ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

23 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°8


Torna sul podio il Direttore Musicale per dirigere un concertone di quelli davvero tosti!

É l’ungherese Kelemen Barnabás il protagonista della prima parte, suonandoci un monumento dei concerti per violino, l’Op.61 di Beethoven. Il 41enne magiaro (che già sta allevando in casa musicisti-prodigio) fa cantare il suo Guarneri in modo strepitoso, valorizzando i suoni del Ludovico con sapienti rubato e mirabili varianti dinamiche.

Propone anche delle mini-cadenze, come quella subito prima dell’attacco del Rondò, davvero strepitose; insomma, una prestazione entusiasmante, che il pubblico gratifica con ovazioni e ripetute chiamate. Alle quali lui risponde con un metafisico Bach (Sarabanda dalla seconda partita) seguito da un mostruoso Paganini (primo dei 24 capricci op.1)!   
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La seconda parte del concerto è occupata dalla Wagner-Symphonie di Anton Bruckner. É la terza sinfonia del catalogo dell’organista di Linz (peraltro preceduta da altre 4, una delle quali non numerata e l’altra numerata zero). Come quasi tutte le sorelle, anche questa ha avuto controfigure e cloni, sotto forma di versioni diverse comparse negli anni. Dopo la prima del 1873, di ascolto non frequente (ma è quella eseguita qui) Bruckner ne sfornò una seconda nel 1874 (con poche novità, peraltro) poi una terza nel 1877 e infine una quarta nel 1889: quasi 17 anni di continui ripensamenti, revisioni, aggiunte e (soprattutto) tagli. La dedica a Wagner - che Bruckner letteralmente idolatrava - spiega la presenza di reminiscenze e atmosfere wagneriane, che sono proprio più marcate in questa prima versione, mentre furono un poco attenuate o del tutto rimosse in quelle successive.

Mi permetto di avanzare qualche riserva sulla decisione (immagino l’abbia presa Flor) di proporre questa prima versione della Sinfonia, che credo laVerdi esegua per la prima volta (come si dovrebbe dedurre anche dal perfetto stato delle parti e della partitura d’orchestra disposte sui leggii di orchestrali e Direttore).

Personalmente preferisco di gran lunga l’ultima, che non per nulla è sempre stata eseguita (ed ancor oggi lo è prevalentemente) fin dai tempi della sua comparsa. Penso che se l’Autore lavora su una sua opera per anni e anni, lo faccia per migliorarla, depurarla da componenti di bassa qualità, in modo da renderla più gradita al pubblico. E sono convinto che questo sia precisamente il caso della Terza. La cui prima versione mi appare assai più prolissa e a volte involuta rispetto all’ultima, più asciutta, sobria e anche dotata di qualche nuovo motivo musicale di assoluto valore (penso ad esempio all’Adagio). Insomma, queste proposte credo dovrebbero essere riservate alle incisioni discografiche, per dar modo al pubblico più interessato e competente di prendere conoscenza di tutto quanto l’Autore ha pensato e composto in relazione a quell’opera. Invece, al vasto pubblico che va ai concerti per ascoltare il meglio, meglio sarebbe dare il meglio... E visto che incombe a SantAmbrogio una ur-Tosca, prendo l’occasione per estendere la mia critica (e non è la prima che gli muovo, nella fattispecie) alle scelte del maestro Chailly.

Detto ciò, aggiungo che - presumibilmente anche a causa della novità del soggetto da eseguire - mi è parso di percepire una non perfetta messa a punto dell’insieme, a partire dall’equilibrio sonoro fra le sezioni dell’Orchestra: più volte la linea melodica degli archi è stata sommersa dal fracasso dei fiati, come ad esempio è accaduto nel Finale, dove il secondo tema (la polka degli archi) non è emerso come si dovrebbe, sovrastato dal corale dei fiati...

Detto ciò, tanto di cappello a tutti per l’impeccabilità tecnica dell’esecuzione, accolta da un pubblico abbastanza folto con molto calore (l’entusiasmo però è altra cosa...)

21 novembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (1)


Sì, mancano ancora parecchi giorni all’apertura di SantAmbrogio19, ma...

Già comincia il fermento 
intorno all’evento 
che illustra l’avvento
con grande contento.
E un po’ di spavento 
da sputtanamento
del gran monumento
sferzato dal vento...

...aggiungere ad libitum altre 3048 desinenze in -ento.

Come sempre accade Milano è prodiga di idee volte a promuovere l’annuale appuntamento artistico per antonomasia, con una serie di iniziative di informazione, divulgazione ed approfondimento del titolo che verrà messo in scena dal 7 dicembre (il 4 per i diversamente anziani...) Qui una lista di eventi (alcuni già passati) e qui un’altra ancora.
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Da parte mia, per ripassare la lezione in attesa di SantAmbrogio, mi sono imbarcato in uno di quei lavori che possiedono le mirabili caratteristiche di essere assai rognosi e allo stesso tempo totalmente inutili, ma tant’è: visto che l’ho portato (in qualche modo) a termine, lo metto anche a disposizione di altri aspiranti perditempo...

Di che si tratta? Di una sinossi comparata dei testi di Sardou e di Puccini (/Illica/Giacosa/Ricordi) che da un lato fornisce un’immagine anche visiva delle differenze strutturali e quantitative fra i due testi, e dall’altro consente di esplorare anche i dettagli (non certo i minimi) di tali differenze. E quindi, visto che ormai c’è, vediamo di usare questo rozzo strumento, cominciando a confrontare la struttura dei testi.

Sardou struttura il suo dramma in 5 atti e 6 quadri (l’atto conclusivo comprende appunto due luoghi diversi anche se contigui) ambientati: 1. nella Chiesa di Sant’Andrea dei Gesuiti (oggi Sant’Andrea al Quirinale); 2. a Palazzo Farnese; 3. nella villa suburbana di Cavaradossi (situata fra Caracalla e gli Scipioni); 4. a Castel Sant’Angelo (appartamento di Scarpia); 5. a Castel Sant’Angelo (Cappella dei Condannati); 6. a Castel Sant’Angelo (piattaforma delle fucilazioni).

Puccini (cito solo lui in luogo del quartetto che produsse il libretto) struttura Tosca in tre atti, ambientati: 1. nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle; 2. a Palazzo Farnese; 3. a Castel Sant’Angelo.

