Zelensky e l'alternativa lose-lose, fra perdere:

la dignità VS l’alleato che ti chiede di perderla 

11 dicembre, 2025

La Ledi ha tradito… Chailly.

Ieri sera la Scala ha aperto la stagione in abbonamento (cioè quella riservata al pubblico che bada al sodo e non alle apparenze…) con la Ledi Macbet (scritto come si pronuncia, in russo così come in italiano). Come sia finita è ormai noto a tutti e non ci resta che augurare al Direttore una pronta ripresa fisica e quindi un sollecito ritorno sul podio.

Data l’incompletezza della recita, mi limito a confermare il giudizio assolutamente positivo sulla prestazione musicale di tutti, cantanti e soprattutto Coro e Orchestra, senza entrare in particolari.

Approfitto invece della malaugurata circostanza per approfondire il discorso riguardo alla regia di Barkhatov, sulla quale, nel mio breve intervento a caldo dopo visione TV, avevo espresso un giudizio sostanzialmente positivo, giudizio che mi sento (in parte almeno) di ridimensionare dopo la (sia pur parziale, ma per me sufficiente) esperienza live che, rispetto a quella televisiva, priva lo spettatore di molti dettagli (primi piani e inquadrature particolari) utili a seguire meglio il racconto così come presentatoci dal regista.

Mi riferisco in particolare all’idea-base di raccontare le vicende narrate nel soggetto originale come vissute a posteriori da un osservatore esterno, la Polizia che indaga su un caso di omicidio. Idea che il regista non può non aver maturato dal racconto di Leskov, che ispirò il libretto a Shostakovich (+Preis): tale racconto si basa a sua volta su una vicenda giudiziaria dei suoi tempi (Leskov lavorò anche nel tribunale della sua città, Orël, capoluogo della provincia in cui si trova proprio Mcensk) che ebbe per protagonista una giovane che ammazzò il suocero.

Quindi nulla da eccepire sull’idea portante del regista; peccato che sia un’idea magari facilmente realizzabile a livello cinematografico, con abili montaggi o diavolerie assortite, ma che in uno spettacolo live, dove c’è una trama testualmente e musicalmente rigida è infinitamente più ardua da gestire compiutamente, senza rischiare di far perdere allo spettatore il filo del discorso, o senza dover presupporre che tutto il pubblico conosca per filo e per segno ogni particolare della trama dell’opera.

Nel nostro caso il racconto del regista, trattandosi di un’inchiesta giudiziaria, ovviamente non può che partire da dopo che il misfatto (nella fattispecie l’uccisione di Zinovy, che è l’unico delitto su cui viene aperto un fascicolo – la morte di Boris essendo stata subito archiviata come disgrazia) è stato accertato con la scoperta del cadavere da parte dell’Ubriacone, che ne avverte la Polizia. Ma ciò avviene nel terzo atto dell’opera, a mesi di distanza dal punto di partenza della vicenda e a quasi due ore di distanza dall’apertura del sipario!

E allora, il povero Barkhatov cosa avrebbe dovuto fare? Far iniziare l’opera con la Scena 8 (scoperta del crimine) e poi a seguire la 5 (ricostruzione delle circostanze in cui il crimine è avvenuto) e così rinculando, per chiarire tutti i precedenti (scoprendo di passaggio anche il primo omicidio) il tutto a forza di flash-back? Mammamia, altro che de-strutturazione del soggetto, sarebbe stato come sconvolgere la normale sequenza delle tracce di un DVD!

In realtà, ciò che ci viene presentato (testo e musica) è ovviamente la successione dei fatti in modo temporalmente rettilineo, come previsto dalla partitura, ma per così dire inquinata dalla saltuaria presenza (indebita, nel soggetto originale) delle attività inquisitorie della Polizia. Lo spettatore dovrebbe, fin dall’alzata del sipario, dove compare l’Ufficiale di Polizia, comprendere che tutto ciò che vedrà fino al terzo atto (scoperta del cadavere di Zinovy e arresto di Katerina e Sergei) altro non è che un lunghissimo flash-back! Solo a quel momento si riannoderanno tutti i fili rimasti pendenti! E la cosa non è per nulla scontata, almeno per quella parte di pubblico non bene informato dei fatti

Allora, per chiarire meglio ciò che lo spettatore vede e i relativi interrogativi ed enigmi che possono insorgere nella sua mente, faccio ora una sinossi abbastanza dettagliata dei primi tre atti dell’opera così come appare nella messinscena di Barkhatov, per trarne qualche plausibile considerazione.

Prima però è necessario spiegare che Barkhatov si serve, come supporto per il suo racconto, di alcuni strumenti e/o accorgimenti. Innanzitutto, l’Ufficiale di Polizia (così come i suoi collaboratori) rimane sempre rigorosamente muto (canterà/parlerà solo nel terz’atto) e si limita ininterrottamente a fumare. Invece il sospettato o testimone interrogato, a volte si esprime proprio cantando come da partitura, mentre altre volte si esprime solo a gesti (quando deve fare qualche commento o spiegare o fornire sue impressioni su fatti accaduti in precedenza, tutte cose estranee al libretto) gesti che sta allo spettatore decifrare correttamente. In più, durante gli interrogatori faccia-a-faccia fra Ufficiale e testimoni-sospettati, vengono proiettate sullo schermo sovrastante il proscenio delle immagini che forniscono qualche più o meno chiaro riferimento all’oggetto di tali interrogatori. C’è da aggiungere che alcuni interrogatori vengono utilizzati per dare contenuto scenico all’esecuzione di Interludi, cosa che può avere effetti contrastanti…    

Ecco, vediamo ora di addentrarci nei dettagli. La prima scena che lo spettatore vede – a sipario chiuso - mostra al proscenio un Ufficiale di Polizia che interroga Katerina che porta in testa il velo da sposa. In più, ha le manette ai polsi, e le prendono le impronte digitali, ergo dobbiamo pensare che sia sospettata di un qualche reato. Ciò avviene mentre lei canta – rivolgendosi all’Ufficiale - l’insopportabile noia che l’affligge, non avendo alcuno con cui condividere l’esistenza, men che meno con il marito Zinovy, che la trascura e le nega i piaceri della vita matrimoniale. Sullo schermo sovrastante appaiono immagini che raffigurano i documenti di Katerina, le sue impronte e, fugacemente, proprio mentre Katerina ne fa il nome, una cassaforte-cantinetta che contiene il cadavere di Zinovy (come lo si scoprirà nel terz’atto) del quale compare una fotografia. Ma ancora non lo abbiamo visto di persona… quindi allo spettatore che sta magari guardando il testo cantato da Katerina sul suo display e non ha badato bene alla foto che compare sul palco potrebbe sfuggire questo dettaglio di importanza capitale.

