18 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.12 - Tjeknavorian

Alla ripresa della stagione principale, dopo le fatiche del Concerto di Capodanno (quattro serate in Auditorium più una al KKL di Lucerna) l’Orchestra Sinfonica di Milano propone, sempre sotto la guida di Emmanuel Tjeknavorian, un programma otto-novecentesco che ci porta da Schumann a Shostakovich.

Del romantico di Zwickau si ascolta il Concerto per violoncello, spesso criticato (come tanta sua altra musica) come difficile, contorto e, soprattutto, male orchestrato. Al punto che uno dei suoi interpreti più famosi, Mstislav Rostropovich, dopo averlo più volte suonato, chiese all’amico Shostakovich (che di ri-orchestrazioni se ne intendeva… Musorgski ne sa qualcosa) di rimetterlo a nuovo.

Il solerte Dmitry, che già nel 1959 gli aveva dedicato il suo primo, lo accontentò subito (1963). E pochi anni dopo (1966) gliene dedicherà anche un secondo! L’ascolto del concerto riorchestrato permette di percepire alcune delle novità introdottevi da Shostakovich: una chiara sovraesposizione degli strumentini (con impiego dell’ottavino) e delle trombette; l’aggiunta dell’arpa al Langsam centrale e, nel finale, alcune scariche, tipicamente novecentesche, dei timpani.

Ma curiosamente Rostropovich, dopo averne sperimentato questa versione russa, tornò… all’ovile di Schumann! Del quale oggi vengono sempre di più rivalutati anche gli originali delle Sinfonie, che tale Mahler si era permesso di… correggere, nell’intento di migliorarne l’appeal verso il pubblico.

È Jeremias Fliedl, un conterraneo e amico del Direttore e, come lui, poco più che un ragazzo (classe ’99) ad interpretare l’Op.129 così come lasciataci dal suo Autore (qui una sua recente esibizione).

Tecnica sopraffina e grande qualità del suono del suo strumento (targato Stradivari) hanno davvero restituito a questo brano tutto il suo struggente contenuto romantico, conquistando il pubblico, anche ieri assai folto e caloroso, a testimonianza che il Tjek – con gli amici che si porta dietro – sta già imprimendo un chiaro salto di quantità alle presenze in sala. Il Direttore ha chiesto uno speciale applauso anche per il primo violoncello Mario Shirai Grigolato, al cui strumento Schumann organizza un simpatico rendez-vous con quello del solista.

Grandi applausi per tutti, e così il ragazzino Jeremias si commiata ringraziando Milano per l’accoglienza con… Bach.

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Del compositore russo (scomparso proprio mezzo secolo fa) ascoltiamo poi l’enigmatica Decima Sinfonia (qui alcune mie note illustrative in proposito). Come accade anche per altri lavori legati in qualche modo a contenuti extra-musicali (nella fattispecie i difficili e altalenanti rapporti di Shostakovich con il potere sovietico, piuttosto che la sua bizzarra relazione con l’allieva azera) personalmente tendo a gustare la musica solo per se stessa, cercando se possibile di ignorare quei legami.

E se non è proprio possibile, quando si incontra, come nel finale, un’autentica gragnuola di DSCH (RE-MIb-DO-SI, la carta d’identità del compositore) beh, accettiamola come un giustificabile sfogo da parte di un uomo che – a Stalin defunto – ci teneva a ricordarci tutti i torti subiti dal regime, ecco.

laVerdi ha una tale dimestichezza con questa musica (acquisita fin dai tempi in cui incise tutte le 15 Sinfonie con Oleg Caetani) che la resa dell’esecuzione è sempre garantita, ma certo che il Tjek ancora una volta ha stupito, dirigendo a memoria questo mostro: cosa non ha saputo cavare dal finale a dir poco travolgente, aizzando il pubblico ad un vero e proprio tumulto! 


17 gennaio, 2025

Gatti (e Strehler) fanno rivivere Falstaff alla Scala.

Ancora Verdi in scena per il secondo spettacolo dalla stagione, che presenta una storica produzione dell’opera ultima del Peppino. Ier sera la prima, accolta da un caloroso successo di pubblico (folto sì, ma non proprio da tutto-esaurito, e con qualche defezione lungo il cammino…)

Poche parole per elogiare, a 45 anni di distanza, l’allestimento di Strehler (ripreso da Marina Bianchi) che resta tutt’oggi un esempio di fedeltà a testo e musica, resistente agli attacchi del tempo. Di certo superiore a quello abbastanza velleitario di Michieletto (dato qui ultimamente nel 2017) e al precedente ancora, moderno ma non certo esente a sua volta da critiche, di Carsen (2013-15).