Una prima differenza che salta all’occhio è la Chiesa: è peraltro opinione comune che Sardou abbia in effetti equivocato e che anche la Chiesa da lui indicata sia in realtà quella in cui fu ambientato il libretto dell’Opera.  Ecco un cartina con i principali luoghi dell’azione:


Le distanze (in linea d’aria) fra i diversi luoghi dell’azione (ignorando Sant’Andrea al Quirinale) sono più o meno le seguenti:

- Castel Sant’Angelo - Chiesa 1 Km
- Castel Sant’Angelo - Palazzo Farnese 1,5 Km
- Castel Sant’Angelo - casa suburbana di Cavaradossi 7 Km
- Chiesa- Palazzo Farnese 0,5 Km
- Chiesa - casa suburbana di Cavaradossi 6 Km
- Palazzo Farnese - casa suburbana di Cavaradossi 6 Km

Nel derivare il libretto dal dramma, Puccini eseguì interventi di vario tipo, di cui si elencano solo i più corposi:

a) eliminazione tout-court di alcune parti:
- Il colloquio Cavaradossi-Angelotti durante il loro primo incontro, dove i due si scambiano le reciproche esperienze, anche sentimentali: il fuggiasco ricorda i suoi passati rapporti con l’attuale moglie dell’Ambasciatore britannico a Napoli; Cavaradossi confessa il suo amore per Tosca, della quale narra le patetiche vicende umane e con la quale è deciso a lasciare Roma.
- Il battibecco del primo atto fra Cavaradossi e Tosca, dove lei accusa di comportamenti leggeri la Marchesa Attavanti, biasima il fratello di lei per le sue idee giacobine e racconta a Mario i suoi rapporti con il confessore Caraffa, al quale avrebbe promesso di portare l’amato sulla retta via, convincendolo a tagliarsi i baffi...
- La scena con Luciana, dama di compagnia di Tosca, che annuncia la vittoria austriaca a Marengo (vedi sotto fra gli spostamenti) e l’invito di Paisiello a Tosca per la cantata di ringraziamento. 
- E poi l’intero secondo atto a Palazzo Farnese, escluse due piccole ma importanti sezioni, che Puccini sposta alla fine del primo atto (vedi sotto).
- Espunta anche la prima parte del terzo atto, con il racconto di Cavaradossi ad Angelotti sulla storia della villa di campagna, e la spiegazione data da Mario a Tosca della presenza lì di Angelotti.  
- Cassato l’inizio del quarto atto, con i pensieri di Scarpia riguardo l’effetto blando che ha avuto su Roma la notizia della sconfitta di Marengo e la sua decisione di far comunque impiccare il suicida Angelotti, per non renderlo un eroe agli occhi dei liberali. 
- Eliminata anche la confessione finale di Spoletta a Tosca, sulla falsità della promessa di Scarpia di simulare la fucilazione.

b) sostituzione di parti:
- La prima parte dell’atto iniziale (protagonisti Eusèbe e Gennarino) viene rimpiazzata con la presentazione in diretta dell’arrivo di Angelotti, evaso di fresco, nella Chiesa.

c) spostamento di parti:
- Primo atto: l’annuncio di Luciana della vittoria di Marengo viene spostato alla fine dell’atto, e messo in bocca al Sagrestano.
- Dal secondo atto vengono spostati a fine del primo il colloquio Scarpia-Tosca, dove il Barone prepara la trappola del ventaglio per incastrare Cavaradossi, catturare Angelotti e... portarsi a letto l’appetitosa Floria; e poi la conclusione dell’atto, con Tosca che corre alla villa e viene pedinata (là da Scarpia-Attavanti, qui da Spoletta).
- Dal terzo atto (casa di Cavaradossi) viene spostata al secondo (Palazzo Farnese) l’intera scena dell’interrogatorio di Mario e Tosca.
- Dal quarto atto (appartamento di Scarpia a Castel Sant’Angelo) viene spostata alla fine del secondo (Palazzo Farnese) l’intera scena della turpe trattativa di Scarpia con Tosca, che porta all’omicidio del Barone (qualche spostamento avviene anche all’interno della scena medesima).   

d) modifiche al testo
- A parte il diverso nome della Chiesa, Sardou scrive della cappella Angelotti, aggiungendo che gli Angelotti erano stati i fondatori di quella Chiesa; Puccini invece la chiama cappella Attavanti. C’entra sempre la Marchesa Giulia, nata Angelotti e maritata Attavanti. Chi ha ragione? Proprio... nessuno. Però sarebbe più verosimile Attavanti, stante la situazione politica nella Roma del 1800 e la posizione del Marchese.
- Nel primo atto, le scene 4 (Sardou) e 5 (Puccini), poi la 6 (scambi di battute fra Cavaradossi e Angelotti e poi il colpo di cannone) e 7 (Cavaradossi-Sagrestano) vengono sostanzialmente modificate.
- Modificate anche le ultime scene del dramma, a Castel Sant’Angelo.

Per quanto attiene i tempi dell’azione, se ci limitiamo a quello scenico, cioè a quello che trascorre nel dramma dall’inizio della rappresentazione alla sua tragica fine, c’è piena coerenza fra Sardou e Puccini. La vicenda per Sardou ha luogo il 17 giugno; per Puccini un giorno imprecisato di giugno, ma necessariamente dopo il 14, data della battaglia di Marengo. Per entrambi l’ora di inizio è attorno a mezzogiorno: Sardou, l’ora della siesta; Puccini, l’Angelus. Per entrambi la fine si colloca al mattino (diciamo più o meno alle 6) del giorno successivo. Quindi in tutto circa 18 ore.

Se però prendiamo atto di ciò che si vede (e si ascolta) in scena, le cose cambiano. Poichè in Puccini si constata che Angelotti - che appare per primo sul palco - è appena fuggito dal carcere, mentre in Sardou l’evaso esce dalla cappella confidando a Cavaradossi di essere entrato lì dentro prima della chiusura delle porte della Chiesa per la notte, quindi come minimo 12-14-16 ore prima rispetto a quanto ci racconta Puccini! Vedremo in seguito cosa si deve dedurre da questo particolare. 

