affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

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Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

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La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


14 giugno, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.30 – Tjeknavorian - Hampson

Siamo arrivati all’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ed Emmanuel Tjeknavorian si congeda dal suo pubblico con un programma (quasi) tutto americano: due brani ispirati dagli USA a compositori europei e uno proprio tutto (latino-)americano.

Prima dell’inizio sui due schermi telati dell’Auditorium compare un doveroso ricordo per il brigadiere Carlo Legrottaglie, caduto in servizio anti-crimine. In platea alcuni suoi commilitoni.

Si parte quindi con George Gershwin e la sua Cuban Overture del 1932, composta dopo una vacanza a La Habana. In Appendice-1 qualche nota ad un’esecuzione di Lorin Maazel a Cleveland.

Trascinante l’esecuzione dei ragazzi, guidati dal gran carisma del Tjek. Applausi e ovazioni da un pubblico addirittura strabocchevole.

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Ecco ora il baritono statunitense Thomas Hampson farsi avanti per interpretare di Kurt Weill il ciclo delle Four Walt Whitman Songs, quattro Lieder composti originariamente (1942) per canto e pianoforte e successivamente orchestrati da Weill con Elly Irving Schlein (1947) e Carlos Surinach (1956).

Su contenuti e ambientazione dei testi di Whitman e in particolare dei quattro musicati da Weill rimando all’Appendice-2. Ecco invece di seguito come Thomas Hampson ha interpretato i quattro canti a Vienna con Russel Davies:

1. Beat! Beat! Drums! Ostinata marcia in LA minore, con i richiami della voce che accompagnano l’azione di tamburi e trombe e salgono sempre, implacabili e stentorei, alla dominante MI.

2. Oh Captain! my Captain! Una dolce melodia in FA maggiore per gioire con il Capitano della vittoria e del felice ritorno a casa. Ma il Capitano giace insanguinato sul ponte e al suo marinaio, mentre il FA maggiore si abbruna progressivamente, non resta che piangerlo, mentre il popolo ancora festeggia.

3. Come up from the fields, father. Il DO minore fa da sfondo dapprima all’evocazione del crepuscolare paesaggio autunnale, poi all’angoscia della madre alla notizia della morte del suo ragazzo, e infine alla sua sconfortata rassegnazione.  

4. Dirge for two veterans. Una marcia funebre serena, dapprima in SOL maggiore, poi degradante a FA, porta padre e figlio, caduti in guerra, alla tomba, dove il SOL maggiore torna per l’ultimo saluto d’amore ai due patrioti. 

Hampson si cala perfettamente nell’atmosfera dei quattro Lied, dove Weill resta ancorato ad un sano diatonismo, solo screziato da sfumature atonali: la sua voce baritonale chiara e rotonda e il suo pathos di raffinato interprete si addicono a meraviglia a questi testi e a questa musica che chiama alla consapevolezza, all’umanità dei sentimenti, all’empatia, in definitiva… all’amore, contro ogni istinto di sopraffazione o di vendetta: e per questo è quanto mai di attualità.

Calorosissima quindi l’accoglienza che il pubblico gli riserva, accomunandolo a orchestra e direttore, che lo hanno supportato al meglio. 

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Il concerto si chiude con l’inflazionata Dal nuovo mondo di Antonin Dvořák, che l’Orchestra conosce come le sue tasche per averla suonata millanta volte.

Ma come ieri sera credo non l’abbia mai suonata in modo così emozionante. Grazie ai ragazzi e ovviamente alla loro guida carismatica. Il Tjek ha tirato fuori il meglio di sé con un’interpretazione, credo, guidata da un’intima condivisione del senso profondo di questa musica. Mi limito a citare il Largo, una cosa, almeno per quel che mi riguarda, mai sentita prima: frasi in pianissimo dei violini da mozzafiato, ricerca di sonorità delicate senza mai sconfinare in gratuite leziosità, uso sapientissimo del rubato, a ulteriormente impreziosire, se possibile, le nobili melodie di Dvořák, che forse solo certo Bellini riusciva a inventare.

Poi, come non citare il mirabile corno inglese di Paola Scotti, il corno di Ceccarelli, il clarinetto della Raffaella, e poi tutti, ma proprio tutti, gli altri compagni di questa Orchestra che si supera ad ogni nuovo cimento.   

Un autentico tifo da stadio, con applausi ritmati e urla belluine ha salutato la conclusione di questa serata davvero magica.

