intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

24 agosto, 2024

ROF-2024: chiusura con Il viaggio a Reims da… Piazza del Popolo.

È ormai tradizione da quando esiste quella diavoleria chiamata streaming che l’ultimo atto del ROF venga irradiato su maxischermo nella piazza principale di Pesaro, che su due dei suoi lati contigui (nord e est) ospita rispettivamente la sede storica e quella moderna del Comune della città, sponsor dell’iniziativa.

Quest’anno per il gran finale è stato proposto Il viaggio a Reims, in forma concertante, eseguito nel ritrovato Auditorium Scavolini. Ricorrono infatti i 40 anni dalla prima uscita al ROF di questo autentico gioiello, illustrato allora dalla prima edizione critica di Alberto Zedda e da una coppia di artisti semplicemente passata alla storia: Claudio Abbado e Luca Ronconi, coadiuvati allora da un cast che definire stellare è ancora riduttivo.  

E anche io ho deciso – non è la prima volta – di assistere allo spettacolo seduto su una (piuttosto scomoda) sedia nella Piazza, in mezzo a tanta gente che magari non frequenta abitualmente teatri e sale da concerto, ma che nondimeno segue questi eventi con passione e… applaude proprio come a teatro.

Per evidenti ragioni non farò qui alcun commento sulla parte musicale dell’evento, limitandomi a riferire dell’entusiastica accoglienza del pubblico, quello all’interno (dell’Auditorium) e quello all’esterno (in piazza).

Chiude così i battenti anche questa edizione particolare del Festival. Che ci ha riservato (come quasi sempre, del resto) interessanti novità, attese conferme e… un benefico e ubriacante diluvio di note rossiniane!    


23 agosto, 2024

ROF-2024 live: Il barbiere di Siviglia.

Ultima (ma temo solo per questa stagione…) visita alla Vitrifrigo Arena per l’ultima recita del Barbiere, ripresa della produzione del 2018, già ripetuta in Covid-streaming nel 2020.

Quel grande studioso rossiniano che fu il compianto Alberto Zedda scrisse a proposito del Barbiere un saggio che ancor oggi costituisce un punto di riferimento per inquadrare l’opera nella sua essenza più genuina, a dispetto delle mille ferite infertegli dalla cosiddetta tradizione esecutiva. E la sua edizione critica, ancor oggi riproposta al ROF, lo sta ampiamente a dimostrare.  

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Sulla regìa di non posso che ripetere i miei commenti allo spettacolo di sei anni fa. Pier Luigi Pizzi non si smentisce e – da architetto, per studi universitari, e da scenografo… di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi proprio, trova) un più che accettabile compromesso, evitando gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni tradizionali (o tradizionaliste…) che, da commedia con venature di buffo, riducono spesso il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato.

Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane… non fanno mai scadere lo spettacolo a becera farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che circonda l’orchestra e che è da sempre una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto e poi alle uscite finali.

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Un tremuoto, un temporale… è l’espressione che meglio si addice a descrivere ciò che deve aver colpito Lorenzo Passerini sul podio dell’Arena: un corpo letteralmente morso dalla tarantola! E forse i suoi gesti quasi spiritati possono aver dato la (fallace) impressione che i tempi da lui tenuti siano eccessivamente forsennati: in realtà mi pare che ciò ieri non sia accaduto, il che va comunque a suo merito. La solida Sinfonica Rossini evidentemente lo ha assecondato nella sostanza, al di là della forma, piuttosto gigionesca!

Assai bene anche il Coro (soli signori) del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.  

Nel ruolo del titolo, il polacco Andrzej Filonkzyk ha messo in mostra la sua voce dal timbro caldo e ben tornito, di cui qualche eccesso di forzatura degli acuti non ha troppo compromesso la resa complessiva. Più che discreta anche la sua presenza scenica.

Il suo protetto (Almaviva/Lindoro) è lo yankee Jack Swanson: voce leggera, dal timbro non molto corposo, in specie nelle note più gravi, ma svettante negli acuti. In complesso, più che apprezzabile la sua prova.

Parimenti apprezzata la Rosina di Maria Kataeva. Assai efficace e ben proiettata negli acuti, il mezzosoprano russo mi è parsa meno efficace nell’ottava bassa, ma anche lei ha brillantemente superato la prova, mettendo in mostra anche una consumata sensibilità interpretativa.

Assai bene anche William Corrò, che vestiva i panni duplici di Fiorello e Ufficiale: voce benissimo impostata e potente, dal timbro assai gradevole.