Per quanto riguarda i personaggi, Puccini ne toglie parecchi a Sardou, soprattutto a causa dell’eliminazione di quasi tutto il secondo atto del dramma, popolato da figure di una certa importanza, a cominciare dalla Regina in persona, per finire al Maestro Paisiello. È evidente come Puccini abbia inteso sfrondare il testo francese da tutte le parti non marcatamente drammatiche, o addirittura di carattere leggero e umoristico o parodistico, che peraltro impreziosiscono il testo di Sardou. Non solo, ma servono anche a completare il quadro della figura del personaggio chiave dell’opera, Scarpia, che ne esce (lo scopriremo poi) assai diverso da come lo vediamo in Puccini. Il quale in compenso inventa un nuovo personaggio, il Pastorello, funzionale a creare la mirabile atmosfera con cui si apre il terz’atto.     

(1. continua)

16 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°7


Cambio volante di direzione per il settimo concerto de laVerdi: assente-il-residente (!?) Bignamini, lo sostituisce un giovane che con la Brexit ha trovato un impiego non lontano da qui, che risponde al nome di Alpesh Chauhan, 29enne albionico ma con evidenti ascendenze afro-indiane.

Programma piuttosto insolito, essendo costituito da quattro brani dello stesso genere (poema sinfonico o giù di lì, tutti fra i 15 e i 20 minuti di durata) che rischia quindi di apparire un filino monotono, un po’ come un menu articolato su quattro portate di soli formaggi (!!) per di più di due soli produttori. E quattro lavori che si chiudono in tragedia o comunque... al cimitero! Alle estremità due vicende d’amore impossibile e quindi votato ad una inevitabile brutta fine (come quella dell’Autore... Ciajkovski); all’interno due esempi di esistenze a loro modo scapestrate e destinate a chiudersi anzitempo (qui l’Autore - Strauss - invece fa il becchino...)

A metà degli anni ’50 (dell’800) Franz Liszt aveva inventato (insomma... perfezionato) il genere musicale del poema sinfonico, con la sua serie di 13 lavori: l’idea programmatica era di evocare con la sola musica (Hanslick ne rimase orripilato) sensazioni, emozioni, pensieri, indotti da soggetti di natura (prevalentemente) letteraria: storie d’amore, avventure, e pure concetti filosofici. Berlioz già ci aveva osato anni prima con la sua Fantastique, e persino Beethoven (nella Pastorale) aveva minuziosamente dipinto in note usignoli, quaglie e cuculi!

Liszt fece proseliti ovunque (la moda del poema sinfonico contagiò molti altri compositori, da Dvorak a Franck, poi Sibelius e giù giù fino al ‘900 con Schönberg e Respighi) ma prima di tutto in Russia dove Ciajkovski (titolandoli, per distinguersi, fantasie) ne sfornò una mezza dozzina, due dei quali (fine anni ’80) vengono presentati in apertura e chiusura del concerto. Poi, a partire da una decina d’anni dopo il russo, fu Richard Strauss a prendere decisamente il testimone da Liszt con i suoi 7 Tondichtungen (poemi in suoni) cui si possono aggiungere, per far numero, le due Sinfonie a programma e la giovanile Aus Italien.
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Si inizia con 35 minuti di ritardo, causa... disastro ambientale. No, a Milano è piovuto, però non c’è (ancora) acqua alta, ma - come ha spiegato il general manager Jais - il fumo uscito dal camino di uno stabile adiacente all’Auditorium è stato risucchiato dal sistema di condizionamento ed ha invaso la sala. In effetti entrando si avvertiva ancora un vago odor di carbonella...

Poco prima si era anche appreso che il Direttore chiamato al posto di Bignamini (e chi, se non lui?) aveva letteralmente rovesciato l’ordine di esecuzione dei quattro brani (come ancora presentato nella locandina online). Potrei sbagliare, ma la nuova sequenza mette subito in tavola i vini più buoni (perlomeno i più noti) e poi (quando gli invitati sono ormai un po' brilli) quelli... un po’ meno (vedi l’usanza richiamata nella storia evangelica delle nozze di Cana, ma prima del miracolo!)

Quindi si parte con Romeo&Giulietta, una Ouverture-Fantasia che Ciajkovski, dedicandola a Balakiriev, produsse dapprima nel 1869 per poi rivederla abbastanza radicalmente nel 1879 e darle un definitivo ritocco nel 1880: e quest’ultima è la versione normalmente (anche qui) eseguita. Tempo fa mi ero preso la briga di sintetizzare le principali differenze fra le due versioni estreme, confrontandone le strutture e facendo riferimenti pratici a due esecuzioni: quindi rimando i curiosi a quel post.

Devo dire che il giovine Chauhan si è presentato nel migliore dei modi: gesto sobrio e bando alle gigionate, ma soprattutto grande maturità nell’interpretazione, impreziosita da alcune efficaci sfumature agogiche e dinamiche che si spiegano solo col fatto che il ragazzo deve aver studiato molto, oltre a possedere evidentemente un istinto che lo porta a valorizzare ciò che dirige. Al resto ovviamente ci pensano i ragazzi dell’Orchestra, che rispondono alla grande alle sue sollecitazioni.
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Dopo una tragedia amorosa, ecco una leggenda amorosa libidinosa, quella di Don Juan. C’è chi (per bocca di Leporello) lo dipinge come un RoccoSiffredi-ante-litteram (uno che ne scopa 1003 solo in Spagna) ma allo stesso tempo avanza seri dubbi sulle millanterie del burlador (in tutta l’opera della premiata coppia DaPonte-Mozart sfido chiunque a riscontrare una sola avventura andata-a-buon-fine!)

Strauss crede più alla leggenda (meglio: a Nikolaus Lenau...) che a Mozart, così il suo Don Juan sprizza esuberanza, vitalità, perenne ricerca dell'ideale femminino spinta – oltre l'erotismo - fino all'eroismo. Mirabili sono i due intermezzi amorosi (il primo in SI, l’altro in SOL maggiore) i corteggiamenti e gli abbandoni che vi sono disseminati, fino all’esplosione nei corni del tema eroico del Don.

Romantica fino all'estremo la conclusione dell'esistenza dell'eroe: quasi un tristaniano suicidio, sottolineato dal dissonante FA naturale delle trombe, poi dei corni, che cade sul MI, la tonalità del Don, che a sua volta va scemando, prima da maggiore a minore, per trovare pace sul MI all'unisono (archi in pizzicato, controfagotto, tromboni, tuba e timpano) delle due conclusive semiminime.