Bene, anzi benissimo. e così ora si comincia già a guardare al 14 settembre, quando il Tjek inaugurerà alla Scala la nuova stagione, alla quale darà lustro con ben 11 presenze sul podio (su 25 concerti) più 4 guide di altrettanti concerti da camera. [Ma laVerdi non va ancora in ferie… e luglio ci darà ancora sorprese.]

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Appendice-1. Cuban Overture.

Ha una struttura vagamente di forma-sonata, con la doppia esposizione di due temi principali, seguita da uno sviluppo che in realtà propone nuovi motivi e infine da una ripresa dei due temi esposti all’inizio. Il tutto chiuso da una coda.

Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (10”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (35”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (40”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (46) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’53”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’29”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’04”) a piena orchestra, seguito (3’16”) dal secondo.

A 3’38” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’47”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un motivo (4’39”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, quello famosissimo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’23”. Poi, a 6’00” i violini entrano con un altro motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’40”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (7’56”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’12”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’19”) il secondo negli strumentini.

I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’48”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.

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Appendice-2. Testi di Whitman musicati da Weill.

Il poeta-scrittore newyorkese (vissuto nel pieno ‘800) è divenuto famoso nel mondo soprattutto per una corposa collezione di poesie, Leaves of Grass, redatte fra il 1850 e il 1892 (anno della sua scomparsa) e pubblicate, a partire dal 1855, in otto successive e sempre più arricchite edizioni, fino al 1892. Qui una pregevole traduzione italiana, del 1907, con corposa e multidisciplinare presentazione, di Luigi Gamberale, con il titolo di Foglie di erba.

Nel 1865 Whitman produsse una delle periodiche aggiunte alla raccolta, ispirandosi alle vicende della Guerra civile (1861-65) alla quale (pur contrario per principio ad ogni forma di conflitto – era di religione quacchera come la madre olandese) lui partecipò attivamente come ausiliario infermiere, curando indifferentemente e disinteressatamente le ferite di nordisti e sudisti.

Nacque così una nuova sezione del libro, intitolata Drum-Taps (Colpi di tamburo, poi ulteriormente rimpolpata con Sequel to Drum-Taps). Ed è da essa che Weill, ormai da tempo stabilitosi in USA, scelse le quattro poesie da musicare [fra parentesi i riferimenti alla traduzione di Gamberale dei testi originali in lingua inglese]:

- Beat! Beat! Drums! [Battete! Battete! Tamburi! pag.280] Tamburi e trombe di guerra interrompano ogni attività umana, ignorino preghiere e implorazioni materne, zittiscano chi chiede trattative. Un’impietosa e caustica critica della follia che invade il mondo quando le armi si sostituiscono alla ragione.

- Come up from the fields, father [Vien su dai campi, o padre, pag.298] In Ohio l’Autunno comincia a colorare i boschi, le mele sono ormai mature, i grappoli abbondanti pendono dalle viti… Ma arriva una lettera dal fronte, il padre corre dal campo, la madre straccia la busta: il ragazzo è stato ferito, ma sembra migliorare. In realtà, a quell’ora è già morto… E la madre si veste a lutto, non mangia più, non prende sonno: vorrebbe correre dal figlio morto…

- Dirge for two veterans [Canto funebre per due veterani, pag.310] Padre e figlio caduti, insieme, in prima linea. Un degno funerale, con musica e processione. Due fosse attendono le bare. Il poeta può solo offrire… amore.

- Oh Captain! my Captain! [O Capitano, mio capitano, pag.332] La nave è giunta finalmente, vittoriosa, in porto, dopo aver attraversato mille traversie e tempeste. Tutti esultano. Forse anche chi ha assassinato il Capitano (Lincoln, ndr) che giace disteso sul ponte, morto.

Come si vede, sono l’amaro sfogo dell’uomo d’arte e di pace di fronte alle miserie degli uomini di parte e di guerra. Non è quindi un caso che uno come Weill abbia provato grande affinità elettiva per questi versi e per il loro autore.


07 giugno, 2025

La seconda giornata del Ring di McVicar alla Scala.

La nuova tappa verso l’agognata meta (marzo 2026) delle due rappresentazioni del ciclo completo del Ring arriva ora alla Seconda giornata (Siegfried). Ieri la prima rappresentazione, in un teatro affollato ma non troppo, ecco.

Prima dell’inizio, a luci in sala già spente, sul sipario rigido vengono proiettate scritte con il NO alla guerra e il SI alla pace, con il nobile, ecumenico appello di... Simon Boccanegra. Servirà a qualcosa? 