Ecco, di quella ripresa del 2015 resta oggi in piedi il… podio: dove è tornato Daniele Gatti, che quest’opera la conosce come le sue tasche (l’ha diretta tutta a memoria). Se devo fargli un appunto, mi è parso un poco eccedere nelle dinamiche, spesso sovraccaricando il suono dell’orchestra, così correndo il rischio di coprire le voci. A proposito dell’orchestra, una curiosità: dieci anni fa Gatti aveva disposto legni e corni all’estrema sinistra, mentre oggi è tornato ad un layout abbastanza usuale.

Alla fine, per lui e per il coro di Malazzi (come per il team della Bianchi) solo applausi e consensi.

Il cast ha in generale ben meritato. A parte Ambrogio Maestri, che con il passare degli anni e delle… recite sembra ancora migliorare, mi sentirei di dargli dei giudizi che vanno dal buono, al discreto al sufficiente, suddividendolo in tre gruppi: nel primo colloco la Quickly di Marianna Pizzolato, il Ford di Luca Micheletti e il Cajus di Antonino Siragusa; nel secondo la altre tre rappresentanti del sesso debole: la Alice di Rosa Feola, la Nannetta di Rosalia Cid e la Meg di Martina Belli; nel terzo gli altri tre maschietti: Marco Spotti (Pistola), Christian Collia (Bardolfo) e Juan Francisco Gatell (Fenton).

E infine, giusto menzionare il piccolo paggio Lorenzo Forte, un prezzemolino (invenzione di Strehler) davvero bravo e simpatico.

In conclusione, una serata tutto sommato piacevole, in attesa dell’incombente panzer wagneriano.


14 gennaio, 2025

Uno storico Falstaff torna alla Scala.

Come è già accaduto in passate stagioni, la Scala ospita, come seconda opera del cartellone, l’ultimo lascito di Verdi. A proposito di allestimenti che fanno storia, al posto del più recente (Michieletto-2017, creato nel 2013 a Salzburg, che evidentemente ha fatto solo… cronaca) ci viene offerto (ripreso da Marina Bianchi) quello, davvero storico, di Giorgio Strehler, che vide la luce a SantAmbrogio del 1980 e fu poi ripreso già altre sei volte: 82-93-95-97-01-04.

Falstaff è l’opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l’estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell’intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l’intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta e a sonate di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Meistersinger e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso…

In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale. Ma tutto fatto in modo intelligente e… pertinente.

Come nel caso della citazione dal Parsifal di quel Wagner che Verdi non aveva certo in grande simpatia, ma del quale aveva l’onestà intellettuale di riconoscere i meriti, e delle cui opere aveva una curiosità quasi morbosa (si procurò gli spartiti delle più importanti) a dispetto delle critiche anche radicali cui le sottoponeva. Dunque, nel monologo di Falstaff all’inizio dell’Atto III, il protagonista, prefigurando la propria fine, pronuncia la famosa frase (certo una rodomontata, in bocca ad un dongiovanni ormai pensionato e gabbato, invece che ambìto, dalle comari del luogo): Allor scomparirà la vera virilità dal mondo. Ebbene, Verdi come te la chiosa? Così, portandola sulla dominante:

Si tratta di una citazione quasi letterale dal second’atto: musica che colà dipinge la personalità di tale Klingsor, guarda caso un… (auto)castrato!

Il carattere letteralmente rivoluzionario fa di questa musica un unicum nella storia del teatro musicale. E di conseguenza l’opera richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio.

Al proposito, ecco con quale rispetto e venerazione uno dei più grandi direttori di tutti i tempi affrontava la concertazione dell’opera. Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall’esordio scaligero dell’opera, e 10 anni più tardi alla Hofoper.

E quanta certosina meticolosità e scrupolo mettesse nell’interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava per l’appunto rivoluzionaria e da cui ricavò abbondanti spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove in vista delle rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, precipitando lungo la triade di MI maggiore, di ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l’ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d’atto:

Ebbene, il pignolissimo Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!
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E proprio un raffinato interprete mahleriano, Daniele Gatti, tornerà per l’occasione sul podio del Piermarini per dirigervi un’opera, a distanza di quasi 10 anni da quando si cimentò proprio in Falstaff, in occasione della ripresa dello spettacolo creato da Carsen nel 2013: una lettura, la sua, allora assai apprezzata da pubblico e critica (e, per quanto può valere, anche dal sottoscritto).

Protagonista nel title-role l’inossidabile Ambrogio Maestri, ormai da tempo uno degli interpreti di riferimento del panciuto e tronfio personaggio windsoriano. Che sarà affiancato da un cast che a sua volta promette assai bene.

Ci sono quindi le premesse per un’altra bella serata di musica!

31 dicembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.11

Fedeli all’ormai lunghissima tradizione, l’Orchestra Sinfonica e il Coro Sinfonico di Milano celebrano il Nuovo Anno con 4 esecuzioni della Nona Sinfonia di Beethoven, della quale quest’anno si celebra il 200° compleanno.

