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da stellantis a stallantis

31 ottobre, 2011

Wellber alla Scala per DonGnocchi

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Serata alla Scala per un concerto in favore della Fondazione Don Carlo Gnocchi. Sul podio Omer Meir Wellber e al pianoforte Emanuel Ax, per un programma di gran tradizione, ulteriormente impreziosito in apertura dal pucciniano quartetto denominato Crisantemi (ovviamente qui in versione per orchestra d'archi). Una delicata miniatura, anno 1890, che pochi anni dopo Puccini impiegherà nella sua Lescaut (3° atto, scena di Manon e DesGrieux alla finestra del carcere e 4° atto, morte di Manon).

Emanuel Ax si è cimentato con il beethoveniano Imperatore, accolto con grandi applausi già dopo l'iniziale Allegro e naturalmente alla fine. Prestazione apprezzabile la sua, completata con un bis chopiniano, in onore alla sua Polonia.

Poi Ciajkovski e la sua Quarta, che rischia spesso di trasformarsi in una stomachevole mappazza, se non maneggiata con cura. Cosa che mi è parso invece fare Wellber, che ha scatenato gli elementi nei momenti giusti, ma ha saputo anche valorizzare le parti meno retoriche e magniloquenti della partitura: ad esempio l'irrompere di clarinetti e fagotti nella sezione in SOL maggiore dell'Andantino (magari un filino troppo spedito…) e anche il contrasto fra l'Allegro in pizzicato e il Meno mosso – protagonisti gli oboi – dello Scherzo. Per il resto, enfasi e fracasso sono prescritti e dovuti e devo dire che – a parte qualche incertezza dei soliti ottoni – i Filarmonici scaligeri se la sono cavata più che discretamente. Wellber, che li ha disposti in configurazione alto-tedesca (bassi a sinistra, violini secondi al proscenio e corni sulla destra) li ha diretti con il suo ormai caratteristico gesto ampio ed efficace (forse le incomprensioni fra il ragazzo e l'orchestra, che caratterizzarono in passato le prove della Tosca, sono state rimosse e archiviate).


Insomma, una serata piacevole sul fronte musicale e degna della miglior Milano su quello della solidarietà verso una delle istituzioni ormai storiche, oltre che benemerite, della metropoli. Don Angelo Bazzari, la cui canutissima capigliatura spiccava al centro della platea, ha di che essere soddisfatto.
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Věc Makropulos al Maggio


Chissà perchè ogniqualvolta arrivo a Firenze in treno mi torna in mente il (non da me) compianto professor Gianfranco Miglio, padre spiritual-cultural-ideologico-teorico della lega di Bossi. Il quale una volta venne in TV e spiegò che lui, scendendo a Santa Maria Novella, già si sentiva a disagio, un po' come si trovasse all'estero. Ecco, il tipo secondo me doveva soffrire di qualche fastidiosa disfunzione cerebrale, per avere in testa idee simili…

Perché se c'è un posto dove chiunque, ma proprio chiunque, si trova a suo agio, questo è Firenze, anche ieri bella e animata come sempre. Così mi son preso anche il tempo per farmi una semelle col lampredotto, per affrontare nel modo migliore il caso Makropulos, arrivato alla sua terza e penultima rappresentazione, in un teatro gremito nelle gallerie, ma con molti – troppi, ahinoi – vuoti in platea.

Sulla decisione di cantare l'opera in lingua originale, e non in traduzione italica, si può discutere all'infinito. Però non si deve dimenticare quanta importanza Janáček attribuisse alla musicalità della parola e quante ricerche condusse proprio sull'intima connessione fra suoni e fonemi della sua lingua: in sostanza, la sua musica è costruita meticolosamente attorno all'idioma ceco. Nella fattispecie poi, il libretto è così complicato, e la vicenda così intricata, che se lo spettatore non li studia per bene a priori, difficilmente ci si raccapezza, anche se proposti in lingua italiana. Faccio solo un esempio. Uno dei pilastri su cui si regge l'intreccio (l'eredità del fondo Loukov contesa fra i Gregor e i Prus) è costituito nientemeno che da un equivoco basato a sua volta su un gioco di parole… per di più fra la lingua tedesca e quella ceca! Mentre i Gregor sostengono che il vecchio Pepi (Josef Ferdinand Prus) avrebbe lasciato - ma senza alcun testamento scritto - l'eredità al figlio naturale Ferdinand Karel Gregor (cognome abbreviato dallo scozzese MacGregor, della madre Ellian) i Prus ribattono, con tanto di dichiarazione verbale in punto di morte del medesimo Pepi (raccolta e trascritta in tedesco da un notaio) che il vecchio aveva deciso di lasciare l'eredità – "Herrn Mach Gregor zukommen soll" - a tale Mach Gregor, che in ceco si può interpretare (invertendo cognome-nome) come Rehor Mach (guarda caso un'identità reale). Quindi tutto l'amba-aradam nascerebbe da quell'acca appeso al Mac, che trasforma lo scozzese MacGregor nel ceco Mach. La cosa sfugge ad un lettore poco attento, e con essa tutto il senso della diatriba Gregor-Prus. Per di più, sullo schermo della traduzione italiana che gli spettatori vedono a Firenze (non sul programma di sala) è tradotta anche la frase in tedesco ed erroneamente è riportato Mac (e non Mach) Gregor… per cui il tutto diventa davvero incomprensibile.

Ma anche la trama (di Čapek e conseguentemente di Janáček) soffre di alcune evidenti forzature (è vero che racconta un fatto irreale - una tizia che vive da 337 anni… - ma ogni storia, anche surreale, deve pur sempre fare i conti con un minimo di logica e di verosimiglianza!) Orbene, noi qui abbiamo un Albert Gregor (che sappiamo essere abbreviazione di MacGregor) che vive nel 1922 con regolare registrazione all'anagrafe ed ha alle spalle alcune generazioni di Gregor, su su fino a un secolo prima e a quel (certo o millantato) Ferdinand Gregor, figlio naturale del vecchio Pepi e di Ellian MacGregor (la protagonista E.M.) che gli avrebbe dato il suo cognome, in assenza di riconoscimento da parte del padre naturale. Ma alla fine – leggendo con Jaroslav Prus un atto di nascita del 20 novembre 1816 ritrovato evidentemente fra le carte di casa Prus – noi scopriamo (cosa confermata dalla stessa E.M.) che a quel bambino (Ferdinand) non era stato dato il cognome di Gregor, bensì quello di Makropulos, figlio di padre ignoto e di Elina Makropulos (sempre lei, la protagonista E.M.) Ora: come si spiega che all'anagrafe del 1922 Albert risulti col cognome Gregor (o MacGregor) se il suo antenato del 1816 era stato registrato come Makropulos? Verrebbe da pensare – come in effetti fa Jaroslav Prus - che i veri antenati di Albert nulla abbiano a che fare con quel Ferdinand (visto che fu registrato come Makropulos e non come Gregor!) Ma a questo punto vien da chiedersi come sia potuto accadere che nel 1827 - 11 anni dopo la nascita, con regolare trascrizione all'anagrafe, di Ferdinand Makropulos – un orfanatrofio potesse ospitare un bambino di nome Ferdinand Karel Gregor – ritenuto pure lui figlio illegittimo del vecchio Pepi – per il quale il barone Szephàzy reclamava l'eredità del fondo Loukov, dando così inizio alla causa secolare fra i Gregor e i Prus! Certo, Pepi poteva anche essere un coniglio che lasciava figli illegittimi ovunque, ma la vicenda ha effettivamente del farraginoso, direi. Inoltre si dovrebbe escludere anche la consanguineità per discendenza diretta fra Albert ed E.M. (aspetto fondamentale nell'economia del dramma, a cominciare dai reiterati rifiuti che E.M. oppone alle profferte amorose di Albert) proprio mentre la stessa E.M. mostra di conoscere particolari assai precisi sulla vita di lui, come il nomignolo Bertičku affibbiatogli dalla madre (la stessa E.M. per caso?) E ancora, e ancor peggio: la spiegazione che E.M. fornisce di quel fatto (il cognome Makropulos e non MacGregor affibbiato al figlio) è che il cognome MacGregor non poteva essere da lei dichiarato, in quanto fasullo, e quindi lei (E.M.) si era vista costretta a dare all'anagrafe il suo vero cognome (Makropulos, per l'appunto). Ma Elina Makropulos, nel 1816 (nascita di Ferdinand) aveva nientedopodomanichè 231 anni! E come poteva avere dei documenti di identità credibili più del falso Ellian MacGregor?

