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31 luglio, 2011

Bayreuth: oggi e domani


Il ciclo delle 5 prime si è concluso venerdì 29 ed è già cominciata la prima tornata delle 5 repliche.

Per quanto si può giudicare dall'ascolto tecnologico, dopo il piuttosto deludente Tannhäuser di apertura abbiamo avuto un sufficiente Meistersinger, un discreto Lohengrin (bravo Vogt) un buon Parsifal, grazie a Gatti, che migliora di stagione in stagione, ma soprattutto al grandioso Youn, e un passabile Tristan (dove Robert Dean Smith non ha per nulla demeritato).

La novità 2011 era l'allestimento di Baumgarten, a confronto del quale – per quanto si legge – quello del suo modello Götz Friedrich, che fece scandalo nel 1972, diventa una sacra opera d'arte. L'ambientazione è in un impianto di riciclaggio di materiale organico, che indubitabilmente (per il regista, spero) deve aver a che fare con qualche nascosto e misterioso significato dell'opera. A me fa venire in mente una vecchia barzelletta stupida, dove si descrive una macchina super-tecnologica che trasforma la merda in burro. Il giorno dell'inaugurazione dello stabilimento, al ministro che ha tagliato nastri e fatto discorsi epocali viene offerta una fetta di pane spalmata del portentoso burro. Eccellente! esclama costui… peccato per quel retrogusto di merda!

Il 14 si potrà vedere su ARTE (ore 17:15) una quasi-diretta del Lohengrin di Neuenfels (per quello di Wagner bisognerà aspettare ancora, smile!) Intendiamoci, Neuenfels non è un Baumgarten qualunque e dal suo cervello escono quasi sempre delle cose super-cazzute. Il suo Konzept – la società umana assimilata nei suoi comportamenti a colonie di ratti - è qualcosa di assolutamente coerente e profondo; in più, con pochi ritocchi, potrebbe essere impiegato - guarda caso - anche per Tannhäuser, ovviamente per Parsifal e magari anche per Turandot (quella con il finale di Berio, però…)

A proposito di regìe, le due cugine (così insiste a definirle l'anagrafe di Radio3) che guidano il baraccone hanno quasi l'acqua alla gola riguardo il Ring del bicentenario: mancano meno di 2 anni e ancora non c'è il regista! Così, dopo il recente clamoroso rifiuto di Wim Wenders, le poverette (soprattutto Kathi, che è esperta in materia) pare non abbiano trovato di meglio che ingaggiare Frank Castorf, un ex-DDR ammiratore di Stalin che è famoso per trasformare grandi opere teatrali in pezzi di commedia dell'arte, dove gli attori sulla scena inventano al momento ciò che debbono fare e recitare, fregandosene altamente dell'originale: parrebbe precisamente ciò che serve per la Tetralogia! Oppure chissà se vedremo Wotan nei panni di Hitler e Alberich in quelli di Stalin… O magari un Ring ambientato in medioriente, con Wotan=Nasser, Alberich=BenGurion, Siegfried=Arafat e Gutrune… Golda Meir (smile!)

A proposito di Palestina, c'è una notizia che invece parrebbe confortante: la Israel Chamber Orchestra (guidata da Roberto Paternostro) ha dato un concerto nell'auditorium di Bayreuth, suonando musiche di Wagner e di autori ebrei. Senza aspettare, come reclama l'ambiguo Gottfried, pronipote di Richard, che si aprano completamente gli archivi di Wahnfried per scoprirvi... l'acqua calda.   
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25 luglio, 2011

Bayreuth al via


In realtà, una falsa partenza.

Direzione approssimativa e fredda, Tannhäuser in evidente affanno (nonostante un paio di abbuoni ricevuti nei primi due atti) e Venere semplicemente ridicola, proprio da Corrida. Appena sufficiente Elisabeth, passabile il Langravio e discreto Wolfram. Ed era la versione di Dresda… Un po' pochino, effettivamente.

E la regìa? Buh.

