affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

25 dicembre, 2008

Quando la TV era una cosa seria

Non è solo in Italia che ci dobbiamo lamentare del degrado dei programmi televisivi, che all’arte - e alla musica in particolare - lasciano sempre meno spazio, o al massimo ...lo fanno pagare salato.

In USA non stanno meglio e il Natale è stata l’occasione per molti - oggi ormai ultrasessantenni - per ricordare con nostalgia e rimpianto gli anni ’50-’60 del secolo scorso, quando la TV nazionale, la gloriosa NBC (famosa anche per l’orchestra sinfonica affidata a Toscanini) si poteva (voleva?) permettere di commissionare un’opera e rappresentarla, trasmettendola in diretta, con strutture proprie.

E ingaggiando per questo compositori già allora famosi. Uno di costoro era Gian Carlo Menotti, che compose un gioiello di operina natalizia, Amahl and the Night Visitors, trasmessa la sera del 24 dicembre 1951, con la regia dell’autore e con l’allora poco più che ventenne Thomas Schippers sul podio. E fu ritrasmessa ogni anno, ininterrottamente, fino al 1966.

24 dicembre, 2008

크리스마스 잘 보내세요!


Buon Natale ...coreano!

In doveroso ringraziamento al maestro Chung per i 90 minuti di musica che ci ha offerto ieri sera alla Scala, con i Trepper Symphoniker e l’inossidabile coro del maestro Casoni, oltre ai volonterosi solisti.

Intanto un commento al contenuto del programma, definito “natalizio”, come da circostanza: il Vesperae de Confessore ci stava, confessiamolo subito. Ma la quarta di Mahler, può essere definita “natalizia” solo da qualcuno (e mi rifiuto di pensare sia Chung, come insinua la locandina web) che ha scambiato il “Das himmlische Leben” per un mottetto serioso, oppure pensa che i sonagli del 1° e del 4° movimento rappresentino Santa Klaus che arriva con renne e sacchi di regali. Adorno ne ha scritto cinicamente, ma lucidamente, come di un campanello birbone, mettendo in bocca a Mahler un: “Nulla di ciò che state ascoltando è vero”. (Quindi: a natale ogni scherzo vale?)

Ciò detto, lasciamo perdere per ora le ricorrenze e raccontiamo qualcosa su una serata che ha un pochino risollevato il traballante prestigio di un’orchestra che spesso - negli ultimi tempi - ha lasciato non poco a desiderare.

Il K339 di Mozart meriterebbe più pubblicità ed esecuzioni. È il regalo d’addio di Wolfgang alla Salzburg del 1780, e a quell’insopportabile (per lui) e possessivo Hieronymus von Colloredo. Una serie di 6 cammei (meno di 5 minuti cadauno) dove si (più che) intravede ciò che sta per arrivare. Chung si affida al coro, che è una sicurezza, tenendo l’orchestra sempre al guinzaglio. I solisti, che del resto hanno parti relativamente modeste, salvo qualche contrappunto più o meno severo (Confitebor) danno semplicemente man forte a Casoni (che neanche ne avrebbe bisogno). Eccezione fa Kate Royal, che ha tutta la prima parte del n°5 sulle spalle, e qualche altro intervento fugace (Beatus Vir e Magnificat) per mettersi in mostra, in attesa di... Mahler. Esecuzione comunque da teatrone, robusta, molto diversa da altre - anche incise - più raccolte e baroccheggianti, con vocine sottili, ed emissioni di testa.

Poi, la quarta mahleriana. Altro che Natale, qui è tutta una Parodie: dall’incipit haydn-schubertiano, all’anticipando (la quinta) dei funebri squilli di trombetta, al violino da strada, dis-cordato un tono sopra, che Mahler stesso, in una nota poi espunta, chiamava “l’amico Hein” cioè la morte, nientemeno! E poi il terzo movimento, che contiene un’esplicita citazione di Verdi che poi comparirà nei Kindertotenlieder, altro che Natale! Per tacere dei cupi intermezzi in MI minore del finale. Certo, tutto poi finisce col plateale e scolastico MI maggiore - canonica tonalità di pace, tranquillità ed estasi - sotto la bacchetta autorevole di Santa Cecilia: solo che questo miele celeste, troppo dolciastro, se preso sul serio rischierebbe di essere stomachevole... Non per nulla, il tutto viene dal Wunderhorn, una raccolta di stornelli, poesiacce da strada, canti disperati di gente dall’esistenza subumana, inferni terreni e paradisi posticci (proprio alla lavazza) dove si divertono insieme, precursori dei nostri bonolis-laurenti, il pescatore volante San Pietro ed Erode, il macellaio. Il Sant’Uffizio aveva al tempo cose più importanti di cui occuparsi, altrimenti Arnim e Brentano se la sarebbero vista brutta, a pubblicare cose come “Der Himmel hängt voll Geigen“.