Resta da dire dei senior della serata. Su tutti l’imponente figura di Michele Pertusi, un Don Basilio che probabilmente si sentiva anche a… Pesaro! E che ha portato gli applausi del pubblico al parossismo.

Così come l’altro decano del Festival, Carlo Lepore, un Bartolo di gran spessore, nella voce (non ha perso una sola sillaba nei diversi scioglilingua che Rossini impone al personaggio) e nelle multiformi movenze delle sue esternazioni.

E infine Patrizia Biccirè, che esordì al ROF addirittura 32 anni orsono! E che ancora ha saputo dare il suo apporto allo spettacolo e soprattutto – con l’arietta a lei riservata - alla musica.

Applausi scroscianti a scena aperta dopo ciascun numero e poi un generale trionfo finale, con tutti gli interpreti in passerella a ricevere un interminabile applauso ritmato!

  

22 agosto, 2024

ROF-2024 live: L’equivoco stravagante.

Ieri L’equivoco stravagante, una ripresa della fortunata produzione del 2019 affidata alla coppia registica di Moshe Leiser e Patrice Caurier (che allora avevo personalmente apprezzato assai) ha chiuso il suo ciclo di quattro recite a questo ROF-45. Dico subito che mi sento di riconfermare in pieno quell’apprezzamento, anzi di innalzarlo ulteriormente, grazie anche allo spostamento delle recite dalla dispersiva Vitrifrigo Arena all’ambiente più raccolto, cittadino e quindi familiare del glorioso Teatro Rossini, riaperto per l’occasione.

Sul pruriginoso soggetto di Gasbarri e sulla regìa non sto quindi a dilungarmi oltre rispetto a quanto scritto allora. Manche perché molto più e molto meglio ne scrisse il venerabile Alberto Zedda.

Ma buone notizie sono arrivate anche dal nuovo apparato musicale, interamente rinnovato rispetto a quello ben distintosi nel 2019, che poteva contare sull’apporto della OSN-RAI e del coro del Ventidio Basso. Che la meno blasonata ma agguerrita Filarmonica Rossini e la piccola pattuglia del coro (14 tenori-baritoni-bassi, interpreti di contadini, letterati e soldati) del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani non hanno fatto per nulla rimpiangere.

Tutti guidati dalla bacchetta di Michele Spotti, che dall’anonima Cesano Maderno che gli ha dato i natali 30 anni orsono è oggi arrivato a dirigere l’importante teatro e la filarmonica di Marsiglia e a calcare podi in giro per il mondo. Rimarchevole la sua capacità di far emergere tutta l’accattivante freschezza di questa terza partitura di Rossini, che tanti bei momenti trasferirà ad opere successive. Gesto a volte enfatico o lezioso, ma evidentemente efficace, a giudicare dal consenso manifestatogli non solo del pubblico, ma degli stessi strumentisti.    

Nicola Alaimo è il motore assoluto dello spettacolo: il baritono palermitano, (all’ottava presenza nel cartellone principale del ROF, dopo l’esordio nel lontano 2010 in Cenerentola) ha incantato con la sua verve sempre raffinata, la sua presenza scenica mai sopra le righe e – superfluo aggiungerlo – la sua splendida voce! Ammirata già nell’iniziale duetto con Buralicchio (Ah, vieni al mio seno) poi nelle due arie (Talpa in mortale ammanto e Il mio germe) come nei pezzi d’insieme (Quartetto Ti presento a un tempo istesso e Quintetto Speme soave) oltre che nei due movimentati finali. È senza dubbio lui il trionfatore di questa riproposta dell’Equivoco.      

L’esordiente Maria Barakova (passata per l’Accademia nel 2018) veste i pani della protagonista Ernestina, la ragazza saputella e svampitella che vive nel mondo dei sogni per poi migrare in quello della realtà, complice… l’amore. Davvero apprezzabile la sua prestazione, a partire dalla cavatina d’esordio (Nel cor un vuoto) e poi nel Duetto con Ermanno (Se una speme). Nel second’atto si distingue nel Duetto con Buralicchio (Vieni pur) e nel Rondò con coro (Se per te lieta ritorno) che precede il finale. Importante anche il suo contributo ai pezzi d’insieme. (Se proprio devo trovarle il pelo nell’uovo, è qualche decibel che manca nell’ottava bassa.)

Al Nemorino-ante-litteram della situazione (il romantico Ermanno) ha prestato la sua limpida voce Pietro Adaìni (alla sua terza importante presenza al ROF). Acuti svettanti (fino al DO#) e bella proiezione di suono, unite a perfetta immedesimazione nel personaggio. Oltre all’esordio a freddo (Si cela in quelle mura) e al citato duetto con Ernestina (Sì, trovar potete) e ai pezzi concertati, ha pienamente convinto nella sua concitata aria (Sento da mille furie) e nella successiva cavatina (D’un tenero ardore).  

