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02 agosto, 2025

Dopo Bayreuth, arriva a Pesaro il ROF-XLVI.

Dopo il convincente Meistersinger (di Gatti…), le conferme del Ring della Young e del Parsifal di Heras-Casado, il Lohengrin di ieri ha chiuso il primo turno di recite a Bayreuth. A proposito, Thielemann, alla ricomparsa del piccolo Gottfried – 5h29’50” - ha fatto cantare a Lohengrin, come sempre lui ha fatto (e come sempre si era fatto ovunque) la parola Führer invece dell’addomesticata Schützer, imposta in passato a Bayreuth dalla tenutaria Kathi Wagner – come qui a 3h17’52” - per ipocrite ragioni pseudo-politiche. La questione era stata alla base dei dissapori fra il Direttore e la stessa Wagner, che ha evidentemente ceduto all’autorevolezza di Thielemann, richiamandolo quest’anno dopo due stagioni di assenza e in più assegnandogli il prestigioso incarico per il Ring del 150°.

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Dal 10 al 22 Agosto Pesaro torna ad ospitare il Festival che dall’ormai lontano 1980 ha cambiato il volto della città rossiniana nel periodo culminante delle vacanze estive.

Frotte di pellegrini arrivano qui dalle parti più remote del globo terracqueo per seguire la rassegna che ogni anno propone (o ri-propone) produzioni di opere del grande Gioachino, impreziosite dalle cure della Fondazione Rossini che ne sta via-via realizzando (manca davvero poco al suo completamento) la cosiddetta Edizione critica.

Dal punto di vista logistico la novità di quest’anno è la… scomparsa dall’orizzonte di quella gigantesca vongola a valve spalancate che rispondeva al nome di Adriatic Arena e, più recentemente, a quello (personalizzato sullo sponsor) di Vitrifrigo Arena. Le tre opere del cartellone principale e il concerto finale saranno ospitati dal glorioso Teatro Rossini e (la sola Zelmira) dall’Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria) già riportato in servizio lo scorso anno.

Accanto a Zelmira avremo L’Italiana in Algeri e un dittico (La cambiale di Matrimonio accoppiata alle Soirées musicales) più il concerto finale che, invece di musiche rossiniane, ci offrirà quelle composte in onore e cordoglio del Maestro: la Messa per Rossini.

Altra novità di questa edizione: il ritorno dell’Orchestra del Comunale di Bologna (dopo il divorzio del 2017, con conseguente parentesi occupata dall’OSN-RAI) che si farà carico di tre dei quattro eventi principali: l’altro (il dittico) vedrà impegnata la locale Filarmonica Rossini.

I cori saranno affidati a Paolo Veleno che guiderà le masse del Ventidio Basso.

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Zelmira dovrebbe basarsi sull’edizione critica (già impiegata nel 2009, pur essendo ancora in fase di rifinitura a quella data) includendo quindi, in particolare, le due aggiunte fatte da Rossini al second’atto: per Vienna-1822, la nuova aria di Emma (Ciel pietoso, ciel clemente, qui a 8’09”) su versi di Giuseppe Carpani; e per Giuditta Pasta a Parigi-1826, la nuova aria di Zelmira (Da te spero, o ciel clemente, qui a 59’20”) e la successiva scena mutuata da Ermione (comprendente anche la cabaletta Dei, vindici ognor voi siete) aperta (1h03’42”) dal passaggio che Rossini si auto-imprestava per la quarta volta almeno (dopo le ouverture di Eduardo&Cristina, Bianca&Falliero, Mathilde di Shabran…):

Ovviamente tutto cambia rispetto alla precedente produzione del 2009: a Roberto Abbado succede sul podio Giacomo Sagripanti e la coppia di tenori (allora i fenomeni JDF-Kunde) sarà composta da Lawrence Brownlee e Enea Scala, con Anastasia Bartoli nei panni del title-role (allora fu la Aldrich).