Chung, con Adorno, sembra capire tutta la sincera ipocrisia che ci sta sotto, e pare volercela spiegare, sia nell’impostazione generale dell’interpretazione, sempre contenuta e di profilo basso (tranne le - famose - irruzioni) ed anche nei particolari, battuta per battuta, semplicemente applicando nel modo più stretto le notazioni dell’autore (che di motivi per essere ottimista su natura, dio, paradiso, felicità... ne aveva invero pochini; e non parliamo poi di Gesù bambino!) Il terzo movimento ne è stato esempio lampante, con tutti quei tranquillo, cantabile, con espressione crescente, morendo, espressivo, poco crescendo, ritardando, dolente, cantando, scorrevole, appassionato, che compaiono nelle sole prime due sezioni (106 delle 353 battute) e che Chung ha sottolineato con quasi pedante fedeltà. Così come ha fatto poi sparare tutte le cartucce disponibili nel Vorwärts della coda (che anticipa il MI maggiore dell’epilogo) durante il quale la Royal ha potuto fare il suo slalom fra i leggìi, per prendere posizione, senza tema di disturbare il suono.

Così ne è uscita una quarta asciutta, quasi antipatica... vera, in sostanza. E quindi, caso mai - in Italia - più adatta al 2 Novembre.

L’orchestra si è ben portata, con i soliti alti e bassi dei corni (che poi qui è quasi sempre uno solo, anche se per i tutti ce n’erano 5, invece dei 4 previsti in partitura): passaggi puliti e davvero mahleriani, alternati a inciampi e sbavature evidenti. Accoglienza festosa e lunga alla fine, con applauditi speciali i legni e strumentini (oboe su tutti, davvero perfetto) e - meritatamente, data la parte di spicco - l’arpa. E poi i due primi violini, impeccabili soprattutto nell’ostico secondo tempo.

Una menzione la faccio personalmente all’addetto ai sonagli: per suonarli gli basta dare qualche pugnetto dall’alto in basso all’altro pugno che “impugna” il bizzarro strumento - una cosa a metà fra un ananas e un grappolone di datteri. Molta più fatica la deve fare a riporre lo strumento con somma cautela - un’arte davvero! - onde evitare che emetta suoni a sproposito.

La Royal ha una voce ben impostata, ma poco udibile nel registro basso. Nel lied ha sparato/gridato un pò troppo un paio di SOL, ma in complesso se l’è ben cavata. Questione di gusti: a qualcuno qui magari piace di più una vocina leggera, che si addica allo scenario da paradiso infantile (anni fa Bernstein fece cantare questa parte, proprio alla Scala, da un ragazzino, con esiti interessanti).

Insomma: nonostante tutto va bene così. Perchè - visto che siamo in tema di parodie - poteva andare anche così... oppure così (questo qui però non presentatelo al maestro Chung, mi raccomando!) per cui...
...buon Natale!
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22 dicembre, 2008

Effetti della crisi?

Crisi, futuro incerto, sacrifici, Brunetta e Bondi in gara a chi taglia meglio... c’è poco da stare allegri.

Non saprei dire se ci sia relazione causa-effetto, ma di questi tempi si moltiplicano iniziative benemerite da parte del mondo dell’opera e della musica, che cerca in tutti i modi di avvicinarsi alla cittadinanza.

L’ultima in ordine di cronaca è di ieri e viene da Genova, dove il Carlo Felice - cui si affianca il genovese purosangue, trapiantato a Dresda, Fabio Luisi - invita tutti ad un concerto gratuito il 28 dicembre, con programma a dir poco sontuoso.