Il ricco nullafacente Buralicchio (l’altro buffo della situazione) è il quasi esordiente Carles Pachòn, che si è subito messo in mostra nella sua cavatina d’esordio (Occhietti miei vezzosi) e poi si è distinto nel citato duettino con Gamberotto (Ah padre! Mi stringi). Nel second’atto poi ha degnamente assecondato Ernestina nel duetto (Più la guardo) oltre a dare il suo valido contributo ai pezzi concertati.  

Bella figura hanno fatto anche i due comprimari, servitori di Gamberotto e alleati di Ermanno alla conquista del cuore di Ernestina. Patricia Calvache, voce per la verità non molto penetrante, si distingue nella sua arietta Quel furbarel d’amore, oltre che nel quintetto e nei finali d’atto. Matteo Macchioni è a sua volta un simpatico (e geniale ideatore dell’Equivoco!) Frontino, cui Rossini riserve la sua applaudita aria di sorbetto (Vedrai fra poco nascere).

Ma a parte i numeri solistici o concertati, la compagnia di canto ha sempre mantenuto alti il ritmo e la tensione della commedia, in ogni scena, proprio senza un solo momento di stasi, dall’inizio alla fine.  

Pubblico entusiasta, che ha accolto ogni numero con applausi a scena aperta, per poi decretare un trionfo generale – con punte al calor bianco per Alaimo - alla fine dello spettacolo. 


20 agosto, 2024

ROF-2024-live: Bianca£Falliero.

Finalmente si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.

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Felice Romani, oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage (lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).

Un soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro (Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).

L’opera arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza proprio sul versante degli affetti.

E non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti (appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato (Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).

Storici e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta, e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto) e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai di più.

E che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?) enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata, e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la stava sfondando)!

Insomma, è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da Gluck, Mozart e Cherubini.

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Roberto Abbado (a mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente, ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è parsa proprio eccellente, ecco.

Come per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza al ROF.

Come già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e temerarie iniziative).

Va da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve rispetto alla prima) il finale rondò.

Aya Wakizono ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole. Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere (cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.

Ai due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di (bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto (la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver professionalmente dato il meglio di sé.

Dmitry Korchak, da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati consensi.

Giorgi Manoshvili impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo: sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità (leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano, paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.

Più che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.

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Lo spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene, costumi e oggetti di Rudy Sabounghiilluminati anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità: all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…) alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…

La gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno: movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro, ecco.    

Domanda: ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini) dopo vent’anni di convivenza con Falliero?

A parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.  

Che invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi applausi 

18 agosto, 2024

ROF-2024-live: Ermione.

Ho riservato la mia prima presenza al ROF45 a quella che (non solo io) considero l’opera più innovatrice e moderna di Rossini: Ermione.

Il mio interesse era anche solleticato dalla presenza sul podio di Michele Mariotti, che ebbi occasione di vedere ed ascoltare proprio al suo battesimo al ROF, nell’ormai lontano 2010, con Sigismondo (prima ed ultima, al momento, rappresentazione) e con lo Stabat Mater. Da allora il direttore pesarese che, come molti suoi pari, del resto, ha avuto molto dalla sorte (essere figlio del fondatore-sovrintendente del Festival ed essere quindi cresciuto a pane-e-Rossini) di strada ne ha fatta assai ed oggi eccelle non solo in Rossini ma in una vasta area dell’immenso repertorio del teatro musicale.

E dico subito che, a conferma della buona impressione generale lasciatami dall’ascolto radiofonico della prima, anche questa terza recita ha per me meritato un voto ampiamente positivo.

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Ermione (tratto da Tottola dall’Andromaque di Racine, a sua volta liberamente derivata da quella di Euripide) è un soggetto tutto incentrato sulla psicologia (-schizofrenia?) dei quattro protagonisti (tutti, Andromaca esclusa, della generazione successiva a quella dei belligeranti di Troia) e sull’incredibile catena di rapporti conflittual-sentimentali che intercorrono fra gli stessi:

- Oreste (che ha appena vendicato il padre Agamennone, ammazzando sua madre Clitemnestra e l’amante di lei, il cornificatore Egisto) è invaghito della figlia di Menelao e della fedifraga Elena, la spartana Ermione;

