bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

25 luglio, 2012

A Bayreuth niente svastiche, solo panzer…


Der fliegende Holländer ha così inaugurato il Festival n°101. Grandioso successo di pubblico (stando a ciò che ci hanno riportato i microfoni delle radio) che credo si spieghi col fatto che oggi – come negli anni ’40 – la Germania si sente in guerra contro tutti, e a Bayreuth può mostrare i muscoli.

Christian Thielemann – ormai il padre spirituale del festival - è il trionfatore della prima, con una direzione che più tedesca (e quindi autentica, sia chiaro!) di così si muore: nel terzo quadro si vedevano chiaramente i panzer marciare su… Bruxelles (smile!A parte le battute, Thielemann possiede quello che si definisce il gene wagneriano, forse già presente nel suo DNA, ma di certo ben pasciuto dalla frequentazione diretta di gente come Karajan o indiretta di maestri come Furtwängler… L’unico difetto che gli imputo (personalmente) è la manìa - comune peraltro a molti direttori, soprattutto se famosi - di lasciare sulle partiture quelle che chiamo (con termine irriverente, ok) pisciatine di cane (tipicamente: indebiti salti di tempo, che faranno anche effetto, ma siamo sempre lì: se accettiamo questa, allora dobbiamo poi accettare qualunque invenzione di qualunque altro direttore?)  

L’orchestra e il coro di Bayreuth sono – soprattutto se guidate da uno come Thielemann – delle macchine quasi perfette, nelle quali è difficile trovare difetti, e anche oggi lo hanno confermato in larga misura (ricordo solo una piccola sbavatura di un attacco del coro e un paio di incertezze dei corni).

La protagonista principale, la Senta di Adrianne Pieczonka, ha avuto un partenza un poco freddina, ma per il resto mi pare abbia ottimamente retto l’urto di una parte assai impegnativa (buon viatico per quando la sentiremo in quel ruolo a Torino, fra qualche mese).

Suo padre Daland, Franz-Josef Selig, mi è parso francamente non all’altezza: ha cercato di dare espressione al personaggio, ma il canto ha lasciato a desiderare assai: difficoltà continua di intonazione e timbro del tutto sgradevole. Per me, un esordio non proprio felice sulla collina verde.

Meglio, se non altro date le circostanze di assoluta emergenza in cui si è venuto a trovare, è andato l’Holländer di Samuel Youn: essere catapultato all’ultimo momento in una prima e in un ruolo-chiave (per uno che ha solo sostenuto a Bayreuth parti secondarie) non dev’essere uno scherzo davvero. Lui in fin dei conti ha colmato il vuoto lasciato da Nikitin (meglio: dall’ipocrisia dilagante lassù) in modo dignitoso.

Lo sfigato Erik era l’esordiente (a Bayreuth) Michael König: una prestazione appena appena discreta la sua, in una parte pur non proibitiva (nell’aria del terzo quadro ha accuratamente evitato anche un non impossibile LA acuto…)  

Bene lo Steuermann di un altro esordiente, Benjamin Bruns, voce chiara e ben impostata. Decisamente un gradino sotto la Mary di Christa Mayer.
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PS: ogni volta che ascolto l’Holländer non posso non pensare alla stupidità della tradizione di Bayreuth (leggi: Cosima) che vi rappresenta quest’opera, e vi tiene rigorosamente fuori Rienzi.

22 luglio, 2012

Ombre brune su Bayreuth


A 3-4 giorni di distanza dalla première dell’Holländer, il basso-baritono russo Evgeny Nikitin, destinato ad interpretarne il ruolo principale, si deve essere tolto – chissà dove, ma in pubblico - la canottiera per la prima volta dopo anni e anni (evidentemente lui, su consiglio di una mamma premurosa, la indossava sempre, anche sulle spiagge a 40°).

E così i/le responsabili del Festival di Bayreuth hanno potuto scoprire – giusto in tempo – che il biondo 39enne nato al circolo polare (ecco perché non svestiva mai gli indumenti intimi di lana!) non aveva uno dei requisiti-base per salire sulla verde collina: essere esente da ogni compromissione con il nazismo!

Sì, perché il nostro, in pieno petto, reca da quando era ragazzo e faceva il metallaro, un tatuaggio con tanto di svastica!


Apriti cielo, in quattro e quattr’otto è stato invitato a rinunciare al tanto atteso esordio. Lui si è giustificato dicendosi pentito di quel tatuaggio e di non aver pensato a quanto lunga sia ancora la coda di paglia dei tenutari di Bayreuth rispetto al passato nazista del gran baraccone.

Peccato perché erano anni che Kathi Wagner e Christian Thielemann gli facevano la corte - mai avendolo visto in mutande, evidentemente – ragion per cui in fretta e furia è stato cooptato al ruolo Samuel Youn, che si trova per caso già a Bayreuth per interpretarvi l’Araldo nel Lohengrin, e così fa pure risparmiare sulla nota-spese (smile!
        

19 luglio, 2012

Storielle della verde collina


Si avvicina anche quest’anno la fatidica data del 25 luglio, giorno in cui tradizionalmente si apre il Festival di Bayreuth, che nel bene e nel male (ultimamente più male che altro…) fa sempre parlare di sé. E già ne ha scritto un altro wagnerite.

Questo è il secondo anno consecutivo di astinenza dal Ring, che nel 2010 chiuse il quinquennio Thielemann-Dorst, in vista del colossale lancio di quello del bicentenario, già in preparazione e già in mezzo a guai e problemi di ogni genere… ma ci sarà tempo per occuparsene al momento opportuno.

Quindi ci sono cinque titoli in programma, ciascuno con 6 recite: quattro già presentati nelle scorse stagioni (Tannhäuser, Lohengrin, Tristan e Parsifal) e uno di nuovo allestimento, l’Holländer, che rimpiazza, rispetto al 2011, i famigerati Meistersinger di Kathi, la pronipotina terribile del vecchio Richard, che dal 2009 è - insieme alla sorellastra Eva - alla guida del baraccone inaugurato dal bisnonno nel 1876.

