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29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

27 ottobre, 2024

Das Rheingold inaugura un nuovo Ring alla Scala.

Siamo ormai alla vigilia di una nuova, lunghissima avventura scaligera in terra wagneriana: la produzione del Ring (affidata a David McVicar) che spazierà su ben tre stagioni, con la seguente agenda:

Ottobre 2024: Das Rheingold
Febbraio 2025 Die Walküre 
Giugno 2025: Siegfried
Febbraio 2026: Götterdämmerung 
Marzo 2026 (150 anni dalla prima di Bayreuth): due interi cicli del Ring.

L’impresa è purtroppo iniziata con un intoppo non da poco: Christian Thielemann, somma autorità in merito e originariamente ingaggiato per il podio per l’intera impresa, ha dovuto dare forfait – causa degenza ospedaliera e successiva riabilitazione - per il primo passo, il Rheingold (in scena da domani, 28 ottobre).  

Subito il Teatro si è attivato di conseguenza, ingaggiando per la Vigilia l'esperta Simone Young (prime tre recite) e Alexander Soddy (le altre tre).

Ma nel frattempo, abbastanza discutibilmente, Thielemann ha deciso di rinunciare all’intero percorso!

Così le prime due giornate del dramma nibelungico (2025) sono state appaltate – con identiche modalità - alla stessa coppia Young-Soddy, mentre ancora non si conosce il nome di chi salirà sul podio per le successive, fondamentali tappe dell’avventura. 

E pazienza… auguriamoci almeno che la Scala sia abbastanza seducente da poter adescare il mitico Cirillo!  
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Venerdi scorso, nel foyer Toscanini del teatro, si è tenuto un convegno introduttivo a questa nuova produzione, moderato da Raffaele Mellace, che ha indirizzato l’evento su due filoni di indagine: la presenza del Ring alla Scala e i problemi legati alla messinscena di questo cosmico dramma.

Dapprima ha preso la parola Maurizio Giani per commentare e giudicare alcune interpretazioni di Maestri che dal dopoguerra alla fine del ‘900 hanno diretto l’intera Tetralogia alla Scala: Furtwängler (1950), Cluytens (1963) e Muti (1994-6-7-8). La prova d’esame consistendo per tutti nella celebre Siegfrieds Trauermarsch, dalla quale è uscito di gran lunga vincitore il sommo Wilhelm.

Poi Marco Targa ha elencato e commentato gli allestimenti succedutitisi alla Scala dall’inizio del secolo scorso, da quelli che – per contratto – replicavano Bayreuth, ai successivi. Fra questi un certo rilievo ha tuttora quello ideato nel 1975 da Luca Ronconi, assai innovativo, che fu però limitato a Walküre e Siegfried, perché contestato dallo stesso Kapellmeister (Sawallisch).

Per trattare dei problemi di messinscena, Anna Maria Monteverdi ha illustrato e magnificato quella del Metropolitan di 14 anni fa, inventata da Robert Lepage. Con la scena occupata e animata da un autentico mostro tecnologico del peso di 45 tonnellate (battezzato The Machine) che muove montagne, fiumi, caverne, arcobaleni e rocche, insieme ai poveri interpreti che spesso vengono sostituiti da controfigure per evitare spiacevoli incidenti. Una cosa proprio all’americana (o canadese se si preferisce) che lascia a bocca aperta. Ed ha però (ma questo non è stato sottolineato…) un trascurabile difetto: è costata al MET 16 milioni di dollari!

E a proposito di messinscena, ecco arrivare David McVicar, incaricato di questa nuova produzione scaligera. Intervistato da Mellace, ha raccontato molte cose interessanti (insieme a qualche ovvietà) sul Ring e non ha per la verità detto molto sul suo allestimento, salvo che non vedremo corna vichinghe o foreste di cartapesta.

Quindi con interesse aspettiamo domani l’inizio di quest’avventura con Das Rheingold.

26 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.4

Ancora un programma dall’impaginazione tradizionale per il settimanale appuntamento in Auditorium, dove ha esordito sul podio Pablo González, assai noto in Spagna (Madrid, Barcellona in particolare) ed esperto (come laVerdi del resto) del repertorio romantico.  