- costei è patologicamente innamorata di Pirro (figlio del leggendario Pelide);

- il quale si è trovato in casa, come bottino di guerra, la povera Andromaca (più il figlioletto di lei Astianatte, che Racine e Tottola hanno tutto l’interesse a mantenere in vita, invece che credere alla sua morte per scaravento giù dalle mura troiane, da parte del futuro Odisseo) e se ne innamora all’istante, dimenticando una futile promessa fatta ad Ermione;

- ma Andromaca (unico personaggio con la testa sulle spalle, va subito detto, in mezzo a quei tre scavezzacollo figli/e di papà…) resta inflessibilmente fedele alla memoria del marito Ettore, fatto secco a Troia proprio dal padre del suo attuale spasimante!

Insomma, un inestricabile groviglio di sentimenti: l’infatuazione selvaggia, di Oreste per Ermione, di Ermione per Pirro e di Pirro per Andromaca, tutti amori impossibili e inquinati da cieca gelosia, che inevitabilmente potranno trovare sbocco solo in totale tragedia.      

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Mamma mia, come si vede, un soggetto di per sé fuori dall’ordinario, dal quale uno come il 27enne Rossini, all’apice del furore creativo degli anni napoletani, non poteva non rimanere soggiogato al punto da riservargli un trattamento adeguato, quindi fuori dall’ordinario

A cominciare già dall’Ouverture, che si apre in atmosfera cupa, dolente e poi agitata, presto interrotta dall’insolito ingresso del coro (!) dei deportati troiani; poi seguita da un motivo leggero e spiritoso e dal proverbiale crescendo, che Rossini si auto-impresterà in ben tre Ouverture di opere immediatamente successive (Eduardo, Bianca e Matilde).

L’opera inizia poi con la presentazione dei quattro personaggi principali e delle rispettive menti disturbate. E si capisce quindi come la musica, per seguirne questi psicologici labirinti, ne sia inevitabilmente contagiata, discostandosi dagli stilemi usuali. Al confronto anche le innovazioni dell’ultimo Gluck o di Cherubini sembrano solo dei timidi tentativi.

Dapprima si presenta Andromaca, che trepida per la sorte del figlio, ma contemporaneamente apprende delle profferte di amore da parte di Pirro, disposto per di più ad adottare Astianatte qual figlio ed erede al trono! Ma la sua coscienza le impedisce di tradire la fedeltà alla memoria del consorte, Ettore. Da qui il suo stato di prostrazione.

Ecco poi Ermione, circondata da premurose ancelle in un’atmosfera apparentemente idilliaca. Ma subito rotta dal cruccio che attanaglia la principessa spartana: Pirro la sta tradendo per Andromaca!  

Ed ecco appunto arrivare Pirro, in cerca della troiana. Ermione lo affronta a viso aperto, ma il Re si vanta della sua autorità e della sua decisione, pur con l’animo oppresso dall’incertezza riguardo le intenzioni di Andromaca, che non pare proprio disposta a… dargliela!

Ora tocca ad Oreste entrare in scena ed esporre subito la lancinante contraddizione che ne caratterizza la personalità: il suo amore non corrisposto per Ermione; e l’ingrato compito che lo attende, che ha risvolti per lui esiziali: convincere Pirro a dimenticare Andromaca, giustiziarne il figlio e quindi inducendolo a tornare da Ermione, col che lui perderebbe per sempre la sua amata!

Inizia adesso l’azione vera e propria. Pirro convoca Oreste e i greci per ascoltarne le ragioni, presenti anche Ermione e Andromaca. Dopo che Oreste lo ha invitato a liberarsi dei troiani, in particolare di Astianatte, Pirro, con tono arrogante, dichiara apertamente le sue determinazioni: impalmare Andromaca e porre in futuro Astianatte sul trono, ignorando bellamente il mortale rischio che ciò farebbe correre alla Grecia.

Ermione si dispera, mentre Oreste, ovviamente, spera (mors tua… etc,) Ma Andromaca ha fatto sapere a Pirro di non accettare le sue profferte. Al che il Re non esita a ricattarla, ipocritamente offrendo, per ingelosirla, la sua mano ad Ermione, e contemporaneamente gettando Astianatte, perché venga giustiziato, nelle mani di Oreste, che quindi raggiungerebbe il fine politico, ma a spese di quello sentimentale. Un mirabile concertato generale ci propone le quattro diverse attitudini dei protagonisti rispetto a questa drammatica quanto insostenibile situazione.   