Sul podio dell’Olandese ci sarà Christian Thielemann, ormai di fatto, se non proprio di diritto, Direttore musicale del festival; il quale, oltre alla nuova produzione, si accollerà anche la ripresa di Tannhäuser. Così aggiungerà ben 12 gettoni di presenza sul podio di Bayreuth, totalizzandone 123 e superando di slancio al quarto posto James Levine, fermo a 117. Anche il routinario Peter Schneider, con i 6 Tristan, farà un passo avanti in classifica, scavalcando al secondo posto, con 142 presenze, il compianto Horst Stein (138). Al comando resta, ma con vantaggio ridotto, Daniel Barenboim (161 gettoni).

E a proposito di statistiche, pur avendo diretto soltanto 14 recite, Richard Strauss è tuttora il recordman in fatto di tempo trascorso fra la prima e l’ultima direzione, avendo diretto per la prima volta nel 1894 e per l’ultima nel 1934, a 41 anni di distanza. Lo segue da vicinissimo (e potrebbe in teoria superarlo) Pierre Boulez, che ha diretto 97 recite, la prima nel 1966 e l’ultima ben 40 anni dopo, nel 2005.    

Andris Nelsons dirigerà ancora il contestato Lohengrin di Neuenfels, mentre l’ultima edizione del ciclo del Parsifal di Herheim perderà la direzione musicale del nostro Daniele Gatti, al cui posto sarà il giovane esordiente Philippe Jordan.

Escludendo dal conto alcuni concerti speciali, al termine di questa edizione saranno 2532 le alzate di sipario complessive del Festival, totalizzate nelle sue 101 edizioni (dal 1876).
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Ecco quindi la novità del 2012: Der fliegende Holländer (che sarà a quanto pare l’unica opera trasmessa in diretta da Radio3, ma altri faranno di più, come gli spagnoli che ci rifilano altri 4 gol di scarto, trasmettendo in diretta tutte le cinque prime, dal 25 al 29 luglio, e di norma corredate da commenti in studio di altissimo livello).

Intanto una curiosità: osservando l’orario di inizio (18:00, come è consuetudine per il Rheingold, che non ha intervalli, e non 16:00, come per tutte le altre opere e drammi) si deve pensare che l’opera venga rappresentata tutta d’un fiato, come Wagner l’aveva concepita in origine, e non suddivisa su tre atti, cosa che lo stesso Wagner fu costretto a fare su richiesta del Teatro Reale di Corte di Dresda che ospitò la prima, riscrivendo all’uopo le parti di raccordo (fine e inizio atti). Questa dell’esecuzione in atto unico (suddiviso in tre quadri) è del resto una tradizione bayreuthiana che a suo tempo (1901) fu la stessa Cosima ad introdurre (qui un’esecuzione in piena era nazista). La durata è circa 2h20’ (meno del Rheingold, appunto) il che metterà comunque a dura prova la resistenza fisica dei pellegrini che affolleranno il sacro tempio.

L’opera fu originariamente composta negli anni 1840-41 a Parigi, subito a ridosso del Rienzi e – come questa – rappresentata in prima a Dresda (dove Wagner era da poco divenuto Hofkapellmeister, sull’onda del trionfo di Rienzi) il 2 gennaio del 1843, con scarsissimo successo.



Il che convinse Wagner a mettervi continuamente mano, tanto che l’edizione oggi più comunemente eseguita è quella approntata nel 1864 – quasi 5 lustri dopo la composizione – per Re Ludwig II di Baviera. Ma si sa che Wagner pensò ancora ad altri rimaneggiamenti nientemeno che fino al 1881, due anni prima della scomparsa: evidentemente, oltre al Tannhäuser, anche l’Holländer gli rimase sempre un po’ sullo stomaco.

Il soggetto, che Wagner mutuò liberamente da racconti ed opere teatrali diverse, è incentrato sul concetto di redenzione, che una donna più o meno schizofrenica è chiamata dal destino a portare ad un uomo più o meno complessato e peccatore, destinato da una scommessa con Satana a vagare sui mari per cicli di sette anni, in attesa dello sbarco che gli faccia appunto incontrare la donna disposta a redimerlo a costo della stessa vita.

C’è chi ci vede Ahasvero e chi – col senno di poi – anche lo stesso Wagner, perennemente in fuga per sfuggire ai creditori (o alla polizia). Il viaggio avventuroso e da clandestino che nel 1839 portò il compositore, con moglie e cane, da Riga a Londra (e da qui a Parigi) con un mezzo naufragio e conseguente sosta forzata in un porto norvegese, furono poi lo stimolo concreto alla definizione dell’inverosimile trama dell’opera.

Dove, tanto per dire, troviamo un onest’uomo (?) marinaio norvegese, a nome Daland - costretto da un fortunale a gettare l’ancora a qualche miglio da casa - che incontra l’Olandese, cui per combinazione sono scaduti precisamente in quel momento i sette anni di peregrinazioni forzate sui mari e prende terra proprio lì. I due si presentano e – toh! – dopo due minuti, alla vista del classico forziere pieno di oro e perle, il simpatico Daland già offre la figlia Senta in moglie all’Olandese, che non vede l’ora di conoscerla per esserne redento (!)

Ma il colmo del ridicolo determinismo di tutta la storia è che (siamo nel secondo quadro) in casa di Daland è appeso alla parete un dipinto raffigurante precisamente… l’Olandese, di cui la pia Senta (promessa sposa a tale Erik, si badi bene) pare conoscere la storia, che infatti lei ci racconta, anzi ci canta per filo e per segno nella celebre Ballade, un’aria col da-capo seguito da una terza strofa (!) Manifestando insieme il suo impegno… umanitario di esser lei a portare la redenzione al pallido navigatore. Alla faccia delle rimostranze del fidanzato che – da parte sua – ha già visto in sogno tutto ciò che sta per accadere (il mancato suocero che si accorda con lo straniero per rifilargli la sua Senta!)