Il Quiz del lunedi - 15













L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Gli Ugonotti” di Meyerbeer.

2. “I Lombardi alla Prima Crociata” di Verdi.

3. “I Maestri Cantori di Norimberga” di Wagner.

4. “Il Flauto Magico” di Mozart.

5. “I Pescatori di Perle” di Bizet.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°14: Un Ballo in Maschera (Barcellona, Bieito)

21 dicembre, 2008

Giovanni Allevi: senatore a vita?

Via, non esageriamo. Nessun musicista ancora lo è stato: barbarie della politica, o marginalità della musica?

Certo, se oggi dovessimo fare un nome, pochi avrebbero dubbi su Claudio Abbado.

Il simpatico Allevi, intanto, ha messo un mattoncino, deliziando i nostri politici col concertino di Natale in Senato. Si potrà discutere all’infinito, ma nel panorama - davvero imbarbarito - della musica di oggi, c’è molto, ma molto, di peggio.

Don Carlo: buona la sesta?

Per me, direi di sì (essendosi che è l’unica rappresentazione cui ho assistito - live).

Opera perennemente incompresa e guardata con sospetto: dai verdiani ortodossi e conservatori, in quanto non abbastanza verdiana; da quelli progressisti in quanto non ancora abbastanza wagneriana. Fatta oggetto di diatribe e discussioni: fa i sostenitori del Grand’Opera, cinque atti, Fontainebleau, balletti e lingua gallica, e quelli che giudicano tutto ciò un ciarpame da bruciare. In mezzo, direttori che di volta in volta fingono di fare degli scoop, riesumando pagine di musica, pescandole quasi a caso da un cappello, o stabilendo come verità artistiche incontrovertibili i pettegolezzi raccolti da un amico o da una confidente del Maestro.

Si direbbe che questa diffidenza sia stata confermata ieri l'altro dai più di 170 posti (dico: quasi il 10% della capienza scaligera!) offerti in internet ancora a 3 ore dall’alzata del sipario; e comunque dal desolante spettacolo che presentavano, anche alle 19:30, i numerosi palchi semivuoti e i buchi ben visibili in platea. Sarà per via della crisi, e per le conseguenti difficoltà di agenzie e strutture turistiche (leggi: bagarinaggio autorizzato) a sbolognare ai giapponesini i contingenti di biglietti loro concessi, certo si è che il risultato - indipendentemente dal fatto che il Teatro abbia comunque incassato o meno quei 20 o 30 mila euri - è dei meno lusinghieri. Per la cronaca: per le ultime 4 recite, a gennaio, sono tuttora disponibili in web circa o più di cento posti a serata: brutto segno?

Regia, scene e costumi

Per la verità alla contraddittoria fama del Carlo sembra abbia voluto tener bordone anche la regia (in senso lato, includendovi scene e costumi) del pur intelligente Braunschweig (uno di quei simpatici francesi di nome e ascendente tedesco, tipo il ferrarista Jean Todt, per intenderci): che ha impostato la sua vision su basi essenzial-minimaliste delle scene, per poi concedere ampio spazio alla sfarzosità e sontuosità dei costumi (del solo establishment nobiliare, peraltro). Così si vedono gli ampi (fin troppo) spazi del palco scaligero spesso totalmente vuoti, oppure drasticamente limitati al solo proscenio; altre volte vi compaiono alberi finti o fondali riempiti da gigantografie, da far storcere il naso a marpioni tipo Appia; quando ci sono di mezzo le masse e i cori (frati, nobildonne, grandi di Spagna) lo sfarzo dei costumi si spreca, proprio come in un Grand’Opera che si rispetti. Insomma un nè carne, nè pesce che rischia di scontentare tutti.

La trovata dei due bimbi che compaiono a rappresentare Carlo ed Elisabetta ai tempi di Fontainebleau non sarebbe male - per surrogare sinteticamente la vicenda dell’Atto espunto - ma il loro riapparire qua e là finisce per essere stucchevole e spesso fuori dal contesto; un esempio per tutti: nella scena ad Atocha, è il Carlo-mignon a consegnare al Re, ricevutala da Posa, la spada del Carlo-maggiorenne (?!)