Chi conosce bene la trama dell’opera e si domanda del perché qui si inizi dalla confessione di Katerina non può non concludere che la donna stia riferendosi proprio all’omicidio del marito (che si vedrà solo alla fine del second’atto) e al relativo movente. Il misfatto verrà scoperto solo nel terzo atto, quando si vedrà – ormai saremo in presa diretta, non più in flash-back - l’arresto e l’ammanettamento della donna dopo che la Polizia, avvertita dall’Ubriacone, avrà scoperto il cadavere di Zinovy in quella cassaforte-cantinetta. A quel momento – ecco un filo pendente che si riannoda - le verrà anche fatto indossare un cappottone scuro, che è proprio quello che lei indossa ora. Chi non conosce bene la storia, temo che per ora resterà piuttosto perplesso…

Subito dopo ecco che Katerina si sposta in un salone da pranzo dove incontra il suocero Boris che, come da libretto, la accusa di inadempienza ai doveri coniugali. Ma lì sono presenti e testimoni numerose altre persone, alle quali si aggiunge presto anche il marito Zinovy, che ascolta la requisitoria del padre contro la moglie (!?) Ma soprattutto in un angolo scopriamo essere presente anche la Polizia, che toglie le manette dai polsi di Katerina (che nel frattempo si è tolta anche il velo nuziale) e ascolta le sue parole che augurano a Boris - che le chiede di spargere il veleno contro i topi - di meritarsi proprio di far la loro stessa fine. Come spieghiamo la presenza della Polizia in una scena che mostra fatti di parecchi mesi antecedenti al misfatto oggetto dell’indagine? Se abbiamo capito trattarsi di un flash-back, possiamo immaginare che la scena sia parte della confessione di Katerina, che racconta, proprio mostrandoli alla Polizia, gli antefatti al suo crimine, e comincia ad introdurre anche elementi che riguardano il suo primo delitto, l’avvelenamento di Boris.  

E infatti, mentre Boris e Zinovy discutono dei guai al mulino, vediamo la Polizia portare Katerina in un ambiente attiguo dove la donna mostra all’Ufficiale, estraendola da sotto una catasta di sacchi di farina, una busta che dobbiamo immaginare contenga veleno per topi, a giudicare dalla polvere bianca che ne esce quando l’Ufficiale la apre. Ma anche questo filo resterà pendente e si riannoderà solo al secondo atto, quando vedremo Katerina nascondere quella busta in quel posto. Nel frattempo, una barella con un imprecisato carico viene portata via, seguita da Katerina e Polizia. Ora, chi conosce a menadito tutta la storia, potrà immaginare trattarsi del cadavere di Zinovy, ma… uno spettatore impreparato come la prende?

Ora (assente la Polizia) vediamo Zinovy che si prepara a partire, accompagnato dagli ipocriti saluti della servitù, cui si è aggiunto il nuovo assunto Sergei, in abbigliamento da cameriere, che serve pasticcini. Il sipario si abbassa e ricompare l’Ufficiale di Polizia che, durante il primo Interludio, raccoglie la testimonianza contro Sergei cantata dalla cuoca Aksinya, testimonianza che nel libretto ha però come destinataria Katerina (!?) Quindi interroga (ma solo a gesti, visto che siamo fuori dal libretto…) proprio Sergei, anche lui già ammanettato, evidentemente come individuo sospetto. Che qui indossa un cappotto scuro, che lui indosserà (ma dovremmo dire: ha indossato!) nel terz’atto, al momento del suo arresto durante la festa di matrimonio.  

Sergei che rivediamo subito in mezzo alla servitù nella successiva scena della baruffa in cortile, con annesse molestie ad Aksinya, stupro incluso (ma non esplicitamente mostrato). Poi arriva Katerina a fare il suo pistolotto femminista e a sfidare ad una prova di forza Sergei; di seguito ecco Boris che minaccia la nuora di raccontar tutto al marito e farla punire.

Il secondo interludio viene ancora occupato dall’Ufficiale di Polizia al proscenio che ascolta le testimonianze relative alla baruffa (solo a gesti, perché non sono parte del libretto, quindi del tutto inventate) fatte dal Prete e dall’Ubriacone che stazionano in permanenza nella casa. [Che rilevanza abbia tutto ciò con l’indagine lo sa solo il regista… a meno che non si illuda con questa trovata di aver dato valore aggiunto alla musica.]

La terza scena è veramente tutta da… ridere: non in camera, ma in un ampio salone da pranzo, dopo che Katerina ha esternato ancora la sua infelicità per non essere desiderata come donna, prima di Sergei arriva… la Polizia! Che ammanetta Katerina e le chiede – sempre solo a gesti, essendo tutto ciò parte dell’invenzione registica - insieme al parimenti ammanettato Sergei arrivato subito dopo, di mostrare la scena del loro primo incontro! Come inchiesta giudiziaria è bizzarra per davvero! I due ci provano, ma ovviamente le manette ai polsi li costringono a improbabili contorsioni da Kamasutra per mostrare agli agenti come si erano svolti i… preliminari. Può essere che questo sia l’escamotage che il regista ha trovato per mostrarci un coito in modalità castigata (ma sul display del teatro compare comunque il warning riguardante scene che urtano la sensibilità… hahaha!) Il che francamente manda un po’ in… vacca quella che dovrebbe essere la scena più eccitante dell’opera. Ma la Polizia è di manica larga e, prima di andarsene con le prove raccolte, toglie le manette ai due giusto in tempo per lasciarli sfogare in una sveltina su un tavolo, mentre si ode la voce di Boris (per inciso mai coinvolto nelle indagini, essendo… morto da tempo!) con il sipario che cala sul primo atto.  

