XIV

da prevosto a leone

15 maggio, 2025

Chailly-Brook fanno trionfare Weill-Brecht alla Scala

Dopo il Dittico del 2021 in piena era Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.

Come allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre si perde quella di Harris.

Irina Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford) con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali che caratterizzano proprio i giorni nostri.

Il finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua utopia…

Si parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti diversi (danzatori e cantanti).

Completato da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni, rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali. 

Magari dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in tutti i peccati capitali!

Un aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto) su temi politico-socio-etico-esistenziali.

Bene, Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena (sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento. Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri componenti della famiglia delle ragazze. Una multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di… rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della natia Louisiana.

Vi vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!

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Con Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures americane.

Tre delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares), testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!

La scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio, praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate. 

Emblematica la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?) 

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Dopo l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo – in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì sogna di approdare l’anima dell’Uomo.

Irina Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio. Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi, come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che interpretano le canzoni, più altre sei comparse.

La chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?

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La musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo stilare classifiche e dare voti.

Un’osservazione mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.

Niente da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro, che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con una propria, personale sensibilità swing

Forse temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico neo in una prestazione di eccellenza.

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Pubblico non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique Meyer.

10 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.25 – Varga-Goerner

Dopo il lungo intervallo pasquale, riprende la stagione con questo concerto impregnato di Ungheria, ma con un intermezzo di italico romanticismo.  È ungherese il 73enne Direttore, Gilbert Varga, figlio d’arte, e ungheresi sono tre dei quattro compositori eseguiti.

Si parte con Threnos, breve brano di Sándor Veress, composto nel 1945 a pochi mesi dalla morte di Béla Bartók e a costui quindi dedicato.

La struttura del brano è tripartita: a due sezioni che presentano – nello stile del folklore popolare - altrettanti canti di lamentazione funeraria, con crescendo di dolorosa intensità seguiti da repentine e disperanti cadute di tensione, segue la parte conclusiva, che riprende temi delle due precedenti per muoversi su un lungo arco che sale e poi scende lentamente verso una rassegnata serenità.

A dispetto della sua brevità, il brano è una costruzione assai complessa, sia dal punto di vista melodico che armonico, come eloquentemente spiegato in questo dettagliato studio di Miklós Fekete dell’Università di Cluj-Napoca (scaricabile previa iscrizione al sito).

Altre caratteristiche peculiari del brano sono la sua poliritmicità e politonalità e la frequente alternanza di metro ad evocare le sconfortate lamentazioni in ricordo del defunto.

Varga dirige con gesto prevalentemente composto, con qualche cedimento ad enfasi e platealità. Ma sempre con squisito stile… austro-ungarico. Comunque, a giudicare dal tributo riservatogli dall’orchestra alla fine del concerto, si direbbe che sia piaciuto anche ai suonatori, oltre che al pubblico.

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È poi la volta di Nelson Goerner, 56enne pianista argentino, di sedersi alla tastiera per interpretare il celeberrimo Primo Concerto di Franz Liszt. (Qui alcune mie note in proposito).

Prestazione di alto livello (qualche leggera svirgolata è sempre da perdonarsi in brani come questo, che hanno passaggi invero impervi). Equilibrato impego del rubato, grandiosità delle perorazioni (gli strepitoso che costellano la partitura) e un costante ottimo amalgama con l’orchestra sono alcuni aspetti rimarchevoli della sua interpretazione. 

Accolta con entusiasmo dal pubblico discretamente folto dell’Auditorium, che Nelson ripaga con Rachmaninov (il quarto dei dieci Preludi dell’op.23, qui a 7’29”). 

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Un altro brano breve apre la seconda parte della serata, interrompendo momentaneamente il percorso tutto magiaro del concerto: è il Notturno n°1 di Giuseppe Martucci, versione orchestrata nel 1901 dal compositore dall’originale per pianoforte composto dieci anni prima.