Qui Chauhan lascia libero sfogo alla lussureggiante orchestrazione di Strauss, certo che l’Orchestra saprà tenere i suoi tempi davvero indiavolati: ne esce un’esecuzione davvero trascinante, che il pubblico sottolinea con applausi convinti.
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Dopo l’intervallo arriva lo scapestrato Till Eulenspiegel (lo specchio del gufo?!) del 1895, dove Strauss fa un regalino al padre (famoso cornista) scrivendo quel tremendo passaggio che l’interprete deve suonare a freddo (battuta 6) e che prevede, dopo tre scalate apparentemente facili, un precipitare sulla triade di FA di quasi tre ottave, dal RE acuto al FA grave, oltretutto da suonarsi piano, il che non aiuta di certo...

Come in tutta la musica a programma, la pertinenza dei suoni con il programma è lasciata alla nostra capacità di giudizio, o alle nostre reazioni di fronte ai suoni medesimi, una volta che ci sia stato chiaramente spiegato da chi, cosa o quant’altro siano stati, quei suoni, ispirati al musicista.

Che l’assolo del corno, come quello più avanti del clarinetto in RE, ci sbozzino la personalità del burlone Till è concetto che arriviamo a condividere soltanto dopo che siamo stati informati della figura che sta dietro quelle note. Mai e poi mai – ignorando tale informazione – avremmo potuto sbottare, ascoltando di primo acchito quei temi: ma certo, come no! è quel mattoide di Till, lo si riconosce da lontano!

Insomma, sulla natura della musica aveva mille ragioni il tanto vituperato Eduard Hanslick, e se la musica a programma ci può piacere è solo - ed esclusivamente – quando è grande musica di per se stessa, alla faccia del programma!

Seguiamo le avventure del nostro burlone (sulla base dei commenti lasciati da Strauss) insieme al tardo Furtwängler con i Berliner.
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Anche questa, come tutte le storie e leggende, comincia con il famoso c’era una volta... Sono le prime 5 battute suonate dai violini, accompagnati da clarinetti e fagotti. E torneremo appropriatamente a sentirlo proprio alla fine della storia!

Ecco quindi (16”) il primo corno presentare il famoso tema in FA maggiore che dipinge la bizzarra e scanzonata personalità di Till. Tema subito ripetuto, poi variato nella chiusa dall’oboe, quindi dal clarinetto, ancora da fagotti, viole e celli, e infine portato al parossismo da tutta l’orchestra, che lo sigilla con tre schianti sulla sottodominante SIb e sulla dominante DO.

A 1’01” lo sberleffo del clarinetto ci dice che Till era un gran briccone! E subito (1’11”) ci vengono esposti altri motivi che lo caratterizzano. Un passaggio apparentemente innocente (2’28”) introduce la prima avventura del nostro, che attraversa di gran carriera a cavallo un mercato (3’02”) creando pandemonio fra le donne colà presenti, fuggendo quindi con gli stivali delle sette leghe.

Poi (3’25”) il nostro sembra rintanarsi in un nascondiglio, dal quale lentamente emerge per prepararsi ad una nuova bravata: travestito da prete (3’58”) proclama grazia e moralità. Ma la sua vera natura non tarda a rifarsi viva (4’31”) e subito dopo ecco un sinistro presentimento (4’47”, la premonizione) di ciò che gli verrà a costare questo dileggio della religione.

Adesso però (5’13”) il nostro si prepara ad una nuova avventura, questa volta di carattere sentimentale! Ecco quindi (5’19”) Till scambiare galanterie con belle ragazze e addirittura cadere innamorato! Il suo tema (5’41”) nel corno assume risvolti davvero romantici. Ma la ragazza del suo cuore non lo degna di attenzioni e così lui se la prende a morte, come mostra il montare protervo del suo tema, mentre lui giura (6’44”) di vendicarsi contro il mondo intero.

E con chi se la prende quindi? Con professori e pedagoghi (6’54”) rappresentati da un pedante motivo di fagotti e clarinetto basso. Till comincia (7’02”) con spezzoni del suo tema principale e poi del secondo a porre domande pretestuose per mettere in difficoltà i cosiddetti saggi, che rispondono con pachidermica quanto vuota prosopopea, finchè lui non li aggredisce (8’19”) con quattro abbaiate del suo secondo impertinente tema, coprendoli quindi di ridicolo (8’23”) con un gigantesco sberleffo!

Se ne va quindi (8’33”) fischiettando lungo la strada, per poi (8’45”) quasi svanire misteriosamente. Ora segue (9’16”) una pausa di tranquillità, un’oasi di pace nell’esistenza movimentata del nostro, il cui tema principale ritorna però (9’55”) stentoreo e quindi si riproduce continuamente, contrappuntato qua e là dal secondo, fino a sfociare (10’52”) in una grandiosa perorazione in corni e tromboni, con tempi assai dilatati. Successivamente (11’06”) ecco il tema ripreso dapprima quasi saltellando ma poi con un successivo crescendo di agitazione (e contrappunto del secondo tema) che porta ad un‘autentica orgia sonora chiusa (12’07”) dal ritorno tracotante del tema di Till-prete!

È la goccia che fa traboccare il vaso: adesso (12’12”) sarà la giustizia a fare il suo corso, e al povero Till poco serviranno (12’31”) piagnucolose giustificazioni, vanamente opposte ai reiterati, tremendi accordi dell’intera orchestra, trasformatasi in un’inesorabile e inflessibile corte. Torna a farsi sentire (13’21”) anche il tema della premonizione, che introduce le due battute dei fiati (13’40”) che annunciano, con una impressionante caduta FA-SOLb, la sentenza capitale. L’anima di Till se ne va con un ultimo svolazzo velleitario del clarinetto, cui segue la mesta cerimonia della composizione della salma.

Ecco (14’24”): c’era una volta... ripetono gli archi, variando sottilmente ma stupendamente la chiusa del motivo: all’inizio saliva da tonica a sopratonica e mediante (la storia sta per cominciare); adesso scende da mediante a sopratonica a tonica (la storia è finita). Ancora qualche battuta di commiato (14’37”) per ricordare sommessamente il poveretto che ha pagato a caro prezzo la sua sfrontatezza: ma in fondo, sembra dire (15’04”) il suo tema ormai reso innocuo, era soltanto un ragazzo...