Il secondo atto si apre con un fugace interrogatorio, sempre tutto a gesti, fra l’Ufficiale di Polizia e Sergei, ancora abbigliato con il cappotto che vedremo indossare al momento dell’arresto: il contenuto dell’incontro è ancora una volta il veleno per topi che Katerina metterà nel piatto di funghi per Boris, dopo la scena della fustigazione, veleno del quale Sergei sembra affermare di non saper nulla… lui da Boris stava ricevendo una manica di frustate. Seguono, nella quarta scena, il soliloquio di Boris (qui però esternato in presenza degli onnipresenti personaggi-caricatura, come il prete, l’Ubriacone e la guardia giurata, e della cassaforte-cantinetta già apparsa in fotografia, con cadavere di Zinovy incorporato, durante il primissimo interrogatorio di Katerina, altro filo che comincia a riannodarsi) e la cattura di Sergei che sta uscendo dal notturno appuntamento con Katerina.

Poi le ecco le frustate e la richiesta di Boris di avere i funghi per rifocillarsi. A questo punto riemerge l’Ufficiale di Polizia che raccoglie – bustina di veleno ben visibile - il proposito di Katerina di avvelenare il suocero, poi scompare e si torna da Boris che mangia i funghi e comincia a star male. Si cerca un prete, ma quello stanziale lì è sempre ubriaco; quindi il regista lo rimpiazza con lo chèf, che raccoglie la confessione di Boris e ne constata la morte. Katerina rimette la busta col veleno in mezzo ai sacchi di farina – da dove lo estrarrà per consegnarlo all’Ufficiale durante la scena iniziale… ecco un altro filo che si riannoda – poi finge il suo strazio per la morte di Boris, mentre lo chèf filosofeggia citando Gogol. Riemerge ora l’Ufficiale di Polizia per ascoltare dallo chèf la filosofica battuta sui ratti che muoiono e gli uomini che invece passano a miglior vita. [Anche questo non sembrerebbe proprio un dettaglio decisivo per l’inchiesta…]

Dopo l’Interludio con Passacaglia, che accompagna le esequie del vecchio, ecco la quinta scena, con Katerina e Sergei (finalmente!) a letto. Arriva il fantasma di Boris, che cerca pure di ingropparsi la nuora, e infine, annunciato dalla fanfaretta rossiniana, anche Zinovy, che il regista – arricchendo di suo il testo del libretto - ci mostra arrapato mentre chiede alla moglie di spogliarsi e, calati i calzoni, si avventa su di lei, ma viene poi finito da Sergei, uscito dal classico armadio, con un colpo di candelabro pattino da hockey! Prima che Sergei trascini in cantina il cadavere ricompare magicamente l’Ufficiale di Polizia, che fa ripetere ai due assassini (su un manichino…) l’atto finale dell’assassinio, per poter meglio descriverlo nel suo fascicolo di indagine, prima di dileguarsi nel sottopalco! Il successivo trasporto in cantina è sostituito dallo stipare un manichino in quella che prima era la cassaforte-cantinetta di Boris, come raffigurata nella foto apparsa all’inizio, durante il primo interrogatorio di Katerina (altro filo che si è riannodato completamente).

Qui finisce il lunghissimo flash-back iniziato con la prima scena, in casa di Boris, e si passa in modalità live. Come da libretto, l’atto terzo inizia da dove è finito il secondo, cioè… vicino alla cassaforte-cantinetta dove è nascosto il manichino cadavere di Zinovy. Mentre i due neo-sposi si preparano ad andare in Chiesa, arriva l’Ubriacone che canta la sua splendida aria, e poi scopre il cadavere, fuggendo verso il posto di Polizia, che ci viene presentato nella sua tragicomica animazione durante l’esecuzione del quarto Interludio. Qui ritroviamo finalmente nel suo ambiente naturale l’Ufficiale di Polizia che avevamo conosciuto fin dal primo alzarsi del sipario! E che nel seguito vedremo, in tempo reale, iniziare la sua indagine… ammanettando Katerina appena sposata, con tanto di velo nuziale in testa, proprio come ci era apparsa all’inizio dello spettacolo!

Ma l’indagine è anche, contemporaneamente, chiusa, perché ne abbiamo appunto seguito il lungo sviluppo per due ore abbondanti. Ciò che segue parla solo di… Siberia.

Ecco, domandiamoci: ma che valore aggiunto dà allo spettacolo questa posticcia, anche se non del tutto inventata, sovrastruttura poliziesca? Penso che uno spettatore minimamente informato dei fatti ci faccia semplicemente un’alzata di spalle, catalogandola come un’ennesima quanto innocua trovata della serie famola strana.  Ad uno spettatore che si avvicina per la prima volta a quest’opera, temo che più che altro confonda parecchio le idee.

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Bene, terminato il tormentone esegetico su Barkhatov non mi resta che attendere, come tutti gli altri spettatori di ieri sera, che il Teatro ci informi del follow-up. Ma ciò che importa è che il Maestro torni più sano che mai sul podio - le ultime notizie sono incoraggianti -  perché da lui ci aspettiamo ancora anni e anni di arte!

07 dicembre, 2025

La Ledi per TV.

Prime impressioni sulla Ledi dopo audiovisione RAI. Su musica e voci mi esprimerò dopo ascolto in loco, ergo per ora mi limito allo spettacolo firmato dall’estroverso papà dei figli della Grigorian

A pubblicizzarlo è stato Chailly, che deve aver scoperto solo ora che anche la Ledi si può attualizzare a tempi diversi da quelli del testo originale (nella fattispecie alla Russia dell’immediato dopo-Stalin) come se questa fosse una trovata geniale da lasciare tutti a bocca spalancata. Quando invece ormai si impiega a destra e a manca, a proposito e (spesso) a sproposito.