Ha aperto la serata l’Ouverture Coriolan di Beethoven. Che trasse l’ispirazione per questo brano dalla vicenda, narrata in un dramma di Heinrich Joseph von Collin, di questo guerriero romano ribellatosi alla Città eterna e passato a guidare l’armata dei nemici Volsci con l’intenzione di fare una… marcia su Roma. Dissuaso dalla patriottica madre, se la cavò togliendosi la vita (mah).

La breve composizione distilla tutto in due temi musicali, adatti ad essere messi sinfonicamente in contrasto: uno maschio e duro (DO minore), l’altro implorante (la relativa MIb maggiore), cioè figlio e madre.

I diversamente giovani ricorderanno forse l’incipit del brano, impiegato lustri orsono per pubblicizzare un prodotto dello… spirito!

González, ben coadiuvato dall’Orchestra, ne ha messo in risalto proprio le due opposte facce, eroica e romantica, aggressiva e contemplativa. E il pubblico (ieri abbastanza folto)  non ha lesinato applausi.

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Ecco poi arrivare il cornista Martin Owen (prima parte dell’Orchestra BBC) per interpretare il Secondo concerto per corno di Richard Strauss. Concerto composto a Vienna nel 1942, a distanza di ben 60 anni dal primo!

Strauss aveva chiuso da pochissimo la sua produzione di opere, con Capriccio (Monaco, 28/10/1942) ed ebbe a dire che quella era stata l’ultima sua composizione impegnata: di lì in avanti avrebbe scritto musica solo per suo proprio diletto, nulla di degno di essere ricordato.

Beh, di musica da ricordare (e addirittura passata alla storia!) ne scrisse ancora parecchia (tanto per citare: Metamorphosen, Concerto per oboe, Vier letzte Lieder…) ma la prima sua composizione dopo Capriccio fu proprio questo Concerto, che già pare smentire la minimizzante confessione dell’Autore, pur non potendo certo considerarsi una pietra miliare nella storia della musica.

Ma che sia Strauss lo si sente da lontano, come ci conferma la presenza di motivi, atmosfere e stilemi che vengono dagli ottocenteschi Tondichtungen o da quel sommo capolavoro che risponde al nome di Rosenkavalier… Rimando all’Appendice una breve sinossi del brano.


Insomma, non proprio una cosuccia da niente, che Martin Owen ha mostrato di padroneggiare alla grande. In questo video (da 11’14” a 15’12”) ci parla (e suona…) proprio dei due concerti (ma poi anche del micidiale attacco del Till) di Strauss.

Ieri sera gli perdoneremo un paio di… acciaccature di troppo, ma la sua prestazione è stata davvero encomiabile. E così non ci ha fatto mancare, come bis, questo strabiliante pezzo di bravura! Dove dal corno escono suoni davvero impensabili...

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È ancora Strauss a chiudere la serata con il Poema sinfonico Tod und Verklärung del 1889. Una sinossi del quale ho proposto tempo addietro.

L’Orchestra era (stando alle statistiche) al terzo incontro con questo brano (il precedente nel 2014) ed ha risposto alla grande alle sollecitazioni di González, che da parte sua deve conoscere questa partitura come le sue tasche, se la dirige senza la… carta sotto gli occhi.

Mirabile la resa della colossale Verklärung che chiude il poema, riprendendo e sublimando il tema dell’Ideale già comparso, ma sempre rimasto incompiuto, nella prima parte (quella della vita terrena): splendida allegoria delle straordinarie capacità della musica di – appunto – trasfigurarsi!

Insomma, una bella serata di musica, buona per contrastare l’uggia indotta dalla pioggerella autunnale che cade su Milano. 

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Appendice.  

Dietro l’apparente struttura classica (Allegro – Andante con moto – Rondo) il lavoro presenta interessanti caratteristiche di innovazione, in specie nel primo movimento, che ignora lo scolastico impiego della forma-sonata in favore di un approccio che richiama una fantasia, in realtà un perenne sviluppo di alcune cellule tematiche esposte dal corno solista nelle primissime battute del Concerto e successivamente condivise dall’orchestra in un serrato dialogo con il corno. E poi diverse divagazioni tonali, dove si passa dal MIb a REb, poi SOL e SIb prima del ritorno a casa.

