In
un teatro non propriamente esaurito ha fatto ieri
ritorno dopo 25 anni La
Gioconda nella nuova produzione targata Chaslin-Livermore. Dirò subito che ha avuto un’accoglienza tutto
sommato positiva (unica vittima dell’unico e isolato buh piovuto dalla seconda galleria il malcapitato Direttore) pur non
essendo(mi) parsa di livello eccelso, ecco.
Parto dalla... polpa, cioè da suoni e
voci. Intanto segnalando, dopo quella della Yoncheva, anche la defezione del tenore
titolare (Sartori) rimpiazzato all’ultimo da Stefano La Colla, che per la verità ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, sul quale però
il corpo (cioè la voce...) è incorso in qualche inciampo, soprattutto
all’esordio, magari causato dalla comprensibile emozione (anche se per lui non
era proprio un esordio in Scala, essendo stato già stato un discreto Ismaele e
prima ancora Calaf). Via via si è però rinfrancato ed ha portato a casa la pagnotta.
Saioa Hernandez è stata la trionfatrice
della serata. Col tempo meritoriamente migliora (la ricordavo nel ruolo 4 anni
fa, con qualche pecca) e la sua vociona è oggi meglio... disciplinata, ecco:
per lei lunghi applausi dopo l’aria che apre l’atto conclusivo. Le han dato man
forte (nei duetti) le altre due donne del cast: Daniela Barcellona, impeccabile Laura per emissione e portamento; e
Anna Maria Chiuri, una Cieca efficace
e commovente (cui Livermore ha dato anche più spazio del prescritto, come
vedremo).
Degli altri due protagonisti maschi dirò
benissimo (e il pubblico ha confermato il giudizio) di Erwin Schrott, praticamente perfetto come
Alvise e lungamente applaudito a scena aperta dopo l’aria che apre l’Atto
terzo; un filino sotto metterei il navigato Roberto
Frontali, che ha forse ecceduto nel caricare negativamente la figura dello
spione, con qualche acuto un po’ troppo... ringhiante.
Tutti onestamente all’altezza del
compito i quattro comprimari (Reggi,
Valerio, Pittari e Bussolini).
Cori (di Alberto Malazzi i grandi e
del venerabile Mario Casoni i
piccoli) in gran spolvero, meritatamente applauditi a lungo.
Che dire del Kapellmeister? Frédérick Chaslin era (così pare) al suo
primo incontro con Gioconda e devo dire che (a parte qualche eccesso bandistico
qua e là) ha cercato di scavare - come evidentemente comporta la sua attitudine
alla composizione - nei dettagli della partitura per metterne in risalto le
tante sfumature e gli aspetti innovativi (che daranno spunti anche a sinfonisti
come Mahler). Ne è uscita un’interpretazione (apparentemente?) dimessa e priva
di smalto e brillantezza, tanto che il pubblico (a parte l’isolata
contestazione) non pare avere apprezzato più di tanto.
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Davide Livermore perde il pelo ma non il vizio (in senso buono, dico) della
celluloide: nella breve presentazione del suo Konzept sul programma di sala tira
in ballo il Fellini di Casanova e i fumetti veneziani di Moebius. Poi però all’atto pratico il
tutto si materializza in... effetti senza cause.
La scenografia (di Giò Forma) prevede nei due atti dispari
una struttura cubiforme che racchiude rispettivamente il ponte di Rialto, il
Palazzo ducale e la Ca’ d’Oro: struttura che viene fatta via via ruotare
di 360° per presentare prospettive diverse (a teatro, a differenza del cinema, la
macchina da presa, che è l’occhio dello spettatore, è forzatamente in posizione
fissa, così per esplorare il mondo, si fa... girare il mondo). Nei due atti pari
abbiamo rispettivamente un onirico brigantino, con stiva trasparente, e... il vuoto
desolato del Canal Orfano. Saltuariamente un gigantesca cornice (Venezia è la
patria dei dipinti) scende ad incorniciare (appunto) un panorama o più spesso
dei tableau vivant o ancora dei video astratti (D-WOK) più o meno appropriati.
I
costumi di Mariana Fracasso sono plausibilmente seicenteschi, con maschere
veneziane che toccano l’apice in quella di Laura, recante ai due lati un paio
di... corna di bufalo indiano (!) Le luci (Antonio
Castro) sono intelligentemente sfruttate per esaltare le scene di festa (Ore
incluse) o per incupire quelle di dramma.
Dignitosa
la coreografia di Frédéric Olivieri e lodevoli gli Allievi della Scuola di Ballo
dell’Accademia, protagonisti di un’apprezzabile Danza delle Ore.
Per
il resto, movimenti delle masse abbastanza stucchevoli e qualche tocco più o
meno gratuito che Livermore si è permesso di inventare, come il fugace incontro
fra Enzo e Laura in mezzo alla folla festante a fine del primo atto, o come la
presenza di una controfigura della medesima Laura (ufficialmente morta)
sdraiata su un lampadario durante il balletto.
Ma
è proprio il finale a venire dal regista re-interpretato in modo piuttosto
discutibile: la Cieca torna in scena accanto alla figlia e insieme cantano la
profezia del rosario; poi, al posto
della conclusione dura e verista di Boito (Gioconda che si trafigge e Barnaba
che si accusa dell’omicidio della Cieca e fugge imbufalito e imprecante) ecco
che allo spione viene recapitata una controfigura rappresentante la salma della
cantatrice, mentre la Gioconda in carne ed ossa si riunisce con la madre in...
paradiso (?) Insomma, una chiusura consolante che contraddice - pare a me -
quella originale.
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In
conclusione: uno spettacolo non più che discreto, certamente al di sotto del
livello di altre produzioni della stagione in corso.