Qui mi pare che la genialata… stagionata abbia però pieno diritto di trovare applicazione, data la vicinanza dello scenario della Russia ancora fresca di terrore staliniano a quello della Russia feudal-medievale dello Zar, dove si materializzò la vicenda così puntualmente narrata da Leskov e ripresa dalla coppia Shostakovich-Preis (qui un mio bigino dell’opera).

Anzi, si potrebbe addirittura affermare che il regista abbia tenuto tirato il freno a mano, evitando un’ambientazione a noi ancor più vicina, ma del tutto plausibile e pure auspicabile, con la Russia di Putin ormai scivolata (dopo le speranze seguite alla caduta dell’URSS) indietro di quasi un secolo! E dove, dall’altra parte della barricata, persino il nostro mondo (cosiddetto) libero e democratico sta pericolosamente rinculando di un secolo abbondante.

Ecco, dato a Barkhatov ciò che gli spetta, commenterò qualche dettaglio del suo Konzept. Che ha, per i primi due atti (e relativi omicidi) la struttura di un racconto a puntate (Leskov…) fatto di passi di indagine poliziesca, dove vengono raccolte testimonianze (sono i soliloqui di Katerina, ma anche esternazioni di altri personaggi) che si alternano alle parti in presa diretta. Diretta che poi non si interrompe più a partire dal terz’atto.  

Si legge che il critico Ivan Sollertinski definì a suo tempo l’opera come un frullato di Chaplin e Dostojevski: diciamo che Barkhatov ha usato più Chaplin nei primi due atti e mezzo (con trovate a volte azzeccate, a volte francamente eccessive o eccessivamente criptiche per un pubblico non preparato a dovere) e molto Dostojevski dall’arresto dei due complici amanti fino alla fine, con olocausto in piena regola (Katerina è esperta in cucina e sa come usare i fornelli, hahaha!)

Ma nel complesso lo spettacolo non ha mai perso tensione né scorrevolezza, e va poi dato atto al regista di aver curato la parte attoriale con grande sapienza, trovando tutti gli interpreti, singoli e coro, assolutamente all’altezza del compito.

Più che meritati quindi gli applausi e le ovazioni, non offuscate dal minimo dissenso, che hanno accolto indistintamente tutta la compagnia!  


30 novembre, 2025

Tjeknavorian da camera al Gerolamo.

Come pre-riscaldamento per il concerto russo del pomeriggio in Auditorium, questa mattina il Tjek ha portato nella preziosa bomboniera del Teatro Gerolamo alcuni archi della sua Orchestra Sinfonica di Milano per offrirci, al loro fianco e non sul podio, un concerto cameristico davvero sontuoso: Brahms e Strauss!

Ecco quindi lo splendido Sestetto op.18 n°1, per tre coppie di violini, viole e violoncelli. Con il Tjek erano, da sinistra a destra, Nicolai Freiherr von Dellingshausen (spalla dell’Orchestra), le viole di Kirill Vishnyakov e Miho Yamagishi, e i celli di Nadia Bianchi e Tobia Scarpolini.

Esecuzione da incorniciare. Il Tjek non ha nemmeno bisogno di indicare gli attacchi, tanta e tale è la perfetta intesa con gli amici che lo accompagnano; si limita a sguardi d’intesa con il dirimpettaio Scarpolini. E per il resto mostra un perenne sorriso di beatitudine nel condividere, con gli altri cinque e con noi, questo Brahms giovane, ancora non austero e burbero, ma laicamente sereno e distaccato.

L’emozione è grande, quasi a strappare lacrime di appagamento.

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Poi ecco le profondissime Metamorphosen straussiane, un autentico distillato di tutta la musica occidentale, prodotto da un protagonista assoluto del passaggio dall’epico tardoromanticismo al turbolento ‘900, proprio nei giorni più bui della nostra storia. Qui il brano, composto per 23 strumenti ad arco (10-5-5-3) viene eseguito in una trascrizione per settimino (Rudolf Leopold, 1996, sulla base di un manoscritto di Strauss rinvenuto nel 1990): ai sei musicisti del sestetto di Brahms si aggiunge, dietro agli altri, tra viole e celli, il contrabbasso di Joachim Massa.

Beh, se davvero quel manoscritto è autentico, bisogna dire che Strauss aveva visto giusto a pensare ad un organico ridotto (sul tipo del sestetto di Capriccio) poi ampliato a 23 archi per compiacere il committente/dedicatario/benefattore Paul Sacher. Naturalmente, se ad eseguirlo è un gruppo di autentici solisti, trascinati dal loro ispirato leader.  

Sotto l’ultimo rigo della partitura, dove è citato il tema della Marcia funebre della Quinta beethoveniana, Strauss vergò il motto IN MEMORIAM!

Il Tjek ha voluto perciò rispettare un minuto di silenzio (del tutto appropriato peraltro rispetto alle presenti luttuose circostanze…) tenendo l’archetto a mezz’aria: qualcuno fra il pubblico ha cominciato ad applaudire assai prima, poi zittito dal… silenzio generale.


29 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.5 – Tjeknavorian-Obiso.

Tutta Russia per il concerto settimanale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il Direttore Musicale e al violino Andrea Obiso. Pubblico strabocchevole!

Programma di struttura ultra-classica (Ouverture, Concerto solistico e Sinfonia) aperto nel nome di Michail Glinka, il compositore considerato padre del teatro musicale russo (con la sua Una vita per lo Zar del 1836 si aprì la grande stagione romantica russa di cui saranno protagonisti Ciajkovski, Musorgski, Rimski-Korsakov, …) Qui viene presentata l’Ouverture da Ruslan e Ljudmila (1842, ispirata a Puškin). 

