bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

21 luglio, 2017

Bayreuth 2017 è alle porte (per chi ci tiene...)


Martedi 25 luglio si apre per la 106esima volta il Festival wagneriano. Quest’anno la novità assoluta è una nuova produzione dei Meistersinger (affidata a Barrie Kosky) che fa seguito a quella (discussa e discutibile) della Kathi (2007-2011). Questa ha un punto di forza indiscutibile: il Sachs di Michael Volle! Tutto il resto sarà da giudicare a tempo debito. 

Ecco qui un prospetto storico (aggiornato al 2017) delle attività del Festival:  

titolo
stagioni
rappresentazioni
allestimenti
Parsifal
92
530
10
Ring (ciclo)
86
    919
14
    Rheingold

229

    Walküre

230

    Siegfried

229

    Götterdämmerung
  
231

Meistersinger
48
313
12
Tristan
47
238
11
Holländer
39
232
10
Lohengrin
37
230
9
Tannhäuser
35
220
8

Come si vede, è sempre Parsifal a guidare la classifica in termini di presenze, avendo mancato solo 14 stagioni su 106. Lo segue il Ring, con 20 assenze. Gli altri drammi sono comparsi in meno (o molto meno) del 50% delle stagioni. Con il nuovo allestimento i Meistersinger si installano da soli al secondo posto (dopo il Ring) per numero di produzioni. 
  
Sul fronte dei Direttori quest’anno non avremo alcuna new-entry (nel 2016 furono ben due, Janovski e Haenchen): dei quattro Kapellmeister dello scorso anno resta anche Thielemann, sparisce Kober e torna Jordan, proprio per i Cantori. A proposito del Musikdirektor, con le 6 direzioni di quest’anno del Tristan si avvicina ulteriormente al recordman Barenboim (del quale fu assistente proprio a Bayreuth nel... secolo scorso).

Ascolti? La nostra beneamata Radio3 quest’anno si limita alla prima dei Cantori (25 luglio ore 16:00) e ignora tutto il resto (merce scaduta e deperita...) Sempre sul pezzo gli iberici di Radio Clasica, con tutte le prime: oltre al 25, ecco Tristan (26), Parsifal (27), Rheingold (29, ore 18), Walküre (30), Siegfried (1/8) e Götterdämmerung (3/8). La Radio bavarese darà le prime di Meistersinger, Tristan e Rheingold, poi successive recite del resto del Ring e di Parsifal.

La TV bavarese promette lo streaming della prima: pare non ci siano restrizioni... geografiche, vedremo.

20 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 5


Ieri sera, in un Auditorium letteralmente preso d'assalto, si è conclusa la maratona beethoveniana di Flor e de laVerdi. E la Nona è stata il degno suggello a questa coraggiosa proposta del nuovo Direttore Musicale.

Rispetto al periclitante cast di solisti dello scorso Capodanno, devo riconoscere che Flor ieri aveva a disposizione quattro voci di buon livello: il soprano fiammingo Ilse Eerens (che ha rimpiazzato l’inizialmente annunciata Gal James); l’affermato contralto Sonia Prina (spesso ospite in Auditorium, anche con laBarocca di Jais); il 28enne tenore tedesco Moritz Kallenberg, un’interessante promessa, già protagonista qui nella Matthäus-Passion di Pasqua (sempre con Jais); e infine il basso-baritono Daniele Caputo che, a dispetto della giovane età, è una vecchia conoscenza de laVerdi, avendo fin dal 2010 militato nel coro di Erina Gambarini, prima di spiccare il volo verso più ambiziosi traguardi.
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Sulla Nona si è scritto (e fatto!) molto, ed anch’io ho dato il mio microscopico contributo, in occasione di un Capodanno di qualche anno fa, alla lettura del quale rimando i più... masochisti (!)

Questa volta torno sul tema delle Edizioni Critiche, che riguarda ovviamente anche la Nona. Di essa esistono sia l’autografo originale che copie eseguite poco dopo la composizione, ma l’edizione che ha poi costituito il primo riferimento è quella del 1826 di Schott (al quale Beethoven aveva affidato la pubblicazione della partitura). A partire da questa nel 1863 Breitkopf produsse una prima edizione critica, che poi è diventata il riferimento quasi universale per tutto il ‘900.

A parte il Finale (rivoluzionario per via dell’ingresso delle voci) è lo Scherzo (non titolato così, ma semplicemente Molto vivace) a presentare curiosità di tipo editoriale, e in particolar modo (c’era da dubitarne?) a proposito delle ripetizioni (i da-capo o ritornelli che dir si voglia) che lo caratterizzano. Le quali hanno un’influenza sul piano estetico (possono essere ad esempio apprezzate dal punto di vista dell’equilibrio complessivo fra i pesi dei quattro movimenti, oppure denigrate come fastidiose e a lungo andare nocive al godimento della sinfonia) e nello stesso tempo su quello materiale (i tempi di esecuzione che possono variare anche di parecchi minuti, come si vedrà, a seconda delle decisioni che prende il Direttore).

