affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 luglio, 2025

L’Orchestra Sinfonica di Milano si dà… all’opera.

Di tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen, Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia verdiana a Piacenza, con Lanzillotta.]

Sul podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio, con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro, che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico, oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.

___
Giusto per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno) pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è ancora fargli un panegirico…

Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.

Protagonisti sono due maschi (il Conte di Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la presenza in scena come minimo di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che il baritono sia persona di potere ed anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono. 

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli (salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del Conte.

Invece qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño) è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Quanto all’età dei due al tempo dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata, che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?

Se dobbiamo giudicare tutta la questione dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.

Infine, non è da trascurare l’effetto (su cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito (Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato dettava legge…  

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano) imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei protagonisti!  

Veniamo adesso a qualche critica sulla plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.

Comincio dalla quarta scena della prima giornata di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso) per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino. Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto con cui Verdi va a nozze!!   

La suspense che grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo proprio suo figlio!

E qui abbiamo una delle infinite inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede ingenuamente: e chi son io, chi dunque? Dopodichè accetta come nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare il suo racconto!

Ma subito dopo è proprio lui a raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora: ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un gelido brivido gli scuote le membra… mentre un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”

Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima occasione manderà il Conte al creatore!

Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news, mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare la festa al rivale!

Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.

Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.   

Altro schizofrenico comportamento nella prigione: dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne; quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli (Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!

Gratuita anche la circostanza relativa all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.

Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.

Ecco: il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!  

___
DO di petto o SI di frodo?

Non può mancare ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo di mezzo (intervento di Leonora, in DO minore); riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):


battute
agogica
voci
verso
1-32
Allegro
Manrico
Di quella pira…
33-39
Più vivo
 
…e teco almen…
39-49
 
Leonora
Non reggo a colpi
50-81
Allegro
Manrico
Di quella pira…
82-88
Più vivo
 
…e teco almen…
88-124
Poco più mosso
Ruiz-Coro / Manrico
All’armi! All’armi! / Madre infelice
124-131
 
Cadenza orchestrale

La nota più alta toccata dal tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo…)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI!

Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche… adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il Topone e il sommo sacerdote HvK!

A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del truffaldino SI che prepara la cabaletta.

Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!

In memoriam… ascoltiamo invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore Licitra (con Frittoli e il filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì ai DO e SI di petto…] 


28 giugno, 2025

Norma carbonara alla Scala.

Ieri sera alla Scala – dopo il reiterato messaggio NO-WAR proiettato a luci spente - è finalmente ricomparsa la belliniana sacerdotessa di Irminsul, che vi mancava da 48 anni, cioè da quel 1977 quando Gianandrea Gavazzeni ne diresse per l’ultima volta i suoni sulle scene avveniristiche (per allora… veramente un po’ alla Wieland Wagner) di Mauro Bolognini e con protagonista la somma Montserrat Caballè.

Oggi i protagonisti sono Fabio Luisi sul podio, Olivier Py alla regìa e Marina Rebeka negli scomodi quanto impegnativi panni della protagonista. 

E, a proposito, la Rebeka, ormai consolidata interprete del title-role (qui ascoltabile in una recente incisione, con Casta Diva in SOL… ma qui tornata al FA) mi è parsa appena-appena all’altezza delle aspettative: la salita agli acuti pare sempre problematica. I sonori buh incassati alla fine (ma anche dopo il Casta Diva) misti ad applausi sono forse immeritati, ma… l’eccellenza è un’altra cosa.

L’italo-albionico Freddie De Tommaso è un mediocre Pollione: la voce ci sarebbe anche, ma necessiterà di sudore per essere gestita come si deve. Per lui misto di approvazioni e brontolii di contestazione.

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa) è la migliore del gruppo, giustamente osannata alla fine.

Michele Pertusi impersona Federico Confalonieri Oroveso e se la cava al meglio delle sue sempre notevoli possibilità.