Insomma, meglio non star troppo a ragionarci su e… godersi invece il progressivo accumularsi di piccoli indizi, strane allusioni, comportamenti inquietanti, coincidenze inspiegabili, che fanno crescere la tensione drammatica dell'opera, fino al suo epilogo, dove tutti i nodi vengono finalmente al pettine e tutti i misteri (fatti salvi i buchi di cui sopra… ) si chiariscono.

Ed è naturalmente la musica di Janáček a renderci emozionante e indimenticabile questa avventura. Una musica di volta in volta secca, arida e sbrigativa (per supportare gli eventi burocratici della vicenda e i conseguenti declamati) oppure appassionata e sanguigna, a sottolineare i sentimenti – passione, ammirazione, odio – dei diversi personaggi; o ancora grandiosa e drammatica, nel finale dove la protagonista mette in guardia noi comuni mortali dai pericoli derivanti dall'inseguire tutti gli elisir-di-lunga-vita che, ammesso ci regalino qualche anno di esistenza in più, altrettanta felicità ci tolgono.

Zubin Mehta, per lo meno alle mie orecchie, ha dato una convincente lettura dell'opera, assecondato da un'orchestra in buona forma (forse dai corni è venuto nel finale qualche problema). Angela Denoke – ormai specialista del ruolo - è stata una E.M. perfetta attorialmente e ottima vocalmente. Bravo Miro Dvorsky come Gregor, una parte tenorile forse non proibitiva, ma comunque difficile (che tocca anche un DO acuto). Rolf Haunstein (Kolenatý), Andrzej Dobber (Prus) e Jan Vacik (Vítek) assai efficaci. Meno convincente per me (voce un po' chioccia e tendente all'urlo) Jolana Fogašová nei panni di Krista. Karl Michael Ebner è stato un simpatico Hauk e Mirko Guadagnini un buon Janek. I personaggi minori (macchinista, inserviente e cameriera) erano adeguatamente rappresentati da Roberto Abbondanza, Stefanie Iranyi e Cristina Sogmaister. Accurato - nei brevissimi interventi finali - il coro maschile di Piero Monti.

Quanto alla regìa di William Friedkin, per me ha il merito di non far danni (ed è già qualcosa!) Impostazione minimalista ma sostanzialmente fedele al libretto, a parte qualche eccesso (vedi l'entrata in scena alla Wanda Osiris di E.M.) La fotografia di Rocky Schenck serve bene all'inizio per introdurci alla onni-presenza di E.M. e, alla fine, per avvolgerla di fiamme, insieme alla formula dell'elisir.

Tirando le somme, uno spettacolo gradevolissimo e di buon livello, che ancora una volta fa onore al Maggio, che ha annunciato la stagione 2012. E al quale non resta che augurare di venire a capo dei problemi che lo affliggono. Firenze (Italia, professor Miglio!) se lo merita davvero.
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28 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 6


Il 6° concerto de laVerdi è – cosa piuttosto inconsueta – dedicato al Jazz. Per la verità non è proprio tutto jazz, anzi… ma va bene lo stesso.

Si inizia con la suite dall'Opera da tre soldi di Weill (Brecht), per orchestra senza archi, ma con saxofoni, banjo, fisarmonica, pianoforte e batteria . Consta di 8 numeri, dei quali soltanto il 4°, la Ballata della bella vita, ha un qualche vago tratto jazzistico:

1. Ouvertüre;
2. Die Morität von Mackie Messer (n°2, Atto I);
3. Der Annstat daß-Song (n°4, Atto I);
4. Die Ballade vom angenehmen Leben (n°14, Atto II);
5. Pollys Lied (n°11a, Atto II);
6. Tango-Ballade (Zuhälterballade, n°13, Atto II);
7. Der Kanonen-Song (n°7, Atto I);
8. Dreigroschen-Finale (n°21, Atto III).

Come si vede, l'ordine non rispetta la sequenza dei brani nell'opera, ma la cosa si spiega e giustifica proprio dal punto di vista sinfonico, a cui Weill evidentemente teneva molto. 

Abbiamo poi Shostakovich, e la sua Suite per orchestra di teatro di varietà. Si tratta di una composizione di metà anni '50, spesso citata – anche nel sottotitolo della locandina del concerto - come Jazz Suite n°2. In realtà esiste una Suite n°2 per orchestra jazz, in tre movimenti, composta nel 1938 su ordinazione dell'appena creata Orchestra Jazz di Stato dell'URSS, e prima di essa, anche una Suite n°1 del 1934, op. 38°, sempre in 3 movimenti. Gli originali di queste due Suite andarono persi durante l'ultimo conflitto mondiale e solo recentemente ne sono stati recuperati gli spartiti. Quindi, fra la Suite n°2 del 1938 e la Suite eseguita in questo concerto non vi è relazione alcuna, ma solo parecchia… confusione! A cominciare dal riferimento al jazz, che in quest'ultima Suite è veramente assai labile, e limitato all'impiego in un'orchestra sinfonica classica di strumenti tipici del jazz, come i saxofoni, chitarra, pianoforte (a 4 mani) e – singolarmente – la fisarmonica. (Le due Suite del '34 e '38 viceversa sono scritte propriamente per complessi jazzistici, dove gli strumentini sono assenti e gli archi… quasi.)

Anche questo brano è composto da 8 numeri, in gran parte imprestiti da opere precedenti di Shostakovich (il pezzo più noto è il secondo walzer, n°7, reso famoso da Kubrik, che ne portò l'esecuzione di Chailly col Concertgebow nel suo Eyes wide shut):

1. Marcia;
8. Finale.

Shostakovich lascia al Direttore piena libertà di scelta nella sequenza dei numeri, e Grazioli sceglie questo ordine: 1-5-2-6-4-7-3-8, in pratica intercalando i tre movimenti di walzer agli altri. Gran successo e bis – praticamente scontato - del secondo walzer.

