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29 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (IV)

Anche per Paul Brian Heise la seconda scena del secondo atto della Walküre rappresenta la chiave di volta dell’interpretazione (tutta feuerbachiana, nel suo caso) del Ring. Come ci arriva Wotan, a questo fondamentale appuntamento?

I fatti narrati nel Rheingold ci dicono che il dio ha preso conoscenza e coscienza - tramite Alberich e Erda - della sua inevitabile fine. Ha ormai chiaro che lui - la divinità creata dalla paura e dall’auto-inganno (il Wahn) dell’Uomo come rifugio dai mali terreni (il Not) - e lo stesso Uomo religioso, sono destinati a soccombere di fronte al potere della conoscenza e della scienza (il Tesoro di Alberich che, sequestrato con l’inganno, solo temporaneamente è stato messo in grado di non nuocere, sepolto nella grotta di Neidhöhle e ivi custodito da Fafner).

Siegmund può rappresentare la salvezza, in quanto - pur nel suo ardore rivoluzionario e nel suo nobile spirito di abnegazione - altro non è se non una manifestazione diretta dell’essenza del dio medesimo, incarnandone la più intima natura e soprattutto la sua ormai incurabile paura. E Fricka altro non rappresenta se non la coscienza religiosa - quindi dogmatica, incapace di qualunque autocritica - che reclama il rispetto delle leggi, senza rendersi conto che il tesoro di conoscenza che Wotan sta accumulando finirà per distruggere - con Siegmund - non solo il credo religioso, ma addirittura la moralità del sacrificio (rappresentato dall’amore di Siegmund per Sieglinde e dalla sua sua rinuncia al Walhall).

Il rischio è che la vittoria di Alberich - tutti dovranno rinunciare all’Amore per rincorrere unicamente l’Oro - porti ad un mondo dominato esclusivamente dall’egoismo.

Wotan ha compreso di non aver speranza di sopravvivenza, ma allo stesso tempo non può accettare il mondo scientifico e senza amore che Alberich si appresta ad imporre. Quindi desidera la fine, la distruzione del suo mondo, come sollievo ad un peso divenuto ormai insopportabile. Ma cerca ancora disperatamente almeno una consolazione nel puro, intimo sentimento: nell’Arte. Si prepara quindi a trasferire quell’arcana, primigenia ispirazione che diede origine al sentimento religioso al suo erede, l’eroe-artista Siegfried.

Ed eccoci quindi al punto centrale, come Wagner stesso lo definiva, del Ring, l’Atto II, Scena II: Wotan parla a Brünnhilde. È la figlia il prodotto della sua paura della Verità, e del suo desiderio di consegnare la Verità all’oblio, in modo da cessare di temerla. È lei che chiede al padre di rivelarle ciò che lo angustia. Prima di iniziare il suo lungo racconto, Wotan afferma di temere che la sua esternazione possa privarlo del sostegno della sua stessa volontà. E Brünnhilde gli testimonia che lei null’altro è se non la sua volontà. Al che Wotan afferma che, parlando a lei, lui in realtà parla a se stesso, e che ciò che rivelerà alla figlia rimarrà eternamente taciuto.

Schopenhauer descrisse la pazzia come ciò che accade ad un essere umano quando non sopporta di prender conoscenza di un qualche traumatico insulto alla propria immagine: la mente involontariamente reprime questa auto-coscienza e la sostituisce con una consolante fantasia. La pazzia di cui soffre Wotan è il Wahn, la follia collettiva del credo religioso che sostituisce un’illusione alla Verità e rimuove la consapevolezza della Verità fuori dalla vista e dalla mente.

Brünnhilde è l’inconscio di Wotan, nel quale egli - confessandosi a lei - reprime e trasferisce la conoscenza del suo essere, la sua propria identità, di cui non sopporta la consapevolezza. Cerca in ciò redenzione al suo sempre più insopportabile cruccio esistenziale. Brünnhilde diventa ora lo strumento di cui Wotan si può servire per creare l’eroe libero. Dato che Brünnhilde è la sua mente inconscia, il suo volere, nel quale lui ha trasferito l’orribile Verità riguardo la sua vera identità, adesso attraverso di lei Wotan può simbolicamente rinascere come Siegfried, il folle eroe in cui Wotan riacquista la sua innocenza, poichè Siegfried non conosce la sua propria identità. In Siegfried, attraverso Brünnhilde, potrà rinascere Wotan, ma privo della coscienza del suo essere (depositata in Brünnhilde). E Siegfried sarà perciò senza paura, poichè protetto dall’amore di Brünnhilde, che gli tiene lontana la vergognosa conoscenza della Verità.

In Siegfried, Wagner rappresenta se stesso, come l’eroe-artista, libero da credenze e dogmi religiosi. L’Arte, a differenza della Religione, non pretende di imporsi alla Realtà, essa ammette di essere una finzione, e nella sua più alta espressione - la musica - non prende posizione per Verità o Falsità: semplicemente gioca con il mondo.

Siegfried rappresenta quindi la secolarizzazione dell’Artista, che esprime un sentimento religioso laddove il pensiero religioso deve far posto a quello scientifico. Hagen rappresenta la moderna Scienza, che eredita un mondo senza dèi. Arte e scienza sono le eredità della fede religiosa.