Andromaca allora non vede altra via d’uscita che quella - poi scopiazzata in più di un melodramma - di fingere di promettersi a Pirro per averne in cambio il giuramento di salvar la vita al figlio, per poi suicidarsi prima di concedersi a quell’invasato. È in quest’atmosfera carica di tensione e incertezza che si chiude – con un finale concertato -  il primo atto.

Il secondo si apre con Pirro che esulta, informato della decisione di Andromaca di accettare le sue profferte. E proprio i due sono protagonisti di un incontro dove la gioia del Re, che finalmente vede coronarsi il suo sogno, si scontra con il cruccio di Andromaca, ormai preparata all’estremo sacrificio pur di salvare il figlioletto.

Dopo un fugace incontro-scontro di Ermione con la povera Andromaca, oggetto del disprezzo della prima, che ne ignora il tremendo stato di necessità, eccoci arrivati alla gran scena di Ermione. Davvero il compendio di tutte le straordinarie novità introdotte da Rossini: si va dalla vana speranza di un ripensamento di Pirro, alla constatazione del crollo di ogni prospettiva futura, al risentimento contro l’uomo che l’ha tradita e la donna che è stata causa del tradimento! 

Ora ci si avvicina allo scioglimento del dramma. E ci pensa Ermione ad… accontentare tutti: consigliata dalla fida Cleone, che le suggerisce di usare la sua influenza su Oreste - uno che per lei sarebbe disposto a tutto, per amore e per… esperienza pratica - finge di accettare le smanie di cui costui la fa bersaglio, lo convince a ripetere quel gesto di cui lui è ormai specialista universalmente riconosciuto: ammazzare il fedifrago Pirro! Omicidio che Oreste compie, non senza schizofreniche dissociazioni psichiche. 

Ma la stessa Ermione, in una seconda scena di altissima drammaticità, pentitasi subito dell’ordine impartito ma ormai non più revocabile, altrettanto schizofrenicamente maledice il sicario, al quale non resta che lasciarsi trascinare via dai compagni di missione.

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Beh, se ancor oggi noi scafati spettatori del terzo millennio, passati attraverso mille esperienze e rivoluzioni (e vessazioni?) restiamo sconvolti ed allibiti di fronte a simile esplosione di creatività musicale, possiamo capire perché per quasi 150 anni nessuno più si curò di tale autentico tesoro nascosto, meritoriamente ritrovato qui da noi negli anni’70 e poi definitivamente riportato alla ribalta dalla Fondazione Rossini e dal ROF.
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Johannes Erath ci propone una scena (di Heike Scheele) praticamente fissa, un ambiente incastonato in una cornice di neon (luci di Fabio Antoci) e abitato ora da personaggi della corte di Pirro, in abbigliamento moderno e vistoso (costumi di Jorge Jara) e dediti a libagioni e gozzoviglie, ora dal coro (il popolo dell’Epiro) rigorosamente in anonimi abiti neri. La passerella che circonda l’orchestra è parsimoniosamente impiegata per accogliere, portandoli proprio alla ribalta, i più drammatici incontri fra le coppie (Ermione-Pirro o Ermione-Oreste).

Sullo fondo della scena e ai due lati appaiono saltuariamente immagini marine (video di Bibi Abel) oppure i palchi del Teatro Rossini. Fin troppo invadente l’impiego di un mimo ad impersonare l’immanente presenza di Cupido, le cui frecce (da guerre stellari) sortiscono peraltro (come vuole il soggetto di Tottola) solo esiti nefasti. Eccessivamente duro mi è parso il trattamento riservato al povero Astianatte, perennemente bistrattato da tutti (mamma esclusa, per fortuna…)

Per il resto, la gestione dei personaggi è assai curata, mettendo nel dovuto risalto tutti i lati deteriori delle rispettive psiche.

In sintesi, una proposta intelligente e di buon gusto, ma soprattutto aderente allo spirito del testo.

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Torno ora al piano sonoro, ribadendo la meticolosa attenzione riservata da Mariotti ad ogni minimo dettaglio della partitura, testimoniata da passaggi in punta di cesello, affidati a strumenti solisti, a improvvisi strappi e scoppi orchestrali per sottolineare ogni sfumatura delle menti disturbate dei protagonisti. E una maniacale attenzione al canto, dei singoli e del coro, sempre guidati con millimetrica precisione. Più che meritata la lunga ovazione finale per il Direttore di casa.

Ma come non lodare il coro del Ventidio Basso e il suo curatore Giovanni Farina, alle prese con compito assai gravoso e fondamentale nell’economia dello spettacolo; compito assolto con il massimo dei voti per compattezza, potenza e omogeneità di suono.

