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11 luglio, 2025

Un bel Trovatore in Auditorium.

Folto pubblico ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler per questo fuori-programma operistico dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretta da Vincenzo Milletarì e accompagnata dal Coro dell’Opera di Parma guidato da Massimo Fiocchi Malaspina. Pubblico anche… ehm, variegato, se nell’intervallo (dopo il second’atto) più di uno spettatore chiedeva alle maschere se il concerto fosse finito lì o continuasse ancora (!)

Due sostituzioni della penultima ora (per i ruoli di Leonora e del Conte) rispetto alla locandina originaria sono state ben assorbite e il risultato complessivo è stato più che lusinghiero, almeno a giudicare dall’autentico entusiasmo – applausi a scena aperta dopo ogni numero (arie, duetti, terzetti) - con cui il pubblico ha accolto tutti i protagonisti dell’impresa.

A cominciare dal Coro parmense, compatto e autorevole protagonista dei numerosi interventi che costellano i quattro atti dell’opera. E poi all’Orchestra, che mostra di non avere timori reverenziali nemmeno nei riguardi del grande Peppino, trovando sempre – grazie a Milletarì – i tempi, le dinamiche, l’espressività e la tracotanza che convivono in questa grande partitura.

Cito un paio di dettagli… logistici: dietro la quinta di sinistra del palco (da dove entravano e uscivano di scena i protagonisti) era sistemata l’arpa che accompagna Manrico nei due interventi da remoto; dietro quella di destra la campana che risuona nel primo, secondo e quarto atto. 

Note generalmente positive per i quattro protagonisti principali. Angelo Villari impersona abbastanza efficacemente un Manrico affetto da amore totalizzante, per la (presunta?) madre e per la donna angelicata, che lo spinge a imprese eroiche dagli esiti contrastanti (monastero-Leonora, Aliaferia-Azucena). Ed anche a maledire l’amata (Ha quest’infame…) per poi maledire se stesso come maledicente (Ed io quest’angelo…) Voce ben impostata, chiara e squillante, acuti solidi. A proposito: la pira? Beh, qui francamente siamo un po’ ai saldi di fine stagione: mutilata dell’esposizione e dell’intervento di Leonora, con i sovracuti apocrifi in… DO SI!

Alessia Panza (che ha preso il posto di Maria Novella Malfatti) è davvero convincente, per morbidezza di voce in tutta la gamma, nei panni di Leonora affetta da amore totalizzante (Tacea la notte placida…) proprio come quello di Manrico, che la spinge a sacrifici estremi (clausura – suicidio). Un particolare trionfo per lei dopo le due arie dell’atto conclusivo.

Ernesto Petti (subentrato a Daniel Luis de Vicente) sfoggia una voce rotonda e potente, capace di tutte le sfaccettature che caratterizzano il Conte dal carattere brutale, ma capace anche di slanci poetici insospettabili (Il balen…)

Silvia Beltrami interpreta la figlia dell’Abbietta zingara, un’Azucena dalla mente disturbata e dissociata, che confonde e mescola figlio e vittima, amore e vendetta, sogni e fatalismo. E lo fa con grande sensibilità ed espressività, sfoggiando una voce corposa in tutta la gamma, mai sconfinante in gratuite sguaiatezze.

I due comprimari si sono pure fatti onore. Adolfo Corrado, un solido e autorevole Ferrando; e Alessia Camarin, una Ines premurosa e comprensiva.

I tre membri del Coro (Gianluca Gheller che dà voce al fido Ruiz; Angelo Lodetti, Un vecchio zingaro; e Marco Gaspari, Un messo) hanno degnamente completato il cast.

In conclusione: esito trionfale e scommessa ampiamente vinta.

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E domenica altro appuntamento verdiano al Castello Sforzesco! 

08 luglio, 2025

L’Orchestra Sinfonica di Milano si dà… all’opera.

Di tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen, Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia verdiana a Piacenza, con Lanzillotta.]

Sul podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio, con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro, che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico, oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.

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Giusto per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno) pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è ancora fargli un panegirico…

Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.

Protagonisti sono due maschi (il Conte di Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la presenza in scena come minimo di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che il baritono sia persona di potere ed anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono. 

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli (salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del Conte.

Invece qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño) è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Quanto all’età dei due al tempo dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata, che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?

Se dobbiamo giudicare tutta la questione dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.

Infine, non è da trascurare l’effetto (su cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito (Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato dettava legge…  

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano) imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei protagonisti!  

