XIV

da prevosto a leone

31 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.28 – Tjeknavorian - Müller-Schott

Per il terz’ultimo appuntamento della stagione principale 24-25 dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Emmanuel Tjeknavorian ci mette in tavola un menu costituito da due piatti del tardissimo ‘800: lo Dvořák del 1894 e il Sibelius del 1898. Auditorium non proprio esaurito, ma quasi, e sempre pieno di entusiasmo. In platea Oreste Bossini racconta il concerto per Radio3.

La serata si apre nel nome di Jan Sibelius, con la sua Prima Sinfonia, cui il 34enne compositore si volse proprio sul finire del secolo dopo aver composto diversi poemi sinfonici a sfondo nazionalistico-patriottico. Il suo fu un approccio innovativo sia rispetto a Ciajkovski (cui peraltro fu debitore) ma anche rispetto a Mahler, del quale non condivideva l’idea di impiegare la sinfonia per raccontare l’universo.

E questa Prima in effetti sembra rifarsi al sinfonismo classico, sul quale innestare elementi della tradizione musicale del suo Paese. In Appendice riporto una succinta guida all’ascolto, basata su un’esecuzione di papà Loris con i suoi filarmonici armeni nel 1997, quando il piccolo Emmanuel aveva sì e no un paio d’anni…

Per l’Orchestra è la prima esperienza con questo lavoro non proprio conosciutissimo e meno ancora eseguito, così il Tjek (sempre a memoria!) la guida da par suo, mettendo in risalto non solo i suoni, ma anche i silenzi lunghi e brevi (rappresentati in partitura da corone puntate e apostrofi di respiro).

Così ne esce un risultato mirabile, che ridà un meritato lustro a questo Sibelius francamente troppo snobbato dai modernisti con la puzza al naso.

Dopo la chiusura con i sommessi pizzicati degli archi il Tjek tiene ancora una decina di secondi di silenzio, poi inutile dire dell’accoglienza trionfale che accomuna Kapellmeister e Musikanten.

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Ha chiuso la serata un compagno di… sonate del Tjek, il 49enne Daniel Müller-Schott con il suo violoncello, impegnati nel Concerto op.104 di Antonin Dvořák. Qui vediamo una pregevole esecuzione di Daniel in terra danese con Kitajenko.

Il suono del violoncello di Müller-Schott (Goffriller 1727) è di assoluta purezza, cosa che avrebbe stupito lo stesso Dvořák, che non aveva mai nascosto la sua idiosincrasia per quello strumento, considerato piuttosto rozzo proprio nella qualità sonora (!?) Ma certo il merito è anche dell’esecutore, dalla tecnica trascendentale e dalla sensibilità sopraffina. Il Tjek (eccezionalmente con la partitura sotto gli occhi) lo ha assecondato al meglio, avendo con lui, come detto, una consuetudine di lunga data.

Qualche neo purtroppo si è manifestato in orchestra, dalla zona dei corni (citiamo il peccato e non il peccatore) che non consente di giudicare perfetta questa performance.

Ma alla fine non impedisce il manifestarsi di acclamazioni e ovazioni da parte di un pubblico in delirio, ripagato con un prezioso e accorato bis, seguito da un ultimo trionfale omaggio per tutti.   

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Appendice. La prima sinfonia di Sibelius

Inizia con un’Introduzione lenta (à-la-Haydn… Andante ma non troppo) in MI minore con inflessi modali. È un languido recitativo del clarinetto (21”di cui si ricorderà Nino Rota per il suo Padrinosul tappeto in SI del timpano che getta musicalmente le basi per i temi che compariranno nel seguito.

Segue l’Allegro energico (1’33”) dalla struttura di forma-sonata eterodossa, principiante nella tonalità relativa di SOL maggiore con esposizione di un primo tema che si anima nel dialogo fra archi e fiati, che conduce ad un crescendo sfociante (2’41”) in un generale accordo sulla sesta abbassata di MIb, seguito da uno in MI naturale, poi ancora in FA e poi in FA# per sfociare (2’47”) ancora in SOL maggiore, dove il tema è reiterato a piena orchestra e poi ancora ribadito (3’09”) nella sottodominante DO maggiore.