Il piglio brillante, a tratti virtuosistico (e pure scanzonato) dell’Allegro si spegne lentamente e una dolce modulazione (Tranquillo) alla sottodominante LAb introduce il sognante cullarsi del movimento centrale (Andante con moto, 6/8) di semplice struttura A-B-A’, il cui incipit nell’oboe non può non ricordarci il… Cavaliere.

Nella prima sezione sembra proprio che Strauss si voglia crogiolare nelle sue più facili melodie che si muovono su percorsi ancorati alla triade della tonalità di impianto.

Bizzarra forse la concatenazione tonale delle tre sezioni, che percorre un tritono (LAb-RE-LAb). Nella seconda sezione Strauss intende creare un certo contrasto con la prima, come conferma anche l’agogica (Più mosso) che caratterizza questo breve (16 battute) intermezzo.

Ne sono protagonisti gli archi, che intonano una melodia in RE maggiore con maggior tasso di cromatismo rispetto alla precedente, sulla quale il corno interviene con due perentori richiami che offuscano l’atmosfera, che poi si rasserena con il ritorno al LAb maggiore.

La terza sezione riprende nel corno solista la tranquilla melodia iniziale, ma qui contrappuntata negli archi da quella della seconda sezione, opportunamente trasposta nella tonalità della prima.

Il conclusivo Rondo (Allegro molto, 6/8 in MIb maggiore) si articola in 7 sezioni, quindi con struttura A-B-A’-C-A’’-D(B’)-A’’’ più una Coda. Come si nota, il ritornello A viene riesposto sempre variato e con riferimenti anche a incisi del movimento iniziale. La tonalità, dal MIb di impianto (sezioni A e B) passa a Sib maggiore nella sezione C e a LAb maggiore nella sezione D.

La sezione A impegna subito il solista nella presentazione del tema del ritornello, assai brillante e spigliato, imitato poi dagli archi. Dal MIb la tonalità si muove ripetutamente: a SOL minore, SIb, MI, SOL, RE minore per poi ritornare a casa.

Nella sezione B, che permane in MIb, il corno espone un nobile motivo, più disteso ma sempre sostenuto da veloci terzine dei primi violini che tengono viva l’atmosfera.

Il ritornello A’ vede il tema (soprattutto l’incipit, la cui cellula viene continuamente riproposta e sviluppata) relegato principalmente in orchestra, salvo brevi interventi del corno all’inizio, ed è seguito dalla complessa sezione C, in Sib maggiore, poi virando a SI e RE maggiore, prima del ritorno al MIb.

Essa è aperta da un nuovo tema nel corno e poi costruita su un lungo, vero e proprio sviluppo sinfonico, protagonista l’orchestra, raggiunta verso la fine dal solista che prepara la nuova apparizione (A’’) del ritornello.

Si arriva alla sezione D(B’) caratterizzata da una melodia in LAb del corno che forma un lungo arco ascendente-discendente, un vago richiamo al tema della sezione B. È la sola orchestra a concluderlo, preparando l’ultima ricorrenza del ritornello (A’’’).  

La Coda si apre sulla riproposta del tema della sezione C, poi tutti i motivi vengono sapientemente ricapitolati fino all’esilarante conclusione.


19 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.3

Tutta Italia nel settimanale appuntamento in Auditorium, con il programma ancora una volta tripartito. Sul podio avrebbe dovuto salire Giuseppe Grazioli, un autentico specialista della musica italiana del ‘900 (fra l’altro ha eseguito più volte e inciso con laVerdi molte musiche di Nino Rota) che ha dovuto dare forfait ed è quindi sostituito dal valente Andrea Oddone, che ha un rapporto di lunga data con l’Orchestra.

Purtroppo, l’Auditorium era assai scarsamente popolato… verrebbe da pensare che il nostro sovranismo non sia poi così granitico come si vuol far credere.  