Nel Primo Atto, alla fine della prima parte, Braunschweig - per ricordare a tutti che se un regista c’è e lo si paga, deve pur guadagnarsi la pagnotta - si inventa letteralmente un’inversione di traffico sulla scena. La didascalìa non lascia dubbi: il Re e la Regina debbono transitare in corteo, diretti alla cappella, e Carlo deve guardarli passare, inchinarsi al Re sospettoso, lui e la Regina manifestando emozione. Invece noi vediamo i regali apparire quasi all’improvviso, soli, in primo piano, immobili quali statue di cera ed inginocchiati ad una specie di altare (un prisma marmoreo, che alla fine dell’opera assumerà il ruolo - assai più appropriato - di catafalco) mentre sono Carlo e Posa a muoversi ed uscire di scena, prima che cali il sipario.

Il Filippo che vediamo nell’ultima parte del Primo Atto (non direi sia colpa di Furlanetto) sembra muoversi più come un ottantenne possidente di campagna, scontroso e acido e con qualche gesto più degno di Rigoletto che di un Re, che sarà anche preoccupato, ma che ha - nella storia come nell’opera - un profilo ben più alto. Da qui in avanti però il sovrano tornerà ad assumere gesti ed atteggiamenti consoni al suo ruolo. Come nella scena di Atocha, su cui val la pena dir qualcosa. (Intanto sembra destino che a quasi mezzo millennio di distanza, questo nome sia tornato tristemente a rappresentare gli abissi in cui una civiltà possa precipitare, per mano della religione - cattolica o islamica, poco cambia - quando le gerarchie o i proseliti di detta religione pretendono di usarla a fini politici.)

Braunschweig qui ha intuizioni interessanti, come quella di presentarci i prelati, appollaiandoli su scranni esageratamente alti, ai lati della scena, e facendogli assumere atteggiamenti di noia, di sonnolenza e fastidio: cosa che immagino sarebbe molto piaciuta a Verdi. Poi si inventa, in contrapposizione ai costumi sfarzosi della nobiltà, una plebe vestita come oggi, con copricapi che vanno dal borsalino alla coppola, dalla bustina militare al basco; come a dire: la povera gente, 500 anni fa, non se la passava poi tanto diversamente da oggi (e vice-versa). Il Re compare in primo piano quasi subito, il che priva lo spettatore dell’effetto previsto in partitura (Filippo a comparire dopo l’apertura delle porte della chiesa, che Braunschweig sostituisce con l’alzata del sipario-zanzariera che schermava la scena all’inizio).

Veniamo al Terzo Atto, dove Braunschweig forse dà il meglio: la scena è vuota, solo uno scranno su cui siede Filippo, che canta la sua meditazione. (a proposito mi viene in mente che le precise note del passo “se il serto regal a me desse il poter” sono state usate - con tempo e ritmo ovviamente diversi - da un qualche bontempone dentro una zarzuela o qualcosa di simile.) Significativamente, nella scena successiva con l’Inquisitore, Filippo cede a quest’ultimo il posto a sedere sullo scranno, proprio a simbolizzare come stiano le cose, nei rapporti Stato-Chiesa. Salminen è un Inquisitore ideale (stiamo per ora parlando della presenza scenica): enorme, minaccioso, terrificante, con quella calma che gli deriva dalla consapevolezza del suo potere, oltre che dai novant’anni suonati che il personaggio porta sulle spalle, gli occhi e il passo quasi da cieco.

Un’altra idea interessante del regista è legata allo scrigno di Elisabetta, contenente il cammeo di Carlo: noi lo vediamo subito, al momento della meditazione. Filippo lo apre, ne prende il contenuto, stringendolo nervosamente fra le mani mentre canta “Ella giammai m’amò...”; poi riaprirà lo scrigno (invece di infrangerlo) al momento di mostrarlo ad Elisabetta; infine il cammeo, rimasto abbandonato sullo scranno, verrà raccolto da Eboli al momento di cantare il suo “O don fatal”. Qui devo aprire una parentesi di carattere personale, fra il vergognoso e il ridicolo: essendo che io - pregiudizialmente, lo ammetto - ho sempre guardato ai testi del melodramma italiano come a pure giustapposizioni di parole prive di significato compiuto e puri supporti al gorgheggio, e tratto in inganno dalla plausibilità dello scenario, avevo per non so quanto tempo dato per scontato che il don avesse l’accento forte - dòn - e si riferisse quindi all’infante protagonista del dramma. Non ricordo chi o come mi abbia portato a prendere atto che invece il sostantivo ha l’accento debole/stretto ed è una contrazione di dono (di natura). Imperdonabile, lo so; ma vero, ahimè.