Da qui un subitaneo passaggio a SI maggiore apre la strada al secondo tema (3’30”) protagonisti gli strumentini con sereni svolazzi; poi (4’29”) l’atmosfera si abbruna a SI minore, dove ancora i legni si slanciano in un furioso crescendo – pare lo Scherzo della nona beethoveniana… - che si spegne (4’50”) in modo traumatico. Tre semiminime di SI pizzicato degli archi chiudono di fatto l’esposizione.

Il lungo sviluppo – in realtà appare come un intermezzo che porta alla luce muovi motivi - inizia (4’55”) ancora in SI maggiore, con un momento di calma in LAb (5’30”) seguito da un lungo passaggio caratterizzato da successive scale discendenti e poi da un magmatico crescendo (6’23”) che sfocia maestosamente (7’25”) in SOL maggiore, con una nobile perorazione degli archi, che porta all’eterodossa ripresa del primo tema, che ascoltiamo (8’10”) dopo il convulso crescendo.

In tempo Tranquillo (9’01”) ecco il ritorno a MI minore che introduce la coda, culminante (10’09”) in una melodrammatica cadenza in fortissimo, chiusa da due accordi in pizzicato degli archi. 

Il secondo movimento è un Andante (ma non troppo Lento) nella distante tonalità di MIb maggiore. I violini (10’53”) espongono la prima parte del languido tema principale, costituita da due sezioni, la seconda ripetuta. Ora (12’02”) i fiati, poi supportati da viole e celli, rispondono proponendo la conclusione del tema.

I fagotti (12’25”, Un poco meno andante) – seguiti poi dagli altri legni - intonano ora una triste melopea in SOL minore che poi si trasforma (12’58”) in un accorato appello, costituito dall’incipit del tema principale seguito da dolorose cadute chiuse da una pesantissima discesa di quattro ottave, fino al FA sotto il rigo di basso.

Ora (13’55”) una transizione sul DO minore caratterizzata da sestine ribattute di flauti e oboi ci conduce alla sezione centrale del movimento (14’24”, Molto tranquillo) una specie di oasi in LAb maggiore, con tanto di esternazioni ornitologiche degli strumentini. La cui visione sfuma (15’33”, Adagio) per lasciar subito posto al ritorno del tempo primo e all’atmosfera della precedente sezione, in DO minore e poi in SOL minore, che una fugace riapparizione del LAb (17’37”) cerca invano di contrastare.

Attacca quindi un vorticoso crescendo (Poco a poco stringendo) che conduce ad un climax in cui si distinguono pesanti strappi dell’orchestra, finchè (18’52”) in DO minore esplode una delle varianti del tema principale (Ciajkovski? Wagner?) che poi (19’07”) sfuma nel MIb d’origine portando ad una serena conclusione di questo viaggio tormentato.

Ecco poi lo Scherzo, tonalità DO maggiore, classicamente ripartito A-B-A (Scherzo-Trio-Scherzo). Di stampo vagamente bruckneriano, nel piglio da moto perpetuo. Sul pedale ostinato di viole e celli sono i timpani (DO-SOL) ad annunciare (20’52”) il motto dello Scherzo, subito imitati dai violini. Corni e legni (20’55”) ne espongono il tema scalpitante che vaga in orchestra fra svolazzi di strumentini, sestine di celli e folate ascendenti e discendenti dell’arpa. Dopo un passaggio più disteso degli archi, torna il motto (21’42”) ad aprire una nuova sezione dello Scherzo, culminante (22’00”) in volate di legni e poi di archi, sempre innescate dall’incipit del motto.

Si arriva così (22’35”) al classico Trio, Lento (ma non troppo), in MI maggiore, aperto, ancor più classicamente, dai corni. Poi (22’59”) è il flauto ad esibirsi in un cullante motivo impreziosito da trilli; ancora una pausa (23’30”) e i legni riprendono il motivo di attacco de Trio, poi raggiunti dagli archi che si dilungano sulla dominante SI. Il ritorno al Tempo I preannuncia la conclusione del Trio, sancita da veloci scale discendenti degli archi, chiuse sul DO.

Riecco quindi (24’33”) ripresentarsi lo Scherzo nella sua interezza, chiuso da una perentoria coda, protagonista il motto.

Il Finale reca tra parentesi la dicitura (quasi una Fantasia). Ed in effetti la sua struttura è abbastanza… fantasiosa, per lo meno rispetto ai sacri canoni classici, consistendo in due temi principali (tipo forma-sonata) che vengono dapprima esposti e successivamente poi ripresi e variati, di fatto sviluppati.