Poteva finire qui, invece (15’23”) pare proprio che il bricconcello voglia ancora sbeffeggiare tutti anche dall’aldilà!
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Esecuzione davvero degna di encomio, senza una sola sbavatura, gratificata di unanimi consensi da parte del pubblico che non mostra segni di appagamento. 
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Si chiude la serata con Francesca da Rimini del 1876 che parecchi anni dopo (1914) verrà ripresa in melodramma verista da Riccardo Zandonai. Ma mentre il compositore novecentesco si varrà di D’Annunzio e relegherà Dante sullo sfondo dell’ispirazione originale, ignorando bellamente gironi infernali e connesse trombe d’aria per concentrarsi sulla scabrosa e trasgressiva, modernissima quanto antichissima vicenda terrena, Ciajkovski si cala proprio nella Commedia, per evocarci in musica precisamente i gironi infernali e la punizione meteorologica che laggiù ne subiscono i fedifraghi umani che si macchiarono di colpe contro la più bigotta delle morali...

Per una casereccia analisi dei contenuti del brano (con annesso esercizio di ascolto) rimando i curiosi a questo vecchio post del 2014, mentre riguardo all’esecuzione di ieri dirò che - a dispetto del carattere ostico della partitura - ne è uscita un’esecuzione apprezzabilissima, accolta da lunghi applausi per l’Orchestra e (anche ritmati) per il Direttore. Vuoi vedere che ha fatto anche lui il miracolo di Cana?!   

14 novembre, 2019

Lo strampalato Fidelio svizzero a Bologna


Nella bomboniera del Bibbiena è andata ieri in scena - in pomeridiana - la terza delle sei rappresentazioni della nuova produzione di Fidelio, co-realizzata con l’Opera di Stato di Amburgo, dove è passata all’inizio dello scorso anno non senza contestazioni quasi unanimi (pubblico e critica) soprattutto al regista, ma un poco anche al direttore. E pensare che erano (e sono) la coppia-più-bella-di-Amburgo (Delnon-Nagano): sovrintendente e direttore musicale del Teatro! Come se alla Scala venisse censurata una messinscena di Otello con regìa di Pereira e direzione di Chailly (nulla di più probabile, direbbe qualcuno, haha...)

Domenica scorsa Radio3 aveva irradiato la prima che - ad essere sincero - non mi aveva particolarmente entusiasmato: direzione di Asher Fisch piuttosto incolore e impacciata, e cast mediamente poco sopra il minimo sindacale. Ma si sa che l’ascolto tecnologico è ingannatore: infatti quello dal vivo è stato... quasi peggio (!)

Al Direttore israeliano riconosco un sicuro merito: la scelta dell’Ouverture giusta (ad Amburgo Nagano optò narcisisticamente per la Leonore3) e la rinuncia all’usanza mahleriana di infilare la citata Leonore3 prima del finale. Per il resto, siamo più alla magmatica prosopopea di Wagner (del quale Fisch è obiettivamente un grande esperto) che alla trasparente asciuttezza del Ludovico, ecco. Non sono comunque mancati momenti emozionanti, come il coro del primo atto (Leb wohl, du warmes Sonnenlicht) e lo scioglimento delle catene di Florestan da parte di Leonore (O Gott, welch ein augenblick!Meritevole di elogio anche il finale del coro di Alberto Malazzi.

Note miste (e per me in parte sorprendenti) per le voci. Su tutti il Pizarro di Lucio Gallo, veterano del ruolo che interpreta con il giusto grado di sbifidezza, ma senza esagerare: la voce è sempre potente, anche se non priva di qualche forzatura, però, avercene! Sorpresa negativa la Simone Schneider: voce spesso chioccia in acuto e carente nell’ottava grave; una Leonore francamente sotto le mie aspettative. Al contrario, dopo l’ascolto radiofonico che mi aveva quasi orripilato, il Florestan di Erin Caves mi è parso un altro cantante. Tanto per cominciare: niente stonature; e poi buona proiezione della voce e discreta tenuta fino in fondo. Degli altri, sufficiente la Marzelline di Christina Gansch, che se non altro si fa sentire senza problemi (poi se gli acuti fossero meglio controllati meriterebbe quasi un voto discreto...) Di male in peggio gli altri tre interpreti maschili: inudibile (vocina opaca e anonima) il Jaquino di Sascha Emanuel Kramer; vocione artificialmente gonfiato, cavernoso e sgradevole quello di Petri Lindroos (Rocco) e del tutto privo della necessaria autorevolezza (leggasi: una voce di basso corposa ma morbida) il Ministro di Nicolò Donini. Meglio di loro han fatto i due coristi del Comunale, Andrea Toboga e Tommaso Novelli, voci soliste del gruppo di prigionieri.

Pubblico per nulla oceanico e assai freddo durante lo spettacolo: applausetti a scena aperta solo dopo Ouverture, le arie di Pizarro e Leonore nel prim’atto, l’aria di Pizarro e il duetto Leonore-Florestan nel secondo. Applausi un po’ più convinti per tutti - ma di breve durata - alla fine.
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In compenso (?!) tutto quanto di male era stato scritto in Germania a proposito della regìa si è puntualmente quanto inevitabilmente ripetuto nella ripresa bolognese, giustamente (a mio parere) stroncata in questa autorevole recensione della prima.

Io sarò un po’ meno severo, derubricando l’accusa da quella di lesa maestà a Beethoven nell’altra di semplice velleitarismo e banalizzazione del soggetto, da parte di un regista in cerca di Konzept discutibili (la caduta della DDR, le citazioni da opere di Müller e Büchner più fuorvianti che altro) e di trovate da avanspettacolo (vedasi la Marzelline isterica insidiata da Jaquino e Pizarro mentre si suona la mirabile introduzione all’atto secondo).

Insomma: uno spettacolo francamente modesto, di cui temo nessuno si ricorderà... In ogni caso, chi proprio volesse prenderne visione (con il secondo cast) lo può fare stasera stessa collegandosi con lo streaming del Teatro.

08 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°6


Tocca ad un giovane direttore spagnolo, Josep Vicent, alla sua prima apparizione sul podio dell’Auditorium, dirigere questo concerto che incastona un brano moderno britannico fra due brani otto-novecenteschi russi.

Si comincia con Musorgski e la sua Notte sul Monte Calvo. È sempre la notissima versione orchestrata da Rimski-Korsakov sulla base dell’Intermezzo dell’opera La Fiera di Sorochyntsi, e non sull’originale La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo. Anche se derivate dalle stesse fonti, le due composizioni hanno solo qualcosa in comune, cosa di cui ci si può render conto... ascoltandole (oltre che confrontando le due partiture): qui Rimski con Bernstein e la NYPO; e qui Musorsgki con Abbado e i Berliner.