Il problema è particolarmente sentito in questo caso, poichè lo Scherzo della Nona è uno fra i più ponderosi dell’intera produzione sinfonica, e forse solo Mahler arriverà ad essere altrettanto megalomane, quanto a dimensioni (penso ad esempio alla sua Quinta). Siamo a livello di cicra 560 battute nette di musica, che supererebbero addirittura le 1200 se si eseguissero tutti i da-capo e che, in un’esecuzione media, si avvicinano comunque alle 1000. Ma il caso è anche emblematico di quanto siano ancora (o spesso) aleatorie le conclusioni di studi e ricerche che pure hanno caratteri di alta professionalità.

La tabellina che segue presenta, su due colonne, la struttura dello Scherzo come si deduce dall’esame di due famiglie di partiture: quella originaria di Schott del 1826 (cui pare essersi richiamato anche Ricordi, nel 1983) e quella di Breitkopf del 1863, che per molti versi è stata recentemente presa a modello da Bärenreiter (edizione curata da Jonathan Del Mar). Vi sono sommariamente riportati, con i relativi intervalli in termini di battute, i principali elementi, contraddistinti da macro-titoli (come Scherzo, Trio, Sezione, etc.) che non trovano riscontro diretto sulle partiture, ma sono logicamente deducibili dal contesto; e dalle lettere (reharsal-letters) – anch’esse apocrife, ma ormai entrate nella tradizione editoriale – che individuano micro-sezioni dell’opera. Oltre alle (principali) tonalità toccate e alle dinamiche indicate da Beethoven, vi sono anche riportati i segni di inizio e fine dei cosiddetti ritornelli.


Come si può notare, la differenza fra le due colonne (e le relative edizioni) risiede fondamentalmente nella presenza (in Schott) di una semplice indicazione per la ripresa dello Scherzo, con passaggio poi alla Coda, mentre in Breitkopf la ripresa dello Scherzo viene esplicitamente ristampata in coda al Trio. Quest’ultimo accorgimento ha più che altro lo scopo, come dire, di agevolare la lettura da parte degli interpreti (direttore e strumentisti) che possono così evitare un fastidioso ritorno all’indietro e un altrettanto disagevole salto verso la Coda.

Ma c’è poi un particolare che riguarda i contenuti: oltre alla solita miriade di piccoli aggiustamenti che si ritrovano nell’edizione più nuova (Bärenreiter / Del Mar) rispetto alle precedenti, c’è un punto che mostra clamorosamente come anche ricerche recenti non sempre diano risultati affidabili. Il problema riguarda l’esecuzione della ripresa dello Scherzo. Nell’edizione Schott, essendoci solo l’indicazione di ripetizione (fra i due segni) non è precisato se i da-capo delle due sezioni dello Scherzo siano da rieseguire o meno. Per la verità Beethoven sul punto è stato abbastanza contraddittorio: in alcuni scritti ha ordinato di saltare i da-capo (cosa oggi del tutto normale, ma non scontata ai suoi tempi) ma in altri ha fornito un’indicazione sibillina: non eseguire ripetizioni nella seconda parte. Orbene, come si vede nella colonna di destra, a suo tempo Breitkopf interpretò questa indicazione nel senso di proporre la ripetizione della Sezione 1, e non della 2 (la seconda parte, appunto). Invece Jonathan Del Mar, nella sua prima edizione del 1999 (e ancora nella ristampa del 2007) interpreta come seconda parte l’intera ripresa dello Scherzo, e quindi esclude anche il da-capo della Sezione 1. Ma poi, guarda un po’, nel 2006 si convince che l’interpretazione giusta era proprio quella, ottocentesca, di Breitkopf e così, nella ristampa del suo Critical Commentary del 2012, chiede scusa e annuncia di aver fatto modificare la sua partitura (!)

E qui siamo alle solite: ogni Direttore in realtà decide (una volta per tutte, o a seconda delle circostanze) se e quali da-capo eseguire, compresi quelli dell’esposizione iniziale dello Scherzo! Ecco alcuni esempi di diverse... composizioni del meccano, in ordine decrescente nell’impiego di pezzi (tutti eseguono regolarmente i da-capo del Trio) e dei diversissimi tempi di esecuzione (che ovviamente dipendono anche dai diversi approcci all’agogica):

Esecuzione del da-capo della Sezione 1 nella ripresa dello Scherzo:

Camerata Cassovia, con Walter Attanasi: 15’20”;

Chailly (da 16’11”) con tempi più spediti: 14’10”;

Omissione del da-capo della Sezione 1 nella ripresa dello Scherzo:

Paavo Järvi (da 14’33”): 13’30”;

Toscanini (da 13’49”) con tempi più spediti: 13’05”;

Abbado con i Berliner (da 14’22”) con tempi ancor più solleciti: 12’50”;

Omissione anche del da-capo della Sezione 2 nell’esposizione dello Scherzo:

Lenny Bernstein: 12’16”;

Furtwängler (1954, da 18’05”) un po’ più spedito: 11’50”;

Jansons (da 16’19”) ancora più rapido: 11’30”;

Karajan, stessa scelta, ma con tempi forsennati: 10’55”;

Omissione anche di entrambi i da-capo nell’esposizione dello Scherzo:

Josef Krips, che in più corre come un frecciarossa: 9’40”.