Anastasia Bartoli è stata ancora una volta la trionfatrice della serata: voce senza sbavature, svettante nella parte alta della tessitura e davvero imponente negli sfoghi di passione e odio di questo personaggio: delirio per lei dopo la grande scena, e meritate ovazioni all’uscita finale.

Enea Scala non mi aveva convinto alla prima ascoltata per radio: acuti spesso ingolati e con vibrato piuttosto sgradevole. Ieri devo dire che si è – in buona misura – riscattato, anche se mi limiterò a dargli una piena sufficienza, non di più. Il pubblico per la verità è stato assai più indulgente, riservandogli un’accoglienza calorosa.

Assai più calorosa ancora quella ricevuta da Florez, che sa supplire con mestiere ed esperienza alle purtroppo naturali conseguenze… dell’età, ecco. In ogni caso, il suo è un Oreste forse meno svalvolato di quanto Tottola e Rossini non lo dipingano in versi e note, ma il suo carisma resta tuttora intatto.

Chi dalla ripresa radiofonica aveva tratto vantaggi forse eccessivi è stata l’Andromaca di Viktoria Yarovaya, che dal vivo ni è parsa meno autorevole, in specie bella parte bassa della tessitura, non proprio impeccabile.

Hanno confermato invece le buone impressioni sia Antonio Mandrillo (Pilade) che Michael Mofidian (Fenicio): voci ben impostate su tutta la gamma, che gli hanno meritato anche l’applauso dopo il loro siparietto nel finale. Oneste le prestazioni di Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Davvero una bella serata di musica, che il foltissimo pubblico della Vitrifrigo Arena ha accolto con grande entusiasmo.


08 agosto, 2024

Il ROF-2024 alla radio.

Radio3, fedele alla tradizione, irradia le prime del Festival, che quest’anno sono quattro e non tre, in omaggio allo status di Capitale italiana della cultura di cui gode Pesaro per il 2024.

Rompere il ghiaccio, nel rinnovato Auditorium Scavolini, è toccato a Bianca&Falliero, alla quarta presenza al ROF (dopo 1986-89 e 2005). A guidare dal podio la OSN-RAI era Roberto Abbado; Giovanni Farina ha diretto il Coro del Teatro Ventidio Basso.

Nei quattro ruoli principali figurano due (ormai) vecchie glorie del ROF: le voci acute di Bianca di Jessica Pratt e di Contareno (suo padre!) di Dmitry Korchak; affiancate da quelle più gravi di due promesse già battezzate al ROF in anni recenti: il(la) Falliero di Aya Wakizono e il Capellio di Giorgi Manoshvili.

Premesso che l’ascolto tecnologico ha sempre i suoi limiti, mi sento di giudicare positivamente la prova di Abbado, almeno sul lato delle agogiche. Bene anche il coro di Farina.

Quanto alle voci, la Pratt ha subito approfittato delle opportunità di coloratura offerte da Rossini per sciorinare i suoi proverbiali sovracuti (DO#, RE e persino MI) chiudendo il rondò finale con uno stentoreo e lunghissimo MIb. La cantante aussie ormai di casa qui da noi mi è parsa anche la voce più centrata sul personaggio.

Non così le altre tre voci. Korchak più che discreto, ma forse questa parte di bari-tenore non gli è proprio congeniale (ascoltare il Merritt del 1986…) così lui se l’è cavata sopperendo con il mestiere. Per la Wakizono stesso discorso: voce assai bella ed espressiva, ma non certo di contralto (ascoltare la Horne del 1986 ma anche la Barcellona 2005…) anzi di mezzo spinto (DO acuti come nulla fosse) che soprattutto nei duetti con Pratt si faticava a distinguere dal soprano. Fin troppo grave e cavernosa invece la voce di Manoshvili. Doveroso segnalare anche la Costanza di Carmen Buendìa, il Doge di Nicolò Donini, e poi Claudio Zazzaro e Dangelo Dìaz.

Accoglienza per tutti più che calorosa, anche se… ristretta. Forse il pubblico era esausto per l’autentica maratona durata dalle 20 fin quasi a mezzanotte! In effetti l’opera mostra tutte le sue contrastanti caratteristiche: quelle di una summa di tutto lo scibile del teatro musicale messa insieme da Rossini a partire dalla Camerata dei Bardi per arrivare ai giorni suoi, Beethoven incluso! Lunghissime scene, duetti, terzetti, quartetti e concertati con coro di splendida ma ipertrofica fattura, alternate a recitativi accompagnati in declamato e pure a recitativi secchi (ieri proprio nulla è stato tagliato!)