Purtroppo (per me, almeno) anche stavolta non sono stato accontentato: sì, perchè mi piacerebbe tanto ascoltare le due versioni una appresso all’altra! E vi assicuro che non ci si annoierebbe: pazienza, continuo a sperare... 

Vicent dà veramente la carica del sabba all’orchestra, staccando tempi frenetici che mettono a dura prova la compattezza delle sezioni: ma il risultato è di tutto rispetto e il pubblico (anche qui: pochi-ma-buoni) risponde con convinti applausi.  
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Ecco poi l’intermezzo contemporaneo, con il Concerto per trombone di Michael Nyman, opera del 1995 commissionata dalla BBC in omaggio al grande Henry Purcell (qui e in video successivi la registrazione della prima). Musica tonale (base RE) ispirata ad un’antica usanza medievale (la chiarivari) consistente nel mettere ferocemente alla berlina persone accusate di comportamenti eterodossi: circondandole per la strada e facendole oggetto di un gran frastuono (musica volgare) ottenuto con improvvisate percussioni. Ecco, il concerto evoca questa situazione di totale conflitto fra il solista (= il peccatore) e la massa orchestrale (= la folla sfottente).

Ma in omaggio a Purcell Nyman cita espressamente - in un’oasi di quiete della sua composizione - un motivo della Marcia del Funerale della Regina Mary, prima di proporre anche una manifestazione di musica volgare presa dal calcio: il ritmo di Come on you Rangers, scandito su scatoloni di latta dai tifosi dei Queens Park Rangers alle partite della Premier League!

È la prima parte dell’Orchestra, Giuliano Rizzotto, ad interpretare questo brillante e spiritato pezzo di bravura. Lui fa il suo ingresso quando il Direttore è già sul podio e suona peripateticamente le 18 battute del suo sognante recitativo, interrotto dalle intemperanze della... folla. Poi supera tutte le impervie difficoltà del brano, guadagnandosi scroscianti applausi dal suo pubblico. 

Così, insieme ai colleghi dell’Orchestra ci offre un bis che ci riporta agli anni ’60, Elizabeth Taylor e Richard Burton...
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laVerdi si è cimentata più volte con lo Stravinski dell’Uccello di fuoco, ma credo sia la prima volta che ne presenta la terza Suite del 1945. Dal balletto del 1910 il compositore russo estrasse appunto tre diverse Suites (1911, 1919 e 1945) e poi rimaneggiò la terza ulteriormente nel 1947. A puro titolo di curiosità rimando ad un mio vecchio post che contiene una tabella di riferimenti sui contenuti di balletto e Suites (peccato che parecchi link ivi riportati siano obsoleti: colpa di Internet, ovviamente). Si deduce come la Suite del 1945 sia la più corposa delle tre, più di 30’ contro i 15’ della prima e i 22’ della seconda (il balletto complessivamente dura più di 45’). 

Non è detto però che questa maggior corposità si traduca in efficacia: poichè diverse parti si apprezzano assai in un’esecuzione coreografica, assai meno come musica pura, di cui si fatica a cogliere un fondo di narrativa.

In ogni caso i ragazzi sono stati eccellenti, in ogni reparto, e alla fine a tutti sono andati meritatissimi consensi, consensi estesi al Direttore, che ha diretto il brano à-la-Gergiev, cioè senza bacchetta e mediante sfarfallio della mano destra... Chissà se sia un buon segno!

07 novembre, 2019

Elena scalizia


Ecco quindi arrivata al Piermarini anche questa Die ägyptische Helena snobbata per quasi un secolo... Ma purtroppo ier sera l’ha snobbata anche il vasto pubblico, almeno a giudicare dagli abissali vuoti che presentava il Piermarini. Va detto però che i rari nantes presenti si son fatti in quattro per decretare comunque un franco successo allo spettacolo. Successo il cui merito va equamente distribuito fra tutti: direttore, orchestra, cantanti, coro e team di regìa. Oltre ovviamente a quelli del compreso musico e dell’incomprensibile (?!) poeta.

Parto dal Kapellmeister: Welser-Möst ha mostrato di padroneggiare alla grande questa partitura che sembrerebbe facile all’apparenza, ma che alle divine leggerezze da Rosenkavalier affianca asprezze degne di Salome o Elektra. Un unico personale appunto mi sento di fare al Maestro di Linz: qualche eccesso di decibel che più di una volta ha (quasi) coperto due voci di per sè potenti come quelle dei due protagonisti. Ma in complesso la sua è stata una direzione encomiabile, cui ha fatto riscontro una prestazione lodevole dell’ipertrofica Orchestra, che ha saputo valorizzare le raffinatezze della mirabile strumentazione straussiana.

Trionfatore assoluto della serata il Menelas di Andreas Schager, ormai approdato al traguardo come Heldentenor di razza, che ha saputo domare da par suo un ruolo a dir poco massacrante. Inizio un po’ difficile, con eccessivo vibrato, poi un continuo crescendo fino all’ultimo SI naturale (heilige Sterne) davvero imperioso. 

Ricarda Merbeth ha un gran vocione che esplode negli acuti, peraltro un filino... sfacciati, come dire. Nell’ottava bassa mi pare migliorata rispetto a prestazioni passate (vedi lo scaligero Fidelio). Piuttosto impacciata sul piano attoriale, dove ha forse enfatizzato troppo il suo status di sovrana un po’ pigra.

Molto bene anche Eva Mei, già a suo agio nella lunga ed accorata esternazione che apre l’opera e poi sempre efficace nel suo femminista indaffararsi pro-Helena. Mi pare anche corretto il suo tedesco, grazie alla decennale esperienza iniziata 30 anni fa con Mozart. Pregevole poi la sua prestazione da attrice consumata. La sua vongola (!) Claudia Huckle si è ben portata, pur mostrando una voce non proprio potentissima.

I due buzzurri dell’Atlante su dignitosi livelli: Thomas Hampson è stato un solido Altair, che ha saputo esprimere protervia e libidine senza per questo sconfinare in sguaiatezze. Attilio Glaser ha messo in bella mostra la sua voce di tenore lirico, in una parte per la verità non proibitiva, ma non per questo meno importante.

Su standard più che dignitosi le due ancelle Tajda Jovanovič e l’accademica Valeria Girardello, misuratasi anche come quarto Elfo. Efficaci le presenze impertinenti anche degli altri tre Elfi solisti: Alessandra Visentin e le accademiche Noemi Muschetti e Arianna Giuffrida. La loro collega Caterina Maria Sala ha scolasticamente compitato l’unico verso che canta come Hermione.