Dopo il battesimo di domenica, ieri c’è stata la prima replica, cui seguiranno le  altre due, oggi e domani.

A guidare strumenti e voci il Direttore Musicale Emmanuel Tjeknavorian, coadiuvato dal preparatore del Coro, Massimo Fiocchi Malaspina.

Sappiamo che Emmanuel è figlio d’arte, e qui possiamo ascoltare e vedere il paparino  Loris (oggi 87enne) mentre dirige proprio la nona ad Yerevan, capitale di quell’Armenia che aveva dato i natali ai suoi genitori, poi sfollati in Iran, dove lui è nato e da dove ha intrapreso le sue innumerevoli peregrinazioni in giro per il mondo, e in particolare a Vienna, dove nel 1995 è venuto alla luce Emmanuel, che oggi ne sta brillantemente seguendo le orme.

Come dimostra la sicurezza quasi irriverente con la quale ha affrontato questo autentico mostro, mandato tutto a memoria!

A partire dall’Allegro ma non troppo iniziale, con la misteriosa emersione del primo tema dalle brume della quinta vuota di RE minore, per far poi spazio alla delicata melodia in SIb maggiore e poi al dipanarsi di questa lunga, complessa e ardita costruzione in forma-sonata.

Poi lo Scherzo, che in particolare esercita sempre un fascino quasi sinistro: quel ritmo ossessivo lo rende simile ad un moto perpetuo che toglie il respiro. E il Trio, solo apparentemente più tranquillo, non fa che sostenere questa continua tensione (forse solo lo Scherzo dell’ottava di Bruckner è altrettanto invadente). Qui però mi tocca di fare una modesta critica al Tjek: averci risparmiato (proprio come papà Loris nella citata registrazione) i da-capo delle due sezioni dello Scherzo. A qualcuno potranno sembrare delle inutili lungaggini: in effetti sono almeno 5 minuti di musica, ma personalmente sono sempre felice di ascoltarli, e deluso se mancano all’appello.

Poi il Tjek si è rifatto ampiamente con l’emozionante Adagio.Andante, con le sue celestiali melodie che creano un’oasi di raccoglimento prima dell’esplosione del Finale. Dove celli e bassi si sono ancora una volta superati nel proporci a mo’ di austero recitativo quel Freude, schöner Götterfunken che poi le voci si incaricheranno d’innalzare al cielo nell’apoteosi conclusiva.  

E, a proposito di voci, I quattro solisti SATB (presentatisi, come consuetudine, prima dell’Adagio e dislocati al proscenio) hanno complessivamente ben meritato, a partire dal baritono coreano Jusung Gabriel Park che si è distinto nel recitativo che apre l’Ode schilleriana. Bene anche le due voci femminili, Elisabeth Breuer (soprano) e Caterina Piva (mezzosoprano, già ben nota ai palcoscenici italiani). Quanto al sudafricano di colore Katleho Mokhoabane, ha mostrato voce ben impostata, peccato però che manchi di qualche decibel: la sua frase che chiude con freudig, wie ein Held zum Siegen è stata purtroppo inghiottita dal pieno di orchestra e coro.

Il quale coro ha mostrato ancora una volta di cosa è capace, e giustamente Fiocchi Malaspina al termine è stato, come tutti, ampiamente ovazionato.

Serata davvero magica e trionfale, in un Auditorium pieno più di un uovo e con l’entusiasmo del pubblico che ha raggiunto il calor bianco. 


21 dicembre, 2024

Gatti alla Scala con una nuova PMS.

La Petite Messe Solennelle è quindi tornata, dopo un’eternità, al Piermarini con la sua veste più ricca, quella che Rossini le regalò sotto forma di orchestrazione, completata negli ultimi anni di vita e che purtroppo il Maestro non ebbe nemmeno il piacere di ascoltare.

A proposito di strumentazione, Rossini ne aveva riduttivamente parlato come di un’aggiunta, alle 12 voci e alle tre tastiere della versione primigenia, di un modesto pacchetto di archi e di qualche fiato, proprio per dare all’opera quel minimo di robustezza, necessaria ad affrontare esecuzioni in… campo aperto. La partitura in realtà è quella tipica di un complesso non inferiore a quelli impiegati da Rossini, per dire, nel teatro musicale.

Da qui però i vessilliferi delle grandiosità romantiche (e poi tardo-) hanno preso lo spunto per… esagerare, impiegando organici strumentali e corali e approcci esecutivi enfatici e retorici, che Rossini non aveva mai perso l’occasione di criticare nelle produzioni musicali moderne (ai suoi tempi). E così ancor oggi la Petite messe rossiniana viene spesso eseguita neanche fosse la Grande symphonie funèbre et triomphale di Berlioz…

Ecco, questa interpretazione di Gatti forse non è stata così… esagerata, tuttavia si è mossa nel solco di questo tradizionale approccio piuttosto romantico: diciamo che forse non era proprio Berlioz, ma magari il Brahms del Requiem…

Ora però – anche per spiegare l’aggettivo che ho usato nel titolo del post - va detto qualcosa relativamente a quello che si potrebbe definire – con una battuta fin troppo… equivoca – la funzione dell’organo (!?!)