Come si vede, ce n’è per tutti i gusti e per tutti i... cronometri, in barba a tutte le edizioni critiche!
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Va da sè che dopo tutto ‘sto tormentone, come minimo sono obbligato a riferire della scelta di Flor: che è poi quella sua solita, mutuata da Furtwängler (tanto per andare sul sicuro) applicata anche pochi mesi orsono (che include anche la disposizine dell’orchestra e la collocazione dei solisti fra strumenti e coro). Ma questo è solo un dettaglio tecnico, chè l’importante è la prestazione maiuscola dei complessi de laVerdi, che si confermano di altissima qualità e di massimo affidamento, garantendo sempre un livello di eccellenza in questo repertorio.

Come detto, più che discreta la prestazione dei quattro solisti (forse Caputo ha un po’ sofferto l’emozione di essere protagonista fuori dal suo coro, ma aprire con quel micidiale recitativo la parte cantata del finale è roba sufficiente a distruggere un elefante...) e come sempre sontuosa quella del popolo di Erina Gambarini

Alla fine interminabili applausi e ovazioni, contrappuntate da qualche ululato che voglio proprio sperare (per la salute mentale degli ululanti) non fosse di disapprovazione... La stagione estiva ora si concede al Jazz, mentre l’Orchestra dà appuntamento a tutti per il 10 settembre al Piermarini!  

17 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 4


La penultima tappa di questo tour-de-force beethoveniano de laVerdi si presentava – ma solo in apparenza – come una presa di respiro dopo le fatiche delle prime tre giornate, in vista del supremo sforzo della nona, in programma il prossimo 19. La coppia di sinfoniette ed anche i riempitivi (le due Romanze per violino) devono avere tenuto lontano dall’Auditorium il grande pubblico (complice anche la splendida domenica di luglio...)

Ma in realtà la prima e l’ultima delle sinfonie pari, troppo spesso derubricate al ruolo di lavori piuttosto interlocutori, se non proprio disimpegnati, sono tutt’altro che da prendersi sottogamba. E massimamente la Seconda, che fu per Beethoven un impegno di tutto rispetto, come dimostrano le sue stesse proporzioni, durata inclusa, proprio da grande sinfonia; e poi è chiaro che senza di essa – che rappresentò una rottura quasi radicale con la tradizione settecentesca in cui la prima ancora affondava le radici (ne è testimonianza l’innovazione quasi rivoluzionaria dello Scherzo a sostituire il Menuetto) - non ci sarebbe stata subito dopo l’esplosione dell’Eroica. Quindi un’opera che va vista ed ascoltata come un enorme passo in avanti verso il pieno sviluppo della personalità dell’Autore: per questo è un peccato che non sia stata eseguita a ridosso della precedente, il che ne avrebbe esaltato le qualità; ascoltata invece dopo le 5 sinfonie (3-7) maggiori si finisce per ricavarne la fallace sensazione di un passo indietro.

È l’Ottava viceversa a presentare i caratteri, se non proprio di un arretramento, quanto meno di un passo laterale: qui Beethoven sembra volersi (finalmente) divertire componendo una specie di parodia delle precedenti sinfonie impegnate: si osservi l’incipit, che entra direttamente in-medias-res, ma con quale differenza rispetto all’Eroica e alla Quinta (ma tutto sommato anche alla Pastorale). Qui siamo più vicino all’umoresca che non alla proposizione di messaggi universali... come dimostra anche il ritorno del Menuetto, che proprio la Seconda aveva mandato in pensione. Pure si tratta di un’opera che, sotto le apparenze di disimpegno e bizzarro sperimentalismo, impegnò l’Autore in una lunga serie di ripensamenti, modifiche, revisioni piccole e grandi, a testimoniare dell’importanza che egli comunque vi annetteva. (Con un ardito paragone si potrebbe sostenere che l’Ottava stia a Beethoven come il Falstaff a Verdi...)

Flor ha per l’occasione confermato la disposizione degli strumenti (secondi violini al proscenio) e ha fatto uso di bacchetta e partiture sul leggìo... Mi sembra abbia dato il dovuto peso alla Seconda (già a partire dalla ponderosa Introduzione) e la dovuta leggerezza all’Ottava, uscita proprio fresca e frizzante, come si merita.