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Qualcuno ha azzardato una similitudine, in fatto di contenuti musicali, fra le quattro parti del Ring e gli altrettanti movimenti di una sinfonia (e infatti si dice anche che Wagner abbia portato la sinfonia nell’opera…) Siegfried assumerebbe quindi, perlomeno in analogia alla sinfonia beethoveniana (e post-) la posizione e il ruolo dello Scherzo. Il più illustre esegeta italiano del Ring, Teodoro Celli, così si esprimeva in proposito nella sua memorabile Guida all’ascolto del 1983:

Ma naturalmente si potrebbe anche associare la quadripartita forma del Ring alle quattro stagioni: partendo dal Rheingold visto come il crudo Inverno dell’Universo; passando poi a Walküre come la promettente Primavera; quindi a Siegfried, la calda Estate; e per finire con Götterdämmerung, l’Autunno che prefigura il ritorno alla stagione fredda, dove tutto lentamente muore per prepararsi ad un nuovo ciclo di vita…

E, perchè no, a proposito di vita, anche alle fasi dell’esistenza di ogni creatura vivente, che viene faticosamente alla luce, poi si sviluppa, quindi esprime il massimo delle sue potenzialità, per poi lentamente avviarsi al suo inevitabile tramonto, con prospettive consolanti o disperanti…

È ovvio che questi raffronti lasciano il tempo che trovano, se non altro perché le dimensioni stesse del mostro wagneriano impediscono di poterne cogliere l’intero panorama in un sol colpo d’occhio e in una sola esperienza, nemmeno mettendosi per 15 ore consecutive ad ascoltarlo da cima a fondo… e peggio ancora quando le quattro parti sono messe in scena separatamente e a distanza di mesi (o anni!) E poi, la stessa materiale estensione temporale della composizione del tutto rende inevitabili piccole o grandi mutazioni nello stile compositivo di Wagner.

Resta comunque possibile, prendendo a testimone Verdi, individuare anche in Wagner quella che il Peppino definiva come la tinta di ogni sua opera. E da questo punto di vista certamente si può concludere che Siegfried sia, musicalmente, davvero un’opera solare.

E quindi: come ce l’ha proposta, la simpatica Simone Young? Una confortante testimonianza tecnologica ci veniva dallo scorso Festival wagneriano, dove la Young ha esordito - dopo decenni di gavetta - proprio con la direzione del Ring, con cast (quasi del tutto) diverso da quello scaligero. Ieri la Direttrice aussie mi è parsa apprezzabile nell’approccio all’agogica, e un  po’ sopra le righe nelle dinamiche, spesso fin troppo invadenti. Il che ha messo in risalto la splendida forma dell’Orchestra, facendo uscire dalla buca travolgenti fiumi sonori (memorabile il corno di Giovanni Emanuele Urso!); suoni che hanno magari penalizzato le voci, ecco.

Michael Volle, è stato ancora una volta un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma la voce… pure, in senso positivo, ovvio!

Siegfried è Klaus Florian Vogt, che canta benissimo con la sua voce di tenore… lirico. Chi si aspetterebbe il classico Heldentenor magari storce il naso. Ma ci dobbiamo accontentare e forse pure abituarci.

Benissimo la Camilla Nylund, una convincente Brünnhilde, capace sempre di emozionarci: per la sua trasformazione nella Walküre e qui per la sua sofferta, ma alla fine convinta, accettazione del suo status di donna.   

Ottima ancora la prestazione di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, un Mime esemplare per canto e presenza scenica. Il fratello cattivo Alberich è un Ólafur Sigurdarson che (come in Rheingold) è eccessivamente caricaturale, ma vocalmente apprezzabile.

Onesta la prestazione del drago Fafner, un Ain Anger un po’… leggero da vivo, con i tritoni poco efficaci, ma meglio da moribondo, quando torna al classico diatonismo.

Bene anche la Erda di Christa Mayer, che resiste come può agli strapazzi di cui la fa bersaglio l’ingrato Wotan.

Piacevole sorpresa l’uccellino di Francesca Aspromonte, voce penetrante (e non… pigolante) che peraltro il regista ha sempre fatto cantare ben in primo piano e non, come accade spesso, appollaiata in qualche remoto angolo della torre scenica.

Per tutti i musikanten alla fine solo applausi, ovazioni e trionfo pieno.

