Ieri sera alla
Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24
e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si
chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati
in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione
entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.
Abbiamo quindi
vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno
degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto
rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà
dello schizzinoso Christian?)
Ma insomma, la
Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero
Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le
prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.
Orchestra in discreta
forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre
problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche
le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da
mettere a punto anche il grandioso finale.
Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.
A partire dai
tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael
Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi
problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben
impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e
penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la
convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata,
petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.
Degli altri, da promuovere il gineceo: la
Freia di Olga Bezsmertna,
la Erda di Christa Mayer
(qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben
più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez,
Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll,
Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava
da dietro le quinte.
Così-così gli altri maschietti: Ólafur
Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far
emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche
dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang
Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine
(forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).
I due dèi residuali, Froh (Siyabonga
Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga
sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’
meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie
liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua
intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è
difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il
regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione
del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale,
optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene
spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati
(lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che
potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in
sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti
da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.
Sul sipario che separa le quattro scene compare
un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che
accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello?
Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e
una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi
in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo
coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi
tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato
con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché,
appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di
dubbia interpretazione.
Giù a Nibelheim campeggia un enorme
teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe,
indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene
direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare
in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo
scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna
via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino
che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.
La scena della consegna dell’oro ai
giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una
enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando
Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato
nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una
lontra ammazzata da Loge…
Altra idea portante della messinscena:
figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono:
l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a
interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e
soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne
imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi
e filosofici racconti e concetti.
Insomma, tante idee che forse mascherano
l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti
sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per
uno)!
Per tutti gli altri, applausi più o meno
convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.
Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è
l’attenuante Thielemann, daccordo…)