Brünnhilde viene punita da Wotan per aver cercato di sfuggire (appoggiando Siegmund) la maledizione di Alberich rimanendo nel mondo reale, cosa che Wotan ha compreso essere impossibile. Ma Brünnhilde può forse redimere Wotan da quella maledizione in un modo meno vulnerabile alla minaccia di Alberich: proteggendo Siegfried dalla consapevolezza della realtà (insopportabile per Wotan) e ispirandogli imprese artistiche redentrici, che consegnino quella consapevolezza all’oblio, sostituendola con una consolante illusione, Brünnhilde può creare con Siegfried un Walhall di Arte, un nuovo rifugio dagli assalti di Alberich.

Per questo, quando Brünnhilde chiede a Wotan “Mi toglierai tutto ciò che mi hai dato?”, e lui risponde: “Chi ti farà sua te lo toglierà!”, egli allude al suo tesoro di conoscenza repressa, al contenuto della sua inconscia confessione, di cui il suo eroe Siegfried sarà erede. Tale conoscenza rimarrà dormiente (con Brünnhilde) per tutti, tranne che per l’autentico eroe-artista, che solo potrà trarvi ispirazione per creare quelle opere d’arte che redimano l’umano impulso religioso per la trascendenza dalla minaccia della scienza.

(continua)

27 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (III)

Continuiamo a seguire Paul Brian Heise nella sua interpretazione feuerbachiana del Ring, iniziando da personaggi ed avvenimenti del Rheingold.

La rinuncia all’Amore di Alberich rappresenta la nascita della mente riflessiva dell’Uomo, che deve sollevarsi al di sopra degli istinti naturali (rappresentati dal desiderio frustrato per le tre Rheintöchter) per raggiungere la capacità di astrazione e di pensiero simbolico. In sostanza: nell’Uomo, e solo in esso, l’istinto, quando represso, si trasforma in pensiero.

La forgiatura dell’Anello da parte di Alberich rappresenta:
- l’essenza della consapevolezza umana,
- l’impulso a completare ciò che l’esperienza ci presenta come incompleto,
- l’impeto a far quadrare il cerchio, a perfezionare l’imperfetto.

L’Uomo, unico fra tutti gli animali, cerca la conoscenza del mondo reale ben al di là di ciò che gli è strettamente necessario per garantirsi la sopravvivenza. Questa capacità di astrazione produce la conoscenza e il pensiero scientifico, la capacità di cogliere aspetti della Natura (le sue leggi) che vanno al di là delle sue immediate manifestazioni sensibili. Ecco il vero strumento del potere terreno, la capacità di forzare e piegare Madre Natura per soddisfare gli umani bisogni. Lo scavare di Alberich, e dei suoi, nel sottosuolo e l’accumulo del suo Tesoro rappresentano metaforicamente l’incessante opera dell’Uomo per penetrare sempre più i segreti di Madre Natura, per poi impiegarli a proprio vantaggio.

Ma la conoscenza, oltre a fornire all’Uomo la consapevolezza del suo potere sulla Natura, si porta dietro anche la consapevolezza dei limiti, delle miserie e della caducità della natura umana, insomma tutto ciò che viene racchiuso nel termine germanico Not: stato di necessità, privazione, ansia, pericolo. Da qui la nascita, nell’Uomo, di quell’angoscia esistenziale che lo porta addirittura - e proprio impiegando le sue stesse capacità raziocinanti, l’Anello e il Tarnhelm - a disconoscere il mondo reale allorquando esso delude le sue aspettative, e quindi ad inventarsi un mondo immaginario, un illusorio rimpiazzo di Madre Natura, un regno dei cieli, un paradiso senza fine e senza dolore (le mele d’oro di Freia) che lo affranchi dalla dura realtà della vita (rappresentata allegoricamente da Erda).

E questo abbandonarsi all’illusione (il termine germanico Wahn) porta alla nascita del pensiero religioso ed artistico. E Wotan impersona appunto questo impulso, tipicamente soggettivo, perchè controllato da immaginazione e sentimento, e non da Ragione e Verità. Questo desiderio a sua volta si estrinseca nel continuo affannarsi del dio per sequestrare prima (tramite Loge) e mantenere nascosta e inaccessibile poi (tramite Fafner) la conoscenza scientifica (l’Anello e il Tesoro di Alberich!) in quanto essa rappresenta per il mondo degli dèi un nemico mortale. Ma a sua volta questo disconoscimento della verità comporta metaforicamente l’uccisione di Madre Natura!

In definitiva, il conflitto fra Wotan e Alberich impersona quello fra Wahn e Not. La differenza fra i due sta nel fatto che Alberich guarda in faccia la realtà (Not), la affronta a viso aperto, avendo spazzato via, con la maledizione dell’Amore, tutte le illusioni e le sovrastrutture che condizionano l’uomo; mentre Wotan, pur avendo piena consapevolezza del Not, che muove le sue stesse azioni (musicalmente Walhall=Anello!) vorrebbe perpetuare il Wahn, che è il prodotto del lato religioso-artistico della mente umana. In sostanza: Nibelheim altro non è se non l’amara e cruda verità che si nasconde dietro la brillante facciata del Walhall, del mondo di Wotan. E ancora tutto ciò spiega perchè Wotan ed Alberich siano entrambi degli elfi, chiari e scuri (licht-alben, schwarz-alben).