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McVicar. Come nei due precedenti drammi, la sua impostazione scenica è piuttosto minimalista, con poco più dell’essenziale. Tuttavia mi è parsa complessivamente efficace.

Nel primo atto la stamberga di Mime è assolutamente realistica, con la forgia, il mantice e tutti gli attrezzi necessari, il che ci permette di seguire perfettamente tutto il complesso processo di rifusione e ricostruzione della spada. Un paio di trovate sono da segnalare: Mime che si traveste da megera quando deve spiegare a Siegfried di essergli anche madre, oltre che padre (poi si abbiglierà da regina al momento di esultare per la prossima riuscita del suo piano). Poi la veste di Sieglinde che lui mostra a Siegfried quando gli descrive la sua nascita; veste che poi Wotan – alla seconda domanda che indirizza a Mime - ritrova e stringe al petto in commosso ricordo della figlia!

Nel secondo atto la scena è più spoglia (un paio di alberi e poco più) per accogliere Alberich, vestito da sovrano spodestato che trascina un carretto con le sue povere cose, inclusa una corona dorata; e Wotan che arriva per organizzare la pantomima con Fafner. Scena che poi si svuota proprio all’uscita del drago, una specie di enorme ragno teschiuto manovrato da comparse, finchè è vivo. Poi, trafitto al cuore da Siegfried, si ritira sul fiondo e al suo posto compare… Ain Anger a far la figura del… moribondo. L’uccellino è un gallinaceo-giocattolo, a volte manovrato dalla Aspromonte e altre fatto svolazzare qua e là da una comparsa munita di lunga pertica: come detto, ciò consente alla cantante di farsi ben udire da tutti.

Nel terzo atto la scena si riduce alla presenza di un globo terracqueo dietro al quale compare Erda per il suo confronto con il padre delle sue numerose figlie… Poi la scena viene quasi totalmente chiusa da una grande quinta che lascia solo intravedere un ambiente infuocato. Wotan e Siegfried si incontrano, e scontrano, solo al proscenio. Per la terza e conclusiva scena tornano l’enorme testa supina di Erda e la manona (una delle tre comparse nel Rheingold) che nella Walküre era servita come letto su cui adagiare Brünnhilde. Che ora viene svegliata dai ripetuti baci di Siegfried per dar poi luogo al travologente finale, con lucente amore e ridente morte.

Insomma, una messinscena che personalmente tendo ad apprezzare, come onesto compromesso fra un frusto tradizionalismo e tante astruse ambientazioni moderne. Qui il pubblico si è diviso fra applausi e qualche contestazione. Ma in complesso direi che questa tappa del lungo viaggio sia stata un buon… passo avanti.


31 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.28 – Tjeknavorian - Müller-Schott

Per il terz’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Emmanuel Tjeknavorian ci mette in tavola un menu costituito da due piatti del tardissimo ‘800: lo Dvořák del 1894 e il Sibelius del 1898. Auditorium non proprio esaurito, ma quasi, e sempre pieno di entusiasmo. In platea Oreste Bossini racconta il concerto per Radio3.

La serata si apre nel nome di Jan Sibelius, con la sua Prima Sinfonia, cui il 34enne compositore si volse proprio sul finire del secolo dopo aver composto diversi poemi sinfonici a sfondo nazionalistico-patriottico. Il suo fu un approccio innovativo sia rispetto a Ciajkovski (cui peraltro fu debitore) ma anche rispetto a Mahler, del quale non condivideva l’idea di impiegare la sinfonia per raccontare l’universo.

E questa Prima in effetti sembra rifarsi al sinfonismo classico, sul quale innestare elementi della tradizione musicale del suo Paese. In Appendice riporto una succinta guida all’ascolto, basata su un’esecuzione di papà Loris con i suoi filarmonici armeni nel 1997, quando il piccolo Emmanuel aveva sì e no un paio d’anni…

Per l’Orchestra è la prima esperienza con questo lavoro non proprio conosciutissimo e meno ancora eseguito, così il Tjek (sempre a memoria!) la guida da par suo, mettendo in risalto non solo i suoni, ma anche i silenzi lunghi e brevi (rappresentati in partitura da corone puntate e apostrofi di respiro).

Così ne esce un risultato mirabile, che ridà un meritato lustro a questo Sibelius francamente troppo snobbato dai modernisti con la puzza al naso.

Dopo la chiusura con i sommessi pizzicati degli archi il Tjek tiene ancora una decina di secondi di silenzio, poi inutile dire dell’accoglienza trionfale che accomuna Kapellmeister e Musikanten.