Ecco: Rossini prescrive lo strumento a canne nella partitura orchestrale con un duplice compito: il primo è accessorio – e come tale quasi sempre ignorato nelle moderne esecuzioni – perché di puro riempitivo (nella versione cameristica è riservato al pianoforte-2); il secondo invece è obbligato perché lo strumento è solista nel Preludio religioso (nella versione cameristica affidato al pianoforte-1).  

Gatti si misurò per la prima volta con la versione orchestrata della Messe al ROF del 1999 e vi impiegò necessariamente l’organo (qui a 54’25” l’introduzione dei fiati al Preludio e a 55’29” l’attacco dell’organo). Poi però il compianto Alberto Zedda produsse la sua (discutibile) orchestrazione del brano, che porterà in giro per il mondo (Russia, Spagna) e presenterà al ROF nel 2014; la quale di fatto esclude tout-court l’impiego dell’organo, affidando all’orchestra l’intera parte, che comprende il corpo, un ritornello e la ripetizione del ritornello dopo che i fiati hanno ripetuto l’introduzione. E così Gatti, nel 2013 con la sua ONF a Vienna (dove pure disponeva, al Musikverein, di una selva di canne di prim’ordine) fece eseguire il Preludio zeddiano all’orchestra (qui a 1h00’22” l’introduzione e a 1h01’33” l’attacco del clarinetto basso).

Orbene, come si è regolato il Direttore per questa esecuzione scaligera?

Ha inventato una nuova soluzione! Intanto ha tenuto in orchestra l’organo come riempitivo, rispettando fin troppo alla lettera Rossini, dato che con quel po’ po’ di orchestra e coro di riempitivo ulteriore si può fare anche a meno… Ma poi, al momento del Preludio, che ti fa? Fa suonare (come a Vienna 2013) quello orchestrato da Zedda! Ma con una sottile variante: il ritornello finale (9 battute) invece che all’orchestra come prevede Zedda, lo fa suonare all’organo, quasi a volergli dare un contentino!

Insomma, una scelta francamente assurda e persino offensiva: oltre che nei confronti dell’organista, anche in quelli di Zedda (che oggi non può nemmeno far valere il suo copyright) ma anche nei confronti del pubblico e persino di… Rossini! Sì, perché dell’impiego del lavoro di Zedda nulla viene scritto: locandina, sito web, programma di sala, rivista del teatro… mai viene citata questa scelta! [Almeno nel 2013, forse perché Zedda era ancora vivo e vegeto, il pubblico era informato di quella scelta, come dimostra anche la sovrimpressione nel citato video di ARTE all’attacco del Preludio.]

Un’altra tipica (pur se stucchevole) domanda riguarda il… carico di lavoro dei quattro solisti SATB: Rossini, nella versione cameristica, prescrive che cantino, oltre alle proprie parti solistiche, anche quelle delle otto voci del coro. Meno chiara e inoppugnabile è invece la medesima prescrizione apposta sulla partitura della versione orchestrata, e nel dubbio ormai tutti i solisti si risparmiano questo lavoro straordinario e anche poco… appariscente, visto che le loro voci rischiano facilmente di annegare nel fracasso di quelle dei pletorici cori oggi impiegati. E così è stato immancabilmente anche questa volta, ma qui senza che nessuno abbia troppo a che ridire.

Mariangela Sicilia ha ormai una consolidata esperienza in quest’opera: mirabile ed emozionante soprattutto è stato il suo O salutaris hostia, che invoca l’aiuto divino, mai così necessario come in questi tempi di guerre dilaganti… Ma eccellente anche il Crucifixus, come il Qui tollis con la Vasilisa Berzhanskaya, che da parte sua ha chiuso in bellezza con un accorato ed emozionante Agnus Dei.

Yijie Shi ha messo in mostra la sua bella voce squillante, distinguendosi con piglio marziale nel Domine Deus e dando un valido contributo al Gratias, con Berzhanskaya e Michele Pertusi. Il quale ha posto tutta l’autorevolezza del suo canto al servizio del lungo e nobile Quoniam.

Insieme ai quattro solisti, come non restare ammirati dal superbo Coro di Alberto Malazzi, sempre impeccabile e poi addirittura strepitoso nelle entusiasmanti fughe del Cum Sancto Spiritu e del Resurrexit.  

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Che dire, in conclusione? A parte l’affaire del Preludio, l’ascolto della versione orchestrata e con organici di questo tipo, almeno a chi conosce non superficialmente quella cameristica lascia sempre un retrogusto amarognolo (non dico sgradevole, per carità) come di qualcosa che richiama troppo smaccatamente qualcos’altro di più… intimo e coinvolgente. È un po’ la sensazione che si prova, che so, ascoltando l’inflazionata versione (orchestrata da Ravel) dei musorgskiani Quadri: la volgarizzazione di un nobilissimo cammeo.