L’Ouverture è un brano breve (6 minuti scarsi) e indiavolato, fatto apposta per scaldare a dovere i suonatori e catturare l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico. È un vero pezzo di bravura per le orchestre (archi in testa) che da sempre si sfidano a chi la sa suonare più velocemente. In partitura c’è l’indicazione metronomica di 140 minime (o 135, per i dilettanti, ed è già parecchio) che significa un tempo totale teorico di meno di 5’35” (l’intero brano in C tagliato è notato come Presto per 372 battute e Più mosso per le restanti 30). Quel demonio che rispondeva al nome di Yevgeny Mravinsky la fece eseguire ai Filarmonici di Leningrado (che qui gli tengono splendidamente bordone!) addirittura in 4’38”, equivalente a più di 173 minime, un vero record!

Ecco, non saprei dire se il Tjek abbia fatto meglio di Mravinsky, ma deve essergli andato assai vicino! 

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Andrea Obiso, bambino prodigio, oggi poco più che trentenne, che coniuga l’attività di concertista con la prestigiosa posizione di spalla a Santa Cecilia, fa il suo esordio in Auditorium con l’inflazionato Concerto op.35 di Ciajkovski.  

Che, alla sua prima esecuzione viennese, il simpatico Eduard Hanslick accolse con questo caloroso indirizzo di benvenuto:

“Il compositore russo Ciajkovski non è sicuramente un talento ordinario, ma piuttosto gonfiato, con un'ossessione da genialoide senza sensibilità nè gusto. Tale è anche il suo ultimo, lungo e pretenzioso Concerto per violino. Per un po' si muove sobriamente, musicalmente e non senza carattere. Ma presto la volgarità prende il sopravvento e si afferma fino alla fine del primo movimento. Il violino non viene più suonato; viene stirato, strappato, bastonato. L'Adagio torna al suo miglior comportamento, per rappacificarsi con noi e convincerci. Ma ben presto sbrocca per far posto ad un finale che ci trasferisce nella brutale e miserabile allegria di una festa russa. Vediamo precisamente facce selvagge e volgari, ascoltiamo bestemmie, sentiamo odore di vodka. Friedrich Vischer una volta osservò, parlando di immagini oscene, che puzzano alla vista. Ecco: il Concerto per violino di Ciajkovski ci porta per la prima volta a fare la pessima constatazione che ci può essere musica che puzza all’orecchio.”

Beh, qualcuno non troppo tempo fa prese Hanslick in parola, usando le note del concerto come colonna sonora per pubblicizzare precisamente un prodotto di… spirito

Ma in fin dei conti, parlando di pubblicità, anche il buon Piotr per primo si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato):

Aveva ragione Hanslick! Nel senso che Andrea ci ha letteralmente ubriacato di suoni con una prestazione trascendentale, per tecnica stupefacente unita a sapientissimo uso del rubato e di tutti gli ingredienti interpretativi che solo un fuoriclasse possiede. Cosa non è stata poi la massacrante cadenza dell’Allegro moderato, che però abbiamo scoperto - dopo l’uragano di applausi (ripetutisi ad ogni fine di movimento…) e finali urla belluine che il pubblico gli ha riservato - essere solo il riscaldamento in vista dell’immancabile bis, una cosa da marziani!

Abbracci ripetuti fra i due protagonisti (verrebbe voglia di ascoltarli suonare insieme…) e inchini e applausi di Obiso all’orchestra, da lui pubblicamente elogiata, prima del bis. Insomma, un'autentica consacrazione per tutti. 
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Il concerto si è chiuso con Rachmaninov e la sua Seconda Sinfonia. Per la quale devo ammettere di non nutrire particolare ammirazione: il Rach sinfonico (esclusa la sfortunata e innovativa Primafrancamente mi dà l’impressione di velleitarismo coniugato con il tentativo di accaparrarsi a buon mercato il favore del pubblico (cosa che per la verità accade regolarmente!) Molto fumo e poco arrosto, insomma, più che tardo-romanticismo mi pare… la metastasi del romanticismo, come ho già scritto in passato, commentando altre esecuzioni, sia qui che altrove.

La dimostrazione che (forse) non ho tutti i torti sta nel trattamento che spesso è stato riservato (persino con l’avallo dell’Autore!) alla Sinfonia, tagliata a volte in maniera addirittura barbara (durata ridotta da 60 a 40 minuti!) e come minimo (quasi) mai eseguita – nemmeno qui - con il da-capo dell’esposizione del movimento iniziale.

E però – incredibile! - il Tjek è riuscito a farmela gustare quasi come un piatto prelibato! E per di più senza de-romanticizzarla (si dice così?) né toglierle tutte le scorie decadenti e melliflue di cui è ricoperta. Ecco fin dove può arrivare il carisma! [E domani mattina questo mago sarà al Teatro Gerolamo con le sue… stringhe.]


28 novembre, 2025

Lohengrin di Mariotti-Michieletto in TV.

L’Opera di Roma ha aperto la stagione con il Lohengrin della coppia di esordienti wagneriani in buca e alla regia, cui si è aggiunto l’esordiente protagonista, Dmitry Korchak. Personalmente ho ascoltato prima in radio e poi, con calma questa mattina, ho visto la ripresa TV. [Nota a margine: come ormai di lunga tradizione, anche a Bayreuth, vengono tagliate le 168 battute che separano il racconto di Lohengrin (In fernem Land…) dal ritorno del cigno.]

Il battesimo di Mariotti è da giudicare a pieni voti, un approccio quasi perfetto per quest’opera che fa da spartiacque nella produzione wagneriana, e ha molte affinità con il belcanto italiano. L’ascolto tecnologico consente solo di valutare con buona approssimazione l’agogica, mentre le dinamiche sono fatalmente falsate rispetto all’ascolto dal vivo. Ecco, sulla gestione dei tempi di Mariotti mi sento di dire solo bene, anzi benissimo.

Il Coro di Ciro Visco, che Wagner impegna spesso a sezioni distinte, è parimenti da lodare, per compattezza ed anche per… dizione.

Fra le voci ha svettato su tutti Korchak, che ha proprio impersonato il protagonista con approccio belcantistico, pienamente aderente alla natura musicale del ruolo.