La regìa del 2009 (Barberio Corsetti) fu ampiamente contestata, per la discutibile attualizzazione ai giorni nostri e altre assortite amenità. Vedremo come e quanto di meglio saprà meritarsi il mitico Calixto Bieito, che in fatto di immaginifiche visioni non scherza per davvero…

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Italiana: La nuova produzione è affidata all’ormai navigata Rosetta Cucchi, già presente al ROF nel 2018 con una simpatica Adina e nel 2022 con un controverso (perchè di stampo verista) Otello. Oggi il soggetto sembrerebbe prestarsi meglio al primo caso, il che fa ben sperare.

Sul podio ci sarà Dmitry Korchak e in scena terrà banco la decana del Festival, Daniela Barcellona. Mustafà sarà Giorgi Manoshvili al quale auguriamo lo stesso successo di Alex Esposito del 2013. E poi la Elvira di Vittoriana de Amicis e il duo di tenori Gurgen Baveyan / Josh Lovell. 

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Les soirées musicales sono dodici canzoni (4 su testi di Metastasio e 8 di Pepoli) che Rossini compose appena andato in pensione dall’opera, fra il 1830 e il 1835. Gli originali sono per voci e pianoforte, ma qui al ROF verranno presentati (per la prima volta) nella sobria orchestrazione di Fabio Maestri, come aperitivo alla Cambiale.

1. La promessa (Metastasio). Canzonetta (Allegretto in LAb maggiore, 6/8). È una lode che l’innamorato fa delle pupille dell’amata. Non smetterò mai di amarvi, né mai v’ingannerò: poiché siete e sarete il mio fuoco, finchè vivrò.

2. Il rimprovero (Metastasio). Canzonetta (Andantino in SOL maggiore, 3/8). Un innamorato respinto soffre in silenzio, ma l’amata, così crudele, non potrà impedirgli di amarla.

3. La partenza (Metastasio). Canzonetta (Andantino in SOL maggiore, 6/8). Fileno viene abbandonato dalla sua Nice. Vivrà solo di pene, pensando solo a lei. E lei, chissà se si ricorderà di lui…  

4. L’orgia (Pepoli). Arietta (Allegretto in SIb maggiore, 6/8). Inno a Bacco e a Venere!

5. L’invito (Pepoli). Bolero (Allegro moderato in LA minore, 3/4). Accorata invocazione di Eloisa al suo Ruggiero, perché venga finalmente a consolarla.

6. La pastorella dell’Alpi (Pepoli). Tirolese (Allegretto in DO maggiore, 3/4). La bella pastorella offre cibo e fiori a chiunque passi dalla sua casetta. Ma il suo amore… uno solo lo otterrà.

7. La gita in gondola (Pepoli). Bararola (Andantino grazioso in SOL e SIb maggiore, 12/8). Il marinaio invita la bella Elvira a raggiungerlo sulla laguna per provare le gioie d’amore.

8. La danza (Pepoli). Tarantella napoletana (Allegro con brio in LA minore, DO maggiore e LA maggiore, 6/8). È la canzone più famosa della serie, e verrà ripresa nel 1918, magistralmente orchestrata da Ottorino Respighi, come primo numero del suo balletto La boutique fantasque.

9. La regata veneziana (Pepoli). Notturno a due voci (Allegro moderato in DO maggiore, 6/8). In dialetto veneto, Tonio e Beppe si sfidano nella regata e una novizia trepida per il suo bene. In questa nona canzone c’è un motivetto danzante per terze impiegato alla lettera da tale Franz vonSuppè nel 1846 (quindi più di 10 anni dopo la composizione di Rossini) nella sua operetta Dichter und Bauer:

10. La pesca (Metastasio). Notturno a due voci (Andante grazioso in LAb maggiore, 3/8). La bella Nice viene chiamata dall’innamorato a godere la brezza in riva al mare.

11. La serenata (Pepoli). Notturno a due voci (Andantino in SIb maggiore, 12/8). Due innamorati si invitano reciprocamente ad inoltrarsi nella selva oscura, solo amore lo saprà…

12. Li marinari (Pepoli). Duetto (Allegro moderato in SOL minore e maggiore, 6/8). [Questa canzone era piaciuta anche a Wagner.] Due marinari si fanno reciprocamente coraggio nel mare che minaccia tempesta. Ma alla fine torna il sereno e si torna a terra, dalla propria… bella.