Le cugine (stando a Radio3) sono servite.
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18 luglio, 2011

Bayreuth (festival) compie 100 anni


Il prossimo lunedi 25 luglio si apre la centesima edizione del Festival di Bayreuth. Come pure la prossima, sarà priva di Ring, in attesa del grande evento (?!) del bicentenario nel 2013.

Ad inaugurarla sarà l'opera meno eseguita lassù: Tannhäuser, che prima delle 6 di quest'anno ha contato soltanto 196 rappresentazioni. Si avvicinerà quindi all'Holländer, che ne ha 203 e che dovrebbe tornare nel 2012 (con Thielemann, si dice). Probabilmente a chiamare il pubblico a prender posto in sala saranno queste note dei corni:

 
Nonostante sia stato costruito per la Tetralogia, il Festspielhaus l'ha poi ospitata per 212 volte (più qualche giornata isolata) mentre il record di rappresentazioni è largamente detenuto da Parsifal (507, escluso il 2011) che precede Meistersinger (301).


Le date di esordio a Bayreuth dei drammi wagneriani, dopo l'apertura del Ring nel 1876, sono state: 1882 Parsifal, 1886 Tristan, 1888 Meistersinger, 1891 Tannhäuser, 1894 Lohengrin e infine 1901 Holländer. È ora aperto il dibattito sull'opportunità di rappresentare anche le tre opere giovanili di Wagner, in primo luogo Rienzi: la biondissima Kathi, co-reggitrice del Festival con la sorellastra Eva, ha più volte lasciato balenare questa idea e si è anche personalmente preparata, firmando (fuori da Bayreuth) la regìa del grand-opéra del bisnonno.

Quanto alla Direzione del Festival, rimase nelle mani del fondatore fino al 1882; morto Richard, passò alla terribile Cosima, che per i primi due anni (1883-1884) si limitò a ripresentare Parsifal secondo le direttive del (secondo) marito; poi, dal 1886 prese in mano le redini organizzative e diede vita a quella lunga stagione (chiusasi di fatto in piena seconda guerra mondiale) che portò Bayreuth - attraverso le direzioni del figlio Siegfried (1908-1930) e della di lui moglie Winifred (1931-1944) - al massimo splendore e contemporaneamente alla massima onta (la collusione con Hitler e il nazismo). Festival riaperto nel 1951 con alla testa i fratelli Wieland e Wolfgang (figli di Siegfried, e per nulla immuni dal nazi-virus) che lo condussero insieme fino al 1966, anno in cui Wieland tirò le cuoia, lasciando tutto il potere a Wolfgang, che lo ha detenuto (in realtà coadiuvato e ultimamente di fatto sostituito dalla seconda moglie Gudrun) fino al 2008. Poi il testimone è passato alle figlie di Wolfgang: Eva, avuta dalla prima moglie, e Kathi, dalla seconda, che sono quindi alla terza stagione di direzione. Il tutto in barba al (teorico) principio secondo cui – essendo oggi la Fondazione del Festival di diritto pubblico e non privato – chiunque, e non solo discendenti più o meno indegni del maestro, sarebbero intitolati a comandare il baraccone.

Fuori dai giochi sono rimasti, fra gli altri, Gottfried, figlio di Wolfgang, che dopo aver operato a fianco del padre per qualche anno (fu anche membro del team che rappresentò il controverso Ring del centenario, con Boulez-Chéreau, nel 1976) ha rotto tutti i ponti con Bayreuth diventando un feroce accusatore dei trascorsi nazi della famiglia, e Nike, figlia di Wieland, che contese nel 2008 alle cugine il posto di direttrice del Festival e che da allora non perde occasione per criticarle aspramente. Quest'anno le motivazioni dei suoi attacchi alla coppia Eva-Kathi riguardano la contrarietà di queste ultime ad ospitare al Festspielhaus il 22 ottobre una commemorazione per i 200 anni dalla nascita di Franz Liszt (gran benefattore di Wagner e pure suo suocero…) e per aver snobbato del tutto un'altra ricorrenza, i 60 anni dalla riapertura del Festival dopo la guerra, pur di non dar risalto ai grandi meriti di suo padre Wieland.