Dopo l'intervallo, la musica dal balletto Fancy free di Leonard Bernstein (trama e coreografie di Jerome Robbins) andato in scena il 18 aprile del 1944, in piena guerra, e poche settimane dopo che il ventiseienne Direttore era salito alla ribalta sostituendo all'ultimo minuto Bruno Walter in un concerto della NYPO. Vi sono rappresentati tre marinai in permesso, che arrivano nella grande mela e cercano… indovinate? Ne trovano un paio, ma non bastano, così i tre si sfidano fino ad azzuffarsi e le due… tagliano la corda. Passa per strada una terza gran gnocca, e i tre si danno all'inseguimento. Tutto qui, per circa mezz'ora di musica, suddivisa in 7 numeri:

1. I tre marinai;
2. Scena al bar;
3. Le due ragazze;
4. Passo a due;
5. Scena della sfida;
6. Tre variazioni di danza: Galop, Walzer, Danzon;
7. Finale.

Grazioli taglia il n°5 (che richiama tematicamente il n°1) ed è un peccato, poiché si tratta di un travolgente brano, che impegna tutta l'orchestra; invece sopperisce in qualche modo (con una voce baritonale che sembra provenire dall'aldilà…) alla musica introduttiva al balletto, che inizia con una canzone irradiata da un juke-box: si tratta di Big stuff, resa famosa dalla mitica Billie Holiday (ma cantata anche dallo stesso Bernstein, in un'incisione con la NYPO):
Il tema della canzone è ripreso però - in diversa tonalità - nel quarto brano (Pas de deux).

L'orchestra di Bernstein ha poco di jazzistico (mancano sax, banjo, xilofoni): è la classica orchestra sinfonica tardo-romantica, con pianoforte e qualche percussione esotica in più. Lo spirito del jazz si sente invece fin dalle prime battute:

Pochi mesi dopo l'esordio di Fancy Free, la sua trama (non la musica) fu riutilizzata nel musical di Broadway On the town.

Accoglienza un po' freddina, forse per via della chiusa che arriva improvvisa e imprevista. Poi però il pubblico dà il giusto riconoscimento ai ragazzi e al Direttore.

Chiude la kermesse Duke Ellington con la sua Creatura della notte, del 1956, già eseguita e incisa da laVerdi nel 1999. Comprende tre brani, di cui lo stesso Ellington spiegò il contenuto, più o meno in questi termini:


1. Blind Bug: Un insetto cieco esce fuori ogni notte per danzare, usando le sue antenne per schivare ostacoli e pericoli, per continuare il suo ballo sfrenato.

2. Stalking Monster: C'è un mostro immaginario che tutti noi temiamo di dover incontrare a mezzanotte. Quando lo incontrassimo davvero, di sicuro scopriremmo che anche lui fa il boogie-woogie.

3. Dazzling Creature: Le creature notturne, di notte, non appaiono, ma entrano in scena. Prima che la notte finisca, ciascuna di loro pensa che sarà una star. Con la loro carica erotica aspirano al riconoscimento da parte della regina, una donna splendente che regna sopra di loro. Ad un suo schioccar di dita, tutte si scatenano per mostrare la loro unicità.
Insomma, anche il Jazz è stato evidentemente contagiato dal poema sinfonico! Ma del resto Duke Ellington non esitò a cimentarsi nella direzione di importanti orchestre europee, inclusa quella della Scala, con cui il duca incise, alle 5 di un pomeriggio di febbraio del 1963, La Scala, She Too Pretty To Be Blue (lei troppo bella, per essere triste) composto alle 10 del mattino di quello stesso giorno!


In effetti l'orchestra di Night creature è l'insieme di un complesso classico, senza trombe e tromboni, integrato da un complesso jazz di sax, trombe, tromboni, pianoforte e batteria, più un contrabbasso che suona – tipico del jazz – solo in pizzicato. La tromba solista è chiamata, nel finale, ad autentici miracoli, con note in sovracuto da far scoppiar le tempie.

E siccome il successo è travolgente, la terza parte della suite viene ripetuta come bis! Una prova davvero entusiasmante che testimonia ancora una volta delle qualità della nostra orchestra.

Prossimamente si ritorna a programmi austeri, con Aldo Ceccato che si cimenterà nientemeno che col Requiem verdiano!
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22 ottobre, 2011

Le simpatiche Nozze di Michieletto alla Fenice


Ieri sera in scena il (cosiddetto) secondo cast per le Nozze mozartiane alla Fenice, abbastanza affollata all'inizio, per poi mostrare evidenti vuoti - ostregheta! - dopo l'intervallo.

 
Spettacolo per me godibilissimo e ampiamente meritevole della trasferta in una Venezia (che il triestino Amfortas insiste a definire orrida) sempre affascinante, sulla pietra come sull'acqua, per quanto torbida… Il merito del mio abbastanza lusinghiero giudizio va suddiviso in parti equivalenti fra messinscena, cantanti e strumentisti, let alone il genio di un tal Gottlieb von Salzburg stimolato da un gaudente religioso italico.

 
Damiano Michieletto e i suoi collaboratori Paolo Fantin (scene) Carla Teti (costumi) e Fabio Barettin (luci) hanno realizzato un mix assai equilibrato di introspezione psicologica, di commedia umana e di farsa che inquadrano bene il multiforme capolavoro.

 
Nessuna velleità, nè pretesa, di svelare o proporre chissà quali arcani e reconditi significati dell'opera (col rischio di falsarne l'essenza, come accade nel 90% dei casi in cui il regista è convinto di essere l'unico furbo in un mondo di idioti) ma una (quasi sempre) efficace e intelligente interpretazione di ciò che l'originale del resto ci svela assai apertamente.

 
Centratissima (e centrale qual è nel libretto e nella musica) la figura di Cherubino, che è una specie di catalizzatore, in chimica definito come un componente presente in quantità minima, ma che è in grado di innescare reazioni, fra altri elementi in circolazione, che mettono in gioco quantità di energia di ordini di grandezza superiori. Ecco quindi il nostro ragazzino che – quasi taumaturgicamente, con la sua carica erotica – fa rinascere a nuova vita la contessa già data per morta (alla felicità, s'intende, durante l'ouverture) semplicemente imponendole la sua mano. E poi fa sentire la sua presenza sui sentimenti degli altri personaggi pilotandoli come un burattinaio – tirando con una cordicella un drappo appeso al soffitto. E poi ancora mette il suo alito (un volgare pallone da calcio, che rappresenta il suo strumento di svago innocente) addosso ai quattro individui che formano le due coppie (Bartolo-Marcellina e Susanna-Figaro) per suggellarne la ritrovata unione.

 
Altra idea non disprezzabile è quella di presentare in scena personaggi che sono oggetto di pensieri, maledizioni, aneliti… di altri che in scena sono prescritti da libretto e musica. A volte questa tecnica eccede in didascalismo (non ci vuol molto a sospettare che Figaro abbia qualcosa da recriminare nei confronti di Almaviva, e viceversa…) ma è assai efficace per guidare quegli spettatori (e sono probabilmente la maggioranza) che nemmeno ci provano a leggere e a capire la sostanza del libretto; ed anche ad animare scene che viceversa soffrirebbero di naturale staticità. Anche l'uscita di scena finale della contessa – nota pessimistica nella generale contentezza – non è poi così fuori dal contesto dell'opera: il personaggio è palesemente irrecuperabile – non per colpa sua, anzi – alla completa felicità e nemmeno il povero Cherubino – ormai accasato pure lui – ha più le facoltà per richiamarla in vita, come era accaduto all'inizio.