Insomma, ci si spiega ancor oggi la reazione ammirata del pretenzioso pubblico della Scala del 1819, ma anche la contemporanea stroncatura degli spocchiosi critici di allora.   
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2. L’equivoco stravagante.

Quarta comparsa al ROF (dopo 2002-08-19) anche per La terza opera di Rossini (seconda ad essere rappresentata) che ha fatto riaprire i battenti al glorioso Teatro intitolato al Maestro e rimesso in sesto dopo il terremoto del 2022 che ne aveva compromesso la sicurezza.

Opera che – causa bando dai teatri per divieti di censori-bacchettoni - ha generosamente imprestato sue parti a parecchie sorelle arrivate dopo di lei; citerò solo tre macroscopici esempi: il Coro introduttivo dell’Atto II, che verrà reimpiegato in Ciro in Babilonia e poi in Tancredi; il quintetto dell’atto II (Speme soave) ripreso nel corrispondente Spera se vuoi (Pietra di paragone, a 21’55”); e l’aria finale di Ernestina (qui a 43”) passata ancora nella Pietra di paragone a Clarice (qui a 1’28”).

Michele Spotti (al suo terzo impegno importante al Festival: Barbiere streaming 2020 e Bruschino 2021) sta facendo grandi progressi e ha diretto da par suo la Filarmonica Rossini, dando un taglio davvero mozartiano a questa partitura del todeschino, che al Teofilo si ispirò assai nei suoi primi anni di carriera. Mirca Rosciani ha guidato il Coro del Teatro della Fortuna ad una prestazione più che apprezzabile.

Oltre a orchestra e coro, anche il cast è totalmente rinnovato rispetto alla stessa produzione del 2019 (allora ospitata nella smisurata Vitrifrigo Arena). Artisti quasi tutti (Alaimo escluso) di recente frequentazione dell’Accademia. La debuttante nel cartellone principale del ROF, Maria Barakova, veste i panni della protagonista Ernestina, alla quale presta in modo convincente (cavatina, duetti e rondò finale) la sua bella e calda voce di mezzosoprano lirico. 

I due buffi sono il navigato trascinatore Nicola Alaimo (Gamberotto) e il quasi esordiente (dopo la Cambiale del 2018) Carles Pachòn (Buralicchio): entrambi degni di elogio nelle rispettive cavatine/arie ma anche nel duetto (con gag) del primo atto e nei concertati.

Pietro Adaìni (già nel Turco del 2018 e ne La Gazzetta del 2022) impersona il romantico Ermanno e lo fa con buon profitto: voce squillante e acuti (incluso un DO#) senza sbavature.     

I suoi due sodali per la conquista della cinica Ernestina (Rosalia e Frontino) sono Patricia Calvache (praticamente all’esordio) e Matteo Macchioni, già presente nella Gazza del 2015 e in Adina del 2018. Anche per loro (cui Rossini riserva le classiche arie da sorbetto) note più che positive.

Da ultimo sottolineo ancora il perfetto affiatamento di tutti nei pezzi d’insieme: duetti, quartetto, quintetto e finali d’atto.

Insomma, almeno all’ascolto radio, una riproposta più che positiva.

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3. Ermione.

Ermione rappresentò per Rossini un (fugace) momento di rottura dei collaudati schemi (napoletani) dell’opera seria, tanto che fu categoricamente bocciata dal pubblico e messa in naftalina dallo stesso compositore, per essere poi dimenticata lì per decenni. Questa fu – ante-litteram – un’operazione di tipo breakthrough (come usano dire i moderni barbari…) che solo 30 anni dopo troverà il massimo epigono in tale Wagner!

Se oggi ne possiamo apprezzare tutta la straordinaria modernità, è soprattutto grazie al recupero fattone dalla Fondazione Rossini e dal ROF, che lo mette in scena oggi per la terza volta, dopo 1987 e 2008.

E poi - ça va sans dire – il merito va anche riconosciuto a Direttori come Michele Mariotti, che la concerta qui per la prima volta proprio a casa sua, sapendone esaltare tutte le straordinarie qualità e la grande varietà di accenti, dal dolente, al lirico, alle esplosioni degli animi esacerbati. In ciò assecondato alla grande dalla OSN-RAI, davvero senza una sola sbavatura, e dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.

Ma anche il cast ovviamente conta, e quello messo in campo in questa produzione ha avuto la sua punta di diamante nella protagonista, la sempre più convincente Anastasia Bartoli, già segnalatasi lo scorso anno come Cristina: davvero torreggiante, soprattutto nelle due grandi scene del second’atto.

