XIV

da prevosto a leone

17 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.26 – Ceccherini-Filidei-Tamestit

È frutto della consueta collaborazione de laVerdi con MilanoMusica il concerto che va in onda questa settimana all’Auditorium, diretto da Tito Ceccherini. Concerto che ha il suo pezzo forte nella prima esecuzione italiana di una composizione di Francesco Filidei (cui è intitolata la celebre rassegna milanese di quest’anno).

Del compositore, di cui abbiamo potuto vedere, ascoltare ed apprezzare di recente alla Scala la nuovissima opera teatrale - Il nome della rosa – è stato presentato il Concerto per viola e orchestra, composto quasi contemporaneamente all’opera nel 23-24, su commissione della Radio Bavarese, di MilanoMusica e della francese SACEM.

Ad interpretarlo Antoine Tamestit, dedicatario e primo esecutore in assoluto del brano (12 aprile 2024 a Monaco di Baviera, Radio Bavarese).

Di Filidei proprio qui in Auditorium avevamo ascoltato circa 11 anni orsono una composizione (Fiori di fiori) ispirata a Frescobaldi e in realtà ai rumori che il complesso meccanismo dell’organo (Filidei è nato organista) produce per… produrre i suoi suoni. Era ancora il Filidei ricercatore nel campo rumoristico, ecco.

Oggi la sua evoluzione estetica lo ha portato a rivalutare anche il valore del suono in quanto tale, e ciò si è potuto constatare nella recente opera (e per la verità anche nelle due precedenti, Giordano Bruno e L’inondation) e in questo Concerto dalla struttura classica in tre movimenti, ottenuto rielaborando precedenti composizioni. Certo anche qui non manca la ricerca di effetti speciali, chiedendo agli strumenti imprese… bizzarre, come (per far solo un esempio riguardante i contrabbassi) farli suonare su corde allentate, in modo da ottenere un effetto di sfarfallio, oppure prescrivere di passare l’archetto sulle corde fra il ponte e l’ancoraggio…

Ma nel brano non mancano squarci di pura diatonia: nell’iniziale I giardini di Vilnius si ascoltano passaggi su perfette triadi di LA, SOL, FA#, REb maggiore! Nel centrale Tuttomondo (una sorta di Scherzo ispirato a Falstaff) prevale chiaramente il DO maggiore, mentre il conclusivo e languido What is a Flower? si muove in prevalenza in LA minore.

Tamestit ha mostrato tutta la sua abilità tecnica, messa davvero a durissima prova da Filidei, che chiama il solista a imprese davvero impossibili, e il pubblico ha ripagato lui, come pure Ceccherini e l’Autore salito sul palco, con interminabili battimani e ovazioni.

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Ha degnamente chiuso la serata Claude Debussy con i suoi celeberrimi Trois Nocturnes presentati in integrale (tre e non soltanto due, appunto) grazie alla presenza del Coro I Giovani di Milano diretto da Maria Teresa Tramontin, che ha reso possibile eseguire come-si-deve anche Sirènes.

Questi Nocturnes costituiscono una particolare variante di musica-a-programma. Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso.  

L’incipit di clarinetti e fagotti ricorda vagamente il Dies-Irae, mentre subito dopo il corno inglese espone un nuovo tema ricorrente, che sembra quasi una reminiscenza delle prime battute del Tristan. Pur non essendo un seguace dell’atonalismo, Debussy cerca di affrancarsi dai classici e rigidi schemi della tonalità, impiegando accordi imperfetti, o inquinando quelli perfetti con note armonicamente distanti: in questo brano in particolare, ciò concorre in modo estremamente efficace a creare quell’atmosfera indefinita e instabile che lo caratterizza. Nella sezione centrale Debussy fa anche uso di una scala pentatonica, di chiara matrice orientale, che sembra anticipare di 10 anni altre nuvole, quelle del Lied von der Erde di Mahler

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes è un brano che è davvero raro ascoltare in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): come anticipato, è un merito de laVerdi averci fatto – non è la prima volta - questo bel regalo. Ieri le 23 ragazze (14 soprani + 9 mezzosoprani) erano dislocate in orchestra, fra i legni e gli ottoni, proprio quasi fossero strumenti… umani.