Flavio è Paolo Antognetti, diciamo senza infamia. Merita un incoraggiamento l’accademica Laura Lolita Perešivana per la sua discreta prestazione come Clotilde.

Una sicurezza, come sempre, il Coro di Alberto Maletti.

Da Fabio Luisi forse ci si poteva aspettare di più: una direzione senza pecche, ma con pochi momenti davvero memorabili (uno: l’introduzione del second’atto, con la gran cavata dei celli). I buh non proprio isolati, rimediati all’uscita finale, forse erano eccessivi, ma non del tutto pretestuosi.

Insomma, sul fronte dei suoni ci si può appena accontentare, ecco.

___
Difficile invece accontentarsi della regìa di Py (scene-costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografie di Ivo Bauchiero) che è di una banalità disarmante. Ci troviamo nella Milano del 1831, davanti alla Scala, ai tempi della prima dell’Opera. Già durante la Sinfonia assistiamo a moti rivoluzionari supportati da coreografie da avanspettacolo.

C’è la fucilazione di un rivoltoso da parte dei viennesi, seguita da un rito che si vede ogni giorno a Gaza: cadavere trascinato via in un lenzuolo bianco, poi ricoperto dal tricolore, compianto da compagne e compagni. Arriva, appunto, Federico Confalonieri, l’Oroveso capo dei carbonari ad aizzare i milanesi contro l’aguzzino occupante: Norma o Tell, tutto fa brodo, il Risorgimento è salvo.

La scena è posta sull’immancabile piattaforma girevole, che ci presenta la facciata della Scala e, sul retro… scale e scaloni che ospiteranno le vicende del dramma. Costumi dell’epoca, con i notabili carbonari vestiti da becchini e i militari occupanti in luminose divise immacolate.   

Simboli necrofili in abbondanza: teschi dorati, tre figuranti a creare l’atmosfera da tragedia greca, una toilette da teatro per Norma con la scritta MEDEA, chè non sfugga a nessuno il legame con l’abusato soggetto. Due candidi pupazzi-bambinelli fanno intuire l’insana attitudine di Norma-Medea nei loro confronti. E Norma, appunto, è una veggente, quindi scruta una sfera di cristallo scuro per… schiarirsi le idee.

Poi vedremo anche i bambinelli veri che sembrano il paparino in persona, con tanto di bianche uniformi e berretti in tinta (insomma, l’imperialismo austro-ungarico detta legge anche sui cromosomi…) giocare con i rispettivi pupazzetti mentre la mamma sta pensando a come farli secchi.

Alla fine del primo atto la Scala è quella ridotta a macerie dai bombardamenti americani viennesi (a futura memoria?)

L’epilogo non è un rogo (in effetti par di vedere una barricata incendiata): no, è una nuova fucilazione, operata dai patrioti milanesi per punire l’occupante e l’indegna traditrice della patria.

Allo spettacolo però – un vero peccato - è mancato lo spontaneo aggiungersi dell’intero pubblico al coro guerra! guerra!, come avveniva a quei tempi.

___
Ecco perché, all’uscita finale, Py e Weitz hanno innescato nel secondo loggione… le 5 giornate di Milano. Che dire? Con normativa misericordia potremmo implorare per loro: Deh, non volerli vittime…

24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

___
Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

___
La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


14 giugno, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.30 – Tjeknavorian - Hampson

Siamo arrivati all’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ed Emmanuel Tjeknavorian si congeda dal suo pubblico con un programma (quasi) tutto americano: due brani ispirati dagli USA a compositori europei e uno proprio tutto (latino-)americano.

Prima dell’inizio sui due schermi telati dell’Auditorium compare un doveroso ricordo per il brigadiere Carlo Legrottaglie, caduto in servizio anti-crimine. In platea alcuni suoi commilitoni.