Le quattro voci impegnate (tessiture da quartetto SATB) sono tre protagonisti dell’Italiana (De Amicis, Niño e Baveyan) più Paolo Nevi (che compare in Zelmira).

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La Cambiale riprende la speciale e coraggiosa produzione di Laurence Dale (con Gary McCann e Ralph Kopp) del 2020, che fu una vera scommessa… dato che si era in piena emergenza-Covid! Sul podio salirà Christopher Franklin, che succede all’allora quasi esordiente Korchak. 

A Pietro Spagnoli (nel ruolo di Mill) spetterà il compito di ripetere la maiuscola prestazione di allora di Carlo Lepore. Mattia Olivieri non dovrà farci rimpiangere Iurii Samoilov e Paola Leoci dovrà vedersela con il complesso personaggio di Fanni.

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La Messa per Rossini nacque da un’idea di Giuseppe Verdi, un anno dopo la scomparsa del genio pesarese. In queste scarne note, scritte in occasione di un’esecuzione guidata da Chailly alla Scala del 2017, avevo riassunto le bizzarre vicende dell’opera, dalla genesi alla sepoltura e poi alla… resurrezione.

E così oggi questa Messa a 13 mani approda anche al ROF, che significativamente la dedica alla memoria dell’indimenticabile Gianfranco Mariotti, suo padre spirituale e materiale, scomparso nello scorso novembre.

Sarà Donato Renzetti a dirigerla, con le autorevoli voci del citato Korchak e della rampante Vasilisa Berzhanskaya. Caterina Piva, Misha Kiria e Marco Mimica completano il cast.

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Quanto alla diffusione via etere, Radio3 rimane fedele alla tradizione, irradiando le prime tre serate (10-11-12) alle ore 20 (salvo l’ipertrofica Zelmira, che inizia alle 19:00).

Qui le consuete tabelle statistiche relative alle edizioni del ROF.


26 luglio, 2025

Bayreuth: per Gatti buona la prima.

Con le doverose riserve da fare riguardo la qualità dell’ascolto radiofonico, questo mi è parso un esordio abbastanza positivo per questo Festival. E proprio grazie alla concertazione di Gatti, un approccio abbastanza sostenuto, ma scevro da eccessiva enfasi e retorica. Mirabile il Vorspiel per scavo minuzioso del suo contenuto squisitamente sinfonico.

Così come il concertato finale del second’atto, condotto con trasparente chiarezza, laddove spesso si ode un informe e magmatico vulcano sonoro. E poi il Preludio del terz’atto, una cosa da mozzare il fiato, con l’accorata meditazione di Sachs che anticipa strumentalmente il grandioso Wacht auf! cantato poi dal popolo in omaggio al wonnigliche Nachtigall, l’usignolo del Wittenberg, padre della moderna cultura tedesca.

Orchestra e coro sui loro altissimi standard. 

Quanto alle voci principali, personalmente promuoverei il Walther di Spyres e la Eva della Nilsson. Non mi hanno invece incantato né il Sachs di Zeppenfeld, voce quasi sgradevole per un personaggio di grande nobiltà, né il Beckmesser di Nagy, eccessivamente parodistico. Tanto per fare riferimento alla produzione scaligera del 2017, Volle e Werba erano di parecchi gradini al di sopra…

Non male il Pogner di Park, a parte la pronuncia alla barone-Ochs di straussiana memoria. Bene anche il segretario della Gilde, Kothner, impersonato da Shanahan e il David di Stier, con la sua babbiona Magdalene (Mayer al secolo).

Della regia posso solo prendere atto del benevolo giudizio della Susanna Franchi, inviata sul posto da Radio3; ma devo proprio esecrare l’impiego davvero esorbitante di applausi sulla scena, nel finale ritrovo sulla spianata della Pegnitz, ridotto a carnevalata che copriva la musica.   

A proposito di Radio3, trasmetterà in diretta anche i prossimi padre-figlio (Parsifal-Lohengrin) rispettivamente il 30/7 e il 1/8.