Per tutti grandi applausi da parte di un pubblico abbastanza folto e soprattutto impreziosito da una nutrita rappresentanza di giovani e giovanissimi, il che fa sempre un gran piacere.


15 maggio, 2025

Chailly-Brook fanno trionfare Weill-Brecht alla Scala

Dopo il Dittico del 2021 in piena era Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.

Come allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre si perde quella di Harris.

Irina Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford) con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali che caratterizzano proprio i giorni nostri.

Il finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua utopia…

Si parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti diversi (danzatori e cantanti).

Completato da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni, rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali. 

Magari dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in tutti i peccati capitali!

Un aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto) su temi politico-socio-etico-esistenziali.

Bene, Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena (sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento. Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri componenti della famiglia delle ragazze. Una multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di… rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della natia Louisiana.

Vi vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!

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Con Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures americane.

Tre delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares), testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!

La scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio, praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate. 

Emblematica la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?) 

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Dopo l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo – in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì sogna di approdare l’anima dell’Uomo.

Irina Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio. Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi, come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che interpretano le canzoni, più altre sei comparse.

La chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?

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La musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo stilare classifiche e dare voti.

Un’osservazione mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.

Niente da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro, che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con una propria, personale sensibilità swing

Forse temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico neo in una prestazione di eccellenza.

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Pubblico non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique Meyer.

10 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.25 – Varga-Goerner

Dopo il lungo intervallo pasquale, riprende la stagione con questo concerto impregnato di Ungheria, ma con un intermezzo di italico romanticismo.  È ungherese il 73enne Direttore, Gilbert Varga, figlio d’arte, e ungheresi sono tre dei quattro compositori eseguiti.

Si parte con Threnos, breve brano di Sándor Veress, composto nel 1945 a pochi mesi dalla morte di Béla Bartók e a costui quindi dedicato.

La struttura del brano è tripartita: a due sezioni che presentano – nello stile del folklore popolare - altrettanti canti di lamentazione funeraria, con crescendo di dolorosa intensità seguiti da repentine e disperanti cadute di tensione, segue la parte conclusiva, che riprende temi delle due precedenti per muoversi su un lungo arco che sale e poi scende lentamente verso una rassegnata serenità.

A dispetto della sua brevità, il brano è una costruzione assai complessa, sia dal punto di vista melodico che armonico, come eloquentemente spiegato in questo dettagliato studio di Miklós Fekete dell’Università di Cluj-Napoca (scaricabile previa iscrizione al sito).

Altre caratteristiche peculiari del brano sono la sua poliritmicità e politonalità e la frequente alternanza di metro ad evocare le sconfortate lamentazioni in ricordo del defunto.

Varga dirige con gesto prevalentemente composto, con qualche cedimento ad enfasi e platealità. Ma sempre con squisito stile… austro-ungarico. Comunque, a giudicare dal tributo riservatogli dall’orchestra alla fine del concerto, si direbbe che sia piaciuto anche ai suonatori, oltre che al pubblico.

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È poi la volta di Nelson Goerner, 56enne pianista argentino, di sedersi alla tastiera per interpretare il celeberrimo Primo Concerto di Franz Liszt. (Qui alcune mie note in proposito).

Prestazione di alto livello (qualche leggera svirgolata è sempre da perdonarsi in brani come questo, che hanno passaggi invero impervi). Equilibrato impego del rubato, grandiosità delle perorazioni (gli strepitoso che costellano la partitura) e un costante ottimo amalgama con l’orchestra sono alcuni aspetti rimarchevoli della sua interpretazione. 

Accolta con entusiasmo dal pubblico discretamente folto dell’Auditorium, che Nelson ripaga con Rachmaninov (il quarto dei dieci Preludi dell’op.23, qui a 7’29”). 

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Un altro brano breve apre la seconda parte della serata, interrompendo momentaneamente il percorso tutto magiaro del concerto: è il Notturno n°1 di Giuseppe Martucci, versione orchestrata nel 1901 dal compositore dall’originale per pianoforte composto dieci anni prima.