Veniamo adesso a qualche critica sulla plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.

Comincio dalla quarta scena della prima giornata di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso) per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino. Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto con cui Verdi va a nozze!!   

La suspense che grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo proprio suo figlio!

E qui abbiamo una delle infinite inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede ingenuamente: e chi son io, chi dunque? Dopodichè accetta come nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare il suo racconto!

Ma subito dopo è proprio lui a raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora: ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un gelido brivido gli scuote le membra… mentre un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”

Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima occasione manderà il Conte al creatore!

Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news, mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare la festa al rivale!

Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.

Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.   

Altro schizofrenico comportamento nella prigione: dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne; quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli (Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!

Gratuita anche la circostanza relativa all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.

Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.

Ecco: il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!  

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DO di petto o SI di frodo?

Non può mancare ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo di mezzo (intervento di Leonora, in DO minore); riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):


battute
agogica
voci
verso
1-32
Allegro
Manrico
Di quella pira…
33-39
Più vivo
 
…e teco almen…
39-49
 
Leonora
Non reggo a colpi
50-81
Allegro
Manrico
Di quella pira…
82-88
Più vivo
 
…e teco almen…
88-124
Poco più mosso
Ruiz-Coro / Manrico
All’armi! All’armi! / Madre infelice
124-131
 
Cadenza orchestrale

La nota più alta toccata dal tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo…)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI!

Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche… adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il Topone e il sommo sacerdote HvK!

A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del truffaldino SI che prepara la cabaletta.

Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!

In memoriam… ascoltiamo invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore Licitra (con Frittoli e il filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì ai DO e SI di petto…] 


14 giugno, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.30 – Tjeknavorian - Hampson

Siamo arrivati all’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano ed Emmanuel Tjeknavorian si congeda dal suo pubblico con un programma (quasi) tutto americano: due brani ispirati dagli USA a compositori europei e uno proprio tutto (latino-)americano.

Prima dell’inizio sui due schermi telati dell’Auditorium compare un doveroso ricordo per il brigadiere Carlo Legrottaglie, caduto in servizio anti-crimine. In platea alcuni suoi commilitoni.

Si parte quindi con George Gershwin e la sua Cuban Overture del 1932, composta dopo una vacanza a La Habana. In Appendice-1 qualche nota ad un’esecuzione di Lorin Maazel a Cleveland.

Trascinante l’esecuzione dei ragazzi, guidati dal gran carisma del Tjek. Applausi e ovazioni da un pubblico addirittura strabocchevole.

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Ecco ora il baritono statunitense Thomas Hampson farsi avanti per interpretare di Kurt Weill il ciclo delle Four Walt Whitman Songs, quattro Lieder composti originariamente (1942) per canto e pianoforte e successivamente orchestrati da Weill con Elly Irving Schlein (1947) e Carlos Surinach (1956).

Su contenuti e ambientazione dei testi di Whitman e in particolare dei quattro musicati da Weill rimando all’Appendice-2. Ecco invece di seguito come Thomas Hampson ha interpretato i quattro canti a Vienna con Russel Davies:

1. Beat! Beat! Drums! Ostinata marcia in LA minore, con i richiami della voce che accompagnano l’azione di tamburi e trombe e salgono sempre, implacabili e stentorei, alla dominante MI.

2. Oh Captain! my Captain! Una dolce melodia in FA maggiore per gioire con il Capitano della vittoria e del felice ritorno a casa. Ma il Capitano giace insanguinato sul ponte e al suo marinaio, mentre il FA maggiore si abbruna progressivamente, non resta che piangerlo, mentre il popolo ancora festeggia.

3. Come up from the fields, father. Il DO minore fa da sfondo dapprima all’evocazione del crepuscolare paesaggio autunnale, poi all’angoscia della madre alla notizia della morte del suo ragazzo, e infine alla sua sconfortata rassegnazione.  

4. Dirge for two veterans. Una marcia funebre serena, dapprima in SOL maggiore, poi degradante a FA, porta padre e figlio, caduti in guerra, alla tomba, dove il SOL maggiore torna per l’ultimo saluto d’amore ai due patrioti. 

Hampson si cala perfettamente nell’atmosfera dei quattro Lied, dove Weill resta ancorato ad un sano diatonismo, solo screziato da sfumature atonali: la sua voce baritonale chiara e rotonda e il suo pathos di raffinato interprete si addicono a meraviglia a questi testi e a questa musica che chiama alla consapevolezza, all’umanità dei sentimenti, all’empatia, in definitiva… all’amore, contro ogni istinto di sopraffazione o di vendetta: e per questo è quanto mai di attualità.