Il quale straniero arriva poco dopo, presentato e sponsorizzato da Daland, e va subito alle spicce, mostrando di gradire assai la fanciulla da cui farsi redimere. Fine del quadro con duetto d’amore fra redentrice e redento, con la benedizione del suocero. (Ma mica può finire così, diamine!)

Il terzo quadro è occupato quasi interamente da un'abominevole scena corale, che ci assorda per quasi un quarto d’ora con sguaiati canti degli avvinazzati marinai norvegesi (ma potremmo essere benissimo all'Oktoberfest, smile!) eccitati a dovere dalle ragazze del posto, e poi dell’equipaggio della nave maledetta dell’Olandese, che pare prepararsi a salpare in un’atmosfera cupa e colma di mistero.

Ecco infatti il finale, tragi… miracolistico. Erik non ci sta a far la figura del pirla, e reclama da Senta il rispetto della sua solenne promessa di matrimonio. L’Olandese, per puro caso, è lì a due passi, ascolta tutto e ne deduce che l’abnegazione redentrice della fanciulla era tutta una messinscena predisposta in combutta con lo sbifido Daland per impossessarsi di oro e perle, e così pianta in asso tutto e tutti, sale rapidamente a bordo del suo vascello fantasma (per i meno giovani, una 500 Abarth!e si allontana alla velocità del fulmine per un nuovo ciclo settennale di oceaniche peregrinazioni.

Al che Senta sale su una roccia del fiordo, grida la sua fedeltà eterna all’Olandese e si tuffa in mare, per dimostrare la sua volontà di sacrificio. Ed ecco che la nave maledetta cola a picco come un piombino, mentre dalle acque si vede emergere uno scoglio su cui stanno, abbracciati, Senta e l’Olandese che – trasformatosi lo scoglio in una nuvoletta – vengono trasportati in cielo avvolti da una luce sfolgorante (!)

Insomma, una cosa a metà fra l’Assunzione in cielo e la chiusa del Faust (smile!)

Musicalmente, siamo ancora abbastanza ancorati agli stilemi e alle regole dell’opera italiana, con tanto di numeri chiusi, arie, duetti e cori. I personaggi-chiave sono quattro: l’Olandese (baritono), Daland (basso), Senta (soprano) e Erik (tenore). Più Mary (tata di Senta, mezzosoprano) e il timoniere di Daland (tenore). Grande ruolo hanno i cori: marinai norvegesi e olandesi, ragazze norvegesi.

L’opera consta precisamente di 8 numeri principali, con il seguente contenuto:

Quadro I:
1. Coro dei marinai norvegesi; canzone del timoniere;
2. Recitativo e aria dell’Olandese;
3. Scena; duetto (Olandese, Daland); coro;

Quadro II:
4. Coro delle filatrici; Ballade di Senta;
5. Duetto (Erik, Senta);
6. Aria di Daland; duetto (Olandese, Senta); terzetto (Daland, Olandese, Senta);

Quadro III:
7. Coro dei marinai e delle ragazze norvegesi, poi degli olandesi;
8. Duetto (Erik, Senta); cavatina di Erik; finale (Olandese, Senta, cori).

La principale innovazione risiede nella mancanza di cadenze chiuse, rimpiazzate da transizioni che danno continuità al flusso musicale (ma nulla a che vedere con ciò che Wagner inventerà a partire dal Ring).

Insomma, un Wagner trentenne  ancora incerto sulla strada estetica da seguire, e sempre in bilico fra il grand opéra (vedi Rienzi) e l’opera romantica: Holländer, Tannhäuser, infine Lohengrin, pur battezzate con la seconda categoria, recano tutte, quale più, quale meno, tracce evidenti della prima. Ed anche la Siegfrieds Tod, antesignana del Ring, nascerà nella mente di Wagner con quelle caratteristiche, che Götterdämmerung conserva in buona misura (vedi il second’atto). Solo dopo la fuga da Dresda (1848) il nostro maturerà le sue convinzioni sui drammi musicali, che troveranno realizzazione a partire dal Rheingold (1853).
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Chi rimanesse deluso (smile!) dalla direzione di Thielemann potrà rifarsi con Gianandrea Noseda, che avrà il battesimo wagneriano da venerdi 12 ottobre, inaugurando con l’Olandese la stagione 12-13 del Regio di Torino.

13 luglio, 2012

Muti a Ravenna per le fraternità


Ieri sera  un concerto diretto da Riccardo Muti nell’immenso PalaDeAndrè, gremito all’inverosimile, ha di fatto chiuso il cartellone concertistico della 23ma edizione del Ravenna-FestivalStando alla locandina, si poteva aver l’impressione di un concerto assai breve, anche se di alto livello di intensità spirituale: con il ‘700 religioso (quello aperto e solenne di Haydn e quello raccolto e intimistico di Mozart) a incorniciare il laico ’800 del sereno e nobile pessimismo dei due canti di Brahms.

Viceversa, e in omaggio al Leit-motiv del Festival (Nobilissima visione) si è trattato di una specie di incontro ecumenico fra religioni diverse (e le rispettive espressioni musicali).

Così vediamo entrare dapprima gli strumentisti, componenti di due orchestre di giovani (l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e la fiesolana Orchestra Giovanile Italiana) e i coristi (Coro del Friuli Venezia Giulia e Stagione Armonica). Ma poi ecco farsi avanti dalle due entrate sul fondo il Coro serbo bizantino Moisey Petrovich del monastero di Kovilj e i Lama tibetani del monastero di Drepung Loseling, muniti di due giganteschi corni (del tipo Alpenhorn, per intenderci) e di due specie di trombe. Entrano anche, andandosi a sedere davanti ai coristi, il Coro dei missionari di San Carlo Borromeo e il Coro ortodosso di Mosca. Dal fondo della tribuna arriva poi Ani Choying Drolma, monaca buddhista nepalese che sfrutta le sue doti di canto per finanziare attività benefiche nel campo dell’istruzione e della sanità. (E non è finita qui, perché più avanti avremo ancora altri protagonisti.)