Brano tipicamente tardoromantico, dalla struttura assai semplice (tonalità SOLb maggiore con divagazione alla sottodominante DOb) che richiama atmosfere oniriche, un po’ decadenti o nordiche, che si ritrovano in analoghi brani di Liadov, Sibelius, Grieg… ecco. 

L’orchestra davvero smagrita (per dire, 10 soli fiati: 4 legni e corni a 2) ne ha efficacemente messo in risalto le qualità delicatamente miniaturistiche.

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La serata si chiude proprio con Bartók, di cui ascoltiamo la Suite da Il mandarino meraviglioso (o miracoloso che dir si preferisca, traducendo il nativo csodálatos).

Suite che in realtà presenta buona parte della musica dell’originale Pantomima (poi trasformata in Balletto dopo l’ostracismo subito a seguito delle prime rappresentazioni del 1929) come chiarisco nella tabella in Appendice, che mostra come la Suite sia stata derivata per semplice sottrazione di tutto il movimentato (ma poi… trasfigurante) finale. Intelligente la decisione di proiettare sui due schermi che sovrastano il palco i testi (inglese e italiano) delle didascalie originali che in partitura segnalano i tratti salienti dell’azione che ispira la musica.

Dove, nell’introduzione, si evoca il logorio della vita moderna (copyright Cynar…) e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti della ragazza, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui. Asfissiante la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) che chiude la Suite con gran trambusto e fracasso (l'integrale della Pantomima chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba). 

Gran trionfo per Varga, che ha l’ha diretta a memoria, e per l’orchestra tutta che, aizzata con… il piede dalla spalla Dellingshausen, spinge il pubblico ad un applauso ritmato per il Direttore, che ringrazia tutti e in particolare le prime parti, chiamate a difficili interventi solistici. Insomma, una bella serata di musica. 

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Appendice. Il Mandarino di Bartók.

Pantomima (Balletto)
Suite
Tempo
Azione
Allegro
Introduzione strumentale - Sipario
 

 

Il 1° malvivente rovista le sue tasche in cerca di denaro… senza successo. Non trova nulla.
Il 2° malvivente cerca nel cassetto del tavolo. Non trova nulla.
Il 3° malvivente si alza dal letto, va verso la ragazza e le ordina di affacciarsi alla finestra e di adescare i passanti, che verranno poi derubati.
Meno mosso
La ragazza si oppone. I tre malviventi ribadiscono l’ordine.
Eliminato (14 battute)
Vivo; Moderato
La ragazza si arrende e va ciondolando alla finestra.
 
Rubato
Primo adescamento. Si fa vivo un uomo.
Più mosso
Sale le scale. I malviventi si nascondono.
Comodo; Più lento
Si fa avanti un vecchio e trasandato cavaliere, con movenze comiche.
Comodo; Lento
La ragazza: hai denaro? Il vecchio cavaliere: il denaro è irrilevante. Essenziale è l’amore! Si fa sempre più invadente.
Vivace
I tre malviventi balzano fuori dal nascondiglio, afferrano il vecchio cavaliere e lo scaraventano fuori. Si volgono arrabbiati alla ragazza e la obbligano a tornare nuovamente alla finestra.
Più mosso
Secondo adescamento. La ragazza scorge ancora qualcuno. (I malviventi si nascondono.)
Sostenuto; Più mosso; Ancora più mosso
Un timido giovane si affaccia alla porta. Fatica a mascherare l’imbarazzo. La ragazza lo accarezza per incoraggiarlo e intanto gli palpa le tasche (non ha un soldo).
Allegretto
Lo tira a sé e inizia una danza dapprima quasi timida.
Più mosso
La danza si fa più agitata e appassionata.
Vivace
Ma i malviventi saltano fuori, afferrano il giovane e lo sbattono fuori. Si volgono alla ragazza: Sii dunque ragionevole. Procuraci un uomo adatto.
Sostenuto; Agitato
Terzo adescamento. Si scorge con raccapriccio sulla strada una figura poco raccomandabile. Lo si ode salire le scale. I malviventi si nascondono.
Maestoso
Il Mandarino si fa avanti. Resta come immobile sulla porta, la ragazza fugge inorridita nella parte opposta della stanza.
Non troppo vivo
Spavento generale. I tre malviventi accennano di nascosto dal loro nascondiglio alla ragazza di iniziare ad avvicinarsi un poco al Mandarino per ammaliarlo. La ragazza vince il proprio ribrezzo e grida al Mandarino:
Eliminato (41 battute)
Meno mosso
Vieni più vicino! Perché te ne stai lì così immobile a fissarmi? Il Mandarino fa due passi. La ragazza: Più vicino! Siediti sulla sedia.
Tranquillo
Il Mandarino si siede.
Vivo; Meno vivo
La ragazza è indecisa. Torna ad inorridire. Alla fine vince la sua ritrosia e inizia timidamente una danza.
(A poco a poco la danza, accompagnata da una musica adeguata, audacemente…    
Lento
… culminerà alla fine in danza selvaggiamente erotica.) Durante la danza il Mandarino guarda fissamente la ragazza in modo che il divampare della sua passione diventa percettibile.
 