Veniamo ai Kapellmeister. A dispetto di tutta la retorica sull'antisemitismo di Wagner e dei suoi discendenti e bidelli, è un ebreo a detenere il record di podi giù nell'Orchestergraben del Festspielhaus: Daniel Barenboim lo ha infatti calcato per ben 161 volte, dal 1981 al 1999). Lo seguono il compianto Horst Stein (138 podi, da 1969 al 1986) e Peter Schneider, che dal 1981 ha totalizzato 130 podi e che dirigerà anche quest'anno (6 Tristan) portandosi quindi vicinissimo a Stein. Poi vengono James Levine (117) e l'attuale direttore musicale de-facto del Festival, Christian Thielmann (111). Cinque gli italiani che hanno avuto l'onore di dirigere lassù: Toscanini (18), de Sabata (6), Erede (7), Sinopoli (94) e Gatti (presente anche quest'anno con Parsifal, e che salirà a quota 23). Fabio Luisi, scritturato per un Tannhäuser del 2007, dovette invece rinunciare per problemi di salute. Fra i grandi nomi di oggi che non hanno mai messo piede sulla collina verde: Zubin Mehta, Georges Prêtre, Claudio Abbado, Seiji Ozawa, Simon Rattle, Riccardo Muti, Will Humburg, Semyon Bychkov, Valery Gergiev, Kent Nagano, Esa-Pekka Salonen, Mariss Jansons… e mi perdonino altri pur meritevoli. Dopo Andris Nelsons nel 2010, anche quest'anno ci sarà un esordiente: Thomas Hengelbrock, proprio nel Tannhäuser inaugurale.

In mancanza di specifiche comunicazioni in proposito, sarebbe da assumere che la versione di Tannhäuser che verrà messa in scena (con la regìa dell’altro esordiente Sebastian Baumgarten) sia quella mista (Dresda-Parigi) a suo tempo proposta dal grande Wieland. Anche il protagonista è un esordiente (a 53 anni!): il carneade svedese Lars Cleveman (ma, come diceva un gran maestro: non è mai troppo tardi!)

Da lunedì 25 a venerdì 29 luglio, sempre alle ore 16, verrà rappresentato il primo ciclo delle 5 opere in programma. L’ascolto radiofonico sarà garantito da Radio3 (escluso però il Tristan del 29) e da molte altre stazioni e web-radio europee. Il 14 agosto ARTE trasmetterà in video la quarta rappresentazione del Lohengratt. 

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16 luglio, 2011

Ultima di Attila alla Scala


Ieri sera ultima levata di sipario alla Scala prima della chiusura estiva, con Attila, nell'edizione dell'accoppiata Luisotti-Lavia. Teatro non proprio esaurito, ma perlomeno non così penosamente semivuoto, come lunedi scorso per l'Italiana.
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Su Attila se ne leggono di tutte. Opera del Verdi giovane e ancora immaturo (dopo Nabucco?) Del Verdi bandistico (ma non rinunciò proprio qui alla banda?) Del Verdi polacco (zumpara-pappa-pappa). Opera dalle vocalità impossibili. E così via ridimensionando. Certo, anche il Wagner del Lohengrin non è quello del Parsifal (toh!) e allora dovremmo bruciare quelle partiture giovanili e conservare solo Otello e Parsifal? No, grazie, dateci pure Attila e Lohengrin a colazione, pranzo e cena. Otello e Parsifal solo a Natale e Pasqua, dopo adeguati Avventi e Quaresime.

Insomma, sarà anche immatura, primitiva e pure barbara (smile!) ma personalmente trovo Attila un'opera musicalmente entusiasmante: a dispetto della struttura ancora tradizionale, a numeri, non lascia cadere la tensione nemmeno per un attimo; essenziale, concisa, mai prolissa. Sì, ci sono per lo più scene eroiche (con relativi fracassi e retorica) con frequenti irruzioni di cori a tutta forza, come nella cabaletta di Foresto in chiusura del prologo:
C'è tanta enfasi, come nell'attacco della cabaletta di Attila Oltre quel limite, con il suo inconfondibile (e tanto bistrattato, dai detrattori) ritmo di polacca, già comparso nella cabaletta iniziale di Odabella e che ritroveremo con Ezio, nell'Atto II:

Non parliamo poi del concertato del Finale II, con solisti, coro e tutti gli strumenti in ff, in un'autentica orgia sonora.