Brano tipicamente tardoromantico, dalla struttura assai semplice (tonalità SOLb maggiore con divagazione alla sottodominante DOb) che richiama atmosfere oniriche, un po’ decadenti o nordiche, che si ritrovano in analoghi brani di Liadov, Sibelius, Grieg… ecco. 

L’orchestra davvero smagrita (per dire, 10 soli fiati: 4 legni e corni a 2) ne ha efficacemente messo in risalto le qualità delicatamente miniaturistiche.

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La serata si chiude proprio con Bartók, di cui ascoltiamo la Suite da Il mandarino meraviglioso (o miracoloso che dir si preferisca, traducendo il nativo csodálatos).

Suite che in realtà presenta buona parte della musica dell’originale Pantomima (poi trasformata in Balletto dopo l’ostracismo subito a seguito delle prime rappresentazioni del 1929) come chiarisco nella tabella in Appendice, che mostra come la Suite sia stata derivata per semplice sottrazione di tutto il movimentato (ma poi… trasfigurante) finale. Intelligente la decisione di proiettare sui due schermi che sovrastano il palco i testi (inglese e italiano) delle didascalie originali che in partitura segnalano i tratti salienti dell’azione che ispira la musica.

Dove, nell’introduzione, si evoca il logorio della vita moderna (copyright Cynar…) e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti della ragazza, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui. Asfissiante la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) che chiude la Suite con gran trambusto e fracasso (l'integrale della Pantomima chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba). 

Gran trionfo per Varga, che ha l’ha diretta a memoria, e per l’orchestra tutta che, aizzata con… il piede dalla spalla Dellingshausen, spinge il pubblico ad un applauso ritmato per il Direttore, che ringrazia tutti e in particolare le prime parti, chiamate a difficili interventi solistici. Insomma, una bella serata di musica. 

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Appendice. Il Mandarino di Bartók.

Pantomima (Balletto)
Suite
Tempo
Azione
Allegro
Introduzione strumentale - Sipario
 

 

Il 1° malvivente rovista le sue tasche in cerca di denaro… senza successo. Non trova nulla.
Il 2° malvivente cerca nel cassetto del tavolo. Non trova nulla.
Il 3° malvivente si alza dal letto, va verso la ragazza e le ordina di affacciarsi alla finestra e di adescare i passanti, che verranno poi derubati.
Meno mosso
La ragazza si oppone. I tre malviventi ribadiscono l’ordine.
Eliminato (14 battute)
Vivo; Moderato
La ragazza si arrende e va ciondolando alla finestra.
 
Rubato
Primo adescamento. Si fa vivo un uomo.
Più mosso
Sale le scale. I malviventi si nascondono.
Comodo; Più lento
Si fa avanti un vecchio e trasandato cavaliere, con movenze comiche.
Comodo; Lento
La ragazza: hai denaro? Il vecchio cavaliere: il denaro è irrilevante. Essenziale è l’amore! Si fa sempre più invadente.
Vivace
I tre malviventi balzano fuori dal nascondiglio, afferrano il vecchio cavaliere e lo scaraventano fuori. Si volgono arrabbiati alla ragazza e la obbligano a tornare nuovamente alla finestra.
Più mosso
Secondo adescamento. La ragazza scorge ancora qualcuno. (I malviventi si nascondono.)
Sostenuto; Più mosso; Ancora più mosso
Un timido giovane si affaccia alla porta. Fatica a mascherare l’imbarazzo. La ragazza lo accarezza per incoraggiarlo e intanto gli palpa le tasche (non ha un soldo).
Allegretto
Lo tira a sé e inizia una danza dapprima quasi timida.
Più mosso
La danza si fa più agitata e appassionata.
Vivace
Ma i malviventi saltano fuori, afferrano il giovane e lo sbattono fuori. Si volgono alla ragazza: Sii dunque ragionevole. Procuraci un uomo adatto.
Sostenuto; Agitato
Terzo adescamento. Si scorge con raccapriccio sulla strada una figura poco raccomandabile. Lo si ode salire le scale. I malviventi si nascondono.
Maestoso
Il Mandarino si fa avanti. Resta come immobile sulla porta, la ragazza fugge inorridita nella parte opposta della stanza.
Non troppo vivo
Spavento generale. I tre malviventi accennano di nascosto dal loro nascondiglio alla ragazza di iniziare ad avvicinarsi un poco al Mandarino per ammaliarlo. La ragazza vince il proprio ribrezzo e grida al Mandarino:
Eliminato (41 battute)
Meno mosso
Vieni più vicino! Perché te ne stai lì così immobile a fissarmi? Il Mandarino fa due passi. La ragazza: Più vicino! Siediti sulla sedia.
Tranquillo
Il Mandarino si siede.
Vivo; Meno vivo
La ragazza è indecisa. Torna ad inorridire. Alla fine vince la sua ritrosia e inizia timidamente una danza.
(A poco a poco la danza, accompagnata da una musica adeguata, audacemente…    
Lento
… culminerà alla fine in danza selvaggiamente erotica.) Durante la danza il Mandarino guarda fissamente la ragazza in modo che il divampare della sua passione diventa percettibile.
 