Infine, devo proprio segnalare un particolare che testimonia della minuziosità della regia e dell’attenzione posta dagli interpreti ai dettagli più sottili. Dunque: colpito a morte dal colpo di spingarda esploso da un brigatista che ha dato l’impressione di uscir fuori dalla barcaccia, Posa rincula barcollando, fino ad accasciarsi sul seggiolone di Carlo, seguito dall’infante esterrefatto. Il realismo impone che scorra il sangue, ed infatti c’è un piccolo blob di color violaceo che compare per terra, ma dove? Disgraziatamente proprio dove Carlo si deve inginocchiare, accanto a Posa. Ed allora cosa non ti fa il meticoloso Neill? Con il suo piedino sinistro dà un paio di colpetti alla macchia di sangue plastico, spostandola in una zona da cui sia visibile a tutti, e non solo a chi, come il sottoscritto, guarda dal loggione, provvisto di binocolo da marina. Grandioso!

La conclusione del dramma è suggestivamente sottolineata dall’oscuramento totale della scena, incluse le lucine sui leggìi dell’orchestra, ad accompagnare il diminuendo dell’accordo conclusivo. Dopo il quale si sono ascoltati almeno due secondi di silenzio, speriamo dovuti a sensibilità del pubblico e non a ignoranza di come l’opera si chiude... comunque, appropriati.

Direttore e compagnia

Gatti. Lui conosce a memoria la partitura (e così il neon del suo vuoto leggìo resta evidentemente acceso solo per rendere il direttore meglio visibile a professori e cantanti). Io invece ammetto di non ricordare nemmeno il primo verso del 5 maggio, però un’ultima scorsa alla partitura della premiata Casa Ricordi l’ho data proprio prima di uscire per andare a teatro: posso quindi certificare - ad occhio/orecchio e croce - che il Daniele si sia attenuto a tempi ed agogica originali, inclusi gli ff che Verdi sparge in abbondanza sui righi; ergo: chi accusa questo Carlo di eccessivo bandismo in realtà non dovrebbe prendersela con il direttore, ma con l’autore in persona, assumendosi la responsabilità di voler dare lezioni a tale Giuseppe Verdi da Le Roncole di Busseto.

Ciò che è viceversa difficile non contestare al Kapellmeister (in combutta col regista) è l’inclusione proditoria del Lacrymosa: una lungaggine che spezza la drammaticità dell’azione, oltretutto fatta recitare da Braunschweig come se non ci fosse proprio, col Re che ignora totalmente il cadavere di Posa, senza degnarlo di uno sguardo, non dico di un gesto di compianto. Se qualcuno, per quei 5-6 minuti in più, avesse perso l’ultimo tram che va in periferia, avrebbe diritto di essere indennizzato. Insomma, che sia grande musica lo sappiamo, ma a me è francamente parso come il classico mazzolino di prezzemolo che gli ortolani del mercatino rionale ti buttano nel sacchetto, sopra pomodori e patate, come omaggio. Peccato che qui non eravamo al mercato per approvvigionarci di ingredienti, ma a tavola, con davanti il manicaretto - cucinato da Verdi, dico - da gustare... e quel mazzolino di prezzemolo ha rischiato di rovinare tutto.

Neill deve essere così riconoscente a Gatti per averlo preferito a Filianoti, che canta l’intera opera solo per il direttore. Dico: non distoglie mai lo sguardo dal podio, in nessun caso; il che magari a lui provoca qualche principio di strabismo, ma allo spettatore garantisce una performance musicale davvero rimarchevole!

Di Furlanetto ho detto sulla parte attoriale. Musicalmente sarà consunto quanto si vuole, fatto si è che, insieme a quella del sorprendente Neill, la sua è la voce che arriva meglio fin su ai loggioni! Che gli hanno tributato l’applauso a scena aperta e un’ovazione finale, meritati.