Ma vi troviamo anche scene liriche, dove emergono i sentimenti e gli stati d'animo, le superstizioni e la fede. O dove protagonista è la Natura, come nel sorgere del sole sulla laguna (per il quale Verdi trasse ispirazione da Le Désert di David) evocato con grande parsimonia di mezzi: un solo flauto e i violini primi, cui si aggiungono il secondo flauto e i violini secondi, poi un oboe, quindi le viole (sempre sottovoce) poi i violoncelli e un clarinetto, quindi un corno e infine i fagotti, in un lento ma continuo ispessimento del suono che bene rende il progressivo irrompere della luce sulle calme acque di Rio Alto:
fino all'esplodere del DO maggiore che sostiene il canto – L'alito del mattin – degli eremiti. E come non restare ammirati dalla semplicità disarmante del motivo in LAb - quattro misure, ripetute tre volte - che introduce ed accompagna l'accorato Non involarti, seguimi di Attila, all'inizio del quartetto conclusivo:
Insomma, in Attila ci sarà magari poca cerebralità, ma in compenso c'è vena genuina in grande abbondanza.
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Sulla plausibilità del libretto e sull'aderenza dello stesso (e della relativa fonte di Zacharias Werner) ai fatti storici sarebbe eccessivo pretendere troppo: al servizio del dramma e ad uso e consumo del pubblico italico di metà '800, le vicende storiche di Attila vennero assai manipolate, attingendo ampiamente (ed anche con libere storpiature) ad antiche saghe e leggende.

Intanto è storicamente assodato che l'Unno mai e poi mai arrivò nei paraggi di Roma, come vuole il libretto (e come già aveva fantasiosamente dipinto Raffaello in Vaticano, cui Verdi si ispirò): in realtà, nella sua spedizione contro la capitale dell'Impero non attraversò neanche il Po, fermandosi a Governolo, in quel di Mantova. Sì, perché dopo aver raso al suolo Aquileia, Attila aveva continuato invece a spostarsi da est a ovest, porgendo visite di cortesia a Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e finalmente a Milano. In pratica tracciando con ferro&fuoco il percorso originale dell'autostrada Attila-IV (oggi: A4, smile!) E a Governolo, dopo l'incontro con Papa Leone, avrebbe deciso di rinunciare. E questo è ciò che si riscontra effettivamente anche nel libretto dell'opera fino alla fine dell'Atto I. Poi, miracolosamente, nell'Atto II troviamo Attila alle porte di Roma: potenza delle leggende e delle incongruenze dei libretti d'opera!

Nella realtà storica, convinto dalla minacciosa autorità di Papa Leone - ormai la Chiesa era divenuta più importante e potente dell'Impero (primato che detiene tuttora, smile!) - ma anche dai suoi propri luogotenenti e dallo stato penoso in cui versava la truppa - fatta di gente abituata a mangiar radici selvatiche e pezzi di carne pressata fra le proprie chiappe e il dorso dei cavalli che montava, e a cui la dieta mediterranea (Oh lauta mensa, che a noi sì ricco suol dispensa) giocava brutti scherzetti – il nostro decise di tornarsene a casina, laggiù in Pannonia (non prima però di aver fatto qualche razzìa su dalle parti di Augsburg). E fu a casa propria che, sposatosi per l'ennesima volta – tanto per consolarsi della momentanea rinuncia al Campidoglio – ci lasciò le penne, soffocato dal suo stesso sangue, sgorgatogli dal naso durante il pesante sonno provocato dalle abbondanti libagioni seguite al matrimonio.