Allegretto; Adagio; Valse; Allegro
La ragazza abbassa il petto verso il Mandarino. Lui comincia a fremere in febbrile eccitazione.
Più allegro
Però la ragazza rabbrividisce al suo abbraccio… vuole staccarsi da lui…
Sempre vivace; Marcatissimo
…ciò che finalmente le riesce. Comincia ora una caccia sempre più selvaggia da parte del Mandarino alla ragazza che continua a fuggire.

Sempre vivace

Il Mandarino inciampa, ma si rialza di scatto e prosegue la sua caccia ancor più selvaggiamente. Raggiunge la ragazza. Lottano l’un contro l’altra.
14 battute in più solo per la Suite, che termina qui.
Sempre vivo
I malviventi saltano fuori, bloccano il Mandarino, lo trascinano lontano dalla ragazza. Gli strappano i gioielli e il denaro. Dopo che è stato depredato, si sente dire: Cosa ce ne facciamo adesso?

Maestoso
Dobbiamo ammazzarlo, soffocarlo nel letto sotto i cuscini! Viene trascinato verso il letto e quivi gettato…  
Pesante
…ricoperto di cuscini, coperte, e di qualunque altro oggetto pesante. Uno dei malviventi gli si siede persino sopra.
Più sostenuto
Si attende qualche istante. Poi il malvivente scende dal letto. Tutti e tre si allontanano un poco. Ora dovrebbe essere soffocato!
Adagio
Improvvisamente la testa del Mandarino emerge dai cuscini, lui guarda ardentemente la ragazza. Le quattro persone inorridiscono, restano lì sconvolti.
Più mosso; Allegro molto
I malviventi riflettono. Afferrano il Mandarino, lo trascinano fuori dai cuscini e lo tengono ben stretto. Si chiedono come poterlo uccidere.
Vivacissimo
Uno dei malviventi ha un’idea, cerca una vecchia spada arrugginita e la immerge per tre volte nel corpo del mandarino.
Ritenuto; Vivo; Meno mosso
Lasciano libero il Mandarino trafitto… lui barcolla, incespica, sembra quasi crollare, ...
Lento
…improvvisamente si rimette ritto e si getta sulla ragazza.
Agitato molto: Lento
I tre malviventi glielo impediscono e lo afferrano ancora saldamente. Il Mandarino immobilizzato guarda ardentemente verso la ragazza.
Agitato
I malviventi spaventati si domandano nuovamente come potersi liberare del Mandarino.
Più mosso
Impicchiamolo!
Grave
Trascinano il Mandarino recalcitrante al centro della stanza e lo impiccano al lampadario.
Più lento e rallentando
La lampada cade a terra.
Molto moderato
Il corpo penzolante del Mandarino comincia ad illuminarsi di verde e azzurro; i suoi occhi sono fissi sulla ragazza. I tre malviventi e la ragazza guardano il Mandarino pieni di terrore. Finalmente la ragazza ha un pensiero risolutivo. Fa segno ai tre malviventi: Tirate giù il Mandarino. I tre malviventi esaudiscono la sua richiesta.
Più mosso
Il Mandarino cade al suolo e si rovescia verso la ragazza.
Vivo; meno vivo
La ragazza non gli si oppone più, entrambi si abbracciano.
Lento
L’anelito del mandarino è ormai placato, le sue ferite incominciano a sanguinare, diventa sempre più debole e muore.
 