Il pubblico (dislocato quasi soltanto in platea) ha riservato un caloroso successo per tutti e naturalmente anche per Nicolai Freiherr von Dellingshausen, che ha – incastonate a mo’ di sandwich  fra le due sinfonie - presentato le Romanze op.40 e 50 (cosa da lui già fatta tempo fa). Mercoledi gran finale con la nona, che tenne a battesimo Flor con laVerdi nel lontano 1999 e che il nuovo Direttore Musicale ha recentemente diretto nel tradizionale appuntamento dello scorso Capodanno. 

14 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 3


Terza stazione (siamo ormai oltre la metà del percorso) del ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven interpretate dal nuovo Direttore Musicale de laVerdi: è stata ieri la volta della Pastorale e dell’Apoteosi della danza.
     
La disposizione degli strumenti alla tedesca è evidentemente una costante di questo ciclo di Flor, mentre c’è sempre qualche piccolo o grande (e naturale) avvicendamento fra i Musikanten. Il Maestro questa volta ri-sfodera la bacchetta, che aveva lasciato a casa per i due primi concerti; quanto a leggìo e partitura, sono presenti per la Sesta e poi spariscono per la Settima (quale che sia il significato di tutto ciò...)

Si comincia quindi con la Sinfonia in FA, a proposito della quale c’è qualche curiosità di natura filologica (musicale e extra-) da segnalare. Uno dei titoli dell’opera (il primo vergato dall’Autore su una copia del manoscritto originale e poi corretto da altri in Pastorale) era Pastorella (!) Per qualche tempo anche la numerazione è stata incerta: Beethoven aveva scritto 6a sinfonia, ma poi aveva cancellato il numero e l’opera era stata catalogata come quinta (e quella in DO minore come sesta). Sul fronte musicale, un’interessante scoperta fatta leggendo il manoscritto è la chiusa del secondo tempo: Beethoven l’aveva concepita nella forma divenuta poi definitiva, ma (temporaneamente) aveva poi sostituito le ultime tre battute con altre quattro, che ricordavano più da vicino la forma con cui quella sezione del tema compare già nell’iniziale esposizione (battuta 14). Nella figura seguente la parte bassa riporta la modifica, come presentata nel Critical Commentary dell’Edizione Bärenreiter (curata da Jonathan Del Mar, che l’ha... messa in bella copia dal manoscritto, di assai ardua lettura):


Altra stranezza (si fa per dire): nel manoscritto originale, conservato a Bonn, manca proprio l’ultima pagina, con l’ultima battuta (anzi, l’ultima semiminima, l’ultimo accordo di FA maggiore) della Sinfonia: fu un copista, tale Anton Gräffer, a re-inserircela (copiandola evidentemente da altre copie precedenti).

Quanto alle interpretazioni, anche qui spunta fuori (come i funghi!) l’immancabile  problema del da-capo dell’esposizione del movimento di apertura. Esso è chiaramente indicato nel manoscritto originale (pag 24) con i classici : (due punti) a ridosso di una grossa barra verticale. Curiosamente, Karajan lo ignora in tutte le sue innumerevoli interpretazioni, seguendo la scelta di Furtwängler: così non avvicina mai i 40’ complessivi. In pochi seguono l’esempio: Walter, come pure Böhm, ultimamente Barenboim e Perlman ma soprattutto la lumaca Celibidache, che nonostante ciò riesce a far durare la sinfonia un’eternità, più di 51 minuti (da giovane riusciva a stare nei 44’) contro i 41-47 degli interpreti che pure eseguono il da-capo (che pesa circa 2’30”): Toscanini (ma non sempre) e poi Klemperer (ma da giovane, poi ha cambiato idea...) Sawallisch, Bernstein, Harnoncourt, Haitink, Abbado, Muti, Gardiner, Thielemann, Jansons, Dudamel... insomma quasi tutti.  
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Flor rispetta la volontà di Beethoven ed esegue dunque (per me, meritoriamente) il ritornello. Se proprio devo fare un appunto alla sua lettura, mi è parsa a tratti (non sempre) creare un’atmosfera più da... officina che da scenario agreste, ecco: qualche eccesso di ruvidezza in alcuni impasti sonori si sarebbe potuto evitare.