I dietrologi – prevedendone saggiamente l'impiego nel melodramma verdiano, smile! - hanno poi inventato la storia dell'assassinio di Attila da parte della neo-moglie, una discendente dei Burgundi che si volle vendicare della strage del suo popolo perpetrata dagli Unni (su comando di Roma, guarda un po'!) E questa leggenda ha trovato posto, nei secoli successivi, in diverse saghe nordiche e germaniche. Una per tutte, la Völsunga Saga (che ispirò, per altri aspetti, anche Wagner): vi si legge che Gudrun, moglie di Attila (Atli, o anche Etzel o Eceln nel Nibelungenlied) decide di vendicare la strage che il marito ha fatto dei suoi parenti, in questo modo: ammazza i due figli avuti dall'Unno, ne cucina i cuori allo spiedo, mescola il loro sangue al vino, e poi serve il tutto in tavola al marito. Quando costui chiede dove siano finiti i ragazzini, lei lo informa, con la massima naturalezza, che lui stesso se li è appena mangiati e bevuti! La notte successiva, la simpatica mogliettina completa l'opera passando Attila da parte a parte, con la di lui spada.

Beh ecco, diciamo che Werner e poi Solera&Piave ci hanno meritoriamente risparmiato buona parte di questi eccessi orripilanti, tuttavia anche il disegno dell'italica Odabella (contendere all'amato Foresto l'onere e l'onore di far secco il flagello, correndo persino il rischio di mandare a meretrici tutto il piano faticosamente messo a punto dal medesimo Foresto con l'appoggio dell'ambiguo generale Flavio Ezio e dell'inaffidabile Uldino) appare sufficientemente contorto e persino più inverosimile di quello della sua parigrado burgunda. Per nostra fortuna a musicare questo polpettone fu tale Verdi, uno capace di cavar sangue (smile!) anche dalle rape.

A proposito di Odabella, la sua figura è solitamente avvicinata a quella di Abigaille. A me piace vederci anche un'anticipazione della Hélene dei Vêpres: analoghe le motivazioni alla vendetta nei confronti di un tiranno e musicalmente vicine anche le rispettive arie di esordio:
(Poi le sorti delle due eroine tenderanno a divergere assai).

In Attila compare – per la verità abbastanza di sfuggita e in modo superficiale, con qualche accenno a Wodan – anche il conflitto fra le ataviche religioni nordico-levantine e il Cristianesimo. Guarda caso, più o meno in quegli stessi anni, Wagner componeva Lohengrin, dove quel conflitto esplode invece in modo drammatico, e musicalmente straordinario, per tramite della straripante personalità di Ortrud.

Quanto ai presunti risvolti patriottico-risorgimentali del contenuto di Attila, varrà solo la pena di constatare come i personaggi di maggior peso politico che si oppongono all'invasore siano: un Papa (!) e un generale doppiogiochista (!!) I poveri Odabella e Foresto tutt'al più potranno incarnare il naturale risentimento popolare verso gli eccessi delle orde barbariche. In compenso, è proprio il condottiero barbaro il personaggio dell'opera che possiede e mostra la statura morale più alta e una indiscutibile nobiltà d'animo…
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E come ce l'hanno propinato, Lavia-Luisotti, questo capolavoro?

Gabriele Lavia – da velleitario esponente del Regietheater – si inventa un suo Konzept dell'opera: la barbarie permanente, o ricorrente. E lo rappresenta in tre scenari diversi, accomunati dalla presenza di teatri distrutti. Secondo lui, dalla barbarie, appunto, che si accanirebbe contro i luoghi in cui si racconta l'Uomo (così scrive sul programma di sala). Per il regista, l'Attila (quello di Verdi, si badi bene, perché è questa l'opera che lui deve mettere in scena!) incarna il Mito dell'oppressione, il Mito della privazione della Libertà, il Mito della fine della Verità di cui la Libertà è l'Essenza. Attila è la "Barbarie". Ora, come si possa conciliare questa vision con la trama e i contenuti del libretto e soprattutto della musica di Verdi, è un mistero che solo Lavia deve conoscere, beato lui! A noi, poveri pirla, non resta che fare un atto di fede nella sua superiore chiaroveggenza.