28 aprile, 2025

Filidei alla Scala: debutto con applausi e contestazioni

Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima assoluta de Il nome della rosa, opera che il Teatro ha commissionato a Francesco Filidei, che ha predisposto – con Stefano Busellato (e altri) - anche il libretto, derivandolo dal romanzo di Umberto Eco.

Parto dalla fine. Applausi convinti per i cori di Malazzi e Casoni, poi per i singoli cantanti. Sembra un trionfo, ma quando tutto il cast si affaccia in parata al proscenio ecco piovere dal secondo loggione una salva di buh, che poi si estende anche all’uscita del team registico e dello stesso Filidei. Insomma, un debutto piuttosto contrastato.

Parliamoci chiaro: la musica di Filidei non è propriamente un dolce rosolio, peccando forse di velleitarismo e di eccessiva cerebralità: la struttura cosiddetta a frattali, con le 24 scene che esplorano in andata e ritorno l’intera scala cromatica è di difficile comprensione, poiché gli scarti di tonalità, che sarebbero già difficilmente avvertibili se le linee melodiche e armoniche fossero di natura diatonica, diventano un grammelot se sono a volte improntate ad atonalità, altre a serialità e quasi perennemente infarcite di dissonanze e rumorismo.

Insomma, musica troppo artefatta e quindi fredda agli occhi orecchi di un pubblico che fatica a raccapezzarcisi. Aggiungiamo che il canto è spesso pura declamazione, se non puro parlato, e così si può spiegare la reazione negativa di parte del pubblico, di cui hanno fatto le spese in blocco i componenti del cast che singolarmente hanno invece dato il massimo e personalmente mi sento di accomunare in un generale elogio, da estendersi poi alla compagine orchestrale e al Direttore Metzmacher che l’ha guidata con polso fermo e sicuro.

Quanto all’allestimento, Michieletto (con il suo team) ha risolto da gran maestro di teatro tutti i problemi che la messinscena di un simile soggetto comporta. Mi limito a citare alcune intuizioni davvero geniali che caratterizzano il suo spettacolo, complessivamente di alto livello.

Dapprima, la presentazione della scena di apertura (il portale della Chiesa) mostrato non (come si potrebbe pensare) come un tableau vivant, ma come un enorme bassorilievo che progressivamente si anima con la fuoriuscita dei personaggi ivi scolpiti, ad evocare e rappresentare mirabilmente lo sconcerto e l’ammirazione insieme dello stupefatto Adso, mentre il coro canta versi dell’Apocalisse.

Poi una specie di enorme Dama con il liocorno, nel cui grembo va a sdraiarsi (al posto dell’animaletto) il conturbato Adso. E ancora la scena finale del primo atto, davvero geniale nel coniugare le due essenze della Ragazza: quella erotica e sensuale, che esce dal collo mozzato della testa di un enorme bue - trascinato dai sei personaggi dolciniani con teste d’animali - dal quale poi l’essenza umana e miserevole della stessa ragazza estrarrà l’enorme cuore.

E che dire della drammatica presentazione della morte di Malachia, che nel testo è descritta in tre parole, mentre noi la vediamo proprio come si materializza nell’incubo del povero bibliotecario, suggestionato da Jorge con la visione degli scorpioni che lo divorano!

E poi la resa (impossibile da ottenere se si dovesse seguire pedestremente il testo) della morte di Abbone, progressivamente imprigionato da due blocchi di pietra che lentamente si stringono al suo corpo, sospinti da Jorge!