Mayer mi è parso un ottimo Rodrigo, ben calato nel personaggio anche come presenza scenica. Musicalmente l’ho trovato a posto, salvo il volume di voce, sufficiente magari in qualche teatrino di provincia (tipo Heidelberg, sia detto senza offesa) e non in un teatrone come il Piermarini.

Salminen sarà anche troppo wagneriano, non pronuncerà bene l’italico idioma, ma in quella parte ci sta bene assai, e non solo scenograficamente. Il buh che gli è stato riservato - non in scena, ma all’inchino finale - mi è parso gratuito.

Carosi mi è piaciuta, devo dire. Non avendo visto (ma solo ascoltato per radio) Cedolins, fatico a fare paragoni mirati fra le due primedonne. I primi piani che mi ha concesso il binocolo testimoniano anche di notevole portamento attoriale.

Smirnova veniva dopo i (mezzi) trionfi di Zajick e - per me - se l’è cavata dignitosamente. Il buh (l’unico a scena aperta) è stato suo, alla fine del terzo atto, ma direi che un usignolo (o una cornacchia, in questo caso) non faccia primavera.

Gli altri, Lindroos in testa, senza pecche, con menzione per i sei fiamminghi, un pacchetto perfettamente affiatato.

Il coro di Casoni - una cosa che funziona come un orologio in Scala c’è ancora, se dio vuole, e speriamo continui - è stato impeccabile, a dir poco.

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Finito il dramma, tutti i protagonisti in fila - da un estremo all’altro del proscenio, a sipario alzato - a raccogliere l’applauso, ciascuno facendo tre passi avanti, al suo (rigorosamente unico) turno. Qui l’incolpevole Matti si è beccato il suo buh, mentre Stuart ha fatto il classico gesto del centravanti che segna un gol (questo Carlo per lui deve essere davvero come vincere un mondiale) e - come gli altri/e - anche Anna è passata indenne (che il buatore del terzo atto avesse nel frattempo apprezzato qualche suo don?) Furlanetto in trionfo e poi, come di prammatica, la primadonna ha prelevato da dietro le quinte il concertatore, che ha avuto la sua dose di quelli che, asetticamente, si definiscono applausi di stima, o poco più. Gatti, come sua consuetudine, ha fatto 5-6 passi avanti, affacciandosi sulla buca per appludire giù di sotto. Il suo podio, i leggìi e le sedie hanno apprezzato. Ah sì, anche la grancassa. I professori? Quelli, erano già in tram... o tempora, o mores!

18 dicembre, 2008

Direttori veri e finti


Nel famoso Prova d’Orchestra di Fellini, i professori si illudevano di poter fare a meno del direttore... poi arrivava quella specie di mongolfiera di piombo a metter fine alle utopie, ristabilendo le proporzioni e i ruoli di ciascuno.

Oggi abbiamo una particolare integrazione della tesi felliniana, nel senso che non basta nemmeno un direttore sul podio per far funzionare tutto l’amba-aradam, ma il direttore deve essere proprio autentico, e non soltanto una marionetta o un dilettante - per quanto appassionato - allo sbaraglio.

Molti ricorderanno - per averlo sentito nientedopodomaniché alla Scala con la Filarmonica, nel ’90 per un concerto di beneficenza - tale Gilbert Kaplan, un bizzarro magnate americano, che può permettersi di comprare (altra spiegazione è difficile immaginare) teatri e orchestre sinfoniche, cori compresi, in cui e a cui far eseguire, sotto la sua bacchetta, un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Mahler, di cui questo signore va evidentemente matto. Per due volte l’ha perfino registrata, vendendo centinaia di migliaia di copie (!?!)

Il nostro ha potuto soddisfare il suo hobby almeno una cinquantina di volte: l’ultima, pochi giorni fa, con la New York Philharmonic, sul cui sito c’è un suo curriculum cui manca solo l’apparentamento con Karajan, per farlo scadere totalmente nel ridicolo.