Muti si è accomodato su una sedia vicino al podio e segue, con tutto il pubblico, un indirizzo di saluto registrato dal Dalai Lama, che ricorda i valori comuni a tutte le religioni, in particolare la tolleranza e lo spirito di servizio.            

Dopodichè ha attaccato il Te Deum in do maggiore per coro e orchestra, Hob. XXIIIc n. 2 di Haydn. Opera della tarda maturità, commissionata dalla corte di Maria Teresa, e che risente delle esperienze londinesi (Händel incluso). Opera in tutto e per tutto settecentesca, austera, impettita e un po’ retorica e stucchevole, senza molti cedimenti a compromessi armonici.
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Vi si possono distinguere tre sezioni: la prima (Allegro) propone il tema gregoriano del TeDeum, in DO maggiore, seguito da una canonica modulazione alla dominante SOL (Tibi omnes Angeli) a preparare la tonalità del Sanctus. Sul Tu rex gloriae Christe torna il tema del Te Deum in DO maggiore, che si chiude (sul venturus) con un accordo tenuto di settima (SI-FA-RE-SOL, dai soprani ai bassi). Un DO pure tenuto dell’orchestra chiude questa prima parte del brano.

Ora (Te ergo quaesumus) si passa a DO minore (Adagio) ma per sole 9 misure, dopodiché (Aeterna fac) si torna al DO maggiore, in Allegro moderato. Ora si modula a LA minore (Dignare Domine) fino ad una nuova fermata (nos) prima del Miserere Domine, dove si passa fugacemente al FA maggiore, e da qui al definitivo ritorno al luminoso DO maggiore (Quem ad modum speravimus) che porta alla conclusione fugata sul non confundar.
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Devo ammettere che è musica che non mi entusiasma molto (come quasi tutta la musica di circostanza) ma proprio per questo meritano applausi e stima gli esecutori che l’hanno offerta in modo impeccabile.

A questo punto abbiamo un primo intermezzo, con due canti del Coro dei missionari di San Carlo Borromeo  e del Coro serbo bizantino Moisey Petrovich, prima dei due lavori di Brahms, praticamente coevi e caratterizzati da quel pessimismo sottile, ma mai nichilista, che traspare dalle composizioni con voce del burbero amburghese, ma che in fondo emerge anche nella sua produzione puramente strumentale. 

La Rhapsodie (Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53) è del 1869 e presenta tre strofe (la quinta, sesta e settima, di 6, 8 e 8 versi rispettivamente) delle 11 del poema Harzreise im Winter di Goethe. Che si basa su una storia vera e racconta di un’anima in pena (nella realtà tale Victor Leberecht Plessing, plagiato dal Werther) un misantropo che ha in odio il mondo e vaga per boschi in preda al suo egoismo e al suo nichilismo. Ma ecco uno squarcio di flebile speranza: in qualcosa di soprannaturale, precisamente nella musica che, chissà, non possa consolare il suo cuore. (Pare che qui ci sia anche qualcosa di autobiografico, una specie di magone che Brahms provò allorquando Julie - figlia di Robert e Clara Schumann - di cui lui si era infatuato, prese marito…)
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Sono 175 battute in totale, che iniziano con un Adagio (4/4 in Do minore, con divagazioni a SIb, LAb e REb) dove l’orchestra, per 18 battute, introduce la prima strofa, che descrive il vagabondare dell’individuo in piena solitudine. L’orchestra (i violini hanno sempre la sordina per le prime due strofe) si muove prevalentemente per gradi congiunti, su scale discendenti (a testimoniare della depressione che attanaglia l’anima in pena) negli archi e ascendenti nei fiati, che anticipano motivi che udiremo poco dopo.

Infatti a misura 18 ha inizio l’Arioso, che caratterizza la prima strofa del canto; qui la voce comincia ad introdurre intervalli più ampi, che caratterizzeranno l’intero brano: prima un RE-FA (Abseits) poi un DO-MIb (ihm) sempre discendenti, intervalli che culminano in un’abissale nona (DO-SI) sulla parola Öde (solitudine, appunto) che chiude il recitativo introduttivo.

A misura 48 si passa in Poco Andante (6/4, ma con la voce che spesso si muove in 3/2)  per l’esposizione della seconda strofa (in forma di Aria con struttura A-B-A’, dove in A’ vengono ripetuti i primi 4 versi) carica di pessimismo sulla sorte dell’individuo cui è venuto in odio l’intero universo. Anche qui troviamo melodie poco mosse (ad esempio quelle che caratterizzano la sezione B, secondi 4 versi) ma con irruzioni repentine di ampi intervalli, come quelli che si odono sulla parola Menschenhaß (odio per l’umanità): prima REb-MI, poi (nella ripetizione della semistrofa, A’) REb-REb e MI-MI; o come quelli che sottolineano il concetto opposto (aus der Fülle der Liebe Trank, dalla pienezza dell’Amore): nella prima sezione (A, seconda esternazione) abbiamo REb-REb (ottava discendente) poi SI-FA (12ma ascendente!):

che nella ripetizione (A’) scendono di un semitono, e diventano DO-DO e LA#-MI. Il trank viene quindi raggiunto sul SOL maggiore (anziché sul LAb) e da qui una semplice modulazione da tonica a dominante prepara il DO maggiore del Finale.