Tuttavia è meglio non fare gli schizzinosi e rendere doverosamente merito, come ha fatto con calore ed entusiasmo il pubblico di un Piermarini letteralmente in stato d’assedio, a tutti coloro che a qualunque titolo hanno reso possibile e godibile questa serata pre-natalizia.     


19 dicembre, 2024

Alla Scala arriva un Daniele Gatti natalizio con Rossini.

Il tradizionale Concerto di Natale della Scala (sabato 21) quest’anno propone, affidandola a Daniele Gatti (e Alberto Malazzi) la monumentale (a dispetto dell’aggettivo Petite che la caratterizza) Messe solennelle di Gioachino Rossini.

Stando all’Archivio storico del Teatro, questa dovrebbe essere, quanto meno a partire dal dopoguerra, la prima volta che alla Scala si esegue la versione orchestrata da Rossini sulla base di quella originale, per sole 12 voci (4soli+8) e con il solo accompagnamento di due pianoforti e harmonium, che fu composta dal pensionato-baby Gioachino nella sua vieillesse dans le péché, per meritarsi il… Paradiso! Ed eseguita per la prima volta, nella sontuosa villa parigina del banchiere-mecenate Pillet-Will e della di lui moglie, la dedicataria Louise Rouline, proprio 160 anni orsono.

In effetti ancora oggi ci si divide su quale delle due versioni sia da preferire. Da un lato c’è chi, come Michele Campanella, considera – non senza buone ragioni - quella orchestrata (creata a Parigi, Théatre italien, nel 1869, a Rossini ormai trasferitosi in… Paradiso) un passo indietro rispetto all’altra, soprattutto quando viene eseguita da orchestre e cori con organici degni di… Berlioz o di Mahler.

E chi invece, come Davide Daolmi, responsabile per la Fondazione Rossini dell’edizione critica di entrambe le versioni, è convinto che quella orchestrata non sia stata decisa da Rossini di malavoglia e all’ultimo momento (prima di… togliere il disturbo) ma pensata quasi da subito, e poi lentamente messa a punto negli anni. E che un’esecuzione adeguatamente preparata, e che soprattutto eviti qualunque tipo di ipertrofia (strumenti, voci, pomposità) possa restituire anche alla versione orchestrata tutto il fascino che suscita quella cameristica.

Il Rossini Opera Festival, che può vantare una grande autorevolezza in merito, ha negli anni presentato entrambe le versioni, e ultimamente eseguito proprio quella orchestrata, alla quale ha dato un suo… ehm… contributo il compianto Alberto Zedda, che si permise (?!) con motivazioni francamente discutibili, di orchestrare anche il Preludio religioso lasciato da Rossini al solo organo (il pianoforte nell’originale cameristico).  

A proposito di ROF, tutti i quattro solisti ci sono passati (se non cresciuti) negli anni: a partire da Michele Pertusi, che cantò la Messa nel ’97 (camera) poi ’99 e ancora 07 (orchestra) e a Vasilisa Berzhanskaya, protagonista nel ’23 (orchestra): più Mariangela Sicilia e Yijie ShiContrariamente a quanto prescritto da Rossini, nella versione orchestrata di solito i quattro tacciono quando canta il coro… vedremo come andrà questa volta.

Dando per scontato che non potrà che essere un’esecuzione tecnicamente di gran livello (data la caratura di tutti gli interpreti) sarà però interessante giudicare il risultato complessivo dal punto di vista estetico. C’è al proposito un precedente – con luci ed ombre, Zedda incluso - di 11 anni orsono a Vienna, guarda caso con protagonista proprio Gatti  


14 dicembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.10

Un insolito accoppiamento caratterizza il decimo appuntamento della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano: ne sono protagonisti Händel e Mozart. Del quale ultimo ascoltiamo – siamo ormai sotto Natale! - la versione del Messiah in lingua tedesca, ottenuta per riorchestrazione (e modifiche varie) dell’oratorio originale in lingua inglese del primo.

Questa versione (di abbastanza rara proposta, forse perché trattasi di un… ibrido) intanto impiega - appunto - la lingua tedesca, facendo uso di testi della Bibbia di stampo luterano. Poi accoglie una delle diverse varianti che l’originale propone per alcune arie; muta talvolta l’assegnazione del pezzo solistico a voce diversa da quella impiegata dal compositore tedesco trapiantatosi in Albione.

Ma soprattutto arricchisce la compagine strumentale di suoni (soprattutto nella sezione dei fiati) ormai familiari e quasi irrinunciabili nella Vienna di fine ‘700, ma quasi assenti nell’originale di Händel. Il che peraltro – è Mozart, in fin dei conti! - non ne snatura affatto l’intima essenza. Però ieri (complice anche un’amplificazione - forse del continuo) la corposità del suono mi è parsa un tantino esagerata, ecco.