Molto bene anche l’appassionata Andromaca di Viktoria Yarovaya, anche lei ormai veterana del ROF (esordio nel Demetrio del lontano 2010). 

Praticamente scontato il successo per il Direttore Artistico del Festival, tale J.D.F. (Oreste) ormai ultra-decano del ROF (esordio 1996!) che ha sciorinato il meglio del suo bagaglio virtuosistico. 

Maluccio, ahilui e ahinoi, il Pirro di Enea Scala. Al quale credo proprio manchi il phisique-du-role per questo personaggio. Senza scomodare il sontuoso Merritt, basterà aver presenti un Kunde o uno Spyres per fare confronti impietosi. Ma poi, a parte la vocalità naturale, ier sera mi è parso anche fuori forma, con difficoltà di intonazione, acuti gutturali e spesso ghermiti dal semitono sottostante, oltre ai gravi quasi inudibili. Peccato davvero!

Buone notizie invece per Antonio Mandrillo (Pilade) che ieri è stato, per meriti sul campo, il secondo e non il terzo tenore del cast.

Più che dignitose le prove di Michael Mofidian (Fenicio), Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamòn (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).

Comunque accoglienza calorosissima per tutti, con punte per Mariotti, Florez e Bartoli.

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4. Il barbiere di Siviglia.

Da quest’anno il Barbiere diventa recordman in solitaria in fatto di presenze al ROF (7, senza contare lo streaming dell’autunno 2020 in epoca Covid, contro le 6 della Scala). Consideriamolo un doveroso tributo a quella che è indiscutibilmente ancora l’opera più nota e gettonata del grande Gioachino.

E per omaggiarla se ne omaggiano quest’anno alcuni iconici interpreti. A partire da uno che calcò le scene del ROF, vestendo i panni di Assur, nel remoto 1992 (!!!) Michele Pertusi. Il quale ha cantato come DonBasilio nelle ultime apparizioni. E anche ieri la sua Calunnia ha mandato il pubblico in visibilio!

Un altro navigatissimo del ROF (Siége del 2000 dopo presenza in una kermesse del 1996) è Carlo Lepore, che impersona, come nello streaming del 2020, il mangiapane-a-tradimento Don Bartolo. Anche la sua è stata un’interpretazione sontuosa, che ha avuto la punta di diamante nell’aria del primo atto, caratterizzata da quella incredibile raffica di scioglilingua che lascia sempre di stucco. 

Ma a proposito di veterani, che dire di Patrizia Biccirè, che fu Giulia ne La scala di seta del 1992! E che già fece Berta nel 1997! E anche ieri ha raccolto ovazioni dopo a sua arietta del vecchiotto

Dopo i decani, ecco i promettenti giovani della nuova leva di cantanti rossiniani. Il protagonista è Andrzej Filonkzyk, in terminologia goliardica un fagiolo, essendo alla seconda apparizione al ROF, dopo il Raimbaud (Ory) del 2022. Il suo è un accattivante Figaro: voce potente, buon portamento, subito esibiti nella celebre cavatina d’esordio. Certo, l’esperienza gli gioverà per migliorare ancora. 

Come lui, viene dall’Ory di due anni fa anche la Rosina di Maria Kataeva. E anche per lei vale lo stesso discorso: una prova superata con voto più che discreto, voce dal timbro morbido, bene impostata su tutta l’ampia tessitura mezzosopranile, oltre a buona sensibilità interpretativa.   

Jack Swanson (già Florville nel Bruschino del 2021) è oggi il lezioso Conte/Lindoro, cui ha prestato la sua bella voce chiara e dagli acuti squillanti. Anche per lui il futuro si prospetta roseo, a patto di continuare a... studiare.

Alla terza uscita (dopo 2018 e streaming 2020) come Fiorello/Ufficiale è William Corrò, che ha dato il suo valido contributo al buon successo della serata.

Successo propiziato dall’energica direzione – tempi a volte persin troppo parossistici - di Lorenzo Passerini, alla guida della solida Sinfonica Rossini, ben coadiuvati dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina.   

Insomma, un Barbiere più che positivo, un’esibizione che il pubblico ha giustamente accolto con grandissimo calore.

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Ecco, chiuso il ciclo radiofonico delle prime, ora non mi resta che assistere dal vivo… dopo Ferragosto.

Ma intanto, Ernesto Palacio ha già annunciato il cartellone del 2025:

·       Zelmira (Sagripanti/Bieito)

·       Italiana (Korchak/Cucchi)

·       Turco (Ceretta/Livermore)

·       Messa per Rossini