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Ha chiuso la serata un compagno di… sonate del Tjek, il 49enne Daniel Müller-Schott con il suo violoncello, impegnati nel Concerto op.104 di Antonin Dvořák. Qui vediamo una pregevole esecuzione di Daniel in terra danese con Kitajenko.

Il suono del violoncello di Müller-Schott (Goffriller 1727) è di assoluta purezza, cosa che avrebbe stupito lo stesso Dvořák, che non aveva mai nascosto la sua idiosincrasia per quello strumento, considerato piuttosto rozzo proprio nella qualità sonora (!?) Ma certo il merito è anche dell’esecutore, dalla tecnica trascendentale e dalla sensibilità sopraffina. Il Tjek (eccezionalmente con la partitura sotto gli occhi) lo ha assecondato al meglio, avendo con lui, come detto, una consuetudine di lunga data.

Qualche neo purtroppo si è manifestato in orchestra, dalla zona dei corni (citiamo il peccato e non il peccatore) che non consente di giudicare perfetta questa performance.

Ma alla fine non impedisce il manifestarsi di acclamazioni e ovazioni da parte di un pubblico in delirio, ripagato con un prezioso e accorato bis, seguito da un ultimo trionfale omaggio per tutti.   

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Appendice. La prima sinfonia di Sibelius

Inizia con un’Introduzione lenta (à-la-Haydn… Andante ma non troppo) in MI minore con inflessi modali. È un languido recitativo del clarinetto (21”di cui si ricorderà Nino Rota per il suo Padrinosul tappeto in SI del timpano che getta musicalmente le basi per i temi che compariranno nel seguito.

Segue l’Allegro energico (1’33”) dalla struttura di forma-sonata eterodossa, principiante nella tonalità relativa di SOL maggiore con esposizione di un primo tema che si anima nel dialogo fra archi e fiati, che conduce ad un crescendo sfociante (2’41”) in un generale accordo sulla sesta abbassata di MIb, seguito da uno in MI naturale, poi ancora in FA e poi in FA# per sfociare (2’47”) ancora in SOL maggiore, dove il tema è reiterato a piena orchestra e poi ancora ribadito (3’09”) nella sottodominante DO maggiore.

Da qui un subitaneo passaggio a SI maggiore apre la strada al secondo tema (3’30”) protagonisti gli strumentini con sereni svolazzi; poi (4’29”) l’atmosfera si abbruna a SI minore, dove ancora i legni si slanciano in un furioso crescendo – pare lo Scherzo della nona beethoveniana… - che si spegne (4’50”) in modo traumatico. Tre semiminime di SI pizzicato degli archi chiudono di fatto l’esposizione.

Il lungo sviluppo – in realtà appare come un intermezzo che porta alla luce muovi motivi - inizia (4’55”) ancora in SI maggiore, con un momento di calma in LAb (5’30”) seguito da un lungo passaggio caratterizzato da successive scale discendenti e poi da un magmatico crescendo (6’23”) che sfocia maestosamente (7’25”) in SOL maggiore, con una nobile perorazione degli archi, che porta all’eterodossa ripresa del primo tema, che ascoltiamo (8’10”) dopo il convulso crescendo.

In tempo Tranquillo (9’01”) ecco il ritorno a MI minore che introduce la coda, culminante (10’09”) in una melodrammatica cadenza in fortissimo, chiusa da due accordi in pizzicato degli archi. 

Il secondo movimento è un Andante (ma non troppo Lento) nella distante tonalità di MIb maggiore. I violini (10’53”) espongono la prima parte del languido tema principale, costituita da due sezioni, la seconda ripetuta. Ora (12’02”) i fiati, poi supportati da viole e celli, rispondono proponendo la conclusione del tema.

I fagotti (12’25”, Un poco meno andante) – seguiti poi dagli altri legni - intonano ora una triste melopea in SOL minore che poi si trasforma (12’58”) in un accorato appello, costituito dall’incipit del tema principale seguito da dolorose cadute chiuse da una pesantissima discesa di quattro ottave, fino al FA sotto il rigo di basso.

Ora (13’55”) una transizione sul DO minore caratterizzata da sestine ribattute di flauti e oboi ci conduce alla sezione centrale del movimento (14’24”, Molto tranquillo) una specie di oasi in LAb maggiore, con tanto di esternazioni ornitologiche degli strumentini. La cui visione sfuma (15’33”, Adagio) per lasciar subito posto al ritorno del tempo primo e all’atmosfera della precedente sezione, in DO minore e poi in SOL minore, che una fugace riapparizione del LAb (17’37”) cerca invano di contrastare.