 
Non manca qualche eccesso di sottintesi goliardici, come il Cherubino che a Barbarina - che lamenta L'ho perduta, me meschina… - sflila la veste (metaforicamente: le mutande!) Oppure laddove – nella pantomima del IV atto – Almaviva si arrapa come uno scimpanzè quando la contessa (creduta Susanna) gli dice Io te la do… Ma si può perdonare, e i primi a farlo sarebbero di sicuro gli autori, ai loro tempi vincolati da censure e bigottismi diversi.

 
Efficaci le scene impiantate sulla piattaforma girevole e cangianti a vista. L'idea della tavolata dove si riuniscono di tanto in tanto i personaggi nelle scene di concertato non è nuova (ad esempio si vide nell'Onegin di Tcherniakov) ma intelligente e permette spettacolari effetti, come quello invero esilarante di chiusura del secondo atto, col tavolo fatto girare vorticosamente, come la testa dei protagonisti.

 
Sul fronte canoro nessun 30-e-lode, ma nemmeno riprovazioni inappellabili: una compagnia mediamente ben assortita, dove tutti han dato il massimo: Priante (non nuovo al ruolo di Figaro) e la Lo Monaco mi son parsi i più sicuri, ma tutti gli altri – vedi locandina - non hanno per nulla demeritato. Brave le voci di Moretti, sempre disposte nella buca dell'orchestra per i loro interventi.

 
A Manacorda darei un voto fra il discreto e il buono: basterebbe l'Ouverture ad assicurargli ampi consensi, ma in tutta l'opera mi è parso preciso, attento alle sfumature e soprattutto a supportare al meglio chi canta sul palco. Bravo a lui e agli orchestrali, che non hanno avuto una sola sbavatura. Pienamente rispettosa dell'originale – ma sempre discutibile sul piano estetico – la riapertura dei tagli delle due arie (di Marcellina e Basilio) del IV atto; arie che massimo Mila definiva scritte per ragioni sindacali (garantire gloria contrattuale al soprano e tenore minori) e che effettivamente, sul piano estetico, si fatica a credere che siano farina del sacco del Teofilo. Nella fattispecie a guadagnarci mi pare sia stato più Lazzaretti che la Martorana. A Michieletto l'aria di Basilio è servita per fargli fare uno scambio d'abiti col maggiordomo, quasi a volerci rappresentare uno spaccato di civiltà contemporanea: il povero musicista che aspira a diventare servo (asino!) di qualche potente…

 
Sono le 10 e mezza passate di sera, l'aria è proprio frizzantina, e sul vaporetto che solca il Canalgrande c'è ancora una gran folla multietnica che sale e scende a destra e a manca: vita a Venezia!
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21 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 5


Il 5° concerto de laVerdi ha un programma tutto russo, Direttore compreso, quell'Evgeny Bushkov (un tipo che pare Händel con parrucca bruna, smile!) già salito sul podio quasi due anni orsono – a tappare il buco aperto inopinatamente da Fedoseyev – anche allora con programma russo, in parte simile a quello odierno.

In apertura il sempre affascinante Capriccio italiano, dove Ciajkovski ha immortalato con gusto sopraffino alcune nostre musiche popolari, spesso ascoltate di persona per le strade.
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E proprio da una strada, al passaggio di un reggimento di cavalleria, arrivò alle orecchie del compositore uno squillo di tromba, che divenne l'apertura del pezzo, in MI maggiore:

Il Capriccio, a parte introduzione e coda, è articolato in modo assai semplice: A-B-C-A'-D-B'-D, dove i temi A e B sono ripresi (A' e B') un semitono sopra. Chiusa l'introduzione in MI, si vira verso LA minore con l'esposizione di un primo tema:

Dopo che un crescendo ci ha riportato al MI della fanfara introduttiva, viene esposto - inizialmente dagli oboi - il motivo più noto, in LA maggiore, ripreso poi a tutta orchestra e con grande enfasi; viene da una canzone popolare, Bella ragazza dalla treccia bionda:

Una modulazione caratterizzata da salti di quarta ascendente, che passa dal MIb, porta all'esposizione di un terzo tema, in REb:

Si passa poi alla relativa SIb minore, tonalità in cui viene riesposto il primo tema, al termine del quale ecco farsi largo un quarto tema, un saltarello in LA minore:

Al termine del quale, con un balzo di un semitono, si sale al SIb maggiore, su cui viene riesposto - con grandissima enfasi (3/4 invece di 6/8) e col supporto di secche terzine di trombe e tamburino – il secondo tema, che sfocia ancora nel saltarello in LA minore, che a sua volta ci trascina verso la coda in LA maggiore - un Prestissimo, 2/4 - scandita dalle cornette a pistoni e dalle trombe.
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Per la verità Bushkov non mi ha convinto molto: per me, eccessivo aplomb, tempi assai slentati ed esposizione macchinosa; personalmente preferisco questo pezzo suonato più alla garibaldina… I ragazzi ovviamente meritano invece un applauso per non aver mancato una sola virgola.

Il pianista Boris Petrushansky (62 anni, moscovita di nascita ma ormai italiano, anzi emiliano, di adozione) e la valorosa prima tromba de laVerdi, Alessandro Caruana, si cimentano ora con il Concerto op.35 di Shostakovich, composto nel 1933, precisamente fra il 6 marzo (Leningrado) e il 20 luglio (Petergóf). È in effetti un concerto per pianoforte e orchestra d'archi, con interventi sporadici – Caruana si è in effetti seduto dietro l'orchestra, quasi al suo posto normale - e per lo più esilaranti della tromba (in SIb) spesso prescritta con sordina. Uno di questi, in MI maggiore, all'inizio della sezione Allegretto poco moderato del quarto movimento, richiama una filastrocca albionica, Poor Jenny, ed era già stato impiegato dall'Autore in composizioni precedenti:

E a proposito di citazioni e reminiscenze, questo concerto ne contiene in quantità industriale: dall'Appassionata di Beethoven al Peer Gynt di Grieg, dalla Terza Sinfonia di Mahler alla Kammermusik di Hindemith, da Haydn alle canzoni popolari russe.
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Il primo movimento è in DO minore, stabilito da un'introduzione di tre battute dei due solisti. Il pianoforte attacca un arpeggio (in crome) ed espone un tema nobile (non per nulla viene da Beethoven):

subito ripreso e ampliato dai primi violini, con i secondi ad arpeggiare più velocemente (in semicrome staccate). Rientra il pianoforte con una variazione del tema, che conduce ad un crescendo vorticoso, al termine del quale è ancora il pianoforte a presentare un nuovo tema, nella relativa MIb, poi modulando a MI maggiore, dove ricompare anche la tromba, con un intervento giocoso:

C'è quindi una specie di sviluppo, che porta alla riproposizione del tema in DO minore, negli archi. Ancora il secondo tema, adesso fugacemente in SI, e poi la conclusione, dove torna il pianoforte con il primo tema, e la tromba lo affianca nella lenta chiusura.