Ma nel complesso si è trattato di un’esecuzione rimarchevole, accolta calorosamente da un pubblico ancora assai numeroso, il che è un gran bel segno.
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Anche per la Settima si pone – manco a dirlo! - il problema interpretativo legato all’esecuzione dei ritornelli nei due movimenti esterni: il che spiega in buona (non completa) misura le grandi differenze di minutaggio di diverse esecuzioni (si va facilmente da 35 a 47 minuti!) Naturalmente anche l’agogica fa la sua parte, e a questo proposito (tanto per cazzeggiare un po’) va ricordato come Beethoven rilasciò le sue prime otto sinfonie con le tradizionali indicazioni qualitative (Allegro, Adagio, Andante con moto, Presto... e via elencando) che per definizione lasciano all’interprete una forchetta abbastanza ampia all’interno della quale collocare la propria idea interpretativa. Però, dopo l’invenzione del metronomo (Mälzel, 1812-15) Beethoven si innamorò di quella diavoleria e nel 1817 operò quello che in inglese tecnico si chiama retrofit (sistemazione a posteriori) delle indicazioni metronomiche su opere composte da tempo (incluse le sinfonie).

Tutte le edizioni tradizionali riportano in bella mostra i metronomi (del 1817) mentre quella Bärenreiter (di Jonathan Del Mar) li indica (per le prime 6 sinfonie) semplicemente in note a fondo pagina (per la 7 e 8 si fa eccezione, sulla base di un... ragionamento discutibile). Le differenze di interpretazione dell’agogica sono talvolta addirittura abissali: prendo un esempio davvero clamoroso, il Vivace del movimento iniziale (6/8) che reca l’indicazione di semiminima puntata (3 ottavi) a 104 al minuto; in pratica, in 60” si dovrebbero coprire 52 battute (c’è di mezzo una corona puntata, ma possiamo tranquillamente trascurarla). Ecco come lo approccia Arturo Toscanini nel 1951 con la NBC (da 3’58”): praticamente un metronomo vivente, perfetto a 104! Ma non da meno gli è l’ottimo Ivan Fischer al Concertgebouw nel 2014 (da 3’50”). Invece il Karajan del 1951 (Philharmonia) si tiene sul sostenuto (da 4’09”): con un metronomo di 89 (diciamo un 15% più lento del normale). Ma addirittura letargico (francamente al limite dell’indisponenza!) è invece il Celibidache del 1981 a Stuttgart (da 4’26”): il suo metronomo equivale a 74, quasi il 30% più lento del normale!

Va da sè che non ha senso giudicare il livello qualitativo di un’interpretazione esclusivamente dal lato dell’agogica, caso mai si dovrà verificare se nel complesso i rapporti fra le varie sezioni del brano vengano mantenuti entro limiti ragionevoli o meno.
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E Flor, come ce l’ha propinata? Sul punto specifico di cui sopra, io, pur non avendo il cronometro alla mano, potrei giurare che lui abbia tenuto un metronomo assai vicino a quello di Beethoven. Ha anche eseguito tutti i ritornelli, escluso solo quello del Finale (che io non avrei affatto disprezzato, devo dire). Ma ciò che va sottolineato è la strepitosa prestazione di tutti: non esagero nel dire che si sia trattato di un’esecuzione da far invidia a parecchie delle orchestre (e dei Direttori) che vanno oggi per la maggiore!

E il pubblico deve averlo percepito, dedicando a tutti ovazioni e peana. Già a questo punto si può tranquillamente affermare che l’iniziativa di proporre questo ciclo beethoveniano stia dando risultati (artistici e di... cassetta) oltre le più rosee previsioni.

Domenica le sinfonie... cenerentole (ma sono autentici gioielli!)

10 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi. 2


Secondo dei 5 appuntamenti in Auditorium per il ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven  interpretate da Claus Peter Flor: in programma la 4a e la 5a.

Dato che dire qualcosa di originale sulle sinfonie di Beethoven è più difficile che confutare la teoria della relatività, questo appuntamento mi offre l’occasione per trattare il fondamentale problema dei da-capo (ok, direte, ma oggi ci frega di più sapere se sia alle porte l’inciucione Renzi-Berlusconi). Cioè di quelle ripetizioni di brani (tipiche dell’esposizione nella forma-sonata, o negli scherzi-con-trio, ma spesso anche nei finali) che dovrebbero (o dovevano) permettere all’ascoltatore di scolpire bene in mente le caratteristiche dei temi musicali, in modo da riconoscerli poi se e quando si ripresentano successivamente: ad esempio nello sviluppo della forma-sonata, o in quelle opere – sinfonie o poemi-sinfonici – con caratteri di ciclicità (con motivi che appunto... riciclano).