Calorosissima quindi l’accoglienza che il pubblico gli riserva, accomunandolo a orchestra e direttore, che lo hanno supportato al meglio. 

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Il concerto si chiude con l’inflazionata Dal nuovo mondo di Antonin Dvořák, che l’Orchestra conosce come le sue tasche per averla suonata millanta volte.

Ma come ieri sera credo non l’abbia mai suonata in modo così emozionante. Grazie ai ragazzi e ovviamente alla loro guida carismatica. Il Tjek ha tirato fuori il meglio di sé con un’interpretazione, credo, guidata da un’intima condivisione del senso profondo di questa musica. Mi limito a citare il Largo, una cosa, almeno per quel che mi riguarda, mai sentita prima: frasi in pianissimo dei violini da mozzafiato, ricerca di sonorità delicate senza mai sconfinare in gratuite leziosità, uso sapientissimo del rubato, a ulteriormente impreziosire, se possibile, le nobili melodie di Dvořák, che forse solo certo Bellini riusciva a inventare.

Poi, come non citare il mirabile corno inglese di Paola Scotti, il corno di Ceccarelli, il clarinetto della Raffaella, e poi tutti, ma proprio tutti, gli altri compagni di questa Orchestra che si supera ad ogni nuovo cimento.   

Un autentico tifo da stadio, con applausi ritmati e urla belluine ha salutato la conclusione di questa serata davvero magica.

Bene, anzi benissimo. e così ora si comincia già a guardare al 14 settembre, quando il Tjek inaugurerà alla Scala la nuova stagione, alla quale darà lustro con ben 11 presenze sul podio (su 25 concerti) più 4 guide di altrettanti concerti da camera. [Ma laVerdi non va ancora in ferie… e luglio ci darà ancora sorprese.]

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Appendice-1. Cuban Overture.

Ha una struttura vagamente di forma-sonata, con la doppia esposizione di due temi principali, seguita da uno sviluppo che in realtà propone nuovi motivi e infine da una ripresa dei due temi esposti all’inizio. Il tutto chiuso da una coda.

Dopo 5 battute di introduzione di fiati e percussioni ecco violini, oboi e corno inglese esporre (10”) il motivo della famosa canzone cubana Echale Salsita. Contrappuntato da corni e viole con un altro motivo, che si scoprirà essere l’incipit del secondo tema.

Dopo che il motivo è stato reiterato, ecco (35”) farsi largo un accompagnamento leggermente sincopato che prelude all’ingresso (40”) nei corni, corno inglese e violini, del secondo tema, che nel suo sviluppo (dopo l’incipit già udito prima) richiama - sia pur vagamente (46) - la famosissima Paloma (dello spagnolo Iradier, ma chiaramente ispirata a Cuba). 

Dopo che il tema è stato reiterato dall’orchestra, ecco comparire (1’53”) un suo controsoggetto più languido, più avanti (2’29”) contrappuntato dal ritorno del primo tema, che poi si ripresenta (3’04”) a piena orchestra, seguito (3’16”) dal secondo.

A 3’38” è il primo tema a cadenzare, sfumando lentamente e, dopo una scarica di bongos, è il clarinetto (3’47”) che introduce con un breve recitativo la seconda sezione (sostenuto).

Oboe, corno inglese e flauto riprendono il precedente recitativo del clarinetto introducendo un motivo (4’39”) esposto dai violini, che ricorda, pur da molto lontano, quello famosissimo del blues dall’Americano a Parigi. La cosa si ripete a 5’23”. Poi, a 6’00” i violini entrano con un altro motivo che ricorda – anche qui assai di lontano – la jota finale dal Sombrero di DeFalla.

Quest’atmosfera piuttosto dimessa si trascina fino a 7’40”, dove abbiamo una stentorea perorazione dell’orchestra, che conduce (7’56”) all’ultima parte dell’Overture (Allegretto ritmato) dove ritroviamo (8’12”) il primo tema nella tromba e subito dopo (8’19”) il secondo negli strumentini.

I due temi principali sono ora protagonisti del convulso finale, che si chiude (9’48”) con 18 battute di Coda, dove l’orchestra sembra caricarsi e prendere la rincorsa per il balzo trionfale.

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Appendice-2. Testi di Whitman musicati da Weill.