Attacca quindi un vorticoso crescendo (Poco a poco stringendo) che conduce ad un climax in cui si distinguono pesanti strappi dell’orchestra, finchè (18’52”) in DO minore esplode una delle varianti del tema principale (Ciajkovski? Wagner?) che poi (19’07”) sfuma nel MIb d’origine portando ad una serena conclusione di questo viaggio tormentato.

Ecco poi lo Scherzo, tonalità DO maggiore, classicamente ripartito A-B-A (Scherzo-Trio-Scherzo). Di stampo vagamente bruckneriano, nel piglio da moto perpetuo. Sul pedale ostinato di viole e celli sono i timpani (DO-SOL) ad annunciare (20’52”) il motto dello Scherzo, subito imitati dai violini. Corni e legni (20’55”) ne espongono il tema scalpitante che vaga in orchestra fra svolazzi di strumentini, sestine di celli e folate ascendenti e discendenti dell’arpa. Dopo un passaggio più disteso degli archi, torna il motto (21’42”) ad aprire una nuova sezione dello Scherzo, culminante (22’00”) in volate di legni e poi di archi, sempre innescate dall’incipit del motto.

Si arriva così (22’35”) al classico Trio, Lento (ma non troppo), in MI maggiore, aperto, ancor più classicamente, dai corni. Poi (22’59”) è il flauto ad esibirsi in un cullante motivo impreziosito da trilli; ancora una pausa (23’30”) e i legni riprendono il motivo di attacco de Trio, poi raggiunti dagli archi che si dilungano sulla dominante SI. Il ritorno al Tempo I preannuncia la conclusione del Trio, sancita da veloci scale discendenti degli archi, chiuse sul DO.

Riecco quindi (24’33”) ripresentarsi lo Scherzo nella sua interezza, chiuso da una perentoria coda, protagonista il motto.

Il Finale reca tra parentesi la dicitura (quasi una Fantasia). Ed in effetti la sua struttura è abbastanza… fantasiosa, per lo meno rispetto ai sacri canoni classici, consistendo in due temi principali (tipo forma-sonata) che vengono dapprima esposti e successivamente poi ripresi e variati, di fatto sviluppati.

La tonalità è ovviamente in MI minore e il movimento Inizia (25’50”) con un’Introduzione in tempo Andante, come già il primo. E da quello mutua subito il motivo di apertura della Sinfonia, esposto dagli archi, ai quali rispondono i flauti con la frase chiusa dai corni e fagotti sull’accordo di SI minore e ancora oboi e poi flauti e clarinetti con corni e fagotti a chiudere in SOL minore.

In tempo Meno andante (27’34”) celli e bassi chiudono l’Introduzione preparando il terreno all’Allegro molto dove presto compare (28’08”) nei bassi e nelle viole il primo tema, agitato e poi dilagante in orchestra, fra archi e fiati che si rincorrono, in un continuo crescendo (Poco a poco più Allegro) fino a raggiungere, dopo cinque schianti poderosi, un climax (29’04”) su un RE acuto, dal quale i violini precipitano fino ad un SI sotto il rigo.

È arrivato il momento (29’19”, Andante assai) di conoscere il secondo tema, una nobile melodia nel solare DO maggiore, intonata dai violini, che si distende ulteriormente (30’21”, Poco a poco meno Andante) fino a chiudersi (31’06”) con gli strumentini.

Inizia ora lo sviluppo del primo tema (31’18”, Allegro molto, come prima) che sembra travolgere tutto, fino ad un climax (32’08”) da cui subito riparte ancor più vigoroso (Poco a poco più Allegro) e quindi (32’37”) si fa sempre più ostinato, con schianti successivi che portano finalmente (32’54”) ad un progressivo acquetarsi dell’atmosfera, presagio dell’arrivo (33’06”) in tempo Andante (ma non troppo) dello sviluppo del secondo tema.

Che ora torna in LAb maggiore, poi trascolora a REb, ancora a SOLb e poi a SI maggiore (34’26”) dove a lungo si distende maestoso, fino poi (36’55”) a scendere sul MI della finale apoteosi, chiusa - dopo tre schianti in MI minore dell’intera orchestra, come accadde al primo movimento - con due pizzicati degli archi.