Dei tre brani in programma (di Tommasini, Casella e Respighi) solo il terzo è già stato eseguito (in due precedenti occasioni, 2001 e 2010) dall’Orchestra, che invece affronta per la prima volta gli altri due. Tutti e tre si ispirano o evocano musiche di due autori del ‘700-‘800, Domenico Scarlatti e Gioachino Rossini; il primo e terzo furono composti specificamente per essere rappresentati come balletti dalla compagnia di Sergej Djagilev, ma anche il secondo, di Casella, fu sporadicamente messo in scena.

I tre lavori si differenziano anche per i diversi approcci seguiti dagli Autori rispetto all’impiego delle fonti originali (Scarlatti e Rossini). Si va da una rigorosa rigidità (Tommasini, dove ciascuno dei 23 numeri del balletto si riferisce ad una scena ispirata a Goldoni e ad una singola Sonata scarlattiana); ad un più libero approccio (Respighi, dove ognuna delle 8 sezioni principali del balletto accorpa – e rielabora - riferimenti a diversi brani rossiniani); e infine ad un ancor più complesso approccio, quello di Casella, il cui lavoro ha una struttura classicamente rigida, con 5 movimenti chiaramente individuati, ma dove ciascuno di essi è costruito con una libera rielaborazione di motivi (gli studiosi ne hanno individuati non meno di 88!) degli originali scarlattiani.

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Si apre quindi con Vincenzo Tommasini (1878-1950) e la sua Suite dal balletto Le donne di buon umore (da Goldoni). Balletto che vide la luce nel 1917 a Roma.

I numeri del balletto furono suggeriti dallo stesso Djagilev a partire dallo sterminato catalogo delle Sonate di Domenico Scarlatti, e orchestrati da Tommasini per il balletto; successivamente il compositore ne ricavò la Suite che raccoglie 6 dei 23 numeri del balletto (si veda la tabella in Appendice A.)

Per derivare la Suite, Tommasini ha evidentemente scelto i numeri del balletto che reputava più interessanti, avendo anche cura delle loro concatenazioni tonali: tutta la Suite ha come tonalità di impianto SOL maggiore (i primi due brani); poi seguono la dominante RE maggiore e la sua relativa SI minore; quindi si riparte da SIb maggiore, seguito dalla sua relativa SOL minore, che apre la strada al ritorno conclusivo del SOL maggiore (il che ha costretto l’Autore a trasporlo dal FA di Scarlatti…)

Per l’esecuzione in questo concerto il programma di sala invece riporta semplicemente il titolo Cinque sonate, con i soli riferimenti all’agogica: Presto, Allegro, Andante, Non presto, in tempo di ballo, Presto. In pratica sono i numeri della Suite ad esclusione dell’Ouverture e della Fuga che precede il finale.

In ogni caso si tratta di un brano assolutamente gradevole, che testimonia della qualità della scuola di musicisti italiani del primo ‘900. E che Oddone e l’Orchestra hanno ampiamente valorizzato!

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Valore che ovviamente va riconosciuto ad Alfredo Casella (1883-1947) di cui si è eseguito ScarlattianaDivertimento su musiche di Domenico Scarlatti per pianoforte e piccola orchestra op. 44.

Il brano si articola in 5 numeri, così intitolati:

1.   Sinfonia: Lento, grave - Allegro molto vivace

2.   Minuetto: Allegretto ben moderato e grazioso

3.   Capriccio: Allegro vivacissimo ed impetuoso

4.   Pastorale: Andantino dolcemente mosso

5.   Finale: Lento molto e grave - Presto vivacissimo

Come detto, Casella non trasferisce puntualmente i contenuti scarlattiani nella sua opera, ma ci si ispira assai liberamente. Nell’insieme il brano mostra un notevole grado di originalità ed è questo che lo rende da sempre (con la successiva Paganiniana) uno dei più famosi ed eseguiti del compositore torinese.

Ad interpretarlo alla tastiera è arrivata la giovane (27enne) pianista Martina Consonni, che ha affrontato la sua parte non certo massacrante (a dispetto della fama di gran solista dell’Autore, è basata su un continuo alternarsi di interventi del pianoforte nel tessuto orchestrale e non indulge mai a mirabolanti virtuosismi) con grande (proprio scarlattiana!) leggerezza.