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Nel frattempo, è stato annunciato il Festival del 150° anniversario. Tre le novità principali: il 25 luglio sarà la Nona di Beethoven ad aprire la kermesse; poi l’esordio assoluto a Bayreuth di Rienzi (una vecchia promessa, ora mantenuta, della tenutaria Kathi) con ben 9 recite, e il Ring booleano (10010110, che è poi 150 in notazione binaria, impiegata da tutte le diavolerie elettroniche che ci circondano) manco a dirlo affidato al figliol prodigo Thielemann (nei cast manca Alberich!) Completano il palinsesto i già noti Parsifal e Holländermentre resta a riposo proprio il nuovo Meister.

22 luglio, 2025

Ancora un anno interlocutorio a Bayreuth.

Possiamo ben immaginare che la padrona di casa Kathi e la sua squadra siano tutti presi nella preparazione dell’edizione 2026, dove il Festival (e con lui il Ring) compirà 150 anni. Ma ciò non significa che anche quest’anno non venga prodotto un nuovo allestimento di uno dei drammi del sommo Richard.

Il prossimo 25 luglio tocca quindi aprire il Festival a Die Meistersinger, che vedrà il ritorno sul podio di Daniele Gatti, dopo l’esperienza non proprio trionfale del Parsifal (2008 e anni successivi). Noi scaligeri abbiamo ancora nelle orecchie la sua impeccabile direzione del marzo 2017 e possiamo ben sperare che il Meister (a proposito!) si faccia onore anche lassù. Vedremo anche come se la caverà l’esordiente Michael Spyres nel ruolo di Walther.

Completano il quadro i collaudati Tristan (Bychkov), Parsifal (Heras-Casado) e Ring (Young). Più il ritorno a casa, dopo due stagioni sabbatiche, di Christian Thielemann, che riprende il cammino lasciato nel 2022 con il suo Lohengrin del 2018. Chissà se si tratti di un ritorno di sintonia con la Kathy e magari proprio in vista del prossimo, fatidico Ring.

Ecco qui le mie solite tabelle statistiche sul mondo della verde collina.

Quanto alle possibilità di ascolto, la Radio Bavarese è ovviamente presente (quasi sempre) in diretta per le prime. Che saranno anche trasmesse (almeno Cantori, Anello e Parsifal) dagli spagnoli di Radio Clasica. Radio3 pare limitata, per ora, alla prima del 25.    

  

11 luglio, 2025

Un bel Trovatore in Auditorium.

Folto pubblico ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler per questo fuori-programma operistico dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretta da Vincenzo Milletarì e accompagnata dal Coro dell’Opera di Parma guidato da Massimo Fiocchi Malaspina. Pubblico anche… ehm, variegato, se nell’intervallo (dopo il second’atto) più di uno spettatore chiedeva alle maschere se il concerto fosse finito lì o continuasse ancora (!)

Due sostituzioni della penultima ora (per i ruoli di Leonora e del Conte) rispetto alla locandina originaria sono state ben assorbite e il risultato complessivo è stato più che lusinghiero, almeno a giudicare dall’autentico entusiasmo – applausi a scena aperta dopo ogni numero (arie, duetti, terzetti) - con cui il pubblico ha accolto tutti i protagonisti dell’impresa.

A cominciare dal Coro parmense, compatto e autorevole protagonista dei numerosi interventi che costellano i quattro atti dell’opera. E poi all’Orchestra, che mostra di non avere timori reverenziali nemmeno nei riguardi del grande Peppino, trovando sempre – grazie a Milletarì – i tempi, le dinamiche, l’espressività e la tracotanza che convivono in questa grande partitura.

Cito un paio di dettagli… logistici: dietro la quinta di sinistra del palco (da dove entravano e uscivano di scena i protagonisti) era sistemata l’arpa che accompagna Manrico nei due interventi da remoto; dietro quella di destra la campana che risuona nel primo, secondo e quarto atto. 

Note generalmente positive per i quattro protagonisti principali. Angelo Villari impersona abbastanza efficacemente un Manrico affetto da amore totalizzante, per la (presunta?) madre e per la donna angelicata, che lo spinge a imprese eroiche dagli esiti contrastanti (monastero-Leonora, Aliaferia-Azucena). Ed anche a maledire l’amata (Ha quest’infame…) per poi maledire se stesso come maledicente (Ed io quest’angelo…) Voce ben impostata, chiara e squillante, acuti solidi. A proposito: la pira? Beh, qui francamente siamo un po’ ai saldi di fine stagione: mutilata dell’esposizione e dell’intervento di Leonora, con i sovracuti apocrifi in… DO SI!