E Lento è il secondo movimento, in DO, tempo di walzer (3/4) aperto da un meraviglioso tema, quasi un recitativo, dei primi violini:

Ad esso risponde il pianoforte, con una lunga melodia, che culmina in un Höhepunkt, in fortissimo, da dove c'è un'improvvisa accelerazione, che porta ad un passaggio di scale ascendenti in ottave parallele, culminanti in un largo con cui il solista chiude il suo lungo intervento. Introdotta da una dolce melodia dei violini, per terze parallele, ecco finalmente la tromba fare il suo ingresso in questo movimento, esponendo il tema iniziale, in DO. Ma è ancora il pianoforte, raggiunto poi dai violoncelli, a portare il movimento a conclusione, con un MI sovracuto.

Il Moderato che segue è una brevissima introduzione (soltanto 29 battute) al conclusivo Allegro con brio. Aperta dal pianoforte solo,con un fresco motivo in semicrome, viene poi proseguita dai primi violini, che espongono invece una lenta melodia dal sapore mahleriano. Quindi ancora il solista rientra per attaccare, con una veloce scala ascendente (SOL-SOL) il tempo finale, che inizia in DO minore.

Siamo di fronte ad uno dei tipici movimenti indiavolati di Shostakovich, una cosa a metà fra un can-can campagnolo e una locomotiva a vapore che corre all'impazzata. E accanto alla locomotiva sembra di veder galoppare – negli spiritati interventi della tromba – i cavalli dei banditi del west che si apprestano ad assaltare il treno! Ci sono anche un paio di momenti di quiete, in uno dei quali la tromba ci suona la povera Jenny, ma il pianoforte – gratificato di una lunga cadenza – ritorna a correre, finchè la tromba non prende il sopravvento, con questa specie di cippirimerlo, mediante-tonica (MI-DO):

E con questo brillante quanto parodistico DO maggiore si chiude il concerto.
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Gran trionfo per Petrushansky e Caruana, invero eccellenti nel proporci questo autentico pezzo di bravura. Il pianista russo-imolese (qui con consorte seduta in platea, dopo essere intervenuta alla puntata della serie di conferenze dedicate alla musica russa) ci regala anche un bis, sempre shostakovich-iano.

La seconda parte della serata è occupata dalle due Suites dallo Schiaccianoci, di cui Bushkov aveva diretto la prima, un filino modificata, nella sua precedente apparizione. Prima che è stranota, eseguita ed incisa innumerevoli volte, mentre la seconda è obiettivamente meno accattivante, ed infatti… non ci viene suonata nemmeno stavolta (smile!) Bushkov si limita a propinarci la prima suite, inquinata dal Passo a due infilato proditoriamente prima del conclusivo Walzer dei fiori (come fece appunto due anni orsono). La seconda… un'altra volta. Chi la vuol ascoltare può servirsi di YouTube, dove si trova una delle rare incisioni mai fatte di entrambe le Suites: questa, diretta più di 50 anni fa da Robert Irving. (Da ricordare il quarto brano, la Cioccolata, una Danza Spagnola dove trombette e strumentini sono impegnati alla grande: un'ennesima dimostrazione che la più bella musica spagnola è stata composta da stranieri, russi e francesi!)

Per farsi perdonare lo scippo, Bushkov ci porta in Venezuela, servendoci un profumatissimo cafè!

Per il sesto concerto sarà di turno il Jazz.
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17 ottobre, 2011

Note... di viaggio

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Graduale IUXTA RITUM ORDINIS PRAEDICATORUM XIV-XV Sec.

Dubrovnik – Monastero dei Domenicani.
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07 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 4




È Dvorak il protagonista del 4° concerto, preceduto da una presentazione del maestro Aldo Ceccato (più vicino ormai agli 80 che ai 70, ma con lo spirito di un ragazzo!) diventato una vera e propria autorità in merito, e di Enzo Beacco.


L'impaginazione sembra quella di una sessione di prove dell'orchestra: prima suonano soltanto gli archi, poi soltanto i fiati (più alcuni archi bassi, per il vero) e infine tutto il pacchetto.

La prima parte del concerto è infatti occupata dalle due Serenate: l'Op.22, che chiama in causa esclusivamente violini, viole, violoncelli e contrabbassi, seguita dall'Op.44 per 10 fiati (flauti esclusi!) violoncello e contrabbasso. Composte a tre anni di distanza l'una dall'altra (1875-1878) hanno in comune una caratteristica strutturale: nell'ultimo movimento (il 5° per la prima, il 4° per la seconda) ricompare ciclicamente il tema principale del movimento iniziale. Insomma, una specie di marchio di fabbrica - o se preferite: di pisciatina di cane (fate voi, smile!) - che Dvorak ha apposto a queste due composizioni. Un'altra caratteristica delle due serenate è il rifarsi (vagamente) al modello brahmsiano: anche il burbero amburghese, di cui il boemo era diventato pupillo ed epigono, aveva composto due serenate, di cui la seconda (op.16) per fiati (flauti inclusi, peraltro) viole, violoncelli e contrabbassi.
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L'Op.22 è in 5 movimenti e si apre con un Moderato, in MI maggiore, dove i violini secondi ci fanno subito ascoltare il delicato tema principale, che si muove adagiato sulla mediante SOL:
Il tema è ripreso dai violini primi, che lo conducono verso la dominante SI, come pretenderebbero i canoni della forma-sonata. Ma dal SI ridiscende tosto al MI di impianto, e ancora i violini secondi espongono il tema principale, che essi stessi nuovamente portano, con modulazione più complessa e increspandolo, per così dire, con piccole acciaccature, al SI maggiore. Siamo arrivati quindi al secondo tema, da esporre sulla dominante? Nemmeno per sogno, poiché qui siamo in una serenata, non in una sinfonia o concerto e nemmeno in un quartetto, e il compositore si prende tutta la libertà che vuole, in questo caso di modulare rapidamente a SOL maggiore, dove sono sempre i violini secondi a presentare il secondo tema, assai più mosso del primo, ma pur sempre leggero e delicato:

Lo sviluppo del tema comporta una modulazione al SI (quasi un richiamo della foresta della forma-sonata…) ma è cosa effimera, e subito si torna al SOL e poi, passando fugacemente dalla sottodominante DO, si torna a casa, attraverso quartine discendenti in semicroma. Tocca ai violini primi la ripresa del tema principale in MI maggiore, che dopo la seconda esposizione sfocia in una cadenza (passando sul LA e sul SOL) da cui si arriva alla chiusa, dove ancora i violini primi esalano in pianissimo il tema, con due increspature sulla mediante prima dell'accordo finale di MI. La struttura di questo movimento era quindi assai semplice: A-B-A, ma quanti piccoli dettagli la impreziosiscono!

Segue un Tempo di Valse, strutturato in realtà come un classico scherzo+trio. In chiave ci sono 3 diesis invece di 4, ma la tonalità della prima sezione (con ritornello) è DO# minore. Il tema è esposto inizialmente dai violini primi:
Si inerpica di un'ottava dalla dominante, sfiora la sesta e scende sulla tonica, dove riposa per 4 battute e poi si ripete, anche nei violini secondi. Viene ancora ripetuto due volte, un'ottava più in alto. Dopo il ritornello ecco la seconda sezione (anch'essa col da-capo) che giustifica i tre accidenti in chiave, essendo in LA maggiore. È la prima cellula del tema iniziale che viene elaborata e ripetuta più volte fino a sfociare sulla tonica LA e da qui chiudere in DO# per il ritornello. Eseguito il quale, dal LA si modula quasi alla chetichella sul DO# per la terza sezione, dove si riprende il tema principale, che chiude su due accordi (dominante-tonica) in fortissimo di DO# minore. Ecco ora il Trio, che per enarmonia modula a REb maggiore, su un tema che degrada due volte per un'ottava, prima dalla mediante, poi dalla tonica:


Tema ripetuto un'ottava più in alto (anche questa sembra una costante del brano) prima di modulare brevemente a MI maggiore per poi tornare sul REb, per il da-capo. Dopo del quale una transizione di 8 battute (ripetute) ci porta verso la tonalità di DO minore, dove udiamo un frammento del primo tema. Da qui altra modulazione a LAb che diventa dominante del REb con cui il tema del Trio viene ripreso e riesposto due volte, su due ottave diverse. Si torna quindi all'inizio e si ripetono, senza ritornelli, le tre sezioni dello scherzo, che stavolta però chiude – sorprendentemente – in DO# maggiore.