Bene anche la Elsa di Jennifer Holloway, capace di passare dalla mestizia della sua condizione alla gioia della materializzazione del miracolo, all’ingenuità del suo rapporto con Ortrud, e da qui al lancinante e insopportabile dubbio con conseguente crollo delle sue certezze e perdita della grazia ricevuta.

A proposito di Ortrud, più che apprezzabile Ekaterina Gubanova, dalla quale mi sarei aspettato ancor più grinta di quella messa in campo.

Tómas Tómasson è stato un solido Telramund, vocalmente e scenicamente, anche lui efficace nei cambiamenti psicologici imposti dalle trame della moglie.

Onesta la prestazione di Andrei Bondarenko, il portavoce del RE, mentre proprio quest’ultimo – Clive Bayley – mi è parso decisamente sotto la media degli altri.

I quattro maschi del Progetto Fabbrica e le quattro donne del coro hanno completato degnamente il cast. Per tutti grandi applausi e ovazioni.

Michieletto? Mah, dirò subito che i buh (fra le ovazioni) che lo hanno accolto alla fine mi son parsi eccessivi, se non ingiustificati: definirei la sua una regia innocente, nel senso di non aver perpetrato crimini contro il soggetto. Perché oggi ormai nessuno deve scandalizzarsi se i brabantini non sono abbigliati come nell’anno 1000 o se è Lohegrin a trascinare il cigno e non viceversa… O se la tenzone non è all’arma bianca, ma sa di prova per fachiri. O se, al finale happening sulla Schelde, non vediamo quattro diversi gruppi di soldati arrivare sul palco cavalcando equini in carne ed ossa (come vaneggiava Wagner!) ma un ammasso indistinto di popolo. O ancora: Ortruda che cerca di affogare Elsa alla fine; o la mancanza della… locomotiva della barchetta di Lohengrin per il ritorno (la colomba del Gral). Insomma, tutte trovate gratuite ma, appunto, irrilevanti.

L’unico affronto alla sostanza dell’originale è – a mio modesto avviso - la diversa fine fatta fare ad uno dei quattro personaggi principali dell’opera: Telramund. Presentarcelo come suicida prima e non come vittima di Lohengrin( sia pure per legittima difesa) durante la fatal scena dello spergiuro di Elsa, mi sembra proprio un affronto alla personalità di Telramund, che Wagner ci dipinge come pronto a tutto e perfettamente convinto delle teorie di Ortrud.

Apprezzabili invece i richiami, fin dal Preludio, all’antefatto riguardante Gottfried, con la reiterata apparizione in scena del piccolo; e l’ultima esternazione di Lohengrin, che arriva da fuori scena, cioè da lontano, ormai nel viaggio di ritorno a Monsalvat.   

In definitiva, almeno stando a ciò che ci è pervenuto grazie alle diavolerie tecnologiche, una proposta di alto livello.


22 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.4 – Ceretta-Lucchesini.

Dopo poco più di un anno dal suo esordio con laVerdi, il rampante Diego Ceretta (che stabilmente guida la ORT) torna sul podio dell’Auditorium per dirigervi un impegnativo programma, condiviso nella prima parte con Andrea Lucchesini, già ospite qui nel 2017. Pubblico abbastanza folto, nonostante la giornata davvero proibitiva, e ben disposto.

Programma aperto da Compass, recital per pianoforte e orchestra, che Luciano Berio compose nel 1994 (Ceretta doveva ancora nascere!) avvalendosi della collaborazione di Renzo Piano per gli aspetti visivi e coreografici per cui l’opera avrebbe dovuto caratterizzarsi. [Ma l’originale di Berio-Piano fu stravolto – rispetto alla volontà degli autori - alla prima zurighese del 1995, pur accolta con successo dal pubblico, così Berio fece pubblicare solo la partitura, priva di ogni riferimento visivo e coreografico, da eseguirsi – appunto - esclusivamente in concerto, come è avvenuto qui.] 

L’opera è una specie di centone (si direbbe in gergo melodrammatico) di opere di 5 e fino a 40 anni precedenti, rivisitate e arricchite da interventi dell’orchestra (che ha tre numeri per sé, e per il resto accompagna con discrezione il solista) in 11 tappe: quindi testimonianze di stili e approcci diversi, rivisitati alla luce dell’esperienza. 

Lucchesini è chiamato ad un tour-de-force non da poco, e se la cava alla grande, tenendoci sempre sulla… corda (insomma, questa non è propriamente musica fischiettabile) e così come digestivo (haha!) ci propina caritatevolmente un bis in qualche modo collegato a Berio: > Rendering > Schubert > Improvviso in SOLb maggiore op 90 n°3 (la volta scorsa aveva fatto il n°2…) 

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La seconda parte del concerto è occupata da due opere del primo Novecento, ma di due compositori rimasti, pur con diverse personali attitudini, fedeli al tardo ‘800.

Ecco quindi i Valses nobles et sentimentales di Maurice Ravel, ovviamente nella versione orchestrale, derivata – per farci il balletto Adélaïde ou le langage des fleurs - da quella originale per solo pianoforte.

Ravel rende omaggio alla tradizione viennese (Schubert e Johann Strauss) componendo una specie di austero e raffinato distillato della danza che aveva spopolato per tutto il secolo precedente. Epigono quindi dei due tardoromantici per eccellenza, il Mahler che piegò il walzer al servizio dei suoi programmi esistenziali, e il Richard Strauss che ne esaltò invece gli aspetti più mondani e persino politici.

Sulla prima pagina della partitura Ravel riportò una frase di Henri de Régnier, intellettuale e poeta per cui aveva grande ammirazione e di cui citò spesso versi e aforismi: il piacere delizioso e sempre nuovo di un'occupazione inutile. E qualche anno più tardi completerà l’opera con il capolavoro di La valse, del quale già si sentono qui chiare anticipazioni.