Si parte quindi con George Gershwin e la sua Cuban Overture del 1932, composta dopo una vacanza a La Habana. In Appendice-1 qualche nota ad un’esecuzione di Lorin Maazel a Cleveland.

Trascinante l’esecuzione dei ragazzi, guidati dal gran carisma del Tjek. Applausi e ovazioni da un pubblico addirittura strabocchevole.

___
Ecco ora il baritono statunitense Thomas Hampson farsi avanti per interpretare di Kurt Weill il ciclo delle Four Walt Whitman Songs, quattro Lieder composti originariamente (1942) per canto e pianoforte e successivamente orchestrati da Weill con Elly Irving Schlein (1947) e Carlos Surinach (1956).

Su contenuti e ambientazione dei testi di Whitman e in particolare dei quattro musicati da Weill rimando all’Appendice-2. Ecco invece di seguito come Thomas Hampson ha interpretato i quattro canti a Vienna con Russel Davies:

1. Beat! Beat! Drums! Ostinata marcia in LA minore, con i richiami della voce che accompagnano l’azione di tamburi e trombe e salgono sempre, implacabili e stentorei, alla dominante MI.

2. Oh Captain! my Captain! Una dolce melodia in FA maggiore per gioire con il Capitano della vittoria e del felice ritorno a casa. Ma il Capitano giace insanguinato sul ponte e al suo marinaio, mentre il FA maggiore si abbruna progressivamente, non resta che piangerlo, mentre il popolo ancora festeggia.

3. Come up from the fields, father. Il DO minore fa da sfondo dapprima all’evocazione del crepuscolare paesaggio autunnale, poi all’angoscia della madre alla notizia della morte del suo ragazzo, e infine alla sua sconfortata rassegnazione.  

4. Dirge for two veterans. Una marcia funebre serena, dapprima in SOL maggiore, poi degradante a FA, porta padre e figlio, caduti in guerra, alla tomba, dove il SOL maggiore torna per l’ultimo saluto d’amore ai due patrioti. 

Hampson si cala perfettamente nell’atmosfera dei quattro Lied, dove Weill resta ancorato ad un sano diatonismo, solo screziato da sfumature atonali: la sua voce baritonale chiara e rotonda e il suo pathos di raffinato interprete si addicono a meraviglia a questi testi e a questa musica che chiama alla consapevolezza, all’umanità dei sentimenti, all’empatia, in definitiva… all’amore, contro ogni istinto di sopraffazione o di vendetta: e per questo è quanto mai di attualità.

Calorosissima quindi l’accoglienza che il pubblico gli riserva, accomunandolo a orchestra e direttore, che lo hanno supportato al meglio. 

___
Il concerto si chiude con l’inflazionata Dal nuovo mondo di Antonin Dvořák, che l’Orchestra conosce come le sue tasche per averla suonata millanta volte.

Ma come ieri sera credo non l’abbia mai suonata in modo così emozionante. Grazie ai ragazzi e ovviamente alla loro guida carismatica. Il Tjek ha tirato fuori il meglio di sé con un’interpretazione, credo, guidata da un’intima condivisione del senso profondo di questa musica. Mi limito a citare il Largo, una cosa, almeno per quel che mi riguarda, mai sentita prima: frasi in pianissimo dei violini da mozzafiato, ricerca di sonorità delicate senza mai sconfinare in gratuite leziosità, uso sapientissimo del rubato, a ulteriormente impreziosire, se possibile, le nobili melodie di Dvořák, che forse solo certo Bellini riusciva a inventare.

Poi, come non citare il mirabile corno inglese di Paola Scotti, il corno di Ceccarelli, il clarinetto della Raffaella, e poi tutti, ma proprio tutti, gli altri compagni di questa Orchestra che si supera ad ogni nuovo cimento.   

Un autentico tifo da stadio, con applausi ritmati e urla belluine ha salutato la conclusione di questa serata davvero magica.

