Dopo
il Dittico del 2021 in piena era
Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt
Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny
Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.
Come
allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora
affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime
due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre
alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre
si perde quella di Harris.
Irina
Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare
fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato
come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi
della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature
diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio
pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny
prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura
e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della
società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford)
con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali
che caratterizzano proprio i giorni nostri.
Il
finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger
Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua
utopia…
Si
parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente
l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con
canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente
sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti
diversi (danzatori e cantanti).
Completato
da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni,
rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati
nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di
due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla
natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal
soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei
consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto
obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali.
Magari
dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come
dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima
del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in
tutti i peccati capitali!
Un
aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del
lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto)
su temi politico-socio-etico-esistenziali.
Bene,
Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena
(sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con
un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento.
Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri
componenti della famiglia delle ragazze. Una
multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di…
rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della
natia Louisiana.
Vi
vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di
un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due
fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due
Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata
casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di
evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due
Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!
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Con
Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida
collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera
teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e
infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un
finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria
dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures
americane.
Tre
delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny
I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio
che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares),
testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un
futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale
deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!
La
scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma
arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica
nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a
testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben
si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio,
praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano
i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che
vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate.
Emblematica
la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare
tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di
meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo
dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?)
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Dopo
l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici
canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte
dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine
arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo –
in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì
sogna di approdare l’anima dell’Uomo.
Irina
Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio.
Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei
personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in
volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca
l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi,
come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che
interpretano le canzoni, più altre sei comparse.
La
chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in
una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?
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La
musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio
senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà
delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo
stilare classifiche e dare voti.
Un’osservazione
mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.
Niente
da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro,
che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata
e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per
gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con
una propria, personale sensibilità swing…
Forse
temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto
alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando
suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio
Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri
il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico
neo in una prestazione di eccellenza.
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Pubblico
non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico
trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi
e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique
Meyer.