Per il secondo concerto di questa
mini-stagione estiva laVerdi stabilisce un record nell’applicazione delle quote-rosa: compositrice, interprete e direttrice!
Silvia Colasanti (ospite in-residence) presenta in prima assoluta una composizione commissionatale dalla Fondazione: La voce di Eschilo, per soprano e orchestra. Valentina Varriale ne è l’interprete e per l’occasione Karen Kamensek sale per la prima volta sul podio dell’Auditorium (rimpiazzando una sua compatriota yankee, Alondra de la Parra, originariamente in locandina).
L’opera è stata composta nell’ultimo anno sotto l’inevitabile influsso della pandemia che ha colpito il mondo seminando sciagure e morte. Ecco perchè il sottotitolo è l’ultimo verso delle Coefore, nella libera ma poeticissima traduzione di Pier Paolo Pasolini: Dove si disperde, infine spento, il Canto della Morte?
I tre frammenti di Eschilo - tratti da parti esclusivamente affidate al coro - sono proposti dalla voce (in lingua greco-antica) e supportati con grande discrezione dall’orchestra, che anima un tappeto sonoro piuttosto aspro, in omaggio al pessimismo che emana dal testo.
I 15 minuti scarsi del brano poggiano - in omaggio a Eschilo e alla musica greca - sulle scale in modo eolio e dorico (diciamo, per gli amici... LA minore e RE minore) che si alternano in una struttura tripartita (corrispondente ai tre frammenti testuali) A-B-A. Nelle due sezioni esterne la voce insiste particolarmente sul MI, toccando anche il DO acuto. L’incedere è lento e lamentoso, come si addice al testo, e ricorda vagamente lo Sprechgesang. Curiosamente il brano chiude con la voce sola che si perde sulla sensibile melodica, SOL#...
Caloroso successo per la Colasanti, salita sul podio a raccogliere meritati applausi, per la Varriale, pienamente immedesimatasi nella parte, e per la Kamensek che ha diretto con gesto preciso e sicuro.
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L’Ouverture della Zauberflöte ci riporta all’utopismo
massonico nella capacità dell’Uomo di progredire sulla via della conoscenza e
della saggezza (cioè l'opposto del percorso di tale Salvini...)
Ma in fatto di quote-rosa c’è da dire che la massoneria non gode propriamente di buona fama, se proprio il sommo Sarastro così si esprime, rivolto a Pamina, a proposito del ruolo femminile nella società: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria.
Nel ginepraio della cabala massonica sappiamo che il magico numero 3 rappresenta l’Uomo (ma non l’essere umano, no, proprio il maschio, il sole) mentre alla donna è riservato - un gradino sotto - il numero 2. Il numero 5 rappresenterebbe allora l’unione fra maschio e femmina, ovvero la femmina fecondata dal maschio!
Che c’entra tutto ciò con Mozart? Osserviamo proprio l’Ouverture: che è in MIb maggiore, tonalità quanto mai simbolica, musicalmente e... cabalisticamente (per via dei 3 bemolli); tonalità che chiuderà in gloria anche l’opera. Mozart, che la compose proprio a ridosso della prima (venerdi 30 settembre 1791) la apre con il celebre Dreimalige Akkord, i tre accordi che nel second’atto si udiranno ancora ripetutamente, nel mondo massonico di Sarastro. Quindi, esotericamente, sempre il magico 3: 3 accordi di 3 note ciascuno (tre triadi) con 3 bemolli in chiave.
Però attenzione, il triplo accordo si ripete alla fine dell’esposizione, prima dello sviluppo del tema principale, ma questa volta sul SIb maggiore (2 bemolli, la femmina!) Ed è in questa tonalità dominante, e non in MIb, che verrà ripetuto nell’opera. Perchè? Vuoi dire che Mozart si prendeva gioco di Sarastro e del magico numero 3?
Beh, osserviamo allora più da vicino le due ricorrenze del Dreimalige Akkord nell’Ouverture, partendo dalla seconda, che ha una struttura assai regolare: 6 battute suddivise in tre sezioni di 2, ciascuna delle quali ospita una delle tre esposizioni della triade (fondamentale, primo e secondo rivolto: SIb-RE-FA / RE-FA-SIb / FA-SIb-RE) con scansione orizzontale di tre note: semicroma-minima-minima. Quindi tutti multipli di 3: 3 triadi, 6 battute, 9 note... ma uno dei multipli è 2 (la donna!) Come detto, a parte la diversa strumentazione, questa forma assai regolare tornerà nel corso dell’opera.
Invece l’attacco dell’Ouverture in MIb maggiore è piuttosto sghembo, oltre che più sbrigativo: 3 sole battute che recano i tre accordi. Il primo su una sola minima, il secondo e il terzo su semicroma-minima, quindi in tutto una scansione di 5 note, il 3+2 che tira i ballo la donna! Ma in più, il secondo accordo non è il primo rivolto di MIb maggiore (SOL-SIb-MIb) ma - innalzando il SIb di un tono intero - il secondo rivolto di DO minore (SOL-DO-MIb) il che abbruna provvisoriamente l’ineffabile atmosfera.
Insomma, forse sarà il caso di rivedere certe teorie (o dietrologie) che sono nate attorno ai riferimenti extramusicali dell’opera. Ma alla fine l’importante è che la simpatica e cicciottella Karen abbia guidato, anzi trascinato i ragazzi ad una prestazione maiuscola.
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Infine la Settima
di Antonín Dvořák: la seconda, stando al primitivo catalogo
predisposto dallo stesso autore, che considerava evidentemente puri esercizi
accademici le prime 5 (poi la 5 originale fu recuperata come 1, per poi rinumerare
le future 8 e 9 come 4 e 5... insomma un divertente guazzabuglio, prima del
reintegro delle sorellastre nel novero cabalistico
delle nove). Opera composta nel 1884 su commissione della londinese Philharmonic Society, ma anche sull’onda
del rinnovato interesse del pubblico per la sinfonia, promosso dalle ultime
imprese del grande Johannes Brahms.
Che il buon ceco non esitava a citare nelle sue composizioni, compresa questa, dove il secondo tema del primo movimento è un chiaro tributo all’amico-sponsor, di cui è copiato quasi alla lettera il tema dell’Andante del Secondo Concerto per pianoforte; e anche nel secondo movimento (Poco Adagio) l’assolo del corno (discesa mediante-tonica-dominante) mostra la sua chiara ascendenza brahmsiana (dall’Adagio del concerto per violino); e infine Brahms fa capolino anche nell’Allegro conclusivo, in quell’inciso giambico chiaramente mutuato dal primo movimento della Sinfonia in DO minore. (Ma Dvořák non dimenticava nemmeno Beethoven, a giudicare da una cadenza dello Scherzo, che ricorda assai il tracotante tema dell’Egmont...