Il poeta-scrittore newyorkese (vissuto nel pieno ‘800) è divenuto famoso nel mondo soprattutto per una corposa collezione di poesie, Leaves of Grass, redatte fra il 1850 e il 1892 (anno della sua scomparsa) e pubblicate, a partire dal 1855, in otto successive e sempre più arricchite edizioni, fino al 1892. Qui una pregevole traduzione italiana, del 1907, con corposa e multidisciplinare presentazione, di Luigi Gamberale, con il titolo di Foglie di erba.

Nel 1865 Whitman produsse una delle periodiche aggiunte alla raccolta, ispirandosi alle vicende della Guerra civile (1861-65) alla quale (pur contrario per principio ad ogni forma di conflitto – era di religione quacchera come la madre olandese) lui partecipò attivamente come ausiliario infermiere, curando indifferentemente e disinteressatamente le ferite di nordisti e sudisti.

Nacque così una nuova sezione del libro, intitolata Drum-Taps (Colpi di tamburo, poi ulteriormente rimpolpata con Sequel to Drum-Taps). Ed è da essa che Weill, ormai da tempo stabilitosi in USA, scelse le quattro poesie da musicare [fra parentesi i riferimenti alla traduzione di Gamberale dei testi originali in lingua inglese]:

- Beat! Beat! Drums! [Battete! Battete! Tamburi! pag.280] Tamburi e trombe di guerra interrompano ogni attività umana, ignorino preghiere e implorazioni materne, zittiscano chi chiede trattative. Un’impietosa e caustica critica della follia che invade il mondo quando le armi si sostituiscono alla ragione.

- Come up from the fields, father [Vien su dai campi, o padre, pag.298] In Ohio l’Autunno comincia a colorare i boschi, le mele sono ormai mature, i grappoli abbondanti pendono dalle viti… Ma arriva una lettera dal fronte, il padre corre dal campo, la madre straccia la busta: il ragazzo è stato ferito, ma sembra migliorare. In realtà, a quell’ora è già morto… E la madre si veste a lutto, non mangia più, non prende sonno: vorrebbe correre dal figlio morto…

- Dirge for two veterans [Canto funebre per due veterani, pag.310] Padre e figlio caduti, insieme, in prima linea. Un degno funerale, con musica e processione. Due fosse attendono le bare. Il poeta può solo offrire… amore.

- Oh Captain! my Captain! [O Capitano, mio capitano, pag.332] La nave è giunta finalmente, vittoriosa, in porto, dopo aver attraversato mille traversie e tempeste. Tutti esultano. Forse anche chi ha assassinato il Capitano (Lincoln, ndr) che giace disteso sul ponte, morto.

Come si vede, sono l’amaro sfogo dell’uomo d’arte e di pace di fronte alle miserie degli uomini di parte e di guerra. Non è quindi un caso che uno come Weill abbia provato grande affinità elettiva per questi versi e per il loro autore.


31 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.28 – Tjeknavorian - Müller-Schott

Per il terz’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Emmanuel Tjeknavorian ci mette in tavola un menu costituito da due piatti del tardissimo ‘800: lo Dvořák del 1894 e il Sibelius del 1898. Auditorium non proprio esaurito, ma quasi, e sempre pieno di entusiasmo. In platea Oreste Bossini racconta il concerto per Radio3.

La serata si apre nel nome di Jan Sibelius, con la sua Prima Sinfonia, cui il 34enne compositore si volse proprio sul finire del secolo dopo aver composto diversi poemi sinfonici a sfondo nazionalistico-patriottico. Il suo fu un approccio innovativo sia rispetto a Ciajkovski (cui peraltro fu debitore) ma anche rispetto a Mahler, del quale non condivideva l’idea di impiegare la sinfonia per raccontare l’universo.

E questa Prima in effetti sembra rifarsi al sinfonismo classico, sul quale innestare elementi della tradizione musicale del suo Paese. In Appendice riporto una succinta guida all’ascolto, basata su un’esecuzione di papà Loris con i suoi filarmonici armeni nel 1997, quando il piccolo Emmanuel aveva sì e no un paio d’anni…

Per l’Orchestra è la prima esperienza con questo lavoro non proprio conosciutissimo e meno ancora eseguito, così il Tjek (sempre a memoria!) la guida da par suo, mettendo in risalto non solo i suoni, ma anche i silenzi lunghi e brevi (rappresentati in partitura da corone puntate e apostrofi di respiro).

Così ne esce un risultato mirabile, che ridà un meritato lustro a questo Sibelius francamente troppo snobbato dai modernisti con la puzza al naso.