Il terzo movimento è propriamente lo Scherzo, 2/4 in FA maggiore. il tema iniziale è esposto da violoncelli e violini primi, a canone:
Anche qui abbiamo l'immancabile processo consistente nel riprendere il tema un'ottava più in alto. Poi il movimento procede quasi come un moto perpetuo, con veloci quartine in sedicesimo, fino ad una prima stasi (le semicrome – che ricordano il finale della quarta beethoveniana - diventano crome e poi semiminime) dove compare nei violini secondi un tema dolce, che sale a piccoli balzi dalla sopratonica alla sottodominante, e viene anch'esso ribadito all'ottava superiore dai violini primi (proprio una manìa, questa!):
Lo sviluppo di questo tema porta ad una modulazione a LA minore, tonalità nella quale viene esposto ora il tema iniziale, che introduce un passaggio in LA maggiore che porta alla reiterazione del tema in questa tonalità e poi in altre ascendenti, fino al ritorno a casa, al FA maggiore. Da qui in pratica si ricapitola tutto quanto esposto in precedenza, fino alla chiusa, fortissimo, in FA.

Abbiamo ora il Larghetto, in LA maggiore, il cui tema non può nascondere una chiara ascendenza con quello del Trio del terzo movimento:
Il tema viene sviluppato con diverse modulazioni, fino alla chiusa in pianissimo, con il LA dei violini primi in armonico.

Il Finale è un Allegro vivace, che attacca in FA# minore, con un tema di danza, questa volta esposto già sull'ottava alta, come quella della ripetizione:
Un secondo motivo dal metro giambico appare poco dopo, sempre in FA# minore:
Dopo la riesposizione del primo tema si passa a MI maggiore con l'entrata di un terzo motivo di danza:
Che ha uno sviluppo vorticoso di semicrome che poi si placa, portando ad un intermezzo languido in cui viene riesposto il tema del Larghetto, qui in SI maggiore. In questa tonalità torna il tema principale, seguito dal secondo motivo giambico, ancora in FA# minore e poi dal terzo, in MI maggiore. Quest'ultimo si sviluppa in una lunga serie di semicrome, poi sfuma lentamente per lasciar posto al ritorno del tema principale del primo movimento (Moderato) della serenata, che cadenza come a chiudere in pianissimo, ripetendo le ultime 3 misure del movimento iniziale. Invece, sull'ultima, riattacca (Presto) il primo tema del Finale, che chiude in gloria con un triplice accordo perfetto di MI maggiore.
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Ceccato chiama sul palco non più di 30 professori, per dare proprio l'impronta cameristica al brano. Esecuzione impeccabile, accolta da grandi applausi e dai complimenti – a gesti e a parole - che lo stesso Maestro fa ai ragazzi, guidati da Luca Santaniello.
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L'Op.44 è in 4 movimenti e si apre con un Moderato, quasi marcia, in RE minore, dove pare di sentire e vedere una banda di Giannizzeri in parata:
La prima sezione del tema è in RE minore, mentre la seconda sfocia nella relativa FA maggiore. Dopo la prima esposizione in forte, il tutto viene ripetuto una prima volta in piano, poi una seconda ancora forte, con strumentazione più ricca. La parte centrale del movimento è in FA maggiore, caratterizzata da melodie per terze di classico stampo boemo e da veloci semicrome:

Una transizione di cui sono protagonisti i corni porta poi ancora al tema iniziale, sempre in RE minore, che però subito modula a ripetizione (LA, SOL, FA, MIb, RE, DO, SIb, SOL, FA) fino a tornare al RE, dove troviamo una cadenza che pare di musica spagnolo-gitana, sulla dominante LA, che ci guida poi alla chiusura in RE maggiore.

Adesso abbiamo un Menuetto, 3/4 in FA maggiore. Richiama una tipica danza boema, la Sousedská, ma qui pare proprio di ascoltare Brahms, in particolare la Seconda sinfonia, che aveva visto la luce da pochissimo, quando Dvorak componeva questa serenata:
Il tema del Minuetto, che si caratterizza poi per la presenza di una scala discendente (4 semicrome che si appoggiano ad una semiminima) che torna incessantemente, viene ripetuto altre due volte, prima che i clarinetti, con veloci quartine di semicrome, armonizzate per terze, introducano il Trio in SIb, sul ritmo della Furiant, altra danza ceca:
Qui oboi, clarinetti e fagotti sono chiamati a grandi virtuosismi, con continue volate di crome, sottolineate da larghi accompagnamenti dei corni. Chiuso il Trio, si passa alla riesposizione del tema principale del minuetto, in FA maggiore. La figura della scala discendente di 4 semicrome si ripete qui da svariate altezze, fino alla chiusa in pianissimo.

Segue l'Andante con moto, 3/4 in LA maggiore (i clarinetti prendono lo strumento adeguato, posando quello in SIb). È un movimento praticamente monotematico, introdotto dai clarinetti (dominante-tonica) e dagli oboi (tonica-dominante) poi esposto ancora dai clarinetti, salita dominante-tonica e quindi discesa di un'ottava, con risalita plagale alla quarta e appoggio sulla mediante:
Il tema è riesposto dal primo oboe, ma ben presto sarà un motivo, semplice quanto penetrante, a prendere il centro dell'attenzione. È il primo clarinetto a presentarlo per la prima volta, ma poi lo sentiremo nell'oboe, anche nel fagotto, ma soprattutto nel corno:


Si muove fra mediante (e sopratonica), sesta e dominante, prima in maggiore, poi in minore. A me ricorda irresistibilmente l'accompagnamento di una sezione dell'aria di Tatiana dell'Onegin (in realtà si tratta di pura e semplice coincidenza, chè il primo atto dell'opera di Ciajkovski e la serenata di Dvorak furono composti praticamente nelle stesse settimane…) È comunque questo motivo che prende decisamente il sopravvento, sottoposto a un complesso trattamento e variamente contrappuntato. E dopo un breve ritorno del tema iniziale, è ancora lui a condurre il movimento alla delicata conclusione. 
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Il Finale è un Allegro molto, una specie di Rondò, che si apre subito con l'introduzione del tema principale:


Tema ripreso e variato nei suoi diversi ritorni, che verso la fine lasciano posto ad un ritorno del tema giannizzero che aveva aperto la serenata, in RE minore. Ma poi si torna al maggiore e si vola verso la conclusione. Davvero strepitosa la cadenza finale dei tre corni, prima dell'accordo conclusivo di RE maggiore:
Insomma, un pezzo che definirei quasi un gioiello. Peccato sia eseguito così di rado!
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Ceccato lascia a casa il controfagotto (è un optional) e al suo posto rinforza gli archi, aggiungendo due violoncelli. La prestazione dei verdiani è eccezionale, in effetti devono suonare tutti come fossero dei solisti. E quindi tutti indistintamente meritano una lode, cosa che il pubblico non ha mancato di fare.