Nella Sinfonia il da-capo è stato impiegato da tempo immemorabile e, dopo Haydn, Mozart e Beethoven, ne hanno fatto ampio uso anche i romantici (Schubert, Mendelssohn, Schumann) così come Brahms e giù addirittura fino a Mahler (prima e sesta sinfonia). Nel secolo scorso si andò però radicando una tradizione che escludeva (non sempre) di eseguire il da-capo, sulla base della considerazione (più o meno plausibile) che ormai, almeno per le opere classiche, i vari temi e motivi erano perfettamente conosciuti all’ascoltatore, che poteva sentirli quando voleva - senza bisogno di andare in sala-da-concerto - sul proprio giradischi (o alla radio-televisione). Ma una ragione più prosaica della rinuncia ai da-capo era di carattere bassamente venale: consentiva spesso e volentieri di comprimere opere musicali dentro la limitata capienza (20-25-30 minuti) dei microsolco. Ecco quindi che parecchie sinfonie (di Beethoven, ma non solo) se depurate dai da-capo potevano essere contenute in un’unica facciata, con evidenti vantaggi commerciali per gli operatori del settore discografico. Ma mentre il fenomeno commerciale ha perso obiettivamente di peso con l’avvento dei CD(-DVD) la rinuncia ai da-capo è diventata quasi una discriminante a livello di interpretazione, al pari della scelta dell’agogica e della dinamica o – come vedremo fra poco – dell’edizione critica da impiegare.
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Mentre nel primo concerto (sinfonie 1 e 3) Flor aveva rispettato scrupolosamente tutti i da-capo, nella Quarta ha omesso i due più importanti (esposizione dell’iniziale Allegro vivace e dell’Allegro non troppo conclusivo). Possibili ragioni della scelta? Bisognerebbe chiederle a lui, ma si può ipotizzare (in positivo) che il Direttore abbia prediletto la massima concisione nei movimenti esterni, per mettere più in risalto quelli interni (l’Adagio e il Menuetto). In negativo (spero proprio di no) la scelta potrebbe testimoniare di una scarsa fiducia del Direttore nelle qualità intrinseche dei temi fondanti di quei due movimenti...

Ne è comunque uscita una Quarta tutt’altro che docile e tranquilla (come spesso viene approcciata, da vaso di terracotta fra due di acciaio): Orchestra (sempre disposta con layout teutonico e con Dellingshausen in veste di Konzertmeister, e Santaniello seduto dietro a lui...) in gran spolvero in tutte le sezioni (da menzionare il fagotto magico di Andrea Magnani)(*). Accoglienza calorosa da un pubblico assai folto, data la stagione e la giornata.
(*) Faccio tardiva ammenda e per lo scambio di... fagotto: che era quello, altrettanto magico, di Stefano Riva
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Nella precedente puntata avevo accennato ai problemi relativi alle cosiddette edizioni critiche, la cui (pur legittima) rilevanza viene spesso sovrastimata o magari enfatizzata a fini, diciamo così, di marketing a vantaggio di incisioni o dell’immagine del Direttore tizio o cajo. E a proposito della Quinta beethoveniana va ricordato un caso non propriamente edificante di cui fu protagonista (ahilui) il sommo Claudio: e anche qui c’è di mezzo un da-capo! 

A differenza di altre sinfonie, nella Quinta, oltre alla solita miriade di dettagli più o meno apprezzabili da parte di un ascoltatore pur preparato, è emerso dalle ricerche musicologiche del secolo scorso un problema di importanza capitale (beh, ecco, ce n’è di peggio...): il da-capo dello Scherzo. Per 150 anni si è sempre seguita l’edizione di Breitkopf (la prima del 1820 successivamente riedita a più riprese) che presenta il movimento incriminato con la struttura Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. La ripresa dello Scherzo (1) da battuta 237 è assai diversa dalla forma iniziale, avendo un andamento quasi claudicante ed esitante, molto appropriato per introdurre la drammatica coda di transizione diretta al Finale. Ma fra le carte di Beethoven si sono trovate indicazioni (contraddittorie peraltro) relative all’introduzione di un da-capo a battuta 236, il che comporta una struttura del movimento assai più corposa: Scherzo-Trio-Scherzo-Trio-Scherzo(1)-Coda. E evidente come le due soluzioni portino con sè conseguenze assai importanti, dal lato estetico: la prima conferisce al movimento una straordinaria concisione, affrettando l’avvento del Finale dove la ragione trionfa sulle tenebre; la seconda lascia invece più spazio alle... tenebre, prima dell’irruzione della luce. Non è per nulla strano che Beethoven abbia avuto dubbi su quale struttura scegliere: nel suo manoscritto originale il da-capo non c’è, o meglio: c’è, ma aggiunto in un secondo momento in colore rossastro (Rötel, sanguigna) ma sparito dalle diverse ricopiature fatte successivamente e quindi anche dall’edizione del 1820.

Questa forma col da-capo (dovuta al ricercatore Peter Gülke) è stata per la prima volta proposta nel 1977 dall’editore Peters e così molti Direttori l’hanno adottata in concerti e registrazioni: ciò ovviamente comporta che il minutaggio del terzo movimento aumenti di più del 50%. Nel 1996 Clive Brown propose una nuova edizione (per Breitkopf) dove il da-capo incriminato viene salomonicamente (e piuttosto cerchio-bottisticamente) presentato con l’indicazione ad-libitum: non essendo possibile dare una risposta univoca alla questione, si lascia all’interprete la decisione di eseguire o meno il ritornello. (Per inciso, è ciò che ogni Direttore fa riguardo a praticamente tutti i da-capo di questo mondo!) Ecco l’argomentazione di Brown: “The repeat of the Scherzo and Trio, which is marked ad libitum in the text, is also discussed there (il rapporto dettagliato di Brown, ndr) in greater detail so that users may come to their own decision on the basis of the inconclusive evidence.

