventi non da poco sul testo originale.

Alla base di tutte queste versioni esiste un materiale autenticamente pucciniano, consistente in 30 schizzi/appunti lasciati dal compositore sul comodino del letto di morte, a Bruxelles (Institut du Radium). E sul foglio n°17 Puccini vergò due criptiche parole: …poi Tristano…

Cosa è accaduto prima del finale.

Riassumo brevemente i fatti succedutisi fino alla morte di Liù.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell’opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità.

Nel second’atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio, va a piagnucolare dal padre, reclamando l’annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d’appello (la scoperta della di lui identità).

Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l’efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe. E come alternativa i tre porcellini offrono a Calaf escort in quantità industriale, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino un tagliagole dell’ISIS!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell’Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Però, attenzione: non è che l’attitudine del maschio Calaf verso di lei sia tanto più commendevole. Lui, di fatto, gioca ad una particolare specie di riffa, dove in palio non c’è un oggetto, ma appunto una donna-oggetto (succede ancora oggi in qualche quartiere del vizio che il palio di una riffa sia una prostituta…) Avendo vinto, esige il possesso dell’oggetto in palio, come testimoniano le sue reiterate pretese: ti voglio mia! sei mia! (perché ti ho vinto ad una scommessa, non perché ti ho con-vinto con l’Amore!) [Julian Budden scrive di approccio ormonale…] 

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo’ - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt’altro, lei è sempre più ibernata e incarognita!

Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l’appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell’ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l’aveva violata?   

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più insofferente Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere (Del primo pianto, spesso tagliata!che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. [Tristan, è lei?]

Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d’amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.       

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo farsesco guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? E infatti fino all’ultimo – pur avendo buttato giù tutti quegli schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l’inopinata, improvvisa e inverosimile, totalmente gratuita virata di 180° nell’atteggiamento di Turandot.    

Alfano, Berio e… Wagner.

L’enigmatico riferimento a Wagner nel foglio n°17 degli schizzi può aver indotto Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) ad interpretare la scena finale come fosse quella non del Tristan, ma del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui.

Peccato però che in Wagner le premesse stiano precisamente agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso.

Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, in ciò supportato da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi però avallò quello, tutt’altro che tristaniano, di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Nell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot (accessibile in rete – in lingua inglese - previa registrazione) originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali, si riportano in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Nel suo saggio, Uvietta presenta ed analizza poi i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica (per non dire… criminosa) modalità di scongelamento della Principessa.

Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena (Il bacio tuo…) dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano-II quella scena passa alla velocità della luce (quando in Alfano-I e in Weiya occupa almeno 30”), in Berio abbiamo ben 2’30” (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) di musica che dovrebbe evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?)

E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine… Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava in questi termini al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! [??? Ribadisco: l’amore che nasce all’alba e si compie in pieno sole meridiano è quello di Siegfried, non di Tristan.]

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto all’infastidito Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione.

E così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung! 

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all’Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

E infatti fu proprio la frigidità della principessa a creare l’ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Morale della favola?

Dopo la morte di Liù, nella storica edizione Ricordi abbiamo esattamente 60 pagine (402-461) che sono invenzione di Alfano, oltretutto depurate (da Toscanini) di molti improbabili wagnerismi che l’autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini.

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere.

Ecco perché, esalato il MIb minore di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.

A.T.: Qui finisce l’opera, rimasta incompiuta per la morte del Maestro.