Gli otto brani di cui si compone l'opera hanno una grande unità stilistica ed anche un ristretto campo tonale, con poche escursioni dal prevalente SOL. I primi sette (ad eccezione del 4 e 6) sono in tempi moderati o lenti. L'ultimo walzer, che fa da epilogo, presenta ripetuti cambi di tempo e agogica; e finisce proprio en se perdant, con archi e celesta ad esalare un accordo sulla dominante di SOL maggiore, appena appena increspato dai LA di celesta, violini secondi e viole.  

E infine ecco Ottorino Respighi e il suo poema sinfonico Fontane di Roma, brano di grande raffinatezza impressionista, aperto dai secondi violini con sordina (ad introdurre il tema debussyano negli oboi) con una vaga reminiscenza mahleriana:


Sono le prime battute di Der Einsame im Herbst, ambientato, guarda caso, nei pressi di un laghetto, di cui si ode il lento sciacquio, che qui rimanda al tenue sgocciolare della fontana di Valle Giulia.

Seguono due sezioni mosse, con lo squarcio di luce del sole che inonda il Tritone di prima mattina. Qui fa capolino anche Sheherazade del grande Rimski, maestro di Respighi:

E poi la fantasmagoria di zampilli e cascatelle di Trevi, dove la solenne sfilata del carro di Nettuno ricorda le poderose sonorità della straussiana Alpensinfonie. Si chiude con il tramonto di Villa Medici, languido quanto lo specchio d'acqua della circolare fontana, e scandito dai 29 (!) rintocchi della campana. 

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Ceretta, che ha diretto entrambi i brani a memoria, ha trovato la complicità di un’orchestra in gran forma, che lui ha guidato con autorevolezza e sobrietà di gesto, meritandosi il convinto consenso del pubblico e l’applauso ritmato - innescato dalla spalla Dellingshausen – che è sempre segno tangibile di apprezzamento anche da parte degli esecutori. 

21 novembre, 2025

SantAmbrogio si avvicina.

A Milano fervono le iniziative di divulgazione della prima del 7 dicembre, con incontri, conferenze e articoli di stampa.

Il 19 scorso Franco Pulcini e Riccardo Chailly hanno amabilmente discettato sulla Lady nel consueto appuntamento degli Amici della Scala, esaltando l’opera di Shostakovich come il più gran capolavoro di teatro musicale del novecento. Il Direttore musicale ha – come sempre – sottolineato alcuni particolari della partitura, come le controverse indicazioni metronomiche, a volte falsate proprio dal… metronomo (piuttosto scalcinato) di cui disponeva il compositore; oppure i richiami a Mahler (Lied von der Erde, Abschied) nell’aria del lago nero di Katerina; o l’inaspettata presenza – data la nota idiosincrasia del compositore riguardo la musica seriale – di una serie dodecafonica in piena regola! Sono state anche mostrate due esecuzioni di brani di Shostakovich dirette da Chailly: il Quarto Interludio dell’opera (l'indiavolata corsa dell’ubriacone verso la stazione di polizia, con la batteria di 28 ottoni!) e il secondo walzer della Jazz Suite 2 (oggi impiegato come sigla del talk di Augias La torre di Babele).

Fra pochi giorni il Teatro No’hma della benemerita Teresa Pomodoro ospiterà l’ormai tradizionale presentazione dell’opera, curata come sempre dal simpatico e raffinato Stefano Jacini.

L’iniziativa La prima diffusa propone la visione cinematografica del 7 dicembre in diverse sale della città, oltre ad una nutrita serie di incontri di presentazione dell’opera.

Sul fronte dei contenuti di divulgazione di alto livello segnalo questa fulminante presentazione di Max Vono, storico forumista del (purtroppo) defunto blog La voce del loggione, che sviscera tutti i segreti musicali del capolavoro di Shostakovich, mettendoli poi in relazione con i suoi successivi lavori strumentali, e sottolinea l’assoluta attualità del soggetto, il cui suono (cit) è ancora il suono del nostro caos.  


15 novembre, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – 25-26.3 - Tjeknavorian alla sfida con Verdi.

Per il Direttore musicale arriva un nuovo appuntamento capitale, un ennesimo esame di maturità: il Requiem verdiano! [Qui un mio personale bigino dell’opera.]

Eccezionalmente il concerto, oltre che domenica, come di consueto, sarà replicato anche questa sera, con impiego di strumenti indirizzati a persone con disabilità intellettive.

Concerto con una dedica tutta particolare, quanto appropriata: alla memoria di una storica bandiera dell’Orchestra, la leggendaria Viviana Mologni, che purtroppo da pochi giorni ci ha lasciato, piegata da una malattia inesorabile. Il Konzertmeister Santaniello, come lei decano dell’Orchestra, prima di ordinare all’oboe il LA per l’accordatura, l’ha voluta ricordare, chiamando il pubblico (alzatosi in piedi) ad un minuto di raccoglimento.

Ecco qui una toccante esternazione della maga dei timpani - precisamente di cinque anni fa - dopo aver tenuto a battesimo la nuova batteria acquistata dalla Fondazione con il sostanzioso contributo del suo fedele pubblico.  

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Auditorium gremito all’inverosimile, sul palco come in sala, e soprattutto con larga presenza di giovani e giovanissimi, che evidentemente dimostrano di essere molto più maturi di qualche ministro saputello…

Il Tjek, che ci ha abituato a dirigere tutto a memoria, si tiene invece la partitura sotto il naso. Ma questo non significa certo che la conosca poco, al contrario, il suo dev’essere un atto di grande rispetto per un lavoro con il quale è saggio non correre rischi. E ciò gli fa onore.

Il Coro, come l’Orchestra in forma strepitosa, è affidato alle cure di Massimo Fiocchi Malaspina.

Le quattro voci soliste (SATB) sono Chiara Isotton, Szilvia Vörös, Raffaele Abete e Manuel Fuentes; e parliamo subito di loro.