Peraltro pare che il nostro predichi male e razzoli… quasi bene: del suo Konzept restano solo le scene di teatri diroccati, mentre i personaggi escono abbastanza coerentemente con libretto e musica. Rivestiti peraltro da costumi bizzarri, tutta roba chiodata, da metallari, coperta dagli immancabili cappottoni DDR. Resta da dire di un dettaglio quasi comico nella scena del tentato avvelenamento di Attila, sventato da Odabella: già è al limite dell'assurdo nel libretto, ma Lavia fa ancor di meglio. Dunque: Odabella regge la coppa di vino destinata ad Attila; Foresto, sotto i suoi occhi, ci versa il contenuto della fiala col veleno; Uldino, lì accanto, prende la coppa e la reca al suo capo; dopodiché Odabella avverte Attila del pericolo. Una cosa semplicemente grottesca.

E veniamo quindi alla musica. Luisotti non fa sconti in fattura su enfasi e bordate di ff (che per Verdi, ligio alle convenzioni, significava il più forte possibile… solo i tardo-romantici inventeranno i fff e ffff); però sa anche dosare con discreta efficacia gli ingredienti più intimistici e lirici della partitura. Da incorniciare l'alba di Rio Alto, ben assecondata anche dalle luci. In un paio di occasioni invece si fa prendere la mano (o vuol proprio strafare): il Cara patria di Foresto inizia in Allegro assai moderato, poi sul verso ma dall'alghe di questi marosi si dovrebbe fare Poco animato, indi stringendo poco a poco; invece Luisotti passa di colpo e direttamente dall'Allegro assai moderato ad un Prestissimo degno del miglior Cipollini… Stessa solfa nel travolgente Finale II, dove si dovrebbe partire da un Allegro e poi passare a un Più animato e infine ad un Più mosso; il maestro invece salta tutti i passi intermedi e si butta a capofitto in un Allegro con fuoco tanto impressionante e strappa-applausi, quanto gratuito. Ma insomma, una direzione nel complesso accettabile, e ben supportata da un'orchestra compatta, che garantisce a Luisotti un gran trionfo finale.

Orlin Anastassov (che viene più o meno dai paraggi di Attila) ha dato forfait (voci maligne attribuiscono la defezione ad un improvviso invito ad una festa in suo onore da parte di una certa Ildegonda, smile!) ed essendo indisponibile anche il vice (Pertusi) lo ha sostituito sui due piedi Enrico Iori, non nuovo per la verità a cantare il flagello. Datosi che probabilmente avrà avuto solo il tempo di scambiare quattro chiacchiere col maestro prima di entrare in scena, la sua prestazione la giudicherei più che sufficiente, e così l'ha pensata anche il pubblico.

Marco Vratogna era lo sbifido Ezio. Che però non dovrebbe cantare in modo sbifido… Comunque è rientrato nel generale livello di passabile mediocrità: per lui qualche applauso dopo il duetto iniziale con Iori, accoglienza fredda all’aria dell’Atto II e però applausi alla fine.

Elena Pankratova come Odabella non mi è dispiaciuta: più efficace nell'esordio eroico (applaudito) che nell'aria dell'Atto I, che forse le è costata (immeritatamente, per me) quegli unici buh che si sono uditi alla fine dalla seconda galleria.

Fabio Sartori è stato un Foresto abbastanza dignitoso, sempre in controllo e mai (apparentemente almeno) in difficoltà. Anche per lui buon gradimento di pubblico.

Gianluca Floris come Uldino aveva pochi versi da cantare solo, più che altro da contribuire a vari cori e concertati, e ciò ha fatto passabilmente bene.

Ernesto Panariello impersonava Leone. Il quale ha da cantare da solo 4 versi, 16 battute in tutto, poi si mescola al coro del Finale I. Però in quelle poche battute dovrebbe mettere (tonante, recita la didascalìa) tanta paura addosso al flagello, da convincerlo a rinunciare all'impresa. Ma dato che per i librettisti Attila non rinuncerà affatto, mi pare del tutto logico (smile!) che l'intervento del Papa-Panariello sia stato quanto di più fiacco e improduttivo si potesse immaginare… Il pubblico però gli è stato grato di non aver fatto finire l'Opera a metà (ari-smile!)

I coristi (adulti e bianchi) della Scala devono proprio stare sui coglioni agli estensori delle locandine web del Teatro: non parvenu. Quindi, un doppio bravi! a loro e al loro condottiero Casoni.