Ma l’inevitabile progresso conoscitivo e scientifico dell’Uomo porterà - prima o poi - alla sconfitta della Religione (e alla vittoria della Ragione, di Alberich): questa terribile constatazione e consapevolezza è alla base di tutte le azioni e comportamenti di Wotan; e spiega l’intima dissociazione della sua psiche.

Loge rappresenta la metafora dell’umana artistica capacità di auto-illusione. È lui che illude gli dèi di poter perpetuare la loro condizione (le Mele di Freia) mettendo a tacere la terribile verità (Freia reclamata come ricompensa dai Giganti) attraverso l’uso del Tesoro di Alberich! Da gran furbone qual’è, il filibustiere prende così due piccioni con una fava:

1. illude (musicalmente Loge=Tarnhelm!) gli dèi (e gli uomini) che davvero possono liberarsi dalle ferree leggi della Natura, impersonate dallo spaventevole ammonimento di Erda: tutto ciò che esiste, finisce, e
2. offre loro redenzione dal peccato insito nel loro egoistico impulso (il Walhall), che ha ingenerato le pretese dei Giganti su Freia.

Non è un caso che Loge nutra intimo disprezzo per gli dèi: lui conosce perfettamente la verità, sa benissimo che la sua Arte è tutta una finzione, che serve solo ad illudere quei miserabili. Per ora resta al loro servizio (alla fine del Rheingold si accoderà agli dèi che entrano in Walhall) ma non per molto... Intanto però il sequestro del Tesoro e dell’Anello priva - almeno momentaneamente - Alberich (la conoscenza) della possibilità di prevalere.

Di fondamentale importanza è lo scontro Wotan-Alberich - nella quarta scena - che porta alla maledizione dell’Anello. Alberich esclama, rivolto a Wotan: “...se io ho peccato, ho peccato solo contro me stesso; ma tu, immortale, se mi strappi l’Anello peccherai contro tutto ciò che fu, è e sarà”.

Alberich sta accusando Wotan del peccato di fede religiosa: il pessimismo e la rinuncia al mondo reale, che è soggetto a divenire e a mutare. Poco dopo sarà Erda a riecheggiare indirettamente quell’accusa, quando affermerà: “...io conosco tutto ciò che fu, è e sarà”. Prendendo in ostaggio l’Anello, Wotan peccherà (simbolicamente uccidendola) contro Madre Natura, nascondendone la Verità per perpetuare l’illusione che tiene in vita il suo mondo!

Qual’è il significato della maledizione di Alberich (“tutti coloro che possiederanno l’Anello, ne saranno distrutti”)? Tutti quei mortali che si sono auto-illusi con la Religione - inventandosi divinità, immortalità, paradiso, redenzione, libero arbitrio e amore superno, come antidoto alla fatale Verità - saranno inesorabilmente costretti ad accumulare tutto quel tesoro di conoscenza (l’oro) che alla fine distruggerà la loro stessa illusoria felicità.

Gli dèi - e gli uomini che credono in loro - aborriscono la Verità e si autoconvincono che le proprie false credenze siano la Verità. Ma questa situazione non può essere sostenuta a lungo: essi cominciano ad avvertire i dubbi e le paure che l’ammonimento di Erda induce. In effetti, Alberich ha maledetto quell’impulso religioso a fuggire la Realtà, che non può essere soddisfatto: per quanto tale impulso religioso dell’Uomo cerchi soddisfazione nella trascendenza, per sfuggire alla condizione di mortalità del mondo naturale, l’Uomo non può mai raggiungere la redenzione e continua a ritrovare se stesso anche nelle più remote regioni della sua immaginazione religiosa. Gli dèi e il Walhall restano inesorabilmente ancorati alla loro vera origine: l’Anello forgiato da Alberich; il quale Alberich invece non è colpito dalla maledizione, in quanto riconosce la propria condizione e prende atto della Realtà.

Ecco allora il dilaniante dilemma di Wotan: per impedire che il Tesoro di conoscenza venga usato da Alberich per destabilizzare il mondo degli dèi, egli deve metterlo sotto sequestro. Ma con la necessità di difendersi da esso, egli finisce per divenirne conscio a sua volta, e in ciò vede chiaramente la fine delle ragioni della sua propria esistenza, e la vittoria di Alberich!

Fafner impersona appunto la paura di Wotan dell’auto-conoscenza. Egli è il simbolo dei tabù religiosi che ostacolano il pensiero razionale, la paura della Verità che tiene in ostaggio la ragione (Alberich). L’uccisione di Fasolt - la dimostrazione pratica della potenza dell’Anello! - dà a Wotan la conferma delle ragioni della sua paura. Non potendo accettare, nè cambiare la tremenda e orribile Realtà, egli decide ora di cessare di esserne conscio; e cercherà di imparare da Erda (sia visitandola di persona, che percorrendone il dorso, come Wanderer in cerca di spiegazioni al suo stato di necessità) il modo per dimenticare la paura che lei gli ha instillato e per consegnare la conoscenza oggettiva all’oblìo.