Risultato: convinti e reiterati applausi per lei che ci ricambia con questo sognante (/corrucciato) Mendelssohn.

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La serata si è chiusa con Ottorino Respighi (1879-1936) e la Suite dalle musiche del balletto La Boutique fantasque, costruite a partire da brani tratti dai Péchés de vieillesse e dalle Soirées musicales, che Rossini compose (per il pianoforte e la voce) negli anni successivi all’abbandono della produzione operistica (si veda la tabella in Appendice B.)

Il balletto ha una trama lontanamente parente di Coppelia di Delibes, essendo ambientato in un negozio di bambole e giocattoli che si animano: una storia a lieto fine di bambola-e-bambolotto (ballerini di can-can) innamorati e poi separati dal negoziante che intende venderli disgiunti, infine riuniti dal provvidenziale e solidale intervento degli altri consimili giocattoli.

Come già osservato per Tommasini, anche Respighi impiega i motivi rossiniani con sostanziale fedeltà all’originale, limitandosi a qualche taglio o integrazione. In compenso, matte in campo tutta la propria capacità inventiva e la sua proverbiale maestria di orchestratore.

Tornando alla Suite, in sostanza in essa si eseguono i numeri che fanno da radice alle otto macro-sezioni del balletto.

Oddone si è fatto apprezzare in tutta la serata per la compostezza e sobrietà del gesto, coniugata con la cura nell’interpretazione di agogiche e dinamiche. L’Orchestra lo ha assecondato da par suo, e così la serata si è chiusa in gloria. I tanti assenti forse non sanno ciò che si son persi… ma hanno tempo domani pomeriggio per rimediare!

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Appendice A.

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Appendice B.


13 ottobre, 2024

Il Rosenkavalier di Salzburg (2014) per la seconda volta alla Scala.

Ieri l’argenteo cavaliere straussiano, come originariamente prodotto a Salzburg nell’ormai lontano 2014, è tornato per la seconda volta a far visita al Piermarini, dopo la prima apparizione del 2016. Allora, teatro semideserto, ieri pieno come un uovo! Che sia perchè sul podio c’era il grande Kirill Petrenko?

Alla regìa, scomparso nel 2019 l’ideatore Harry Kupfer, Derek Gimpel. Superstiti delle recite del 2016 la Marescialla Krassimira Stoyanova e il buzzurro Ochs di Gunther Groissbock.

Non sto quindi a commentare la regìa, ennesima e discutibile ri-ambientazione del soggetto al tempo della composizione dell’opera o giù di lì, cosa che non condivido per varie ragioni, già in passato riassunte in queste mie considerazioni, ehm, filosofiche.

Il trionfatore della serata è stato (ma si poteva tranquillamente prevederlo) il Direttore russo, subissato da applausi e ovazioni ai due ritorni sul podio e al termine della recita

Ovviamente i suoi meriti sono squisitamente di natura musicale: non una battuta di Strauss è andata persa o manomessa, o deturpata: tutta l’opera è corsa via con quel carattere fluido che proprio l’Autore riconosceva essere nel DNA di questa musica. Nel saggio pubblicato sul programma di sala, Quirino Principe definisce il Rosenkavalier come opera dominata né da Apollo, né da Dioniso, ma da Hermes, il dio della musica. Ecco, mi verrebbe da dire che Petrenko abbia proprio interpretato così questo capolavoro.   

Di lui va celebrata la modestia e il riserbo: alle tre entrate sul podio ha dato solo un fugace saluto al pubblico; alla fine ha ringraziato ripetutamente l’orchestra, che ha sfoderato una prestazione davvero impeccabile, quasi senza neanche guardare la sala, che lo stava letteralmente sommergendo di ovazioni da stadio! E anche all’ultimissima uscita singola si è rivolto più alla buca che al pubblico.

Detto dell’onorevole prestazione del coro di Alberto Malazzi, rinforzato dai piccoli di Marco De Gaspari, resta da spendere poche parole sulle voci.

I due cugini più maturi non solo non hanno perso nulla rispetto alle loro prestazioni di 8 anni fa, ma mi sento di dire che abbiano acquistato (la Stoyanova in particolare) spessore sia vocalmente che scenicamente.