Il resto degli Elfi (atto I), i giovinetti e gli schiavi di Altair e le teste di cuoio di Poseidon (atto II) erano impersonati da un gruppo piuttosto sparuto di coristi di Mario Casoni. Gli Elfi e i ragazzi di Altair erano sistemati in quattro palchi di proscenio (dovendo essere quasi sempre invisibili). Pur essendo un impegno non sovrumano, hanno tutti ben meritato.
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Ora, lo spettacolo. Bechtolf e il suo team ambientano questa specie di fiaba ai tempi della composizione dell’opera. La scena è sempre occupata dal gigantesco involucro di una radio a valvole (che appariranno, enormi, nel second’atto) dalla quale arrivano all’inizio le notizie portate dalla vongolona e il cui frontale si apre poi di volta in volta per creare gli spazi della camera nuziale nel primo atto o dell’Atlante nel secondo. Brevi filmati vi corrono sullo sfondo a rappresentare vuoi il naufragio oppure scene di guerra (delirio di Menelao e caccia nel second’atto).

Anche i costumi sono da teatro anni’30. Scarse suppellettili sparse qua e là, ma sempre in modo appropriato e rispettoso delle didascalie del libretto. Assai efficace (l’impacciata Merbeth a parte...) la recitazione dei personaggi, in specie Aithra e Menelas. Moderato l’impiego di figuranti e movimenti coreografici.
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Alla fine tutti applauditi per parecchi minuti (con ovazioni per Schager) da un pubblico di pochi-ma-buoni. E a proposito di pubblico, mi sentirei di suggerire ai melomani di non perdersi questa grande musica; a chi pensasse invece di vedere la guerra di troia... beh: fate almeno un minimo di compitini a casa, ma poi andate e godetevi lo spettacolo! 

02 novembre, 2019

Alla Scala è in arrivo una novità assoluta


C’è sempre una prima volta... mai dire mai, insomma. Ecco, dal 6 novembre la Scala ospiterà - a soli 90 anni di distanza dalla sua apparizione sulle scene! - Die ägyptische Helena, la nona opera (decima, contando le due Ariadne) di Richard Strauss, completata a Garmisch sabato 8 ottobre 1927.

Ma prima che di Strauss si deve parlare di Hugo von Hofmannsthal, il geniale letterato viennese che fornì - sesta di sette volte, sempre contando entrambe le Ariadne - al birraio (per parte di madre) bavarese la materia prima poetica da rivestire di sontuose e mirabili note. E da dove il grande Hugo prese a sua volta lo spunto per il suo libretto? Intanto va confermato che sì, questa Helena è precisamente la mitica Elena di Troia. Meno immediato è però spiegare l’attributo che Hofmannsthal le appiccica nel titolo dell’opera: egizia? Egizia poichè il soggetto tratta dell’arrivo forzato e della permanenza di Elena e Menelao sull’isola egiziana di Etra (poi molto più a ovest, alle pendici dell’Atlante, come minimo nell’attuale Tunisia) ospiti dell’omonima principessa, che è accasata con Poseidon(-Nettuno) ed ha doti soprannaturali, oltre a possedere una gigantesca vongola che ha qualità di veggente. Invenzioni di Hofmannsthal? Non proprio. E allora la prendo alla lontanissima...

A scuola abbiamo imparato (oh, parlo di tempi remoti, oggi non saprei dire cosa si insegni nelle aule...) a conoscere Elena dall’Iliade di Omero (che le più precise ricerche ci informano essere vissuto in un breve periodo che va dal 1100 al 700 avanti Cristo!) In realtà l’Iliade tratta solo degli ultimi giorni della guerra di Troia (in particolare dell’ira di Achille contro Agamennone...) e Omero relega il ricordo del motivo scatenante di tale guerra in pochi versi dell’ultimo libro del suo poema. Dove riferisce del rifiuto di Giunone (, Nettuno) e Minerva a restituire ai troiani il corpo del caduto Ettore, rifiuto motivato dal persistente odio verso Troia delle due dee, a suo tempo offese da quel Paride - giudice monocratico al concorso di miss-Olimpo - che a loro aveva preferito Venere, in cambio dell’accesso alla proprietà della donna più bella del creato (oltre che già accasata...)

L’Egitto? Per Omero nell’Iliade non esiste, ma lo si trova nell’Odissea (Libro IV) dove Menelao, tornato a Sparta e riconciliatosi con Elena, racconta a Telemaco (colà in cerca del padre Ulisse) di esser stato costretto - di ritorno da Troia - a far sosta in Egitto e precisamente sull’isola  di Faro, dove regnava Proteo (un dio del mare tirapiedi di Nettuno, capace di trasformarsi in qualunque cosa e dalle qualità divinatorie) e dove una figlia di costui, Eidothea, lo soccorse, aiutandolo poi a carpire al padre il segreto per riprendere il mare e tornare a casa. Questi particolari cominciano a farci capire da dove Hofmannsthal abbia potuto trarre l’idea per il suo soggetto: l’isola di Etra dell’opera sarebbe quindi Faro; l’Etra personaggio può incarnare Eidothea, mentre sullo sfondo appare anche Poseidon. Sono comunque tutti particolari che riguardano il viaggio di ritorno di Elena e Menelao da Troia.

Ma dal libretto dell’opera scopriamo qualcosa che in Omero è del tutto assente: l’esistenza di due Elene, perbacco! Etra rivela a Menelao che la Elena fuggita a Troia con Paride era in realtà un fantasma (eidôlon) creato dagli dei per salvare Menelao dagli effetti del patto scellerato proposto da Venere a Paride: la vera Elena è sempre rimasta lì, addormentata in un palazzo ai piedi dell’Atlante, in attesa di essere risvegliata da Menelao! Di nuovo: invenzioni di Hofmannsthal? Nossignori. Esiodo (700-600 a.c.) poi Stesicoro (600-500 a.c.) e ancora Euripide ed Erodoto (400 a.c.) - per citare solo qualche nome di aedi della mitologia greca - ci hanno raccontato la storia (anzi più storie) delle due Elene. Per farla breve: dopo aver rapito la donna col favore di Venere, Paride si mette in viaggio (quello di andata, per Elena) verso Troia. Finiscono però a Faro, dove Proteo produce l’incantesimo, consegnando a Paride la fake-Elena (l’eidôlon) e trattenendo presso di sè l’Elena genuina.