E infine la scena conclusiva, con i tronconi del velario del labirinto che crollano al suolo mentre la croce si incendia e Guglielmo e Adso si congedano, prima che la visione della donna (nelle sue due espressioni) chiuda il dramma, con i contrabbassi che esalano, dopo il DO che ciclicamente ci riporterebbe all’inizio della storia, quel DO# nel grave che prefigura una nuova (?) vita.

Ecco: in sintesi, uno spettacolo di alto livello, che a mio modesto avviso va apprezzato per la nobiltà delle intenzioni degli autori e la professionalità degli esecutori.


24 aprile, 2025

Eco in musica alla Scala

La stagione scaligera 24-25 ha il privilegio particolare di offrire al pubblico la prima assoluta di una nuova opera (quasi) tutta italiana: a parte il Concertatore (Metzmacher) sono italiani l’ispiratore (Eco), il compositore-librettista (Filidei) e il regista (Michieletto).

[Stante la natura anche esoterica del romanzo, si può osservare come esista un legame, appunto… cabalistico, fra il cognome del compositore e un’esternazione che Eco mette in bocca a Salvatore: Filii Dei, sono! riferita ai poveri abitanti del villaggio che il vice-cellario rifornisce sottobanco di cibarie.]

Il romanzo di Umberto Eco compie precisamente 45 anni e la sua fama è stata ingigantita dal fiorire di trasposizioni cinematografiche, teatrali, televisive. Oltre che da una serie di Postille, che l’Autore pubblicò pochi anni dopo il romanzo, in cui fornì dettagli sullo stesso titolo, sulle ragioni dell’ambientazione (tardo-, e non alto-) medievale, sulla stagione in cui si dipana la vicenda, dalla quale dipende nientemeno che il luogo in cui si svolge… E poi da chi far narrare la storia (Adso e non… Umberto?) e come corredarla di dettagli, anche apparentemente barbosi, ma utili a far calare il lettore nello scenario altrimenti gratuito cui si riferisce la narrazione.

E tante, ancora tante altre profondissime considerazioni, incluse quelle sulle caratteristiche di thriller del romanzo. Ma un thriller che va ben oltre il classico stereotipo del tipo ma chi sarà il serial-killer? Che infatti c’è e non c’è, e comunque fa lui stesso una pessima fine!

E infine, lo Sherlock Holmes medievale, giustamente arrivato dalla Baskerville Hall di Conan Doyle, e di cui Adso ci sembra impersonare l’aiutante dott. Watson… Ma Guglielmo, essendo Inquisitore del Sacro Romano Impero, si occupa specialmente di reati che hanno a che fare con la Religione, proprio come il suo collega Bernardo Gui, che opera nel campo nemico, ad Avignone. Ed ecco allora che il romanzo si dilunga su (o si arricchisce di?) una copiosa dote di concioni di carattere metafisico, o secolare travestito da tale. Che finiscono quasi con il trasformare il thriller in una disputa tutta politico-religiosa fra le due fazioni principali (Papa e Imperatore) affiancate da ordini monastici (Domenicani e Francescani/Benedettini).

Detto ciò (e molto altro ci sarebbe da dire) la domanda che viene spontanea è: l’opera musicale di Filidei (con la direzione di Metzmacher e la regìa di Michieletto) cosa ci dirà di quella di Eco? Si fermerà (come il film con Sean Connery) al thriller (cioè alla superficie) o saprà spingersi oltre, in realtà un po’ più in alto?

Una prima risposta alla domanda ci è stata fornita dallo stesso Autore, intervenuto giorni fa alla consueta conferenza Prima delle Prime, spalleggiato dal musicologo Gianluigi Mattietti. Ed è una risposta rassicurante, nel senso che Filidei ha dichiarato di aver voluto portare nella sua opera tutti i diversi aspetti del romanzo, pur con le costrizioni che caratterizzano sempre operazioni di questo tipo. Ha suddiviso lo spettacolo in due Atti, con l’intervallo posto poco prima della fine del giorno 3, cioè dopo il romantico-erotico incontro di Adso con la ragazza innominata. Ciascun atto comprende 12 sezioni, rispetto ai 50 capitoli del romanzo, con parecchie simmetrie musicali che Filidei ha cercato di spiegare anche meglio in un’altra illuminante intervista rilasciata al canale youtube di Mario Calabresi.