Kate Lindsey è stata un’ottima Octavian, e una superlativa Mariandel. Con qualche decibel in più di proiezione della voce le avrei assegnato la lode.

Johannes Martin Kränzle ha ben meritato come Faninal: anche per lui il Piermarini è forse troppo vasto!

Benissimo Sabine Devieilhe come Sophie, voce appropriata al personaggio, acuta (qui ha già fatto Zerbinetta!) ma rotonda, e soprattutto ben proiettata.  

Accomuno tutti gli altri (Gerhard Siegel, Valzacchi; Tanja Ariane Baumgartner, Annina; Caroline Wenborne, Jungfer Marianne Leitmetzerin; Bastian-Thomas Kohl, Notaio-Commissario e Jörg Schneider, Maggiordomo di Faninal – Oste) in un generale apprezzamento, ma con menzione per la Wenborne.

Per ultimo (italianità…) lascio Piero Pretti, interprete del Tenore, che deve cantare la famosa arietta di Molière (più… metà) nella sala dei ricevimenti del primo atto. Per dire che non se l’è cavata per niente male… salvo che anche lui, come il 90% dei tenori, non canta tutte le note di Strauss!

Si osservi il brano incriminato:

Il verso in un baleno viene cantato due volte, a breve distanza. La prima volta le parole in un ba… salgono dalla dominante LAb alla sesta SIb percorrendo croma, semiminima, semiminima, croma. Nella ripetizione quelle parole compiono lo stesso balzo in alto, ma con semiminima puntata più sei semicrome.

Della ventina almeno di esempi disponibili in rete, con i tenori più famosi di oggi e di ieri, io ho trovato ad eseguire precisamente il secondo passaggio solo Ben Heppner (59”), Fritz Wunderlich (1’53”) e Josef Traxel (1’25”). Gli altri al massimo, eseguono 4 o 5 delle sei semicrome.

Peccato, perché questa è una delle tante piccole ma preziose perle che Strauss ha disseminato nella sua straordinaria partitura, per evocare la consuetudine - tutta settecentesca - di lasciare all’interprete la libertà di variare le ripetizioni con propri abbellimenti.

Chiudo confermando comunque un voto di eccellenza a questa produzione, di cui il merito preponderante va al piccolo, grande… Cirillo!  

12 ottobre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.2

Il secondo appuntamento della stagione 24-25 de laVerdi vede l’esordio sul podio dell’Auditorium del giovane (28 anni scarsi) Diego Ceretta, attuale Direttore Principale della rinomata Orchestra Regionale della Toscana.

Il programma, di struttura classica (breve brano di apertura, concerto solistico e sinfonia) si apre con la prima esecuzione italiana del compositore in residenza, che risponde al nome di Nicola Campogrande, intitolata per l’appunto Cinque modi per aprire un concerto. Opera del 2021 (in piena era-Covid) eseguita per la prima volta in Spagna al Festival Diacronias, che l’aveva commissionata.

Qui lo stesso Aurore ce ne descrive l’origine e il contenuto. Come ci anticipa il titolo della composizione, si tratta di cinque piccoli pezzi (meno di 8 minuti) dalle caratteristiche contrastanti, per evocare altrettanti scenari psicologici e/o naturalistici. Un pezzo assolutamente godibile (chiude con un walzer in piena regola!) che il pubblico (ieri abbastanza folto) ha mostrato di apprezzare.

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Ecco poi la sempre bella (e brava, ovviamente!) Francesca Dego proporci il monumentale Concerto per violino op.61 di Beethoven. La sua è una prestazione davvero eccellente, dal lunghissimo primo movimento, con la massacrante e difficilissima cadenza (dove Kreisler sviluppa i temi incastrandoli mirabilmente) al sognante Larghetto, una vera perla preziosa, al danzante Rondo finale, con vorticosa cadenza.