Christoph Koncz, cresciuto come violinista nei Wiener, ha guidato con autorevolezza la compagine de laVerdi e i quattro solisti SATB (Anna Prohaska, Chiara Tirotta, Ilker Arcayürek e Liviu Holender) tutti più o meno (più per la prima, meno per il terzo…) all’altezza del compito.

Al successo della serata, decretato a tutti da un pubblico calorosissimo, ha ovviamente dato un determinante contributo il Coro Sinfonico diretto da Massimo Fiocchi Malaspina. Si replica domenica 15, pomeriggio.


11 dicembre, 2024

La Forza dal vivo

Ieri sera ecco la vera prima (con tutto il rispetto per giovani e vip) della stagione scaligera 24-25.

Confermo subito il mio personale giudizio, formulato dopo la visione TV: una produzione complessivamente apprezzabile, ma come media ponderata di componenti che si posizionano su una forbice (dal dignitoso all’ottimo) abbastanza ampia. E in ogni caso, nulla di mai visto-sentito prima e di cui rimanga indelebile ricordo…

Vediamo quindi per prima la messinscena di Muscato. Il quale deve pur metterci qualcosa di suo, per giustificare onori e… parcella: il risultato è per certi versi apprezzabile, per altri un po’ meno.

Come il regista stesso aveva apertamente annunciato, il suo Konzept (cioè il messaggio che intende mandare allo spettatore per tramite del suo allestimento) verte sull’attualità più pesante che accompagna ogni nostro santo giorno: la guerra.

Il tutto presentato, va riconosciuto, con maestria ed efficacia… ma: siamo proprio sicuri che fosse questo il succo (e il messaggio) che Verdi ci ha voluto inviare con quest’opera? Farci cioè riflettere sugli orrori delle guerre (che pure erano notizia di tutti i giorni ai suoi tempi)? Il mirabile Pace, mio Dio, si riferisce a questo tipo di guerre? O non, invece, alla pace interiore che la povera Leonora implora dal Signore?

Verdi si era innamorato del Wallenstein di Schiller. Dovendo musicare un testo (di Saavedra) che tratta anche di guerra sì, ma con poche righe (a Velletri) a descriverne le fucilate e gli scontri all’arma bianca, per il resto raccontandoci la prosaica vita nella guarnigione spagnola, Verdi incaricò Piave di scrivere le scene di Velletri mutuandole dalla trilogia schilleriana. Ma quale parte del Wallenstein scelse? Proprio quella più vicina al testo spagnolo: non scene cruente di guerra, ma la prosaica vita nella guarnigione (il prologo Wallensteins Lager) dove ufficiali e soldati disquisiscono e spettegolano di generali, strategie e rivalità e dove i soldati si lasciano andare a deplorevoli azioni contro la cittadinanza che li ospita.

E per questo passaggio Verdi scelse (impiegando la traduzione di Maffei) la scena 8 di Schiller (divenuta la 14 dell’opera), quella del Cappuccino (reincarnatosi in Melitone) che rimprovera i militari per la loro ignavia e dissolutezza, mentre al fronte si muore… Le scene che chiudono l’atto terzo, Rataplan incluso, sono quasi da avanspettacolo, una parodia della guerra. Dopodichè Verdi, per preparare il terreno a… Schiller, inventò di conseguenza (e di sana pianta, rispetto a Saavedra) anche la colorita scena di Petrosilla simpaticamente guerrafondaia ad Hornachuelos. 

Muscato invece ci mostra continui riferimenti alla guerra, calati in epoche diverse: settecento, otto/novecento e… oggi. Ne vediamo già nel primo atto qualche traccia: la presenza - non prevista dal libretto, anche se didascalicamente utile - di Carlo, militare di carriera, al momento dell’uccisione del padre. Le guardie armate che puntano i loro archibugi contro potenziali intrusi attorno alla residenza dei Calatrava, e persino Leonora, nella transizione al second’atto, che si traveste da soldato per raggiungere in incognito Hornachuelos.

Dove – invece che in una locanda frequentata da qualche personaggio locale, da carrettieri e magari da pellegrini diretti al Giubileo – troviamo un vero e proprio centro di arruolamento di reclute e volontari, crocerossine incluse, tutti allegramente pronti a seguire Preziosilla in Italia per combattere l’odiato tedesco. 

A Velletri la guerra si fa più vicina a noi, prendendo le sembianze della WWI (gli archibugi diventano moschetti M91…) Un po’ di forzatura esiste (nel libretto la battaglia è solo descritta con poche righe di didascalia e in musica occupa la scena 3, poco più di 100 battute…) tuttavia fin qui l’idea di Muscato regge abbastanza bene, mescolando i riferimenti bellici con le goliardate di Hornachuelos e Velletri.