E a misura 116 (Adagio, 4/4, DO maggiore) ha appunto inizio la strofa conclusiva, con l’intervento del Coro maschile a supportare – talvolta in contrappunto - il canto del contralto. Il quale è ancora caratterizzato da ampi intervalli sonori, ora però del tutto rassicuranti e sereni, come la sequenza SOL-DO(ascendente)-MI-RE(discendente) sulla parola Liebe, e ancora l’ottava discendente seguita da una settima ascendente (DO-DO-SI) sul verso Ein Ton seinem Ohre:

Brahms impiegherà qualche tempo dopo il motivo di Ist auf deinem Psalter nell’ultimo dei Neue Liebeslieder, op. 65, come accompagnamento nel basso (mano sinistra del secondo pianoforte):

La struttura del Finale è abbastanza singolare: dal punto di vista del testo si potrebbe definire come A-B-A’, dove A sono i primi 4 versi, B i secondi 4 e A’ ancora i primi 4, con reiterazione finale del quarto verso. Invece se guardiamo la musica, dovremmo definirla come A-B-A-B’, dove B’ è il motivo musicale che caratterizza la seconda parte della strofa, impiegato per supportare la finale reiterazione del quarto verso:

Questo motivo (che sottolinea il quinto verso della strofa) compare per la prima volta a misura 128, su un subitaneo passaggio dal DO al MIb, e viene poi sottoposto a tutta una serie di modulazioni. Dapprima a SI maggiore, fra la chiusa dell’ottavo verso nella voce solista e la sua ripetizione nelle voci del coro; poi a SOL maggiore, dopo che il coro ha chiuso l’ottavo verso e in preparazione del ritorno a DO maggiore per la ripresa (A) dei primi 4 versi. La sezione che ho indicato come B’, dove si reitera il quarto verso, principia col ritorno, nel flauto, del motivo nella tonalità di MIb; poi, dopo il primo erquicke del contralto, lo udiamo per l’ultima volta in LAb.

La chiusa continua a reiterare il verso erquicke sein Herz, muovendo dal LAb verso il FA e da qui, con una incredibile serie di modulazioni in poco più di tre battute, ci porta lungo il ciclo delle quinte a SIb, MIb, LAb e REb. Da dove, per scivolamento, si ritorna al DO per la cadenza conclusiva.

Da Brahms a Mahler? Sappiamo come Mahler fosse ammiratore e critico allo stesso tempo del vecchio maestro (che a Vienna gli aveva impietosamente bocciato il suo giovanile Klagende Lied, ma poi lo aveva rivalutato come direttore, ascoltandone uno straordinario DonGiovanni). Fatto sta che non si possono non rilevare contatti o analogie fra la Rhapsodie e il mahleriano Abschied. Nel quale troviamo il verso Ich suche Ruhe für mein einsam Herz (cerco riposo al mio cuore solitario) che riecheggia l’ultimo verso che udiamo nella Rhapsodie. Sono quei vaghi e subliminali rimandi (testuali, se non musicali) di cui è infarcita la storia della musica occidentale, un fenomeno che paradossalmente non è stato ancora studiato in tutte le sue più intime caratteristiche e implicazioni.
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Ekaterina Gubanova ce l’ha proposta con dignità e garbo, pur se la voce non è delle più penetranti  e gli attacchi non sempre impeccabili. Altro intermezzo con una specie di tenzone canora fra bassi: dapprima il solista dei Lama tibetani, che emette suoni gutturali, quasi da ventriloquo, poi quello del Coro moscovita, che si esibisce in una specie di salmo moderno.

Muti risale sul podio per lo Schicksalslied (Canto del Destino, per coro e orchestra,  op. 54) composto fra il 1868 e il 71 su testo di Friedrich Hölderlin (tre strofe di 6, 9 e 9 versi). Se analizziamo il testo scopriamo una specie di specularità con quello goethiano della Rhapsodie. Là avevamo due strofe cupe e disperate, seguite da una terza vagamente consolatoria, qui invece il contrario: due strofe eteree e luminose (dove si descrive la perennemente serena esistenza dei geni soprannaturali, del tutto esenti da ogni forma di destino) seguite da una terza in cui si prende invece atto dell’eterna infelicità che caratterizza la natura degli Uomini, che sono appunto destinati a non trovare mai pace, né rimedio alle loro ansie.     
Brahms, sempre per quella sua innata contrarietà ad avallare posizioni nichiliste, volle aggiungere una conclusione serena – sia pure solo in suoni e non in parole - in ciò contraddicendo però l’autore del testo e lo stesso spirito del poema. E la cosa gli pesò assai, e forse giustificò i quasi tre anni di oblìo in cui lasciò cadere il lavoro, prima di decidersi finalmente – ma senza esserne del tutto convinto - a pubblicarlo.
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Il brano consta di 409 misure e si articola in tre parti: Langsam und sehnsuchtsvoll (Lento e pieno di anelito) 4/4 in MIb maggiore, che contiene l’Introduzione strumentale di 28 misure e il canto delle prime due strofe (75 misure); Allegro, 3/4 in DO minore, 276 misure che presentano, reiterandola, la terza strofa; Adagio, 4/4 in DO maggiore, 30 misure che contengono la conclusione puramente strumentale.

L’introduzione serve a preparare l’atmosfera rarefatta e luminosa in cui si muovono i geni beati, su morbidi tappeti di nuvolette, accarezzati dalle divine brezze (par di vedere la pubblicità di un famoso caffè, smile!) Dai primi violini, alle misure 19-20, scaturisce quasi inavvertitamente un motivo che fra poco aprirà il canto della prima strofa.  

La quale viene esposta da misura 29 (e fino a 63) inizialmente dai soli contralti che ne cantano i primi due versi, con gli strumentini a disegnare dolci arabeschi che evocano uno scenario di olimpica pace. E, a proposito di Olimpo, sarà un caso che le prime quattro note del motivo che udiamo (ripreso subito dall’intero coro e dagli archi) e che i violini avevano fugacemente preannunciato poco prima, vengano dal mozartiano Molto Allegro della Jupiter?

