intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
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Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

10 agosto, 2022

ROF-43: le tre prime da Radio3

Una nuova produzione de Le Comte Ory ha aperto il 9 agosto a Pesaro (Vitrifrigo Arena) la 43esima edizione del ROF. Per quel che posso giudicare dall’ascolto radiofonico, una partenza decisamente positiva.

Cast ben assortito, capeggiato dall’inossidabile JDF, la cui voce non ha perso lo smalto di un tempo, resistendo bene all’inevitabile usura legata all’ampliamento del repertorio che ha caratterizzato questi ultimi anni del tenore peruviano.

Per me è stata una bella sorpresa la Contessa di Julie Fuchs (che prima avevo solo ascoltato in spezzoni del DVD del 2017 disponibili in rete): praticamente perfetta, timbro chiaro e pulitissimo, colorature impeccabili, voce svettante nei concertati, sensibilità espressiva sempre adeguata alla psicologia del personaggio.

Da apprezzare Maria Kataeva, che fra l’altro ha brillantemente contribuito, come Isolier, al mirabile quanto equivoco terzetto al buio del second’atto.  

Bene anche le due comprimarie: la veterana ma sempreverde Monica Bacelli e la giovane Anna Doris-Capitelli (uscita dall’Accademia).

All’altezza dei rispettivi compiti Andrzej Filonczyk e (un filino sotto) Nahuel Di Pierro. Così come il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che ormai da qualche anno coabita con quello della Fortuna sulle scene pesaresi.  

Diego Matheuz ha guidato da par suo la ritrovata OSN-RAI, forse eccedendo nella corposità di suono (ad esempio nella polonaise del primo atto). Ma può essere impressione mia legata alla ripresa audio.

Successo pieno, si direbbe, anche se gli applausi mi pare non abbiano superato i 5 minuti… 
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La Gazzetta (ripresa/rivisitazione della produzione del 2015) è andata in scena il 10 agosto al Teatro Rossini, con un cast completamente rinnovato rispetto a 7 anni orsono (un’eternità, se si pensa che a Palazzo Chigi c’era tale Matteo Renzi al culmine della sbornia da successo, oggi mutatasi in disperata ricerca di un qualunque mezzuccio Calenda per evitare il definitivo trasloco nell'arido paese del nuovo rinascimento…)

Carlo Rizzi ha guidato la Sinfonica Rossini (che da qualche anno si alterna con l’omonima… Filarmonica come seconda orchestra del cartellone principale) in questa sbarazzina opera comica, mettendone in luce la freschezza dell’ispirazione rossiniana (genuina ma con spruzzate, anche abbondanti, di auto-imprestiti) coniugata con l’impronta napoletanissima del libretto di Giuseppe Palomba.

E il partenopeo Carlo Lepore ne è stato il protagonista assoluto, calandosi anche (complice Marco Carniti) nei panni del grande Totò, di cui ha citato testualmente alcune battute della famosa lettera dal film Totò-Peppino-Malafemmena

Come lo era stata Julie Fuchs per l’Ory, anche qui la protagonista femminile Maria Grazia Schiavo ha meritatamente guadagnato gli applausi del pubblico interpretando una Lisetta davvero convincente, per timbro di voce, varietà di virtuosismi ed espressività.

Sugli scudi anche Giorgio Caoduro, autorevole Filippo e Pietro Adaìni, un Alberto convincente e applaudito in particolare nell’aria del second’atto.

Gli altri interpreti tutti su un più che discreto standard, a partire dalle due voci femminili, la Doralice di Martiniana Antonie e la Madama La Rose di Andrea Niño; così come onorevoli mi son parse le prestazioni di Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen).

Apprezzabile infine l’apporto del Coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani che ha contribuito alla generale godibilità della serata.
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Otello (nuova produzione affidata alla pesarese Rosetta Cucchi) ha chiuso l’11 agosto (Vitrifrigo Arena) il primo dei 4 cicli di rappresentazioni del cartellone principale del ROF-43.

Un’edizione che sul piano musicale - almeno a giudicare dall’ascolto radiofonico e dall’accoglienza del pubblico – si direbbe sia di un livello più che apprezzabile, il che costituisce un buon viatico per chi come il sottoscritto si prepara a seguirla dal vivo nei prossimi giorni.

E una costante emersa dalle tre serate pare proprio essere l’affermazione delle altrettante protagoniste femminili di questo Festival: anche in Otello ha particolarmente brillato la Desdemona di Eleonora Buratto, trionfatrice della serata.

Accanto a lei i tre tenori protagonisti, tutti veterani del ROF – Enea Scala nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak (Rodrigo) e Antonino Siragusa (Jago) – hanno completato un cast ben assortito e capace di valorizzare una partitura che è a torto troppo spesso sottovalutata, messa fatalmente in ombra dall’avvento della coppia di tali Verdi&Boito

Evgheny Stavinsky (un Elmiro un po’ troppo vociferante), Adriana Di Paola (un’onesta Emilia) e gli altri due tenori (Julian Henao Gonzales, apprezzabile Gondoliere e il Doge di Antonio Garès) hanno dato il loro onesto contributo alla riuscita dello spettacolo.

Ovviamente insieme al Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina e all’impeccabile OSN-RAI sotto la guida del solido Ives Abel, altro veterano avendo diretto a Pesaro fin dal 1995.

La radio ci ha portato anche reazioni del pubblico alle regìe, positive per Ory e Gazzetta e contrastate per Otello: vedremo poi dal vivo.


02 agosto, 2022

Arriva il ROF-43

Pesaro si prepara ad offrirci la 43esima edizione del suo Festival rossiniano, che può vantare il primato di non aver ceduto, nemmeno nell’annus horribilis 2020, al Covid (lo sbifido virus che spezzò le reni nientemeno che a Bayreuth, non so se mi spiego…)

Pur continuando a cantare (sarà protagonista nel Comte Ory) Juan Diego Florez da quest’anno è anche Direttore Artistico del Festival, il cui cartellone principale (ormai stabilmente strutturato su 3 titoli presentati 4 volte) va da martedi 9 a sabato 20 agosto. Il 21 seguirà la chiusura con un Gala in onore dei 40 anni di ROF di Pier Luigi Pizzi. Ma come sempre il programma presenta anche una lunga serie di eventi musicali.

Rimandato per l’ennesima volta il ritorno al vecchio, glorioso (e perennemente ristrutturando) Palafestival, gli spettacoli sono ospitati (Ory e Otello) alla Vitrifrigo Arena e (Gazzetta) allo storico Teatro Rossini, sistemato giusto in tempo…

Ory e Otello (due nuove produzioni, entrambe alla quinta presenza al ROF) e il Gala impegneranno la OSN-RAI, ormai stabilmente ospite del Festival, mentre La Gazzetta (quarta presenza al ROF, riallestimento dell’edizione 2015) vedrà in buca la Sinfonica Rossini. I Cori sono quelli locali del Teatro Ventidio Basso e del Teatro della Fortuna.

Radio3 – snobbata non senza buone ragioni l’apertura del caravanserraglio wagneriano per poi trasmettere (ma in diretta-differita) il primo ciclo del Ring - conferma la sua storica presenza e trasmetterà le tre prime (9-10-11 agosto, ore 20). Seguiranno (qui) sommari commenti dopo tali prime radiofoniche e qualche impressione più circostanziata dopo esperienza audio-visiva in loco.