Bene, anzi benissimo. e così ora si comincia già a guardare al 14 settembre, quando il Tjek inaugurerà alla Scala la nuova stagione, alla quale darà lustro con ben 11 presenze sul podio (su 25 concerti) più 4 guide di altrettanti concerti da camera. [Ma laVerdi non va ancora in ferie… e luglio ci darà ancora sorprese.]

 ___
Appendice-1. Cuban Overture.

Ha una struttura vagamente di forma-sonata, con la doppia esposizione di due temi principali, seguita da uno sviluppo che in realtà propone nuovi motivi e infine da una ripresa dei due temi esposti all’inizio. Il tutto chiuso da una coda.

Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (10”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (35”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (40”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (46) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’53”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’29”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’04”) a piena orchestra, seguito (3’16”) dal secondo.

A 3’38” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’47”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un motivo (4’39”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, quello famosissimo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’23”. Poi, a 6’00” i violini entrano con un altro motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’40”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (7’56”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’12”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’19”) il secondo negli strumentini.

I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’48”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.

___
Appendice-2. Testi di Whitman musicati da Weill.

Il poeta-scrittore newyorkese (vissuto nel pieno ‘800) è divenuto famoso nel mondo soprattutto per una corposa collezione di poesie, Leaves of Grass, redatte fra il 1850 e il 1892 (anno della sua scomparsa) e pubblicate, a partire dal 1855, in otto successive e sempre più arricchite edizioni, fino al 1892. Qui una pregevole traduzione italiana, del 1907, con corposa e multidisciplinare presentazione, di Luigi Gamberale, con il titolo di Foglie di erba.

Nel 1865 Whitman produsse una delle periodiche aggiunte alla raccolta, ispirandosi alle vicende della Guerra civile (1861-65) alla quale (pur contrario per principio ad ogni forma di conflitto – era di religione quacchera come la madre olandese) lui partecipò attivamente come ausiliario infermiere, curando indifferentemente e disinteressatamente le ferite di nordisti e sudisti.

Nacque così una nuova sezione del libro, intitolata Drum-Taps (Colpi di tamburo, poi ulteriormente rimpolpata con Sequel to Drum-Taps). Ed è da essa che Weill, ormai da tempo stabilitosi in USA, scelse le quattro poesie da musicare [fra parentesi i riferimenti alla traduzione di Gamberale dei testi originali in lingua inglese]:

- Beat! Beat! Drums! [Battete! Battete! Tamburi! pag.280] Tamburi e trombe di guerra interrompano ogni attività umana, ignorino preghiere e implorazioni materne, zittiscano chi chiede trattative. Un’impietosa e caustica critica della follia che invade il mondo quando le armi si sostituiscono alla ragione.

- Come up from the fields, father [Vien su dai campi, o padre, pag.298] In Ohio l’Autunno comincia a colorare i boschi, le mele sono ormai mature, i grappoli abbondanti pendono dalle viti… Ma arriva una lettera dal fronte, il padre corre dal campo, la madre straccia la busta: il ragazzo è stato ferito, ma sembra migliorare. In realtà, a quell’ora è già morto… E la madre si veste a lutto, non mangia più, non prende sonno: vorrebbe correre dal figlio morto…

- Dirge for two veterans [Canto funebre per due veterani, pag.310] Padre e figlio caduti, insieme, in prima linea. Un degno funerale, con musica e processione. Due fosse attendono le bare. Il poeta può solo offrire… amore.

- Oh Captain! my Captain! [O Capitano, mio capitano, pag.332] La nave è giunta finalmente, vittoriosa, in porto, dopo aver attraversato mille traversie e tempeste. Tutti esultano. Forse anche chi ha assassinato il Capitano (Lincoln, ndr) che giace disteso sul ponte, morto.

Come si vede, sono l’amaro sfogo dell’uomo d’arte e di pace di fronte alle miserie degli uomini di parte e di guerra. Non è quindi un caso che uno come Weill abbia provato grande affinità elettiva per questi versi e per il loro autore.