Dopo che il coro ha chiuso i primi due versi, nel MIb di impianto, ecco una subitanea modulazione a DO (sono le splendenti brezze divine!) sulla quale vengono esposti il terzo e quarto verso, subito ripetuti modulando ulteriormente a SIb (dominante del MIb). In questa tonalità udiamo anche il quinto e sesto verso, pure ripetuti, che iniziano con il motivo principale, ma poi divagano assai, in particolare su Wie die Finger, e la strofa si chiude sospesa sulla dominante FA.

Un breve interludio di 5 misure, dove udiamo il motivo principale, sempre in SIb, nei corni accompagnati da svolazzi degli strumentini, riporta la tonalità a MIb per l’esposizione della seconda strofa (da misura 69 a 96).

I primi due versi (da Schicksallos) sono musicati secondo una variante di quelli della prima strofa, i successivi quattro (da Keusch bewahrt) su un nuovo motivo che dapprima sale per gradi congiunti (dal DO al FA) per scendere sulla tonica, e poi ridiscende sulla mediante SOL in due misure cantate dal solo coro.

Curiosamente, dopo il verso Ihnen der Geist, il flauto propone un inciso (ripreso subito dopo dai soprani sulle parole Augen Blikken) che viene – tonalità inclusa - direttamente dall’Allegro iniziale della Sinfonia K543 (la n°39) di Mozart:

I restanti tre versi della strofa (gli ultimi due ripetuti) chiudono in MIb lo scenario celeste, ma con qualche ombra (i due SOLb che offuscano in minore la melodia); è una cadenza di 8 misure, che ricorda la conclusione dell’Introduzione (con le salite al MIb acuto) a preparare il passaggio al… destino cinico e baro che governa il mondo degli umani. 

Ecco quindi, a misura 104, l’Allegro, nella cui struttura trovano posto due ripetizioni dell’ultima strofa, ma assai diverse fra loro, pur con qualche tratto in comune. È introdotto da altre 8 battute strumentali degli archi (con sporadici secchi e dissonanti accordi degli ottoni) che si agitano con sinistre crome ribattute fino al termine della prima esposizione della strofa, a misura 172.

Il coro, da misura 111, canta in sincrono (proprio a cappella) su una melodia che per i primi quattro versi pare quasi richiamare le cupe esternazioni dei marinai dell’Holländer (terzo atto); poi un primo tremendo accordo in fortissimo su un intervallo di seconda minore discendente (LAb-SOL) sottolinea la parola Blindlings (il cieco errare, da un’ora all’altra); ancora, sui versi Wie Wasser von Klippe Zu Klippe geworfen (come acqua sbattuta di rupe in rupe - qualcosa del genere si trova, peraltro in atmosfera serena, nel goethiano Gesang der Geister über den Wassern) abbiamo un'onomatopeica serie di semiminime sincopate, ad evocare il susseguirsi delle cascatelle che cadono, chiusa da un nuovo grido (Jahrlang) stavolta sul SOL. Altro schianto, sulla dominante, al termine dell’ultimo verso (Ins Ungewisse hinab, letteralmente: in abissali insondabilità). L’ultimo verso è ancora ripetuto, piano, dal coro, prima che 22 misure strumentali portino alla riproposizione dell’intera strofa, da misura 193.

La seconda esposizione della strofa del destino umano ha caratteristiche abbastanza diverse dalla prima: intanto, è per buona parte cantata in contrappunto ed anche la melodia è sottilmente variata. Inoltre ci sono più ripetizioni dei primi due versi, mentre dal terzo verso si ripercorre abbastanza coerentemente, ma con diverse altezze, la prima esposizione, incluso l’urlo sul Blindlings e quello su Jahrlang. Anche l’ultimo verso viene reiterato più volte (dall’intero coro, poi da soprani e tenori, finalmente da contralti e bassi) come a non lasciare speranze di fronte allo sprofondamento negli abissi insondabili.    

A misura 364 si chiude il canto e si trova una coda di 16 misure dove la musica sembra perdersi proprio nel nulla.

Ma a misura 380 ecco l’iniziativa (discutibile?) di Brahms: dal DO minore si transita al maggiore, dove riascoltiamo, solo negli strumenti, la serena melodia dell’Introduzione che ci conduce alla chiusa sull’accordo perfetto di DO maggiore di tutta l’orchestra, in pianissimo.
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Eccellente la prestazione di orchestra e coro, diretti proprio a bacchetta dal ravennate d’adozione.

Ora ecco una nuova irruzione: sono due gruppi italiani, che entrano dal fondo della sala: i Memento Domini di Mussomeli e I lamentatori di Marianopoli, che si esibiscono nelle loro lamentazioni, rispettivamente in latino e in siculo. Ancora un canto della Drolma, e poi la chiusura del programma, con l’Ave Verum Corpus di Mozart.  

Anche questo è un pezzo composto praticamente su ordinazione (o per saldare un debito, fa lo stesso) ma il Teofilo non si smentisce mai e così ne cava un gioiellino sublime. E talmente universale, nel suo messaggio, che Muti, dopo averlo fatto eseguire una prima volta ai complessi canonici, lo ripete invitando al canto anche i quattro cori dei monaci. Ripagato alla fine con una bianca e lunga stola, evidente simbolo di ecumenismo religioso.

E così finisce davvero in gloria questa specialissima serata di universale volemmose bbene… Risalito in automobile, in una serata finalmente fresca dopo una giornata di sbifido e snervante garbino che aveva imperversato sulla costa romagnola, faccio a tempo ad ascoltare le ultime parole pronunciate da Muti, intervistato per Radio3 da Giovanni Vitali: un appello ad investire di più nell’istruzione musicale. Vien quasi da ridere, in tempi di spending review    

05 luglio, 2012

DonPasquale alla Scala… col SI bemolle


Ieri sera alla Scala (scandalosamente semivuota in platea e palchi) terza rappresentazione (col cosiddetto secondo cast) del DonPasquale di Gaetano Donizetti, in una produzione del Teatro Comunale di Firenze ripresa dall’Accademia della Scala.