Questo doppio, schizofrenico desiderio - conoscere le ragioni della sua paura e i mezzi con cui rimuoverla - si incarna in Brünnhilde. Lei insegnerà a Siegfried (l’erede di Wotan) sia la paura che il modo di dimenticarla. Ciò simboleggia quel dono di Natura che permette all’Uomo di neutralizzare il pensiero oggettivo, facendo prevalere il sentimento: sono i sogni della religione e dell’arte, resi possibili dall’impiego del pensiero e dell’immaginazione controllati dal sentimento. Ma questa redenzione dalla Verità non può che essere temporanea, poichè l’Uomo è destinato ad accrescere la conoscenza di sè e del mondo, finchè la scienza moderna (Hagen) arriverà ad estirpare definitivamente il nostro antico modo di pensare, e la nostra illusoria fede nel trascendente.

(continua)

24 dicembre, 2007

Neujahrskonzert n°69

Georges Prêtre dirige - per la prima volta - il più famoso concerto del mondo, trasmesso in diretta da (quasi) tutte le TV del pianeta, esclusa la RAI, che da qualche anno ha schizzinosamente deciso di non stare nel mucchio e di differire. (Radio3 per fortuna ha ancora qualche spicciolo da spendere - e un pò di sale in zucca - e manda come sempre tutto il concerto, a partire dalle 11:15). Il programma prevede:

Johann Strauss, Napoleon March, op. 156
Josef Strauss, Dorfschwalben aus Österreich. Walzer, op. 164
Josef Strauss, Laxenburger Polka, op. 60
Johann Strauss (padre), Pariser Walzer
Johann Strauss (padre), Versailler Galopp
Johann Strauss, Orpheus Quadrille op. 236
Joseph Hellmesberger, Kleiner Anzeiger. Galopp, op. 4
pausa
Johann Strauss, Overture a 'Indigo und die vierzig Räuber'
Johann Strauss, Freuet euch des Lebens. Walzer, op. 340
Johann Strauss, Bluette, polka française, op. 271
Johann Strauss, Tritsch-Tratsch, polka veloce, op. 214
Joseph Lanner, Hofball Tänze. Walzer, op. 161
Josef Strauss, Die Libelle, polka mazur, op. 204
Johann Strauss, Russischer Marsch, op. 426
Johann Strauss, Die Pariserin, polka française, op. 238
Johann Strauss (padre), Chineser Galopp, op. 20
Johann Strauss, Kaiser Walzer, op. 437
Johann Strauss, Die Bajadere, polka veloce, op. 351
...quindi un primo bis:
Josef Strauss, Sport-Polka, polka veloce, op. 170
...poi gli storici due bis:
Johann Strauss, An der Schönen blauen Donau, op. 314
Johann Strauss (padre), Radetzkymarsch, op. 228

Le precedenti 68 edizioni hanno visto sul podio:

25 Willi Boskowsky
13 Clemens Krauss
11 Lorin Maazel
4 Riccardo Muti
4 Zubin Mehta
2 Claudio Abbado
2 Carlos Kleiber
2 Josef Krips
2 Nikolaus Harnoncourt
1 Herbert von Karajan
1 Seiji Ozawa
1 Mariss Jansons

20 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? (II)

Come già anticipato, Paul Brian Heise ha sviluppato una sua singolare interpretazione filosofica del Ring, che non solo guarda al di là della pura e semplice trama della Tetralogia (cosa assolutamente doverosa e normale, che solo i programmi di sala ancora mancano di fare) ma si spinge ad un livello di astrazione ancora superiore a quello psicologico-esistenziale, ormai largamente acquisito, per inoltrarsi su un terreno che i matematici definirebbero da derivata seconda.

Il nocciolo della teoria di Heise sta nel presupporre (e poi cercare di dimostrare) che il vero significato del Ring, oltre a non doversi individuare nella proposizione di un’improbabile mitologia nordica, nemmeno si deve ricercare nelle interpretazioni psico-sociologiche largamente diffuse. No, nel Ring Wagner ci descrive - secondo Heise - il mortale conflitto filosofico fra tre componenti della civiltà umana: la Religione, l’Arte e la Scienza.

Non solo, ma nel Ring Wagner ci rappresenterebbe anche la sua propria vicenda autobiografica, quella dell’Arte che raccoglie dalla Religione, sempre più soccombente alla Scienza, il testimone della lotta dell’Uomo per la sopravvivenza rispetto al freddo, piatto e disumano materialismo che la Scienza, per l’appunto, va prospettando all’Umanità. E per di più - amarus-in-fundo - Wagner ci dichiarerebbe - per bocca di Siegfried - il suo totale pessimismo sulle possibilità che l’Arte medesima sia in grado di prevalere!

Cosa rappresentano i personaggi del Ring, secondo Heise?

Alberich e Hagen: il Progresso Scientifico, che strappa i segreti alla Natura, scavandola incessantemente, e mette a nudo la fatuità dei concetti di Religione e Trascendenza, creati dall’Uomo solo per difendersi dalla Scienza, cioè dalla consapevolezza dei propri limiti e della propria inevitabile caducità.

L’Anello e il Tesoro: la Conoscenza, che il progresso scientifico accumula continuamente e che - prima o poi - finirà per spazzar via le illusorie mistificazioni della Religione e dei suoi simboli (gli Dèi).