Ma dove francamente Muscato eccede è nel volerci presentare anche le guerre di oggi impiegando come scenario il Convento, dove Melitone distribuisce la sbobba ai poveracci. E dove (è proprio l’attualità più spinta) assistiamo ad una scena che ricorda odierne distruzioni e genocidi, o campi di concentramento (o magari i nostri C.A.R.A.) ben presidiati da agenti anti-sommossa equipaggiati con kalashnikov (???)

Insomma, a me pare che la centralità della guerra che caratterizza la messinscena di Muscato sia magari accattivante, ma anche sovrabbondante. Il regista ha – come accade spesso e volentieri – creato il suo Konzept prendendo, del soggetto, una parte per il tutto. Come isolare una tessera di un mosaico e ingigantirla a scapito di altre che vengono così penalizzate. Non leggiamo in ogni studio sulla Forza che si tratta di un unicum nella produzione verdiana, proprio dal punto di vista della poliedricità della forma e dei contenuti? Dove troviamo dramma, tragedia, lutti e omicidi tutti interni ad un ambiente famigliare (i Calatrava e Alvaro) e dove la guerra rappresenta poco più di un pittoresco accessorio.

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Dal punto di vista tecnico, l’idea, ormai diventata quasi uno standard registico, di impiegare una piattaforma girevole per agevolare la rapidità dei cambi-scena è azzeccata, proprio in ragione della struttura dell’opera, che presenta diverse occasioni in cui quell’accorgimento mostra la sua efficacia.

Apparentemente bizzarra (ma invece coerente con l’idea di mostrarci la guerra nei… secoli) la scelta di vestire protagonisti e masse con costumi da emporio di trovarobe: dalle parrucche settecentesche alle uniformi ottocentesche agli odierni kalashnikov.  

Scene più o meno appropriate ai diversi ambienti, con vasto impiego di cartapesta e flora finta. E, a proposito di foglie, quelle che alla fine spuntano rigogliose da un tronco rinsecchito ad accompagnare la Verklärung di Alvaro, vengono direttamente da… Tannhäuser!

Luci (e oscurità…) ben dosate. Movimenti di masse e singoli che vanno da staticità tipo tableau-vivant ai caotici assembramenti. Il regista ci mostra talvolta in scena personaggi che non vi dovrebbero essere: la cosa ha ora aspetti positivamente didascalici (Carlo presente all’uccisione del padre, in modo che sia più facilmente riconoscibile quando lo si incontra per la prima volta a Hornachuelos) o francamente stucchevoli (FraMelitone che compare clandestinamente qua e là senza ragioni particolari, come ad esempio nel terz’atto, ben prima delle scene schilleriane).

Altro dettaglio di dubbia efficacia, a proposito della morte di Calatrava: la sfortunata accidentalità dell’episodio (che di fatto scagiona il povero Alvaro da ogni accusa di omicidio) viene smentita dal gesto del giovane indio che, invece di gettare la pistola a terra e lontano, va a depositarla con forza sul tavolino a fianco del quale si trova il Marchese: qui come minimo, vostro onore, si tratta di omicidio preterintenzionale!

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Chailly, l’Orchestra e il Coro di Malazzi hanno il merito principale di innalzare decisamente la media dei voti per questa produzione. Il Direttore rende alla perfezione tutte le sfaccettature che fanno, giova ripeterlo, di questa partitura davvero un pilastro di tutta l’opera di Verdi. Già la mirabile esecuzione della Sinfonia anticipa tutte le meraviglie che si scopriranno nelle successive tre ore!

Orchestra in stato di grazia, in tutte le sezioni come nei singoli: Il clarinetto di Meloni e il violino della Marzadori sono solo le punte di un iceberg di eccellenza.

Il Coro ormai si supera ad ogni nuova prova: per compattezza, accenti e – non da ultimo e grazie al regista – presenza scenica.

Le voci? Qui, come per la regìa, note più… mixed, ecco: dall’eccellenza all’onesta e dignitosa prestazione.

Top-down, quindi: Tézier mattatore della serata. Il suo Carlo si presta solo ad elogi: voce senza sbavature in tutta la gamma, baldanza (Pereda) cameratismo (con Alvaro) e poi odio cieco e insensato, fino alla finale (tardiva e… ipocrita?) richiesta di perdono. Davvero una prestazione superlativa.

Netrebko (ancora qualche buh dalla seconda galleria?) ormai non fa più notizia, tale e tanta è la sua eccellenza (ormai di antica data) nel puro canto, ma anche (e questa cresce ad ogni nuova prova) nell’interpretazione.   