Ceretta la accompagna con discrezione, salvo lasciare (per me) troppa briglia sciolta all’orchestra nei passaggi di insieme, esagerando con i decibel (forse anticipando il successivo Ciajkovski…)

Gran festa per la neo-mamma, che ringrazia per l’accoglienza (27 volte!) e ci offre un bis mai suonato prima, il Capriccio polacco di Grażyna Bacewicz. Ma non si ferma qui: visto che il pubblico continua ad acclamarla, fa altri due encore di puro virtuosismo, con Bach (Giga dalla Partita in Re minore) e Paganini (Capriccio 16).

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Ha chiuso la serata Ciajkovski con la Prima Sinfonia, cui lo stesso compositore affibbiò il nickname di Sogni d’inverno. Opera ancora piuttosto acerba (come ho scritto a suo tempo…) anche se non priva di spunti interessanti ed apprezzabili.

Ceretta l’ha mandata a memoria (buon segno, indice di studio approfondito) e l’affronta con il giusto equilibrio (necessario di fronte a questa partitura piuttosto farraginosa…) Gesto sobrio, mai stucchevole o inutilmente enfatico, attacchi precisi e (qui ci sta tutto), libero sfogo ai momenti roboanti (in particolare il Finale) di questo giovanile lavoro. Ma assai bene anche il Trio dello Scherzo, per me la cosa migliore di tutta la sinfonia.

Convinti applausi per lui, per le prime parti e le sezioni dei fiati (molto impegnati da questo Ciajkovski piuttosto velleitario) e infine per tutta l’orchestra. 


03 ottobre, 2024

Il fanciullo Mozart a Milano.

Il più piccolo teatro di Milano per la più piccola Serenata del piccolo Mozart!

Questa simpatica definizione, di Angelo Foletto, ben sintetizza l’evento ospitato ieri nella bomboniera del Teatro Gerolamo, a Milano.

Dove sono risuonate, per la prima volta in Italia, le note di questa miniatura di musica notturna del Mozart bambino, grazie all’iniziativa della Fondazione dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

La serata si è aperta con il saluto della Presidente della Fondazione, Ambra Redaelli, che ha ringraziato la Direzione del Teatro, con la quale è in atto un sodalizio culturale (vi vengono eseguiti i concerti della Stagione da Camera dell’Orchestra) e ha ricordato con quale e quanto entusiasmo laVerdi abbia affrontato l’impervia impresa di eseguire questa primizia, a meno di 15 giorni dalla sua presentazione al mondo (Salzburg, 19/9/24).   

Si è poi entrati nel vivo della serata, con l’arrivo sul palco dei tre moschettieri de laVerdi, protagonisti dello storico evento: Luca Santaniello, spalla dell’Orchestra, e due delle prime parti, la capofila dei secondi violini, Lycia Viganò, e quello dei violoncelli, Tobia Scarpolini.

Chiudendo gli occhi, per ignorare l’assenza di parrucchini e la presenza di uno spartito-tablet sfogliato da Santaniello con un… piede, si poteva avere una precisa sensazione dell’atmosfera in cui si godeva musica 260 anni fa!

Un’esecuzione invero apprezzabile, anche in piccoli dettagli che mostrano persino il rispetto delle usanze dell’epoca, come i piccoli abbellimenti introdotti dagli interpreti, nei raccordi e nelle ripetizioni dei da-capo!

A questo punto è toccato ad Angelo Foletto di raccontarci qualcosa su questa scoperta, inquadrata nell’ambito della produzione mozartiana. A partire dalla costruzione del catalogo delle opere del genio di Salzburg, in origine compilato dal padre Leopold e poi dallo stesso Wolfgang. Fino a giungere al quel 1862, quando uno scienziato e musicista dilettante, Ludwig von Köchel, pubblicò l’omonimo catalogo, classificando cronologicamente tutte opere (conosciute al tempo) di Mozart con la numerazione KV (Köchel Verzeichnis). Catalogo arrivato oggi alla nona edizione, che include, appunto, la minuscola serenata appena tornata alla luce.   

Foletto si è chiesto quanto sia certa la paternità dell’opera, che non si può garantire al 100%, date le circostanze, ma ha concluso che ci piace immaginarla così, semplicemente perché la troviamo esteticamente e stilisticamente bella, e vicina a tutto ciò che Mozart comporrà in seguito.