Wotan: l’Umanità che ha costruito la Religione per rimuovere gli effetti devastanti che la Scienza (meglio la Conoscenza) ha sulla psiche umana; e insieme: il concetto stesso di Divinità, ideale quanto effimera costruzione umana, che serve a mascherare la terribile Verità che la Natura porta con sè.

Loge: il Consulente Psichiatrico degli dèi, che usa l’ispirazione artistica per protrarre l’illusione degli Dèi di essere immortali (e l’illusione degli Uomini - attraverso la Religione - di avere una vita perenne e paradisiaca).

Fafner: la Paura che Wotan ha della Conoscenza, e il desiderio del dio di nasconderla per impedire che Alberich se ne impossessi per distruggere la Religione e i suoi simboli, gli Dèi.

Erda: la Natura, che ha la conoscenza assoluta e totale, che avverte l’Uomo Religioso (Wotan) dell’inutilità dei suoi sforzi atti a nascondere la Verità.

(continua)

19 dicembre, 2007

Concerto di Natale alla Scala: ancora “Deutsche Kunst”









Niente Presepe, solo molti Alberi-di-Natale...

In questo dicembre 2007 La Scala ha davvero indossato un abito tedesco! Sarà stato solo un caso, o c’è dietro una precisa e voluta programmazione, magari con lo zampino del tedesco Barenboim?

Prima Wagner con il Tristan, poi la IX di Beethoven, con Masur; ora la Lobgesang di Mendelssohn, diretta da chi (Chailly) oggi ne prosegue la tradizione, calcando il podio della Gewandhaus.

Molto più della Reformationssinfonie (numerata 5 nel catalogo di Mendelssohn, quella che cita il famoso Dresden Amen, poi parsifalizzato da Wagner) la scarsamente eseguita Lobgesang (numerata 2, ma scritta quasi 10 anni dopo) incarna tutto un intero universo germanico.

Musicalmente: Bach, Händel e ovviamente - anche se per aspetti più superficiali che sostanziali, che diedero a molti, Wagner in primis, lo spunto per critiche e stroncature - Beethoven (la Nona, per l’appunto).

Ma soprattutto Gutenberg, di cui nel 1840 - anno della presentazione della sinfonia, il 25 giugno, nella Thomaskirche a Lipsia, con 500 esecutori! - ricorreva il 4° centenario della scoperta della stampa a caratteri mobili; scoperta (oggi sappiamo che fu coreana, ma insomma...) che contribuì in primo luogo alla capillare diffusione della Bibbia, da cui Mendelssohn trasse i versi da musicare nella sua colossale sinfonia-cantata.

Ma, con Gutenberg, anche Hans Sachs (su cui Lortzing compose per la stessa occasione un’operina comica) e, dulcis-in-fundo, Martin Luther, da Sachs apostrofato come l’Usignolo del Wittenberg, con versi ripresi poi da Wagner nel mirabile Wacht auf! dei Meistersinger.

Gutenberg, Sachs, Luther, Bach, Beethoven! Questo il crogiolo della Lobgesang, con la Bibbia a fare da sfondo unificante! (qui si possono chiudere gli occhi e, magari sul ricordo di acquerelli dello stesso Felix, immaginare il tipico ambiente tedesco di metà ‘800).

La struttura della sinfonia-cantata è così schematizzabile: tre movimenti strumentali, quasi senza soluzione di continuità, seguiti dalla cantata in nove sezioni (o dieci, a seconda delle edizioni critiche, che scindono o meno il n°2) con intervento di soli (2 soprani e un tenore) e coro. I testi sono intrisi di lodi a Dio e al continuo progresso umano - dall’oscurità alla luce - reso possibile, appunto, dalla diffusione del messaggio biblico, a sua volta accelerata dalla moderna tecnologia di stampa.

La mistura - per taluni schizzinosi critici, impropria e gratuita - fra musica da auditorium e musica da chiesa (vi interviene anche l’Organo) rappresenta il carattere principale dell’opera, dal punto di vista del contenuto. I tempi: Mendelssohn, come anche Beethoven del resto, ha posto in partitura chiare indicazioni metronomiche, che dovrebbero quindi guidare il direttore in modo abbastanza vincolante.

Ad aprire la sinfonia sono i tre tromboni soli, quasi un preludio di altre trombonate famose: dal Brahms di Ein Deutsches Requiem (per esempio ad accompagnare, nel n°6, le parole der letzten Posaune) al Wagner dei Cavalieri del Graal, per finire a Mahler, ultimo movimento - Auferstehung - della Sinfonia II (che ci porta nientemeno che nel Giorno del Giudizio).

L’incipt (FA-SOL-FA-SIb) richiama apertamente uno dei Magnificat, come riportati nel Liber usualis. Ne ritroveremo un altro anche in Strauss (Also sprach Zarathustra). Il tema ritorna ciclicamente più volte lungo l’intera opera, per poi chiuderla in modo solenne.

Nella sezione vocale, particolare rilievo ha il n°6. Questo numero, assieme al 3 e al 9, fu aggiunto da Mendelssohn qualche mese dopo la prima esecuzione. In realtà è fondamentale, nell’economia dell’opera, quasi fosse la zeppa di un portale.