Dopo la chiusura con i sommessi pizzicati degli archi il Tjek tiene ancora una decina di secondi di silenzio, poi inutile dire dell’accoglienza trionfale che accomuna Kapellmeister e Musikanten.

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Ha chiuso la serata un compagno di… sonate del Tjek, il 49enne Daniel Müller-Schott con il suo violoncello, impegnati nel Concerto op.104 di Antonin Dvořák. Qui vediamo una pregevole esecuzione di Daniel in terra danese con Kitajenko.

Il suono del violoncello di Müller-Schott (Goffriller 1727) è di assoluta purezza, cosa che avrebbe stupito lo stesso Dvořák, che non aveva mai nascosto la sua idiosincrasia per quello strumento, considerato piuttosto rozzo proprio nella qualità sonora (!?) Ma certo il merito è anche dell’esecutore, dalla tecnica trascendentale e dalla sensibilità sopraffina. Il Tjek (eccezionalmente con la partitura sotto gli occhi) lo ha assecondato al meglio, avendo con lui, come detto, una consuetudine di lunga data.

Qualche neo purtroppo si è manifestato in orchestra, dalla zona dei corni (citiamo il peccato e non il peccatore) che non consente di giudicare perfetta questa performance.

Ma alla fine non impedisce il manifestarsi di acclamazioni e ovazioni da parte di un pubblico in delirio, ripagato con un prezioso e accorato bis, seguito da un ultimo trionfale omaggio per tutti.   

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Appendice. La prima sinfonia di Sibelius

Inizia con un’Introduzione lenta (à-la-Haydn… Andante ma non troppo) in MI minore con inflessi modali. È un languido recitativo del clarinetto (21”di cui si ricorderà Nino Rota per il suo Padrinosul tappeto in SI del timpano che getta musicalmente le basi per i temi che compariranno nel seguito.

Segue l’Allegro energico (1’33”) dalla struttura di forma-sonata eterodossa, principiante nella tonalità relativa di SOL maggiore con esposizione di un primo tema che si anima nel dialogo fra archi e fiati, che conduce ad un crescendo sfociante (2’41”) in un generale accordo sulla sesta abbassata di MIb, seguito da uno in MI naturale, poi ancora in FA e poi in FA# per sfociare (2’47”) ancora in SOL maggiore, dove il tema è reiterato a piena orchestra e poi ancora ribadito (3’09”) nella sottodominante DO maggiore.

Da qui un subitaneo passaggio a SI maggiore apre la strada al secondo tema (3’30”) protagonisti gli strumentini con sereni svolazzi; poi (4’29”) l’atmosfera si abbruna a SI minore, dove ancora i legni si slanciano in un furioso crescendo – pare lo Scherzo della nona beethoveniana… - che si spegne (4’50”) in modo traumatico. Tre semiminime di SI pizzicato degli archi chiudono di fatto l’esposizione.

Il lungo sviluppo – in realtà appare come un intermezzo che porta alla luce muovi motivi - inizia (4’55”) ancora in SI maggiore, con un momento di calma in LAb (5’30”) seguito da un lungo passaggio caratterizzato da successive scale discendenti e poi da un magmatico crescendo (6’23”) che sfocia maestosamente (7’25”) in SOL maggiore, con una nobile perorazione degli archi, che porta all’eterodossa ripresa del primo tema, che ascoltiamo (8’10”) dopo il convulso crescendo.

In tempo Tranquillo (9’01”) ecco il ritorno a MI minore che introduce la coda, culminante (10’09”) in una melodrammatica cadenza in fortissimo, chiusa da due accordi in pizzicato degli archi. 

Il secondo movimento è un Andante (ma non troppo Lento) nella distante tonalità di MIb maggiore. I violini (10’53”) espongono la prima parte del languido tema principale, costituita da due sezioni, la seconda ripetuta. Ora (12’02”) i fiati, poi supportati da viole e celli, rispondono proponendo la conclusione del tema.

I fagotti (12’25”, Un poco meno andante) – seguiti poi dagli altri legni - intonano ora una triste melopea in SOL minore che poi si trasforma (12’58”) in un accorato appello, costituito dall’incipit del tema principale seguito da dolorose cadute chiuse da una pesantissima discesa di quattro ottave, fino al FA sotto il rigo di basso.