E proprio una di queste composizioni, posteriore di pochi anni alla minuscola serenata, è il Quartetto in SOL (KV156) del 1772, che prese forma a Milano, durante uno dei viaggi in Italia del Mozart ancora ragazzino. Quartetto che è stato eseguito dal trio di strumentisti della serenata cui si è aggiunta la prima parte delle viole, Gabriele Mugnai.

Dopo questa perla, prima di congedarsi, il trio Santaniello-Viganò-Scarpolini non ci ha fatto mancare un bis: la Boloneso (che gli studiosi interpretano come Polonaise), quarto dei sette movimenti della minuscola serenata, le cui 14 battute (8+6) Santaniello (riprendendo Foletto) considera uno dei semi da cui nascerà il gigantesco albero della produzione mozartiana.   


01 ottobre, 2024

Anche a Milano ascolteremo un Mozart 13enne!

Lo scorso 19 settembre, a Salzburg, è stata presentata la nuova (nona) edizione del monumentale Köchel Verzeichnis, che dal lontano 1862 è il catalogo di riferimento delle opere del sommo Teofilo.

Che ora include anche ciò che l’instancabile lavoro dei ricercatori ha portato proprio di recente alla luce, nella Biblioteca Cittadina di Lipsia (Collezione donata da Carl Ferdinand Becker, celebre organista ottocentesco): trattasi di un’opera giovanile di Mozart, composta probabilmente attorno ai 13 anni di età.

Il manoscritto ritrovato (non è autografo, ma probabilmente redatto da un copista parecchi anni dopo la composizione) reca il titolo Serenata ex C per Violino Primo, Violino Secondo è Basso, Del Sigl: Wofgang Mozart.

I redattori del catalogo Köchel, basandosi sulle memorie della sorella maggiore di Wolfgang, Maria Anna (Nannerl) che lo citava con sufficiente precisione, hanno ritenuta assai verosimile l’attribuzione del brano a Mozart.

E gli hanno affibbiato il nickname usato da Maria Anna, Ganz kleine Nachtmusik (minuscola musica notturna) per simpatia con la celeberrima Eine kleine Nachtmusik. Assegnandogli poi il numero di catalogo K648.

Si tratta di circa 12 minuti di musica, suddivisi (come era costume per le Serenate) in sette brevi movimenti:

Marche, 2/4, DO maggiore, con passaggio alla dominante SOL e ritorno alla tonica;

Allegro, 4/4, DO maggiore, stesso schema DO-SOL-DO;

Menuet-Trio (I), 3/4, DO maggiore; Trio in FA maggiore;

Boloneso (Polonaise), 3/4, DO maggiore; appoggio su SOL e ripresa del DO;

Adagio, 2/4, FA maggiore; appoggio sulla dominante DO; fugace passaggio da FA minore;

Menuet-Trio (II), 3/4, DO maggiore; Trio in FA maggiore;

Allegro finale, 2/4, DO maggiore; appoggio alla dominante SOL e ritorno alla tonica.

Dopo la presentazione della scoperta, avvenuta come detto il 19 settembre 2024 a Salzburg (dove è stata eseguita con l’aggiunta del cembalo come basso continuo) è stato tutto un affannoso rincorrersi di prime esecuzioni in altri Paesi: già il 21 settembre la partitura è stata presentata (prima dentro e poi fuori) al Teatro della città del ritrovamento. Il 25 settembre è stata la volta della prima olandese. Qui invece un’esecuzione presso la famosa Casa editrice Bärenreiter. Ed è solo ciò che si ritrova su youtube

Ebbene, domani sera anche a Milano – nel prezioso Teatro Gerolamo – si potranno assaporare dal vivo queste note del piccolo Mozart, che saranno portate alle nostre orecchie dal Trio di musicisti de laVerdi: Luca Santaniello (V1), Lycia Viganò (V2) e Tobia Scarpolini (Vc).

L’esecuzione sarà preceduta da un’introduzione di Angelo Foletto, e poi seguita (con gli stessi interpreti, cui si aggiungerà la viola di Gabriele Mugnai) dal Quartetto K156, composto proprio a Milano nel 1772 da un Mozart sedicenne.

Un evento di dimensioni minuscole, ma di portata storica…