Qui c’è il passaggio dalla notte al giorno (simbolizzato illuministicamente dall’invenzione della stampa) descritto con teatrale drammaticità: i tre richiami del tenore al guardiano (figura tanto severa e implacabile qui, pur non parlando in prima persona, quanto routinaria e oleografica sarà nei Meistersinger) angosciosamente interrogativi, con altezze sempre crescenti di un tono (REb, MIb, FA il motto orchestrale, citato da Wagner nella Walküre; DO, RE, MI la supplica: Hüter, ist die Nacht bald hin?) creano davvero una tensione cromatica fortissima, che sfocia nell’annuncio, in RE maggiore, del soprano solo e poi (al n°7, con l’intera orchestra) nella liberatoria perorazione di tutto il coro: Die Nacht ist vergangen! Der Tag ist gekommen! Una fuga di vaste proporzioni, che ne anticipa nell’atmosfera altre più famose, quelle del brahmsiano Requiem. E infatti un certo parallelo si può tracciare fra i n°6-7 della Lobgesang e il n°6 del Requiem di Brahms: anche in quest’ultimo abbiamo il contrasto fra la morte (con i tre richiami DO#-RE-MIb) e l’inferno, rappresentati dal DO minore, e la successiva fuga - di proporzioni gigantesche - in DO maggiore, sui versi:

“Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft,
denn du hast alle Dinge erschaffen,
und durch deinen Willen haben sie das Wesen und sind geschaffen.“

Analogo spirito emerge dal motto di Martin Luther, apposto da Mendelssohn sul frontespizio della Partitura della Lobgesang:

“Vorrei vedere tutte le Arti, in specie la Musica,
al servizio di Colui che ce le ha donate e create”.

Ed infatti nella sinfonia-cantata ci sono, insieme: Sacra Scrittura, Progresso, Illuminismo, fede in Dio e fede nella Ragione; un sistema di valori positivi, quasi al limite dell’utopia o addirittura dell’integralismo, dove la luce diventa nientemeno che un’arma (die Waffen des Lichts). Distanza stellare davvero - a cominciare dal diatonismo quasi stomachevole, che per noi scafati è paradossalmente un carattere di debolezza - dall’incipiente decadentismo del cromatico e notturno Tristan!

In ogni caso, inutile negare l’evidenza: la Riforma gettò nel mondo tedesco i semi di un progresso culturale, e quindi artistico, e quindi musicale, che il (nostro) mondo rimasto legato a Santa Romana Chiesa non ha saputo esprimere.

18 dicembre, 2007

Il Ring: una “vision” pazza? chissà...

Tale Paul Brian Heise sta dedicando la vita intera a mettere a fuoco una sua personalissima visione del Ring. Nel libro The Wound that will never heal (titolo scopertamente parsifaliano) propone una sua suggestiva ed accattivante tesi, basata sul postulato della totale adesione di Wagner alla filosofia di Ludwig Andreas Feuerbach. Secondo Heise il Ring altro non è se non...

...un’allegoria, il cui soggetto è il conflitto, che si manifesta in ciascuno di noi, fra il pensiero oggettivo, pratico e scientifico, il cui oggetto è il mondo reale in cui viviamo, e il pensiero religioso ed artistico, che nega il nostro mondo sensibile in favore di un mondo alternativo ed immaginario. La trama del Ring è la storia di come questo conflitto scuote il credo religioso dalle fondamenta, lasciandogli in eredità la moderna arte secolare, l’arte di Wagner. L’intero Ring dipinge non solo la storia di tale conflitto dalle origini dell’Uomo fino ai tempi di Wagner, ma si conclude con la descrizione che Wagner fa della sua stessa creazione del Ring, nelle parole e musica di Siegfried che narra la storia della sua vita (nel finale del Götterdämmerung, ndr.)

(continua)

14 dicembre, 2007

Di peggio in peggio...

Marcelo Alvarez e il regista Terry Gilliam rompono con La Scala.

I commenti sono da...

Italia: se la conosci, la eviti!

13 dicembre, 2007

Il peggio del peggio del peggio!

Lo si era sospettato fin dall’inizio: che fosse tutta una manfrina!

Due scioperi, per i Requiem (qualcuno spiega a cosa servirono?), minacce di sciopero per la prima del 7 e poi il balletto:
- Rutelli che fa promesse verbali (rifriggendo l’aria, senza impegnare seriamente nemmeno un’unghia incarnita),
- Lissner che promette elargizioni (di ciò che non ha),
- i Sindacati confederali che si bevono l’aria fritta e accettano il nulla e
- il Fials che, tra un atto e l’altro della generale del Tristan, fa finta di mostrare senso di responsabilità, ben sapendo di non condividere un’unghia incarnita di tutto ciò che viene votato in assemblea.

Così va in onda un’autentica, anche se spuria, precettazione per il 7/12, imposta promettendo un paio di panettoni di Natale.

Risultato?

Il pubblico falso e bugiardo del Sant’Ambrogio è accontentato, anzi servito in guanti gialli.

Quello che segue La Scala per tutto il resto della stagione? chissenefrega !

12 dicembre, 2007

Regietheater II - pastrani

Il pastrano sembra ormai essere divenuta l’uniforme ufficiale per i personaggi di opera (soprattutto di Wagner).