La figura sottostante (che ho predisposto interpretando liberamente lo schema proposto da Filidei sul programma di sala) schematizza la macro-struttura dell’opera in termini squisitamente musicali: abbiamo le 24 scene, divise nei due atti, supportate dai 12 suoni della scala cromatica, che nella prima parte si muovono a ventaglio, come indicato dalle frecce, dal DO al FA# e nella seconda retrocedono dal FA# al DO, dove però un’ultima, faticosa salita al DO# (Filidei la sottolinea nelle due citate esternazioni, ma non la disegna nello schema pubblicato) sembra voler riaprire il discorso…

Insomma, un costrutto squisitamente… musicale (nel senso scientifico del termine). Staremo a vedere il risultato, se cioè si potrà dire che questa musica di Filidei sappia poetizzare l’intelletto (copyright Thomas Mann su Wagner).

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Il libretto dell’opera ci permette di fare qualche considerazione riguardo l’approccio seguito da Filidei&C nella predisposizione del soggetto. Una di queste, ad esempio, riguarda la gestione delle numerose narrazioni che innervano il testo di Eco: racconti che il narratore (Adso) ci fa di fatti e/o di risposte che lui, o il suo capo Guglielmo, hanno ricevuto da personaggi che si muovono nella vicenda. Come presentare queste situazioni?

È chiaro che sarebbe stato ridicolo replicare questa modalità in modo pedestre: chè allora i personaggi dell’opera si sarebbero ridotti al narratore ed al suo capo, se non addirittura al solo narratore. L’ovvia alternativa è stata di limitare al massimo (se non proprio di togliere di mezzo) gli interventi del narratore e far direttamente parlare (=cantare) i personaggi narrati. Ed infatti la locandina ci presenta 17 interpreti di 20 personaggi. Ecco una tabella che sommariamente ne inquadra le caratteristiche e le voci (i personaggi colorati sono gli ospiti temporanei (come Guglielmo e Adso) del monastero benedettino, arrivati per un incontro di natura diplomatica fra rappresentanti del Papa e dell’Imperatore: in giallo i primi, in verde i secondi):

Filidei ha ignorato alcuni personaggi che popolano la vicenda narrata da Eco: alcuni sono effettivamente poco influenti, come Giovanni Dalbena, membro della delegazione papista (che figura nella locandina web, mentre è rimpiazzato da Alborea nel libretto) ma altri stupisce che non compaiano nel cast: Alinardo da Grottaferrata, vecchissimo monaco, le cui esternazioni sono di determinante aiuto a Guglielmo e Adso in relazione sia ai misfatti che si succedono, che a certi aspetti peculiari della labirintica biblioteca. E poi sono ignorati Aymaro d’Alessandria, che aiuta gli investigatori con informazioni sulla personalità dei reggitori dell’Abbazia; e ancora Nicola da Morimondo, esperto vetraio, Pacifico da Tivoli e Pietro da Sant’Albano, monaci che danno un più o meno forte contributo a definire il quadro complessivo del microcosmo dell’Abbazia.

Ma l’assenza più importante è quella del giovane Bencio da Upsala (che in Eco sarà nominato vicebibliotecario al posto di Berengario) la cui testimonianza è determinante ai fini di chiarire la morte per suicidio di Adelmo da Otranto, la prima delle (sette!) vittime di cui veniamo a conoscenza. Costui è già passato a miglior vita qualche giorno prima dei fatti narrati da Eco, e di lui Adso ci parla attraverso racconti di altri personaggi che ebbero con Adelmo un qualche rapporto, e magari ricordano qualche sua esternazione. Del più drammatico di questi racconti è protagonista Berengario da Arundel, che guarda caso si scoprirà aver avuto una relazione, ehm… equivoca, proprio con Adelmo, con il quale (anzi, con lo spettro del quale) afferma di essere stato protagonista di uno spaventevole incontro faccia a faccia, nel cimitero dell’Abbazia, la notte in cui Adelmo morì.