Dopo l'intervallo, l'inflazionata Sinfonia Dal nuovo mondo. Qui francamente Ceccato mi è parso voler persino strafare, esagerando un po' con il mettere in eccessiva evidenza dettagli che converrebbe lasciare più in background, come semplice accompagnamento. Poi, più che dirigere, ha mimato la sinfonia, con atteggiamenti magari simpatici, ma un po' troppo gigioneschi. Però l'orchestra ha suonato splendidamente, senza una sbavatura, e il trionfo finale è stato completo.

Fra un paio di settimane il 5° concerto, con un Ciajkovski leggero e Shostakovich.
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05 ottobre, 2011

Un Cavaliere della rosa (con spine) alla Scala


Ieri sera Der Rosenkavalier ha avuto la sua seconda recita alla Scala, tutto sommato accolta assai favorevolmente da un pubblico non foltissimo, e con parecchi… disertori lungo il cammino delle quasi 4 ore e mezza di spettacolo.

Ecco invece come Bruno Walter (il 13 aprile 1911) descrisse la prima viennese dell'opera (avvenuta 5 giorni avanti) ad un Mahler che si trovava a Parigi, arrivato ormai ad un passo dalla fine:

Caro amico! Vi volevo raccontare della prima del Rosenkavalier, che si è appena tenuta qui. Il mio parere riguardo a Strauss non è cambiato. Di fatto, sono ancora più disgustato di prima. L'opera è in tutto e per tutto un fallimento. L'insincerità assoluta del libretto, la fuga da quelle rare qualità che Strauss ancora padroneggiava: arguzia, estro e un certo qual gusto. Si tratta di un tentativo penoso e mancato di inventare melodie e walzer degni di Lehar, un lurido ammasso di sentimento, o piuttosto di sentimentalismo (…) in breve: una penosa e macchinosa volgarità (…) Ma questi walzer! Queste 'melodie' di terze! Queste dolcezze nauseabonde! Nessun cognac al mondo potrebbe rimettere a posto lo stomaco di chi le ha ingurgitate!

Una decina d'anni o poco più tardi lo stomaco di Walter si doveva essere parecchio irrobustito, visto che a Londra il nostro diresse alcune recite dell'opera rimaste memorabili, con la grande Lotte Lehman nella parte della Marescialla.

La quale è la protagonista assoluta dell'opera, pur essendo in scena soltanto (si fa per dire) per un atto e un quarto: tutto e tutti in fondo si muovono in funzione sua, come pianeti e satelliti di una stella di prima grandezza. Inoltre – e la cosa potrebbe sembrare paradossale, parlando di una signora sposata che se la fa con un cuginetto di quasi 20 anni più giovane – lei ha una moralità profonda, che le deriva in primis dalla presa di coscienza della sua stessa condizione e della sua propria vicenda esistenziale. E di conseguenza possiede anche – a suo modo – una certa religiosità, magari ereditata dalla passata vita monastica, che non soltanto si materializza nel suo andare in chiesa e nel suo far visita al vecchio zio paralitico, ma che tocca il punto più alto quando la Bichette spiega al suo Quinquin che il crudele tempo proviene, come tutto, dallo stesso e unico creatore:

Però non dobbiamo neppure averne timore. Anche il tempo è una creatura del Padre che tutti noi ha creato.(Parli come un prete, l'ammonirà di lì a poco l'ingenuo, acerbo Quinquin…)

Certo, qualche complesso di colpa lo deve avere anche lei se, mentre dorme accanto al giovane amante, sogna il ritorno improvviso del marito! E se ancora ne sospetta l'arrivo, sentendo un trambusto in anticamera, mentre fa colazione con Quinquin:
Ma sono poche battute dell'Introduzione, riprese poi letteralmente nella prima scena (dopo Ich hab' dich lieb) a descrivere - meglio di pagine e pagine di parole - lo stato d'animo della Marescialla, combattuta fra la lancinante prospettiva dell'invecchiamento (e quindi della perdita dell'amore di Octavian) e la serena rassegnazione di una donna che ha capito i misteri dell'esistenza:
Sono quattro battute in cui sono evocati: il settimo cielo dell'amore (carnale e spirituale insieme) raggiunto con quel salto di ottava ascendente sulla dominante di MI (SI-SI) che ha il coraggio di spingersi ancora più in alto, fino alla sesta (DO#) ma che subito ricade per più di un'ottava (sul DO naturale sottostante) a mostrarci lo strazio di chi vede sempre più vicina l'ineluttabile fine (lo stesso intervallo discendente sottolineerà l'ebete constatazione del povero Ochs, nel terzo atto, di fronte alla rivelazione dell'identità Octavian=Mariandel); ma poi ecco una caparbia ripresa – il ritorno alla sesta giusta e la risalita alla quarta superiore – per dar luogo infine ad un rientro nella normalità delle leggi fisiche, musicali ed… esistenziali, con la discesa sulla dominante. Che porta, nelle battute successive, ad un sereno ritorno a casa (la tonica MI). Qui pare davvero condensarsi l'intera vicenda dell'opera e l'intera vicenda umana della protagonista, che passa dall'estasi amorosa alla depressione sconfortata, per poi imboccare il suo viale del tramonto nella serena rassegnazione ed accettazione di ciò che il buon Dio (Der liebe Gott) deciderà. E il motivo, carico di significati, torna (abbassato di un semitono, tonalità MIb) nei primi violini e nel violoncello solo alla chiusa del primo atto, a sottolineare l'ordine che la Marescialla impartisce a Mohammed di consegnare la rosa d'argento al Conte Octavian.


Sappiamo che la vicenda narrata nell'opera è tutta un'invenzione, e a prima vista ci pare fuori luogo che la Vienna della nobiltà del 1740-45 sia musicalmente caratterizzata dal walzer, cento anni prima del dovuto. Ma dietro queste apparenze c'è parecchia sostanza. Perché in realtà Hofmannsthal e Strauss hanno voluto individuare in quella Vienna alcuni caratteri, ancora in nuce, della Vienna dei giorni loro.


E non solo nella musica (a metà del '700 il ballo dei nobili era il casto menuetto, ma il ländler, poi walzer, cominciava a farsi largo, anche fra le classi non plebee, come ci dimostra il nobile buzzurro Ochs) ma anche nei rapporti sociali: quale differenza fra la vicenda personale di Marie-Theres, mandata prima in convento (ed è difficile pensare ad una genuina vocazione, in una donna come lei!) e poi tolta da lì per essere data in sposa ad un nobile sconosciuto (per quanto ricco) e la vicenda di Sophie (che non pare proprio un modello di ragazza pia e arrendevole) e Octavian (che è quello che oggi chiameremmo un figlio-di-papà, piuttosto viziato e facilitato nei suoi vizi dall'avere anche un aspetto attraente… ricco e pure bello, insomma). Il fatto nuovo, rispetto alle consuetudini di quella civiltà - tanto felice quanto decadente - è che i due ragazzi si uniscono perché – toh! - si sono innamorati (quanto poi fallace o duraturo sia questo sentimento conta relativamente) e non perché qualche architetto-di-interessi o ingegnere-di-pedigree abbia così deciso in laboratorio! Il duetto che sottolinea il loro primo incontro, nel second'atto, è – parole e soprattutto musica – la più straordinaria espressione di questo new-deal nel campo dei rapporti personali e sentimentali all'interno delle classi dominanti.