Così commenta A.C.Douglas sul suo blog:

Arieccoli! Questi pastrani ubiqui, maledetti e stupidi, così cari ai registi Eurotrash! Sarei eternamente grato a chi mi fornisse plausibile spiegazione del perchè questo capo di abbigliamento, totalmente inappropriato, abbia preso così indefettibilmente piede nell’immaginazione di registi e scenografi Eurotrash, che lo infilano nella produzione di qualsivoglia opera, indipendentemente da ogni necessità legata al dramma, o al tempo o al luogo...

Le immagini vengono dalla Scala, dalla Staatsoper, dalla Royal Opera House.
Come tutte le mode, passerà?!?


















10 dicembre, 2007

Regietheater

Il tema occupa, con alti e bassi, le discussioni, le recensioni, le pagine di cronaca e cultura musicale di giornali e riviste.

In sostanza, la materia del contendere è la validità - il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure il responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera Lirica, magari in contrasto con la volontà, o la lettera, degli Autori, o con la tradizione interpretativa consolidata.

Il razionale che sta dietro al Regietheater (nome teutonico perchè è nel mondo tedesco che la pratica ha avuto inizio ed ha preso ampiamente piede) è che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale, in modo da renderla meglio e più comprensibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata.

Quindi si teorizza che rappresentare, negli anni 2000, personaggi in parrucca, ambienti settecenteschi, o scenari da improbabile fiaba, sia cosa disdicevole per le sorti dell’Opera, in quanto lo spettatore medio di oggi troverebbe tali messe in scena semplicemente ridicole, parruccone appunto, e in definitiva non degne della minima attenzione. Il Regietheater avrebbe quindi una nobile funzione culturale: mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso l’Opera Lirica.

È singolare osservare come questo furore innovativo si applichi, di norma, alla messa in scena, e non - o solo in misura limitatissima - alle componenti fondamentali dell’Opera: il testo e la musica. E in particolare non ci si preoccupa della banalità, della stupidità, o dell’anacronismo davvero ridicolo di molti libretti, per cui il Regietheater finisce per cambiare l’abito a personaggi che però continuano a recitare e a cantare frasi, espressioni e termini oggi del tutto desueti e ancor più stridenti se messi in bocca a persone vestite alla moda attuale e che si muovono in ambienti moderni. Ad una Traviata ambientata in una tifoseria hooligan andrebbe coerentemente cambiato il testo, e Libiamo, libiamo nè lieti calici dovrebbe diventare: Svuotiamo, svuotiamo le nostre lattine. Ma il Regietheater, statene pur certi, vi propinerà gli hooligan che cantano libiamo...

La musica poi, è sacra, e nessun regista se ne occupa, è giustamente affare del kapellmeister; il quale, salvo apportare tagli qua e là, o al massimo qualche ritocco all’orchestrazione (ma non scambierà di certo la sezione degli archi con quella degli ottoni!) si guarda bene dal rinnovare i contenuti musicali, poichè si conviene che avrebbe pochissimo senso riscrivere à la Rossini un’opera di Monteverdi, o à la Strauss un’Opera di Donizetti.

Sgombriamo qui il campo da un altro fenomeno, che con il Regietheater ha poco a che spartire: il taglio dei recitativi (opera italiana) o delle parti puramente vocali, senza accompagnamento musicale (singspiel tedesco): qui siamo di fronte all’esigenza, derivante dall’evoluzione del gusto, di concentrare al massimo la parte musicata, in sostanza penalizzando il testo e la comprensione della trama, in favore della musica. O anche di non tediare uno spettatore tedesco con dialoghi in italiano per lui incomprensibili, o uno spettatore italiano con dialoghi in crucco, del tutto ostici da digerire. Ad esempio, il Fidelio privato dei dialoghi si riduce a meno di due ore di grandissima musica, che si beve di un sol fiato (il che spiega perchè, per rimpolparlo, a partire da Mahler si infila la Leonore3 fra le ultime due scene).

Altro ancora è il problema delle cosiddette edizioni o revisioni critiche di opere incompiute, o presenti in versioni diverse o frammentarie, o tramandate in modo equivoco e con aggiunte o interventi apocrifi. Esempi ne sono: Die Kunst der Fuge di Bach, scritta su quattro righi senza alcuna altra indicazione, per cui la sua esecuzione richiede necessariamente e come minimo di decidere quale(i) strumento(i) impiegare. O la decima di Mahler, di cui restano solo abbozzi e schizzi che, per essere fatti ascoltare al vasto pubblico, richiedono interventi, anche discutibili, come quelli messi in atto da Derick Cooke. O ancora opere di Rossini ritrovate a spizzichi e bocconi e necessitanti quindi di revisione critica, se non addirittura di ricostruzione.

Fatte queste premesse, veniamo a descrivere un paio di esempi.

Calixto Bieito e la regia di Die Entführung aus dem Serail, alla Komische Oper Berlin. Per portare l’ambientazione ai tempi nostri, il català ci propina nientemeno che il taglio di capezzoli di una prostituta, molto sesso orale, la vista di bisogni corporali e altre piacevoli interpretazioni. E pensare che Mozart intervenne di persona sul libretto di Gottlieb Stephanie, proprio per meglio scolpire la personalità dei suoi personaggi! Questo è un esempio lampante di come un regista che faticherebbe a farsi largo in teatri underground, può invece arrivare a mettersi in primo piano, strumentalizzando ai suoi fini, e ai limiti del codice penale, un’opera fra le più splendide che la nostra civiltà abbia prodotto. Risparmio esempi fotografici, reperibili facilmente nel web.