Ma è un racconto poco convincente per Guglielmo e Adso, che scoprono la verità proprio con il successivo interrogatorio di Bencio, che è stato testimone dell’equivoco rapporto carnale fra Berengario e Adelmo, del rifugiarsi di quest’ultimo nella cella di Jorge per confessarsi e del suo successivo vagare disperato nel cimitero, inseguito da Berengario (e spiato da Venanzio); il che dà a Guglielmo la quasi certezza del suicidio di Adelmo, per l’insostenibile vergogna del peccato commesso.

Orbene, dato che Filidei ha tenuto Bencio fuori dalla storia, come ha risolto lo spinoso problema? Primo: durante il Prologo, mentre Guglielmo e Adso sono ancora in viaggio, ci mostra in un flashback Adelmo che si confessa da Jorge e ne viene cacciato senza misericordia; secondo: ci presenta successivamente il drammatico incontro fra Berengario e Adelmo (guarda caso interpretati dallo stesso cantante) sotto forma di racconto del primo, che però canta anche ciò che racconta il secondo!  


Quanto alle tessiture vocali, la curiosità che si può avanzare qui riguarda i tre ruoli maschili assegnati a voci femminili en-travesti: quasi che Filidei sentisse il bisogno di rompere la monotonia di un’opera che avrebbe – all’origine – soltanto una voce femminile (la ragazza) su 20! A questo fine si potrebbe anche attribuire la scelta di affidare a due controtenori i tre personaggi (Berengario, Adelmo e Malachia) che presentano caratteristiche… LGBTQ+. E poi, come non pensare a Strauss (Octavian-Sophie) a proposito dell’incontro d’amore - fine primo atto, dalla penultima scena del giorno 3 di Eco - di due voci femminili (Adso e Ragazza del villaggio)?
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Come anticipato più sopra, una delle caratteristiche del romanzo consiste nel frequente interrompersi della narrazione dei fatti principali – quelli relativi agli aspetti thrilling della vicenda, che il lettore vorrebbe divorare tutti d’un fiato – per fare spazio a lunghe (a volte lunghissime, e dottissime quanto… ehm, esasperanti) divagazioni – le cosiddette ecfrasi - su oggetti e/o temi che con l’azione hanno legami spesso assai labili, o come minimo assai remoti. Eco ovviamente ha qui modo di sfoggiare la sua enciclopedica cultura, e di arricchire la sua storia - di per sé molto coinvolgente ma anche di un genere piuttosto abusato - con elementi di alto spessore filosofico, religioso (e teologico), psicanalitico (ed erotico), scientifico e ovviamente artistico (come la minuziosa contemplazione del portale della chiesa da parte di Adso o la descrizione della struttura labirintica della biblioteca). Ma persino… culinario, come dimostra la descrizione del lavoro in cucina, con dotte e dettagliate citazioni di carni e verdure (inclusi i peperoni, errore storico rimediato nella riedizione, insieme a quelli relativi al violino e allo scambio di torrione meridionale-orientale dell’Edificio); non manca neppure una rara ricetta del casio in pastelletto!

Nelle sue citate Postille, lo scrittore paragona questo andamento altalenante della narrazione all’avvicendarsi, nel classico melodramma, di recitativi, dove si sviluppa l’azione, e di arie (o altri numeri musicali) dove il tempo si ferma per lasciare spazio a riflessioni di varia natura. E su questa similitudine di Eco il compositore rivela di aver fatto leva nella costruzione della sua opera.