Allegretto; Adagio; Valse; Allegro
La ragazza abbassa il petto verso il Mandarino. Lui comincia a fremere in febbrile eccitazione.
Più allegro
Però la ragazza rabbrividisce al suo abbraccio… vuole staccarsi da lui…
Sempre vivace; Marcatissimo
…ciò che finalmente le riesce. Comincia ora una caccia sempre più selvaggia da parte del Mandarino alla ragazza che continua a fuggire.

Sempre vivace

Il Mandarino inciampa, ma si rialza di scatto e prosegue la sua caccia ancor più selvaggiamente. Raggiunge la ragazza. Lottano l’un contro l’altra.
14 battute in più solo per la Suite, che termina qui.
Sempre vivo
I malviventi saltano fuori, bloccano il Mandarino, lo trascinano lontano dalla ragazza. Gli strappano i gioielli e il denaro. Dopo che è stato depredato, si sente dire: Cosa ce ne facciamo adesso?

Maestoso
Dobbiamo ammazzarlo, soffocarlo nel letto sotto i cuscini! Viene trascinato verso il letto e quivi gettato…  
Pesante
…ricoperto di cuscini, coperte, e di qualunque altro oggetto pesante. Uno dei malviventi gli si siede persino sopra.
Più sostenuto
Si attende qualche istante. Poi il malvivente scende dal letto. Tutti e tre si allontanano un poco. Ora dovrebbe essere soffocato!
Adagio
Improvvisamente la testa del Mandarino emerge dai cuscini, lui guarda ardentemente la ragazza. Le quattro persone inorridiscono, restano lì sconvolti.
Più mosso; Allegro molto
I malviventi riflettono. Afferrano il Mandarino, lo trascinano fuori dai cuscini e lo tengono ben stretto. Si chiedono come poterlo uccidere.
Vivacissimo
Uno dei malviventi ha un’idea, cerca una vecchia spada arrugginita e la immerge per tre volte nel corpo del mandarino.
Ritenuto; Vivo; Meno mosso
Lasciano libero il Mandarino trafitto… lui barcolla, incespica, sembra quasi crollare, ...
Lento
…improvvisamente si rimette ritto e si getta sulla ragazza.
Agitato molto: Lento
I tre malviventi glielo impediscono e lo afferrano ancora saldamente. Il Mandarino immobilizzato guarda ardentemente verso la ragazza.
Agitato
I malviventi spaventati si domandano nuovamente come potersi liberare del Mandarino.
Più mosso
Impicchiamolo!
Grave
Trascinano il Mandarino recalcitrante al centro della stanza e lo impiccano al lampadario.
Più lento e rallentando
La lampada cade a terra.
Molto moderato
Il corpo penzolante del Mandarino comincia ad illuminarsi di verde e azzurro; i suoi occhi sono fissi sulla ragazza. I tre malviventi e la ragazza guardano il Mandarino pieni di terrore. Finalmente la ragazza ha un pensiero risolutivo. Fa segno ai tre malviventi: Tirate giù il Mandarino. I tre malviventi esaudiscono la sua richiesta.
Più mosso
Il Mandarino cade al suolo e si rovescia verso la ragazza.
Vivo; meno vivo
La ragazza non gli si oppone più, entrambi si abbracciano.
Lento
L’anelito del mandarino è ormai placato, le sue ferite incominciano a sanguinare, diventa sempre più debole e muore.