Claus Guth e la regia dei Meistersinger, a Dresda. Alla fine dell’Atto II, il povero Beckmesser viene mostrato, nudo, con testa d’asino e genitali insanguinati (si veda qui sotto). Proprio quello che Wagner avrebbe immaginato, fosse vissuto 150 anni dopo! (vero?)













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Veniamo per l’appunto a Wagner, Rheingold, preludio e prima scena. Sulla partitura, insieme alle parole ed alle note, Wagner ha scritto: Sul fondo del Reno. Sì, con la sua propria (e bella) calligrafia. Non c’è dubbio alcuno, guardate che c’è proprio scritto così, sopra e prima del famoso MI bemolle dei contrabbassi (qualche direttore ha mai pensato di suonarci un LA, per caso?) esattamente come sulla partitura della V di Beethoven c’è scritto che l’incipit lo suonano gli archi, coi clarinetti, ma non gli strumentini e gli ottoni, e come - dal 1300 - ci è stato tramandato che il primo verso della Commedia recita: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e non, poniamo: “Al colmo del sentier della mia vita”.

Ora: se un regista ambienta l’inizio del Rheingold - invece che sul fondo del Reno, come Wagner ha scritto di suo pugno sulla partitura dell’opera - ai piedi di una centrale idroelettrica in disarmo, e le Rheintöchter le trasforma in prostitutelle da lupanare, che dobbiamo dire, indipendentemente dall’efficacia e dall’effetto spettacolare di questa ambientazione? Così la presero semplici ed onesti spettatori del Ring del centenario, che il del tutto incompetente Wolfgang Wagner fece inscenare all’ignorante crasso (in fatto di musica e di Wagner) Patrice Chéreau, nel 1976 a Bayreuth:


















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È tutto qui. Dopodichè sul problema e sulle innumerevoli materializzazioni del Regietheater si possono scrivere - e si sono scritti - fiumi d’inchiostro. Mentre basterebbe dire - prima e chiaro - che si sta facendo la parodia... in modo che lo spettatore:

1. sappia ciò che va a vedere/ascoltare (e questa è di gran lunga la cosa più importante) e
2. possa distinguere fra originale e contraffazione.

01 dicembre, 2007

Duetti wagneriani

Va da sè che il titolo è irriverente verso il Wagner del Tristan, e pochissimo applicabile al Wagner tout-cour. Sa di opera italiana a numeri, quanto di più distante dalla concezione wagneriana del musik-drama. Però serve ad intendersi sommariamente.

Lo sbudellante ed interminabile duetto che occupa 2/3 del secondo atto del Tristan è perfettamente inserito nel disegno unitario dell’opera, ma è anche in qualche modo legato, quasi ne fosse cerniera, ad altri due duetti che lo precedono e lo seguono cronologicamente, nella parabola compositiva di Wagner.

Sappiamo che Wagner, per dedicarsi al Tristan, nel 1857 abbandonò la composizione del Siegfried, alla fine dell’Atto II. Un anno prima, o giù di lì, Wagner aveva completato la Walküre, il cui primo atto è occupato, nella seconda parte, da un altro strepitoso duetto, quello fra Siegmund e Sieglinde.

Di durata inferiore e - inutile ricordarlo - di assoluto diatonismo, questo duetto tuttavia rappresenta quasi la prova generale di quello del Tristan, e ne prefigura anche alcuni aspetti tecnici, come ad esempio la serie di modulazioni a partire da “was in Busen ich barg”, o il trascinante alternarsi delle linee melodiche, perfettamente modellate sul tracciato del dialogo dei due gemelli-amanti.

Insomma, a parte gli stimoli che portava in sè da parecchio, ulteriormente e carnalmente amplificati dal rapporto con Mathilde, è possibile che la straordinaria riuscita, in termini drammatico-musicali, del duetto dei gemelli Wälsi abbia dato a Wagner la spinta definitiva ad affrontare senza indugi - e lasciando il povero Siegfried ad aspettare sotto il tiglio - l’impresa stratosferica del Tristan.

Ma attenzione! Al ritorno dal tristaniano aldilà (im weiten Reich der Weltennacht...) il nostro aveva di fronte, indovinate? un’altra bella gatta da pelare: il duetto Siegfried-Brünnhilde! Una freudiana enciclopedia dell’iniziazione sessuale! E ciò che nel Tristan viene inghiottito dal diluvio cromatico che sostiene la schopenaueriana visione del mondo della sehnsucht, nel Siegfried riemerge nell’abbagliante luce solare del leuchtende Liebe, lachender Tod! Con tanto di ritorno al diatonismo, dopo il bagno peccaminoso nel venefico filtro, nel furchtbare Trank...

Poi, prima di lasciar cadere l’orologio, il nostro musicherà la versione più straordinaria, e invero pazzesca, del duetto d’amore, dove la donna usa l’insano mix di amore materno e meretricio per adescare l’uomo, e desta in lui l’amore universale ed assoluto!