Interessante notare che, poco prima, al momento delle presentazioni, Sophie aveva cantato Ich kenn' Ihm schon recht wohl, mon cousin! (ti conosco già molto bene, mio cugino) su un motivo che arriva direttamente dalla quarta sinfonia di Mahler, primo verso del Lied dell'ultimo movimento Wir genießen die himmlischen Freuden (noi godiamo le gioie celestiali) persino nella stessa tonalità di SOL maggiore:
Un riferimento – testuale oltre che musicale - per nulla peregrino.

Invece la figura invereconda che vien fatta fare ad Ochs (davvero un bue) è quella che tutta la nobiltà retriva e parassitaria farà qualche decina d'anni più tardi. Mentre l'uscita di scena di Marie-Theres al braccio di Faninal rappresenta mirabilmente il feeling nascente fra la nobiltà illuminata e la borghesia produttiva.

Insomma, dietro l'apparente frivolezza e vacuità del soggetto si celano contenuti di una certa profondità, e soprattutto una visione positiva e apologetica (magari patetica e ottusa… nel 1910) della società viennese e mitteleuropea, in cui gli autori peraltro erano inseriti con grande successo, non dimentichiamolo: da qui l'idea di rappresentare con una commedia leggera i fermenti e i sommovimenti che avevano portato la società settecentesca ad evolversi verso quella di cui loro vedevano e godevano ancora gli aspetti positivi.

Invece l'ormai ammuffita regìa di Herbert Wernike – scomparso da qualche anno – purtroppo non fa che riproporci il vecchio e piuttosto cervellotico stereotipo del Rosenkavalier come opera decadente e pessimista, in cui si prefigurerebbe l'imminente tracollo di una civiltà della quale sarebbero messi in evidenza tutti gli aspetti grotteschi e farseschi.

Di questa visione (per me) distorta è testimonianza l'ambientazione nella Vienna del primo '900 (quando l'opera venne composta e rappresentata) dove quei fenomeni - che 150 anni prima erano solo in gestazione – avevano avuto ormai il loro sviluppo e dove casomai se ne preparavano di completamente diversi e non certo rassicuranti. Un esempio minuscolo, ma significativo: nell'atto conclusivo ha – o dovrebbe avere – una certa importanza la parrucca che Ochs si è tolto per iniziare i suoi approcci amorosi con Mariandel, e che non riesce più a trovare dopo l'acciaccapesta in cui è stato coinvolto. Di quello speciale tipo di copricapo lui avrebbe un bisogno assoluto per convincere l'Unterkommissarius del suo status di nobile, ed infatti l'ufficiale di polizia gli domanda subito perché un barone non l'abbia in testa, la parrucca. Ecco, il senso di questa scena – e del testo che continuiamo ad ascoltare! - si perde irrimediabilmente se l'ambientazione è diversa, in un mondo dove la parrucca con il suo significato di classe non esisteva più ormai da un bel pezzo e dove – per supportare in qualche modo il libretto – la parrucca viene sostituita da un volgare parrucchino!

Ma anche il walzer, se viene ambientato ai tempi di Strauss, viene contemporaneamente svilito a puro simbolo di una società in via di putrefazione (da qui tutte le accuse di meschino conservatorismo rivolte da sempre al compositore) mentre in realtà ai tempi di MariaTeresa era una forma musicale che stava diventando uno dei motori del nuovo assetto sociale, nientemeno.

E anche l'uscita della Marescialla e di Faninal, che se ne vanno in direzioni opposte sullo sfondo di un viale del tramonto, ci rappresenta lo specchio della società asburgica ormai in pieno disfacimento, perdendo tutto il (positivo) significato sociologico e di costume che possiede quando correttamente ambientata e presentata come da libretto.

In più dobbiamo registrare le solite trovate pseudo-intelligenti, come l'arlecchino, che pare messo lì dal regista tedesco per rincarare la dose di sberleffi sugli sbifidi italiani. O la pletora di bambini (invece dei quattro previsti) fatti passare per figli illegittimi di Ochs (l'unico aspetto positivo qui è l'occasione data al Coro di voci bianche di Casoni per mettersi in mostra…) Non parliamo poi dello scalone da Wanda Osiris impiegato per l'arrivo di Octavian in casa Faninal. E infine dello spostamento della ferita che Octavian ha inferto ad Ochs, dall'omero alla chiappa!

Per la verità l'allestimento ha anche qualche aspetto interessante, come l'impiego degli specchi, che consente al pubblico di vedere dietro (i separé, le tende, i paraventi, dove si svolgono parti importanti della scena). In particolare, nel secondo atto questa trovata consente al regista di mostrare i movimenti dalla coppia Valzacchi-Annina che si appostano per cogliere in flagrante i due innamorati; e poco dopo anche per spiegare allo spettatore in modo esplicito (cosa non riscontrabile nel libretto) come, dove e quando avvenga il passaggio di casacca dei due faccendieri italiani dal campo di Ochs a quello di Octavian (+Marescialla.)

In definitiva, una regìa per me abbastanza deludente proprio nell'impostazione di fondo.
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Sul fronte musicale, notizie abbastanza confortanti da orchestra e direttore. I professori per lo meno non hanno combinato guai, e dati i tempi grami la cosa è già un successo. Philippe Jordan – al contrario del regista – mi è parso prendere l'opera dal verso giusto. Cito un piccolissimo, ma per me significativo particolare: l'accompagnamento del tamburo militare al walzer che chiude il secondo atto. Di solito (da 4'09") non lo si sente quasi, forse in omaggio all'idea che quello sia un walzer da nobilitare. Jordan invece ci fa sentire chiaramente (e correttamente, non come l'esagerato, oltre che pentito, Bruno Walter, qui a 5'50") quello strumento, che sottolinea con discrezione la rozzezza di quei primi walzer settecenteschi e campagnoli.

Di tutta la compagnia cantante mi sentirei di citare con ampia sufficienza la DiDonato (Octavian) dei primi due atti (nel terzo si deve essere spiritualmente trasferita al teatro Smeraldo, smile!) e Rose (Ochs) e di non censurare i comprimari. Degli altri interpreti principali, passabile Ketelsen (Faninal) con il suo vocione in fondo abbastanza appropriato al personaggio, e appena appena sufficiente la Archibald (Sophie) che non è andata esente da qualche urletto; quanto alla Schwanewilms (Marescialla) canterà anche bene, ma più che altro mi è parsa una grande attrice di film muti (smile!): a parte gli scherzi, dal loggione si faticava a sentirla. Álvarez ha sparato i suoi SIb e SI naturale senza apparente fatica, vuol dire che può ancora sostenere ruoli dove debba cantare per un paio di minuti (!)

Tirando tutte le somme – a mio modestissimo avviso – oltre ad un poco di profumo della rosa si sono sentite (ahi-ahi!) anche parecchie punture di spine.
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