Nel 1997-1999 esce l’edizione Bärenreiter curata da Jonathan Del Mar. Il quale nel suo Critical Commentary prende una posizione chiara&netta. Dopo 4 fittissime pagine di ricostruzione di documenti, eventi, testimonianze, ragionamenti per assurdo etc, la sua conclusione è perentoria: il da-capo è da escludersi!


Quindi, dopo 180 anni, si riconosce che aveva proprio ragione Breitkopf fin dal 1820! Ecco la pagina incriminata della partitura di Del Mar, che riprende quella tradizionale edizione, senza alcun segno di da-capo:

Adesso torniamo ad Abbado: nel 2001 esce la sua nuova interpretazione del ciclo beethoveniano, alla testa dei suoi nuovi (ehm) padroni, i Berliner. Il CD della DGG pubblicizza con una certa enfasi il fatto che l’esecuzione delle Sinfonie è fatta impiegando la (recentissima, a quei tempi) edizione di Del Mar. Quindi concludiamo con matematica certezza: niente ritornello, giusto? E invece (ascoltare per credere, qui a 19’27”) Abbado esegue il da-capo! Che dire? Sentirci presi in giro?
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Ora, dopo tutto ‘sto tormentone filological-palloso, viene spontaneo chiedersi: ma Flor cosa c. ci ha propinato? Beh, quale che sia la ragione che lo ha portato a decidere, lui il ritornello non lo ha eseguito, tiè. E già che c’era, ha saltato anche quello del Finale... In compenso, ha dato l’attacco al destino che bussa alla porta quando ancora non si erano spenti gli applausi che lo avevano accolto al ritorno sul podio dopo l’intervallo... Neanche avesse dovuto fare un bis con, che so, il Trepak o Tuoni-e-fulmini!

Alla fine pubblico entusiasta e applausi ritmati: per essere il 9 luglio non c’è da lamentarsi.  

07 luglio, 2017

Le 9 di Beethoven secondo Flor e laVerdi


Ieri sera l’Auditorium ha ospitato il primo dei cinque concerti con i quali il nuovo (ma amico di vecchia data) Direttore Musicale de laVerdi, Claus Peter Flor, ha aperto il ciclo delle 9 sinfonie di Beethoven

Ciclo strutturato secondo un criterio quasi-cronologico, nel senso che la sequenza di presentazione delle sinfonie rispetta quasi fedelmente quella della loro composizione e dell’originale presentazione al pubblico. Fa eccezione solamente la n°2, che è stata accorpata alla n°8 nel penultimo concerto (in compagnia, a mo’ di riempitivo, delle due Romanze). Una soluzione di compromesso che ha il pregio di accostare (almeno per i primi 3 appuntamenti) una sinfonia meno (apparentemente) impegnativa ad una di quelle davvero toste. Unica controindicazione il brusco passaggio dalla 1 alla 3, che crea un gran contrasto, ma ci fa perdere l’apprezzamento dell’evoluzione beethoveniana intervenuta fra la 1 e la 2.
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Da qualche anno, quando si parla di Sinfonie di Beethoven si fa spesso riferimento all’edizione impiegata per l’esecuzione. Ciò perchè da 20 anni (più o meno) a questa parte sono comparse almeno due nuove edizioni critiche delle sinfonie beethoveniane: una, uscita negli anni 1997-99, è distribuita da Bärenreiter e curata da Jonathan Del Mar (figlio d’arte, del celebre musicologo Norman). Essa si contrappone a una nuova revisione - opera di Clive Brown e Peter Hauschild che aggiorna quella ormai storica e tradizionale di Breitkopf del 1862, che è stata – insieme a quelle successive di Peters, da essa derivate - universalmente impiegata in passato (ma lo è ancor oggi, e forse in maggioranza). Devo dire che si tratta di problemi che possono interessare più il filologo che l’ascoltatore, dato che il risultato delle ricerche (per carità, meritorie) dei musicologi si traduce più che altro nella precisazione (o anche correzione, talvolta) di particolari minimi che difficilmente sono rilevabili anche ad un ascolto attento. Ecco un esempio relativo alla prime battute dell’Op.21 (da sinistra: Peters/Breitkopf storica – Bärenreiter – Del Mar, clickare per ingrandire):


Come si nota, si tratta di sfumature quasi impercettibili e/o di avalli dell’edizione Breitkopf (a sua volta derivata dalle parti originariamente pubblicate nel 1801 da Hoffmeister&Kühnel). Non è raro che le differenze fra diverse edizioni riguardino problemi di volta-pagina per le parti, magari legati a contestati da-capo (esemplare lo Scherzo della 5a)!