Alessia Panza (che ha preso il posto di Maria Novella Malfatti) è davvero convincente, per morbidezza di voce in tutta la gamma, nei panni di Leonora affetta da amore totalizzante (Tacea la notte placida…) proprio come quello di Manrico, che la spinge a sacrifici estremi (clausura – suicidio). Un particolare trionfo per lei dopo le due arie dell’atto conclusivo.

Ernesto Petti (subentrato a Daniel Luis de Vicente) sfoggia una voce rotonda e potente, capace di tutte le sfaccettature che caratterizzano il Conte dal carattere brutale, ma capace anche di slanci poetici insospettabili (Il balen…)

Silvia Beltrami interpreta la figlia dell’Abbietta zingara, un’Azucena dalla mente disturbata e dissociata, che confonde e mescola figlio e vittima, amore e vendetta, sogni e fatalismo. E lo fa con grande sensibilità ed espressività, sfoggiando una voce corposa in tutta la gamma, mai sconfinante in gratuite sguaiatezze.

I due comprimari si sono pure fatti onore. Adolfo Corrado, un solido e autorevole Ferrando; e Alessia Camarin, una Ines premurosa e comprensiva.

I tre membri del Coro (Gianluca Gheller che dà voce al fido Ruiz; Angelo Lodetti, Un vecchio zingaro; e Marco Gaspari, Un messo) hanno degnamente completato il cast.

In conclusione: esito trionfale e scommessa ampiamente vinta.

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E domenica altro appuntamento verdiano al Castello Sforzesco! 

08 luglio, 2025

L’Orchestra Sinfonica di Milano si dà… all’opera.

Di tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen, Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia verdiana a Piacenza, con Lanzillotta.]

Sul podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio, con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro, che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico, oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.

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Giusto per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno) pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è ancora fargli un panegirico…

Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.

Protagonisti sono due maschi (il Conte di Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la presenza in scena come minimo di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che il baritono sia persona di potere ed anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono. 

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli (salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del Conte.

Invece qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño) è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Quanto all’età dei due al tempo dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata, che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?

Se dobbiamo giudicare tutta la questione dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.

Infine, non è da trascurare l’effetto (su cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito (Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato dettava legge…  

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano) imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei protagonisti!  

Veniamo adesso a qualche critica sulla plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.

Comincio dalla quarta scena della prima giornata di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso) per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino. Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto con cui Verdi va a nozze!!   

La suspense che grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo proprio suo figlio!

E qui abbiamo una delle infinite inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede ingenuamente: e chi son io, chi dunque? Dopodichè accetta come nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare il suo racconto!

Ma subito dopo è proprio lui a raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora: ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un gelido brivido gli scuote le membra… mentre un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”

Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima occasione manderà il Conte al creatore!

Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news, mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare la festa al rivale!

Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.

Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.   

Altro schizofrenico comportamento nella prigione: dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne; quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli (Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!

Gratuita anche la circostanza relativa all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.

Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.

Ecco: il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!  

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DO di petto o SI di frodo?

Non può mancare ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo di mezzo (intervento di Leonora, in DO minore); riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):


battute
agogica
voci
verso
1-32
Allegro
Manrico
Di quella pira…
33-39
Più vivo
 
…e teco almen…
39-49
 
Leonora
Non reggo a colpi
50-81
Allegro
Manrico
Di quella pira…
82-88
Più vivo
 
…e teco almen…
88-124
Poco più mosso
Ruiz-Coro / Manrico
All’armi! All’armi! / Madre infelice
124-131
 
Cadenza orchestrale

La nota più alta toccata dal tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo…)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI!

Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche… adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il Topone e il sommo sacerdote HvK!

A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del truffaldino SI che prepara la cabaletta.

Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!

In memoriam… ascoltiamo invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore Licitra (con Frittoli e il filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì ai DO e SI di petto…]