Comincio con una piccola curiosità. La locandina del teatro esplicita che si tratta della Revisione, secondo la partitura autografa, di Piero Rattalino. Il quale ci ragguaglia – sul programma di sala – in merito a tanti piccoli particolari in cui l’originale autografo e le edizioni successivamente impiegate divergono. Uno di questi - il primo citato dal revisore - riguarda una nota del corno in DO, che a battuta 23 della Sinfonia risponde al violoncello che aveva esposto la prima sezione del tema (in FA maggiore) Com’è gentil (quello che Ernesto canterà a mo’ di serenata – in LA maggiore - nel terzo atto). La terza nota (che si ripete 4 battute più avanti) viene solitamente, e come da tradizione, eseguita come SI naturale (è la cosa che sembrerebbe più… naturale, appunto):

Rattalino ha invece scoperto sugli autografi che quello sarebbe un – abbastanza bizzarro, si direbbe a prima vista – SI bemolle. Ma in realtà è proprio il motivo cantato da Ernesto che lascia teoricamente aperte entrambe le possibilità, in quanto vi compaiono in successione le due diverse figurazioni:
Adesso, tutto questo stucchevole tormentone non avrebbe alcun senso se non vi dicessi come il corno accademico scaligero ha suonato quella nota; ebbene: proprio un SI bemolle, che magari qualcuno avrà scambiato per una stonatura (smile!)

A parte questo dettaglio (e altri su cui non val la pena soffermarsi) Rattalino riporta un’interessante considerazione riguardo la strumentazione dell’opera, che potrebbe essere, per così dire, male interpretata, con il risultato di appesantirne eccessivamente il tessuto musicale: fa l’esempio dei tre tromboni, che suonano quasi sempre le stesse linee, e che potrebbero ingrassare i suoni in modo eccessivo, dato che oggi si dispone degli strumenti a coulisse, assai più corposi di quelli a pistoni in uso ai tempi di Donizetti.

Non è un caso che gli stessi concetti esprima Riccardo Muti in questo video ripreso alle prove aperte del DonPasquale di Piacenza, nel 2006, ricordando gli ascendenti napoletani e mozartiani dell’opera. E dove il maeschtro non perde l’occasione (3:20 nel video) per confutare il luogo comune che attribuisce alla musica capacità descrittive

A me è parso che Enrique Mazzola abbia sostanzialmente seguito i dettami di Rattalino e Muti, cercando di evitare ogni appesantimento eccessivo del suono, sempre tenuto su livelli di accettabile trasparenza. Nella Sinfonia ha accentuato in modo forse esagerato alcuni salti di tempo (come il Più Allegro e il Più stretto ai numeri 5 e 6 della partitura) creando effetti magari interessanti, ma un pochino pacchiani. Comunque a lui e ai ragazzi strumentisti dell’Accademia va un doveroso plauso per l’ottimo livello dell’esecuzione. Una citazione particolare per William Castaldi, prima tromba, per come ha eseguito la lunga melodia (cantabile) che introduce il lamento di Ernesto all’inizio del second’atto. (Chissà perché a me ricorda sempre il Deguello di Dimitri Tiomkin, nel western Un dollaro d’onore…)   

E a proposito di reminiscenze, DonPasquale era un’opera praticamente fuori tempo già al suo apparire, in uno scenario musicale dove il comico era ormai scomparso e tutt’al più sopravviveva il genere semiserio. Eppure lo straordinario carico di novità che contiene ne ha garantito non solo il successo immediato, ma la presenza stabile nel repertorio di teatri, direttori e cantanti. E nell’opera si trovano spunti che altri hanno preso a modello: ad esempio, non è dato sapere con certezza se Wagner ebbe modo di ascoltarla, ma di certo l’atmosfera di Ah, un foco insolito, che il patetico DonPasquale canta nell’Introduzione, tutto eccitato dopo che Malatesta gli ha magnificato le doti della futura moglie, sembra ritrovarsi nell’esternazione del patetico Beckmesser (terzo atto dei Meistersinger) dopo che ha avuto da Sachs il permesso di impiegare il suo Lied per la tenzone canora.

Gli interpreti di ieri hanno fatto del loro meglio per mettere in risalto le caratteristiche (psico-)musicali dei diversi personaggi: il senescente incartapecorito, ma ringalluzzito Don, che Nicola Alaimo ha impersonato con bravura scenica e discreta prestazione vocale (sorvolerò su qualche sguaiatezza…); lo sbifido faccendiere Malatesta, che Filippo Polinelli ha ben proposto sul piano scenico, con qualche riserva invece su quello della voce, non sempre penetrante; il pavido Ernesto, cui Leonardo Cortellazzi ha prestato la sua voce piccola, ma ben impostata e gradevole; la birbantella intraprendente Norina, che Ludmilla Bauerfeldt (forse la migliore del gruppo) ha caratterizzato in modo assai efficace, proprio sul piano musicale; e il notaio, una particina musicalmente davvero esigua, ma che Mikeil Kiria – grazie al regista - ha interpretato con efficacia. Su un buon livello il coro di Alfonso Cajani.

E a proposito di regìa, direi che l’allestimento di Jonathan Miller – assolutamente tradizionale – è quanto mai gradevole e in sintonia con lo spirito dell’opera. La scena è immutabile e mostra la sezione della casa di DonPasquale, disposta su tre livelli (il più alto credo poco visibile dalla seconda galleria…) con le diverse stanze in cui si muovono i protagonisti.