Persino se si ascolta un’esecuzione fatta con la vecchia edizione Breitkopf leggendo la nuova partitura Bärenreiter (e viceversa) si fatica a percepire le differenze fra le due edizioni. Per questo sono personalmente convinto che all’ascolto ci sia assai più differenza fra due diverse interpretazioni della stessa edizione che fra due diverse edizioni critiche della stessa sinfonia: in sostanza, gli interventi che il Direttore fa normalmente sulla partitura (si pensi solo alla personale interpretazione dell’agogica e delle dinamiche) sono spesso e volentieri ben più evidenti (all’ascolto) delle differenze fra una nota staccata o meno, o fra un crescendo e una forchettina, come minuziosamente rilevati dall’editore critico.
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Tornando al ciclo di Flor, la prima serata ha visto un Auditorium assai affollato, chiaro segnale dell’interesse del pubblico per il nuovo Direttore Musicale (oltre che, ovviamente, per Beethoven).

Devo dire che è stato un esordio positivo sotto tutti gli aspetti: Orchestra (disposta alla tedesca, con i secondi violini di Gianfranco Ricci al proscenio) affiatata e capace di esprimere sonorità settecentesche nella prima e (pre)romantiche nell’eroica.

A Flor mi sentirei di (bonariamente) rimproverare solo un tempo un tantino accelerato nella seconda parte dell’Andante della prima; per il resto mi è parsa, la sua, una lettura rigorosa, nello spirito e nella lettera (rispettati, per dire, tutti i da-capo). Meritati gli applausi per lui, che si sono ripetuti poi calorosamente nel foyer-bar, in occasione di un simpatico brindisi di benvenuto.

Domenica, 4a e 5a. 

05 luglio, 2017

Ravenna orfana di Temirkanov


Al Ravenna-Festival-2017 ieri è stata la volta dei leggendari leningradesi di Yuri Temirkanov. Purtroppo, per chi, come il sottoscritto, arrivava al PalaDeAndrè ignaro di tutto, un preoccupante presentimento si manifestava già all’ingresso, dove si è solitamente accolti da gigantografie degli ospiti della serata: invece, nulla che richiamasse Temirkanov e i suoi. Il mistero era poi svelato da alcuni modesti cartelli appoggiati sui banchetti dove si acquistano le pubblicazioni: il Maestro è indisposto e ha dovuto rinunciare all’intera tournèe dell’Orchestra! Che suonerà il programma interamente dedicato a Shostakovich sotto la guida del vice Nikolay Alexeev.

Il quale Alexeev dirige proprio come il suo... capo: niente bacchetta e semplici e contenuti gesti della mano destra a dettare il tempo. Dato che è lui che verosimilmente prepara l’Orchestra, vi sono pochi dubbi che questa suoni in modo diverso da quando sul podio c’è il Direttore Musicale... e l’esito del concerto lo dimostra. Ciò che si è perso è però quello spettacolo-nello-spettacolo costituito dalla figura del venerabile!

Si comincia con quel bizzarro Concerto per piano, tromba e orchestra d’archi, di cui avevo segnalato le principali caratteristiche in occasione di un’esecuzione de laVerdi, di qualche anno fa. Qui alla tastiera siede il vulcanico Denis Matsuev, mentre la tromba solista – seduta al suo fianco, fra i primi violini - è quella di Bogdan Dekhtiaruk, membro dell’Orchestra, ma che ha vinto già competizioni internazionali.

I due si trovano alla perfezione, con il primo che detta i temi principali (spesso reminiscenze famose, vedi Beethoven) e il secondo che lo contrappunta di tanto in tanto con esilaranti (ma anche languide, all’occorrenza) irruzioni improvvise. Strepitoso il finale, con la trombetta quasi impazzita a dar la carica di bersaglieri!

Matsuev poi si sfoga con un travolgente bis, dove mette a repentaglio le strutture del prezioso Steinway...
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È poi seguita la monumentale Leningrado. Sinfonia sempre enigmatica e indecifrabile, che più la ascolti e meno ti convince. Ma più che convincenti sono stati invece i musici di SanPietroburgo (schierati con i violini secondi al proscenio e la muta degli ottoni sul fondo a destra) che sciorinano tutta la loro leggendaria maestria: strepitoso, per citare solo un esempio, l’attacco della marcetta teutonica, che il pubblico ha seguito col fiato sospeso e col cuore in gola. Finale con spettacolari sonorità, accolto da un grande applauso... liberatorio!

Che dire: auguri a Temirkanov, che speriamo di rivedere in Italia quanto prima (l’11 settembre a Rimini)!