Però oggi si registra, forse per la prima volta, una reazione della serie “non se ne può proprio più”. È di uno dei trombonisti della NYPO, tale David Finlayson, che sul suo blog sputa il rospo e ne dice di tutti i colori a Kaplan, chiamando a testimoni illustri direttori veri (incluso per la verità uno che con la Resurrezione e con Mahler non ha proprio nulla a che fare, Toscanini). Dei più di 40 commenti ricevuti, il 90% sono di comprensione ed apprezzamento; alcuni di aperta critica, soprattutto alla presunta ipocrisia di chi, come Finlayson, si lamenta dopo, invece che prima; un paio, forse, a difendere il povero Kaplan.

17 dicembre, 2008

Chi vuol provarla per primo?

Il Guardian ci informa della messa in rete della partitura della (tuttora ineseguita in pubblico) Quarta Sinfonia (“Los Angeles”, dato che è stata commissionata dall’orchestra di laggiù) di Arvo Pärt.

In privato, non dovrebbero esserci problemi ad eseguirla (dura una mezz'oretta). Basta avere buone file di archi e soprattutto due percussionisti assai versatili.

15 dicembre, 2008

Il Quiz del lunedi - 14
















L’immagine qui riportata si riferisce a:

1. “Un Ballo in Maschera” di Verdi.

2. “I Maestri Cantori di Norimberga” di Wagner.

3. “I Puritani” di Bellini.

4. “Il Crepuscolo degli Dei” di Wagner.

5. “Napoli Milionaria” di Rota.

(la soluzione nella prossima puntata)
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Soluzione del Quiz n°13: Idomeneo (Berlino, Neuenfels)

14 dicembre, 2008

Della Musica mondana.















RIPIGLIANDO adunque la Musica Animastica diremo, ch'ella è di due sorti, Mondana & Humana. La Mondana è quell'Harmonia, che non solo si conosce essere tra quelle cose, che si ueggono & conoscono nel cielo; ma nel legamento de gli Elementi & nella uarieta de i tempi ancora si comprende. Dico che si ueggono & conoscono nel cielo, dal Riuolgimento, dalle Distanze & dalle Parti delle sphere celesti; & da gli Aspetti, dalla Natura & dal sito de i sette Pianeti; che sono la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Gioue & Saturno; imperoche è stata opinione de molti Filosofi antichi, & massimamente di Pitagora, ch'un riuolgimento di si gran machina con si ueloce mouimento, non trappassi senza mandar fuori qualche suono; la quale opinione, quantunque da Aristotele sia riprobata, è nondimeno fauorita da Cicerone nel Lib. 6. della Rep. doue rispondendo il maggior Scipione Africano al minore, che gli hauea dimandato; che Suono è questo si grande & si dolze, che empie gli orecchi miei? dice; Questo è quello, che congiunto per inequali interualli, nondimeno distinti per compartita proportione, è fatto dal sospingere & dal muouere di essi circoli; ilquale temperando le cose acute con le graui, equalmente fà diuersi concenti: perche non si possono far si grandi mouimenti con silentio; & la Natura porta, che gli estremi dall'una parte grauemente & dall'altra acutamente sonino. Per laqual cosa quel sommo corso del cielo stellato, il cui riuolgimento è più veloce, si muoue con acuto & più forte suono; & questo lunare & infimo con grauissimo. Questo dice Tullio, seguendo il parer di Platone, ilquale per mostrare, che da tale riuolgimento nasca Harmonia, finge, ch'à ciascuna sphera soprasieda una Sirena: che uuol dire Cantatrice à Dio. Et medesimamente Hesiodo nella sua Theogonia accennando questo istesso, chiamò OÙran…a l'ottaua Musa, ch'è appropriata all'Ottaua sphera, da OÙranÕj, col qual nome da i Greci uien nominato il Cielo. Et per mostrare, che la Nona sphera fusse quella, che partorisce la grande & concordeuole unità de suoni, la nominò KalliÒph, che uiene à significare di ottima voce; uolendo mostrar per questo l'Harmonia, che risulta da tutte quell'altre sphere; come si uede accennato dal Poeta, quando disse: Vos o Calliope precor aspirate canenti; Inuocando particolarmente Calliope nel numero del più, come principale, & come quella, al cui uolere si muouono & si girano tutte l'altre.
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ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,
Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Prima Parte. Capitolo 6 (incipit). (MDLVIII)