Due gigantesche ante si aprono a inizio opera per mostrarcela e si richiudono nel terzo atto, a partire dalla scena nel boschetto. Al piano terra di norma si muovono tre domestiche, addette più che altro a faccende di cucina (tipo tirare la sfoglia col mattarello) che intrattengono ospiti in attesa di essere ricevuti in casa: dapprima Malatesta e poi il Notaio, che se la spassano mangiando e bevendo mentre al piano superiore il Don se la vede con Ernesto (atto I) e poi ci si prepara alla registrazione del finto matrimonio (atto II): sono siparietti simpatici, anche se proprio per questo rischiano di distrarre l’attenzione dello spettatore da ciò che accade di sopra…

La fissità della scena comporta che la casa del Don sia anche quella di… Norina. E non a caso perciò, all’apertura del sipario, vediamo il Don che sta per alzarsi da letto, al primo piano, mentre al secondo (toh!) Ernesto e Norina concludono evidentemente una simpatica notte, con la ragazza in pigiama che sale ulteriormente le scale, scomparendo alla vista, per poi ritornare a fine atto per la sua cavatina.

All’inizio dell’atto III abbiamo anche un inserto pubblicitario, allorquando il piano terra viene invaso da scatoloni rosa colmi di capi d’abbigliamento ordinati dalla vulcanica Norina, e recanti con grandi e ben leggibili scritte i marchi Versace, Prada, Gucci e Valentino: forse per invitare il pubblico popolare di una serata come questa a vestirsi come quello del 7 dicembre (smile!)

Tirando le somme, uno spettacolo godibile, che dai loggioni (unica parte abitata del teatro) è stato accolto con favore.
  

03 luglio, 2012

La povera Manon della Scala


Je ne suis qu’une pauvre fille, ammette Manon al primo incontro con DesGrieux… e proprio mal messa è stata fin dal suo nascere questa produzione scaligera dell’opera di Massenet. Che ha perso una dopo l‘altra - e in circostanze che stanno fra il comico e il disdicevole – entrambe le primedonne chiamate ad interpretare il personaggio del titolo. Di cui è divenuta forzatamente titolare a tempo pieno colei che avrebbe dovuto fare da riserva, dando solo pochi cambi alle suddette primedonne.

Se a ciò si aggiunge una delle solite regìe un po’ lunatiche (nel senso di… fatte con le natiche, smile!) si ha un’idea della mediocrità (relativamente al sempre più millantato e sempre meno certificabile blasone del Teatro milanese) di questa proposta, che viene peraltro da grandi istituzioni come la ROH, il MET e il Capitole di Tolosa (mal comune, mezzo…) Insomma: uno spettacolo appena appena passabile, e principalmente grazie al carisma di Fabio Luisi.

Ermonela Jaho ha un fisico minuto assai adatto ad impersonare questa sedicenne vulcanica, impulsiva, viziata e irresponsabile (almeno al pari dei familiari che la spediscono in convento da sola, caricandola su una diligenza, smile!) Quanto alla voce non mi è dispiaciuta, specialmente nelle parti più acute, mentre l’ho trovata un po’ opaca nelle note più gravi. In complesso la sua è stata una prestazione onorevole e non è detto che l’essersi ritrovata titolare per tutte le recite, al posto delle blasonate e indisposte colleghe, non le abbia fatto bene.

Il DesGrieux di Matthew Polenzani ha una voce tanto piacevole quanto piccola e perdentesi nell’enorme spazio del Piermarini. Discreto nelle parti più intimistiche della partitura, poco efficace in quelle che richiedono slancio e apertura. Per impersonare un diciottenne, ha un fisico un filino appesantito, ma comunque più appropriato di quello di certi tenori (di ieri e di oggi) che passano il quintale (smile!)       

I comprimari hanno – chi più chi meno - più che altro vociferato le loro parti, nessuno sollevandosi da una generale mediocrità. Un po’ meglio ha fatto il coro di Casoni.

Come detto, l’unica nota veramente positiva di questa produzione è, a mio avviso, la concertazione di Luisi, che ha saputo cavar fuori assai bene tutti i diversi accenti – dall’esuberanza delle scene di massa, agli squarci intimistici e strappalacrime - di questa partitura. E l’orchestra mi è parsa assecondarlo in tutto e per tutto. Non so da cosa siano giustificati i tagli apportati alla musica: se dalla preoccupazione per la durata complessiva, allora una soluzione meno barbara e più… musicale ci sarebbe: accorciare di almeno 10 minuti i due intervalli!

Su una regìa come questa di Laurent Pelly non si possono che avanzare i soliti dubbi. Intanto, la pervicacia con cui ci si accanisce a spostare l’ambientazione di opere come questa - dall’originale, 1721, al tempo in cui l’opera stessa fu composta, 160 anni dopo – è veramente insensata: non aggiunge un’unghia di valore e in compenso butta nel cestino tutti i riferimenti musicali che il compositore così mirabilmente e faticosamente aveva introdotto nella partitura. Il siparietto all’Opera ne è solo un esempio qualunque: sulle note che rimandano al barocco noi vediamo una sceneggiata degna dello squallido mondo dei soci del Jockey-Club, che a fine spettacolo prendono di peso le ballerine e se le caricano in spalla per portarsele evidentemente a letto…

Il quale letto – è noto – fa parte del normale arredamento di una cappella (smile!) Dove Manon, appunto mettendosi a letto, convince l’apprendista-abate DesGrieux a tornare a godere con lei i piaceri dell’alcova… mah!

Una nota critica anche per le scene: già dalla prima galleria (immaginiamo poi dalla seconda) restano completamente tagliate agli occhi dello spettatore le parti superiori della scenografia, dove si dovrebbero vedere panorami cittadini e dove si aggirano, in specie nel primo atto, anche alcuni personaggi: evidentemente i loggionisti non sono la prima preoccupazione del teatro…

Pubblico non oceanico e applausetti di cortesia.