Ebbene, devo dire che la promessa è stata mantenuta solo in parte. Parliamoci chiaro, pensare di riprodurre in musica le dottissime e lunghissime ecfrasi di Eco sarebbe stato quasi impossibile, e allora Filidei per trarsi d’impaccio si è rifugiato in corner nel… gregoriano. Ad esempio, rimpiazzando pagine e pagine di descrizione del portale della Chiesa con qualche verso dell’Apocalisse messo in bocca al coro; o impiegando antifone cantate da Adso e inni dal Salterio che il coro canta alla scoperta del cadavere di Venanzio; o impiegando parti del Cantico dei Cantici per sottolineare l’amplesso fra Adso e la Ragazza innominata.

Sono omesse quasi tutte le lunghe ecfrasi a contenuto rievocativo delle diatribe e degli scontri fra guelfi e ghibellini e fra ordini monastici e papato, con scambi di accuse di eresia e di secolarizzazione; resta, affidato al coro, un accenno alle vicende dei dolciniani; e restano ovviamente gli accesi scambi di vedute che accadono in presa diretta, tipicamente nella grande scena dell’incontro a carattere diplomatico fra le due delegazioni convenute all’Abbazia.

Per il resto l’opera si concentra sugli aspetti più strettamente thrilling del romanzo, relativi alle visite nella labirintica biblioteca e alla decifrazione dei diversi enigmi che porta progressivamente Guglielmo e Adso ad avvicinarsi alla definitiva scoperta della verità.

Un’ultima curiosità: nella conclusione, Filidei ha inventato un… ritorno di fiamma in Adso che, tornato ormai vegliardo all’Abbazia diroccata, rivede la statua della Madonna e torna con il pensiero alla ragazza innominata… [Siamo o no nel melodramma?]    

Qui una sommaria elencazione delle principali divergenze fra il testo di Eco e il libretto di Filidei. 

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Scenografia e rispetto delle indicazioni di Eco. Sarà interessante osservare se e quanto delle minuziose indicazioni di Eco sono state osservate (o mutate) da regista/scenografo.

Ad esempio, ecco come Eco immagina il labirintico piano-biblioteca (secondo) dell’Edificio, la costruzione che ospita anche: scriptorium (primo) e cucine/refettorio (terra). La planimetria sottostante rappresenta il luogo del (pen)ultimo atto della storia: la sala eptagonale della biblioteca, detta Finis Africae, in cui si è barricato – protetto da una porta-specchio che ne dissimula uno dei due ingressi (l'altro, ancor più segreto, è raggiungibile salendo direttamente dall'ossario, sotto il piano terra) - l’autore morale (in un solo caso, l’ultimo, anche materiale) delle sei morti succedutesi nei sei giorni precedenti, cui si aggiungerà la sua (auto-avvelenamento, completato dalle fiamme) in quelle primissime ore del settimo giorno, dove si compirà il destino di distruzione dell’intero monastero. 

Certo, in teatro sarà difficile riprodurre fedelmente quel labirinto, suddiviso in 11 sezioni fra loro imbricate: ANGLIA, GERMANI, GALLIA, HIBERNIA, ROMA, YSPANIA; LEONES, AEGYPTUS, IUDAEA, FONS ADAE e ACAIA. Dalle poche immagini pubblicate (dove il labirinto è semitrasparente e… si muove ruotando su se stesso) è anche difficile immaginare l’efficacia della scenografia: ci penseranno Michieletto e Fantin a risolvere da par loro il problema.

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Per finire, ecco invece uno schematico elenco delle sette morti, con relative cause:


Il problema da risolvere per autore e regista risiede nel fatto che, nel romanzo, le vicende relative a queste morti si imbricano fra loro (proprio come le sezioni del labirinto della biblioteca) ed è già complicato seguirle a dovere leggendo il romanzo. Abbiamo già visto come sia stato complicata e non del tutto convincente la soluzione del caso Adelmo-Berengario. Vedremo come Filidei-Michieletto sapranno toglierci queste castagne dal fuoco.
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Commenti dal vivo dopo la prima di domenica 27 aprile (che sarà anche trasmessa in diretta da Radio3).