Jagde ha una gran voce, passante e corposa (il timbro però non è proprio pulitissimo…) assai appropriata per il personaggio così combattuto e disperato di Alvaro. Forse gli manca qualcosa nell’espressione, quel quid che emozioni l’ascoltatore. Per curiosità cito un piccolissimo particolare, che ieri si è ripetuto dopo la prima del 7. Nella lunga scena con Carlo del terz’atto, Alvaro deve eseguire per due volte (sempre sul verso Vi stringo *** al cuor mio) un gruppetto (*** sta per FA-MI-RE#-MI) che invece Jagde semplifica in RE#-MI. Più avanti invece canterà altri gruppetti in modo canonico, dal che si deve dedurre che la cosa non sia dovuta a casualità, ma a preciso approccio interpretativo.

Berzhanskaya è una scatenata Preziosilla, forse portata ad andare fin troppo sopra le righe, ma la voce c’è e come, coniugata con la giusta verve che si addice al personaggio.

Vinogradov ha un vocione fin troppo cavernoso (ricorda antichi bassi… orientali) e mi pare gli manchi qualcosa della pietas che dovrebbe caratterizzare il Padre Guardiano.

Bosi e Romano hanno eseguito con dignità e onore i loro compiti, come Trabuco e Melitone.

Rahal, Beggi, Li e Hyseni (Curra, Calatrava, Alcade e Chirurgo) su un onorevole massimo sindacale, ecco.

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Pubblico entusiasta e parecchi minuti di applausi per tutti, Tézier, Netrebko e Chailly in testa.

07 dicembre, 2024

SantAmbrogio in TV

Aforistiche note a caldo.  

Anfitrioni: Carlucci recita regolarmente le stesse frasi, buone per tutti i titoli, da 10 anni. Vespa fa panegirici alla Rai come da clausola del suo contratto milionario.  

Orchestra, coro e rispettivi Direttori da lode.

Cast di livello grazie a Tezier e (un filo sotto) a Netrebko (qualche buh?) e (due fili sotto) a Jagde. 

Berzhanskaya e Vinogradov appena accettabili.
Meglio di loro Bosi e Romano.

Regia pretenziosa e… guerrafondaia: militari, guardie e poliziotti ovunque, inclusi Hornachuelos e il convento! L’uccisione di Calatrava non è accidentale, ma omicidio preterintenzionale! Melitone prezzemolo: fa anche gli straordinari…

Insomma: una produzione dignitosa ma non epocale. Di più fra qualche giorno.


03 dicembre, 2024

La forza della sfiga torna al Piermarini

È dall’autunno del 2001 che l’opera maledetta non ritorna alla Scala. Ma allora a metterla in scena furono i complessi del Mariinsky con Gergiev su podio, e quindi, in omaggio al Teatro che aveva ospitato la prima assoluta del 1862, fu la versione originale dell’opera ad essere rappresentata (per sole due recite, peraltro). Qui la registrazione di quella produzione data proprio a SanPietroburgo, un paio d’anni prima, con cast diverso.

Tenendo pienamente fede alla sua sfama, anche questa produzione ha portato la sua modica dose di malasorte: l’ombroso JK, vittima designata (secondo Saavedra e Piave-Ghislanzoni-Verdi) della sfiga, l’ha dovuta subire ancor prima di metter piede in scena, e così se l’è (furbescamente?) risparmiata per tutte le recite in programma! Al posto suo è arrivato (e per ora in buona salute fisica e spirituale, si spera) quel Brian Jagde, un esperto del ruolo, che ha sostenuto pochissimi giorni fa in Spagna. Poi anche la Curra ha dovuto cambiare interprete: Isabel De Paoli ha infatti dato forfait e le subentra Marcela Rahal. E chissà se prima di sabato non si completi il non c’è due 

A SantAmbrogio si torna, appunto, alla Scala, e quindi ci godremo la versione del 1869, appositamente riveduta (e corretta? o migliorata? o peggiorata?) per il gran ritorno del Peppino a Milano, dopo un interminabile divorzio.

Il più acuto (in my humble opinion) saggio sulle differenze (nel bene e nel male) fra le due versioni resta sempre quello del compianto Sergio Sablich, che vi aggiunse fondamentali considerazioni di natura estetica, drammaturgica e musicologica.

La sua tesi, esposta subito nel saggio, è che le due versioni abbiano pari dignità, al contrario di quanto accadde (escludendo i rifacimenti di opere per mercati diversi) per Macbeth e Boccanegra, dove la versione più recente è anche la più matura, un deciso passo in avanti rispetto a quella originale.    

Purtroppo, ciò a cui Verdi (e Piave) non poterono porre rimedio (anzi, forse finirono per peggiorare le cose) fu la totale mancanza di plausibilità del soggetto originale di Saavedra, dove gli snodi decisivi sono immancabilmente rappresentati da fatti inverosimili, contro-logica o inventati a bella posta proprio allo scopo di creare un destino davvero… forzato!

Per ingannare l’attesa del 7/12 rimando allora i volontari perditempo ad un mio personale tormentone su tutta questa materia…