Ora va detto però che Hofmannsthal non crede una parola di Esiodo, Stesicoro, Euripide ed Erodoto: nel suo libretto c’è una sola Elena, quella reale, quella rapita da Paride e portata a Troia, e poi recuperata da Menelao dopo 10 anni di assedio. La Elena che Menelao, credendola consenziente e offertasi non solo a Paride, ma anche a fratelli ed amici (l’epiteto che oggi affibbiamo alle prostitute non viene forse da lì?) non riesce a perdonare ed è tentato continuamente di uccidere - nella realtà, sulla nave, ma anche nel delirio provocatogli dagli Elfi di Etra - per punirne il tradimento. L’Autore trasforma genialmente la stravagante storia delle due Elene in un’invenzione della maga, che la usa per convincere Menelao che Elena sia rimasta pura e casta come quando gli fu rapita. E per completare l’opera fa bere ad entrambi i coniugi un filtro dell’oblio, prima di metterli comodamente a letto, sul quale li farà volare ai piedi dell’Atlante (fine dell’atto primo) perchè vi trovino l’ambiente adatto per riconciliarsi pienamente. 

A proposito di incantesimi, Hofmannsthal introduce appunto i due filtri magici di Etra (oblio e ricordo) che paiono a prima vista mutuati da Götterdämmerung. In realtà è ancora Omero, sempre nel Libro IV dell’Odissea, a narrare di filtri dell’oblio e del buonumore versati proprio da Elena nel vino offerto ai suoi visitatori; e poi (Libro IX) a raccontare degli analoghi effetti del loto. Il trattamento che Hofmannsthal fa dei filtri sembra peraltro richiamare in parte anche il Tristan: Menelao (atto secondo) è convinto di bere un filtro di morte, che lo riunirà alla vera Elena, che crede di aver ucciso (atto primo) in preda al delirio; invece - grazie alla coraggiosa decisione della donna di affrontare a viso aperto la realtà - è il filtro del ricordo che ottiene il ritorno e il trionfo dell’amore, suggellato dal ricongiungimento della piccola Ermione con i riappacificati genitori. Un chiaro segno - già esplicitamente emerso dalla FroSch - dell’attenzione degli Autori ai problemi della condizione femminile e del loro riconoscimento del Weibes Wert.

Un’ultima osservazione sul libretto riguarda la presenza sulla scena dei guerrieri di Altair e del giovane Da-ud e la scena di caccia che ne segue. Lo spunto può essere vagamente venuto ad Hofmannsthal dalla lettura di Euripide ed Erodoto, che narrano due (peraltro diverse) storie di scontri di Menelao&C con il popolo di Proteo in Egitto, prima di poter salpare finalmente verso casa. Ma il drammaturgo viennese va assai al di là di questi prosaici dettagli: da un lato la scena gli serve per far rivivere quasi in sogno a Menelao il momento della perdita di Elena (rapitagli mentre lui era fuori a caccia) e i giorni di Troia (Da-ud = Paride); ma anche per proporci una riflessione sulla guerra (...tutti quanti gli altri che per me sono morti senza premio!): non dimentichiamo che Helena nasce proprio a pochi anni dalla fine dell'orrendo massacro della WWI, dalla quale anche i due Autori erano usciti sconfitti...
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Insomma, un libretto mirabile uscito dalla penna (e ovviamente, prima ancora, dalla mente) di un grandissimo letterato; ma un testo difficile da afferrare d’acchito (prova ne sia che i due Autori sentirono il bisogno di produrre sinossi e spiegazioni da distribuire agli spettatori delle prime rappresentazioni) e che può apparire bizzarro, astruso, contorto ed eccessivamente simbolista o... freudiano. Si spiegano forse così le alterne fortune dell’opera, compresa l’indifferenza della quale fu gratificata in Italia, dove arrivò (a Cagliari) solo nel 2001, e ben tagliata!

Un testo che sembra ricalcare - nel consolante finale che riafferma il predominio dell’amore coniugale e dei legami famigliari - le precedenti (e magari più fortunate) esperienze del Rosenkavalier, di Ariadne e della FroSch e in qualche modo anche la successiva Arabella. Concetti che - magari praticati assai più prosaicamente - furono sempre condivisi anche dal compositore.

Ed ecco perciò arrivato il momento di dire due parole sulla musica. Quando l’Helena vide la luce (Dresda, mercoledi 6 giugno 1928) erano passati due anni e mezzo da quel lunedi 14 dicembre 1925 che aveva visto nascere, a Berlino, il Wozzeck di Berg! Per dire quanto duro a morire fu il tardo-romanticismo straussiano, pur minato da ogni parte: dalla tragedia della WWI sul piano dell’attualità dei soggetti da portare in scena, e dalla rivolta espressionista-seriale su quello musicale, che avevano originato, appunto, il Wozzeck. (E Strauss ebbe la forza e la cocciutaggine di mantenersi sempre fedele al modello della sua vita, producendo immortali capolavori anche dopo la nuova tragedia della WWII e il crollo del nazismo, che poco dopo avrebbero aperto la strada alla più masochistica stagione della musica occidentale...)

Nella Helena ritroviamo, si potrebbe dire, il solito Strauss: melodie entusiasmanti costruite col più piatto diatonismo; effetti timbrici straordinari e di grande raffinatezza; orchestrazione lussureggiante senza mai essere opprimente. Insomma, un piacere per l’orecchio, che resta appagato senza dover fare sforzi di comprensione o decifrazione, precisamente il contrario di ciò che si rende necessario riguardo al testo! 

In compenso - e anche questa è di certo una concausa delle non brillanti fortune dell’opera, insieme alle difficoltà di comprensione del soggetto - la partitura richiede la presenza di tre-quattro voci davvero importanti: in particolare poi quelle dei due protagonisti, impegnate allo stremo.

Dell’opera esistono due versioni ufficiali (a parte tutte quelle spurie ottenute tramite tagli dai vari Direttori...): a quella del 1928 Strauss apportò alcune varianti (1933) accogliendo suggerimenti di Clemens Krauss e del regista austro-americano Lothar Wallerstein, che principalmente riguardano il second’atto (cifre 150-162 della partitura). Fra pochi giorni alla Scala i responsabili dello spettacolo saranno Franz Welser-Möst e Sven-Eric Bechtolf, con un cast che si annuncia assai promettente. Stay tuned (...se vi pare).