Ora (13’55”) una transizione sul DO minore caratterizzata da sestine ribattute di flauti e oboi ci conduce alla sezione centrale del movimento (14’24”, Molto tranquillo) una specie di oasi in LAb maggiore, con tanto di esternazioni ornitologiche degli strumentini. La cui visione sfuma (15’33”, Adagio) per lasciar subito posto al ritorno del tempo primo e all’atmosfera della precedente sezione, in DO minore e poi in SOL minore, che una fugace riapparizione del LAb (17’37”) cerca invano di contrastare.

Attacca quindi un vorticoso crescendo (Poco a poco stringendo) che conduce ad un climax in cui si distinguono pesanti strappi dell’orchestra, finchè (18’52”) in DO minore esplode una delle varianti del tema principale (Ciajkovski? Wagner?) che poi (19’07”) sfuma nel MIb d’origine portando ad una serena conclusione di questo viaggio tormentato.

Ecco poi lo Scherzo, tonalità DO maggiore, classicamente ripartito A-B-A (Scherzo-Trio-Scherzo). Di stampo vagamente bruckneriano, nel piglio da moto perpetuo. Sul pedale ostinato di viole e celli sono i timpani (DO-SOL) ad annunciare (20’52”) il motto dello Scherzo, subito imitati dai violini. Corni e legni (20’55”) ne espongono il tema scalpitante che vaga in orchestra fra svolazzi di strumentini, sestine di celli e folate ascendenti e discendenti dell’arpa. Dopo un passaggio più disteso degli archi, torna il motto (21’42”) ad aprire una nuova sezione dello Scherzo, culminante (22’00”) in volate di legni e poi di archi, sempre innescate dall’incipit del motto.

Si arriva così (22’35”) al classico Trio, Lento (ma non troppo), in MI maggiore, aperto, ancor più classicamente, dai corni. Poi (22’59”) è il flauto ad esibirsi in un cullante motivo impreziosito da trilli; ancora una pausa (23’30”) e i legni riprendono il motivo di attacco de Trio, poi raggiunti dagli archi che si dilungano sulla dominante SI. Il ritorno al Tempo I preannuncia la conclusione del Trio, sancita da veloci scale discendenti degli archi, chiuse sul DO.

Riecco quindi (24’33”) ripresentarsi lo Scherzo nella sua interezza, chiuso da una perentoria coda, protagonista il motto.

Il Finale reca tra parentesi la dicitura (quasi una Fantasia). Ed in effetti la sua struttura è abbastanza… fantasiosa, per lo meno rispetto ai sacri canoni classici, consistendo in due temi principali (tipo forma-sonata) che vengono dapprima esposti e successivamente poi ripresi e variati, di fatto sviluppati.

La tonalità è ovviamente in MI minore e il movimento Inizia (25’50”) con un’Introduzione in tempo Andante, come già il primo. E da quello mutua subito il motivo di apertura della Sinfonia, esposto dagli archi, ai quali rispondono i flauti con la frase chiusa dai corni e fagotti sull’accordo di SI minore e ancora oboi e poi flauti e clarinetti con corni e fagotti a chiudere in SOL minore.

In tempo Meno andante (27’34”) celli e bassi chiudono l’Introduzione preparando il terreno all’Allegro molto dove presto compare (28’08”) nei bassi e nelle viole il primo tema, agitato e poi dilagante in orchestra, fra archi e fiati che si rincorrono, in un continuo crescendo (Poco a poco più Allegro) fino a raggiungere, dopo cinque schianti poderosi, un climax (29’04”) su un RE acuto, dal quale i violini precipitano fino ad un SI sotto il rigo.

È arrivato il momento (29’19”, Andante assai) di conoscere il secondo tema, una nobile melodia nel solare DO maggiore, intonata dai violini, che si distende ulteriormente (30’21”, Poco a poco meno Andante) fino a chiudersi (31’06”) con gli strumentini.

Inizia ora lo sviluppo del primo tema (31’18”, Allegro molto, come prima) che sembra travolgere tutto, fino ad un climax (32’08”) da cui subito riparte ancor più vigoroso (Poco a poco più Allegro) e quindi (32’37”) si fa sempre più ostinato, con schianti successivi che portano finalmente (32’54”) ad un progressivo acquetarsi dell’atmosfera, presagio dell’arrivo (33’06”) in tempo Andante (ma non troppo) dello sviluppo del secondo tema.

Che ora torna in LAb maggiore, poi trascolora a REb, ancora a SOLb e poi a SI maggiore (34’26”) dove a lungo si distende maestoso, fino poi (36’55”) a scendere sul MI della finale apoteosi, chiusa - dopo tre schianti in MI minore dell’intera orchestra, come accadde al primo movimento - con due pizzicati degli archi.