Chiara Isotton è ormai più che una promessa, e la sua voce potente, calda e penetrante ha svettato in ogni occasione, a partire dal Kyrie, poi nel Quid sum miser e nel Salva me, dove deve toccare il SI e il DO acuti; ancora nel sognante Recordare, dove si aggiunge al mezzosoprano per toccare il SIb; supera poi di slancio l’apnea del lungo legato sul Sed signifier. Ma ovviamente la prova più ardua per lei è l'interminabile Libera me: dove si cimenta con i drammatici declamati, i due urli sul LAb dell’Ignem, poi con il Requiem, chiuso mirabilmente con il lungo SIb acuto in pppp! Nella colossale fuga deve salire due volte al SI naturale, poi (ancora sul Libera me) al culminante DO, dove deve fronteggiare la marea di suono di orchestra e coro! Per poi portare l’atmosfera dal DO minore al maggiore, sulle ultime esalazioni del Libera me.         

Una gradita sorpresa (almeno per me, che l’ascoltavo per la prima volta) la Szilvia Vörös. Voce corposa, portamento ricco del pathos che la parte richiede. Dopo il suo esordio nel Kyrie è protagonista nel Liber scriptus, culminato nel LAb acuto dello Judicetur; efficace l’attacco del Recordare, commosso quello del Lacrymosa; dolce quello del Domine Jesu Christe che apre l’Offertorio. Da incorniciare Lux aeterna, di cui è protagonista assoluta.

Raffaele Abete ha sfoggiato voce chiara e squillante, fin dall’esordio nel Kyrie. Ma la prova più impegnativa per il tenore è notoriamente l’Ingemisco, e devo dire che lui l’ha superata abbastanza bene, chiudendo (in parte dextra) con il SIb forte che scende in piano al MIb. Apprezzabili i suoi contributi al Domine Jesu e al dolcissimo incipit dell’Hostias.    

Manuel Fuentes (da Alicante) ha completato più che degnamente il cast. Timbro forse non eccelso, ma buon portamento, messo in mostra, in particolare, nello… stupefatto Mors stupebit; poi nel Confutatis, dove passa efficacemente dal protervo al dolce; bene anche il contrappunto con il mezzosoprano nel Lacrymosa, come pure l’intervento (Libera) nell’Offertorio.    

L’esame del Tjek? C’era da dubitarne? Superato magna-cum-laude! Sarebbe lungo elencare tutte le perle della sua interpretazione: sonorità eteree, epici slanci, attenzione maniacale ai dettagli, precisione chirurgica negli attacchi a coro e strumenti…

Per farla breve: un trionfo epocale, con pubblico in delirio e ovazioni per tutti.   


08 novembre, 2025

Sulla Scala incombe una Lady sovietica.

Siamo in guerra con la Russia, parliamoci chiaro (sennò come si spiegherebbe la montagna di quattrini da spendere in armi contro Putin, invece che per risanare la… Sanità?) e quindi ogni minima attività che possa inquadrarsi come propaganda filo-putiniana deve essere bandita e combattuta senza se e senza ma, come doverosamente han fatto i patrioti veronesi, sventando tempestivamente potenziali cabalette eversive del pericoloso Ildar Abdrazakov.

Ma con la… Lady che si fa? La locandina è piena di nomi di artisti russi (o affini…) a partire dal regista, quindi domanda: sono stati tutti accuratamente passati ai raggi X, prima che ce li ritroviamo in casa come quinte colonne del nemico?

Ma soprattutto: come la mettiamo con Shostakovich? Eh, qui le cose si complicano, perché ci sono due correnti di pensiero che fanno del compositore due ritratti opposti: la prima è garantista, e si appoggia essenzialmente sulle memorie di Shostakovich pubblicate nel 1979 da Solomon Volkov in un libro dal titolo Testimony, dal quale emerge la figura di un convinto anti-stalinista, che non perdeva occasione per esprimere in musica, magari cripticamente, critiche radicali contro il regime. L’altra corrente è colpevolista, ricordando come il compositore ebbe rapporti personali con Stalin ed accettò dal baffuto dittatore persino l’incarico prestigioso (altro che Scala…) di Ambasciatore dell’URSS alla Conferenza internazionale della Pace, tenutasi a New York nel 1949. 

Insomma, qui il CoPaSiR avrebbe materiale a josa per intervenire sulla scelta (avventata?) del Teatro di proporre l’opera di un personaggio così sospetto. E la DIGOS farebbe bene a tener d’occhio qualche sconsiderato, o pericoloso agitatore, che potrebbe uscirsene il 7 dicembre, davanti ad un esterrefatto Mattarella, urlando Viva la Russia anticapitalista!

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Bene, esaurita la politica, passiamo alle notizie serie.

Oggi pomeriggio, nel ridotto Toscanini del Teatro, si è tenuta un’interessante conferenza, moderata da Raffale Mellace, dove sono state esaminate alcune peculiari problematiche in vario modo legate all’opera.

Lo scrittore Paolo Nori (librettista della recente Anna.A di Sivia Colasanti), profondo conoscitore della letteratura russa, si è soffermato sulla personalità, sullo stile e sull’approccio estetico di Nikolai Leskov, lo scrittore che ispirò a Shostakovich (e al suo librettista Alexander Preis) il soggetto dell’opera.

Successivamente Franco Pulcini, super-esperto in materia… Rus, si è occupato in dettaglio del soggetto della Lady, esplorandone le principali sfaccettature e implicazioni, in particolare quelle legate alla figura della protagonista e ai suoi problemi esistenziali.       

Anna Giust, autorevole conoscitrice del mondo russo e in particolare di quello musicale, si è focalizzata sulle controverse vicende dell’opera, accolta entusiasticamente dal pubblico e poi stroncata (da Stalin in persona?) come sovversiva, e in generale sui rapporti fra arte e censura sotto il regime sovietico.

A conclusione dell’evento, Riccardo Chailly ha conversato con Raffaele Mellace, esplorando i tratti fondamentali di questo che lui considera uno dei massimi capolavori di tutti i tempi.  

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Anche se il taglio degli interventi è stato forse un po’ troppo, diciamo, specialistico, mi sento comunque di suggerirne la visione (il video dovrebbe arrivare su youtube), e nel frattempo mi faccio anch’io un po’ di pubblicità.