In conclusione: a parte l'isolata contestazione alla cicciottella Pankratova, buon successo, segno che il pubblico ha gradito (quanto e quanti spettatori poi abbiano una minima conoscenza dell'originale è oggigiorno questione non secondaria, ma… quaternaria). Prosit e – per quanto mi riguarda – looking forward to PesaROF!
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12 luglio, 2011

L’Italiana in Algeri alla Scala



Ieri sera, in un Piermarini desolatamente semideserto, terz'ultima recita dell'Italiana, con il primo cast (minimamente rinforzato) degli artisti dell'Accademia.

Il quasi quarantenne allestimento del grande Jean-Pierre Ponnelle (ripreso da Lorenza Cantini) sta lì a dimostrare come le cose fatte con serietà, misura ed intelligenza non temano il logorìo del tempo e mantengano intatta tutta la loro freschezza e godibilità. Ma l'opera non è solo regìa, è soprattutto musica e interpreti: pretendere che il pubblico spenda - per un posto di platea e palco ad una recita di fine anno di una pur rispettabile scuola - la stessa cifra che spende per la Walküre inaugurale è cosa bizzarra non solo rispetto alle leggi del mercato, ma anche a quelle dell'arte. E così soltanto le gallerie avevano un aspetto vagamente normale: per il resto, occupazione posti sotto il 50%, a occhio e croce.
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Che Rossini rappresenti uno snodo fondamentale nello sviluppo della musica dell'intero '800 non è certo una novità, ma sempre si resta sorpresi nello scoprire i sotterranei legami che uniscono compositori e relative opere. Ecco, nell'Italiana troviamo tracce del passato e anticipazioni del futuro. Come non riconoscere il magico flauto di Papageno nell'inciso che compare già all'inizio della prima scena?
 

E il coro Viva il grande Kaimakan, non cita quasi alla lettera l'epinicio che chiude il Ratto?

E questi non sono che due dei tanti tributi di Rossini al grande Teofilo. Ma poi come non scorgere, nell'Introduzione al secondo atto, il motivo dell'Allegro marziale che ritroveremo in Norma?

E qualcosa del Finale II dell'Italiana sembrerebbe essere rimasto in testa persino al Brahms dell'ultimo tempo della sua prima Serenade:

Sappiamo poi che tracce di Rossini si trovano anche in Wagner, a testimonianza di un fil rouge che percorre un intero secolo di musica...
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Bene, come ci hanno propinato questo capolavoro Allemandi&C?

Il Direttore ha tenuto insieme l'Orchestrina con sufficiente autorità, staccando tempi appropriati (anche se nei due concertati finali ha un po' frenato, forse per timore di conseguenze sul palcoscenico). I ragazzi se la sono cavata dignitosamente, inclusi i corni, ripresisi bene dopo un non felicissimo esordio.

Quanto alle voci, i fuori-quota Pertusi e Taormina si son distinti assai più sul fronte macchiettistico che su quello canoro: Pappataci e Kaimakan dovrebbero far ridere sì, ma cantando sempre, non vociando o sghignazzando spesso e volentieri. Meglio han fatto i due negretti (Yende e Brownlee) che se la sono cavata discretamente, esibendo anche i loro DO e SI acuti con sicurezza. Tornatore e Polinelli (quast'ultimo più impegnato sul piano atletico, che su quello canoro) hanno sostenuto le loro parti di contorno con apprezzabile impegno. Chi (mi) ha in parte deluso è la ex-scolara Rachvelishvili: ha un vocione impressionante, che emerge però quasi esclusivamente negli acuti; per il resto… un ritorno in Accademia forse le farebbe bene (che ne dici, Daniel?) Bravi invece i ragazzi del Coro di Caiani (che la locandina online del teatro ignora sciaguratamente).

Comunque lo scarso pubblico ha mostrato di gradire, tributando applausi a scena aperta e all'uscita finale a tutti. Ma – ripeto – a far cilecca (e siamo proprio nel bel mezzo di bufere dei rating) è stato il price/performance.
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