La tonalità è ovviamente in MI minore e il movimento Inizia (25’50”) con un’Introduzione in tempo Andante, come già il primo. E da quello mutua subito il motivo di apertura della Sinfonia, esposto dagli archi, ai quali rispondono i flauti con la frase chiusa dai corni e fagotti sull’accordo di SI minore e ancora oboi e poi flauti e clarinetti con corni e fagotti a chiudere in SOL minore.

In tempo Meno andante (27’34”) celli e bassi chiudono l’Introduzione preparando il terreno all’Allegro molto dove presto compare (28’08”) nei bassi e nelle viole il primo tema, agitato e poi dilagante in orchestra, fra archi e fiati che si rincorrono, in un continuo crescendo (Poco a poco più Allegro) fino a raggiungere, dopo cinque schianti poderosi, un climax (29’04”) su un RE acuto, dal quale i violini precipitano fino ad un SI sotto il rigo.

È arrivato il momento (29’19”, Andante assai) di conoscere il secondo tema, una nobile melodia nel solare DO maggiore, intonata dai violini, che si distende ulteriormente (30’21”, Poco a poco meno Andante) fino a chiudersi (31’06”) con gli strumentini.

Inizia ora lo sviluppo del primo tema (31’18”, Allegro molto, come prima) che sembra travolgere tutto, fino ad un climax (32’08”) da cui subito riparte ancor più vigoroso (Poco a poco più Allegro) e quindi (32’37”) si fa sempre più ostinato, con schianti successivi che portano finalmente (32’54”) ad un progressivo acquetarsi dell’atmosfera, presagio dell’arrivo (33’06”) in tempo Andante (ma non troppo) dello sviluppo del secondo tema.

Che ora torna in LAb maggiore, poi trascolora a REb, ancora a SOLb e poi a SI maggiore (34’26”) dove a lungo si distende maestoso, fino poi (36’55”) a scendere sul MI della finale apoteosi, chiusa - dopo tre schianti in MI minore dell’intera orchestra, come accadde al primo movimento - con due pizzicati degli archi.


26 maggio, 2025

Scala: partenza un po’ fantozziana della stagione 25-26

Alle 12 di oggi era prevista la diffusione in streaming della conferenza stampa per l’annuncio in pompa magna della nuova stagione.

Sullo schermo dello streaming il count-down procedeva regolare… ma a poco più di 3 minuti dall’ora prevista per l’inizio è comparso il messaggio: video non disponibile!  

Panico (beh, insomma…) e vaffanculi assortiti per la gradevole sorpresa, durata per diversi minuti prima che lo streaming riprendesse in-medias-res, cioè durante lo speech iniziale del sottosegretario alla cultura (no, il ministro forse ha un'oratoria troppo inarrivabile per un ambiente provinciale come quello meneghino).

Ma la sorpresa più grande è stata il sottofondo di musica strumentale che ha accompagnato questo saluto e anche parecchi minuti di trasmissione a seguire, prima di essere silenziato anche a fronte di commenti piuttosto acidi della chat: le variazioni Enigma di Elgar!!! Perfidia pura, hahaha!

Che dire della stagione? Una delle più importanti novità è che l’intero gennaio sarà un mese sabbatico per l’opera: nessuno spettacolo!


24 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.27 – Tjeknavorian




Un programma eroico è quello che vede il ritorno sul podio dell’Auditorium del Direttore Musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

In programma Egmont e Titan, due soggetti solo apparentemente simili, dacchè l’Egmont di Goethe (musicato da Beethoven) fu effettivamente un eroico difensore del popolo fiammingo (oltre che della propria famiglia) contro la tirannia spagnola; mentre il Roquairol protagonista del romanzo di Jean Paul (al secolo Johann Friedrich Richter) che ispirò Mahler è piuttosto un romantico abbastanza fanatico, che si suicida dopo una vita tutt’altro che eroica… [Lo stesso Mahler depennò il sottotitolo della sua opera quando – dopo averla privata del secondo movimento - ribattezzò semplicemente Sinfonia ciò che aveva inizialmente chiamato Poema Sinfonico!]

L’Ouverture dell’Egmont (1809) è un gioiello di forma e sostanza, che racchiude in sé con mirabile concisione i temi che evocano le gesta del conte fiammingo. Rimando i curiosi ad una mia dettagliata analisi del brano, pubblicata qui tempo fa in occasione di un concerto de laVerdi.

Vibrante, tesa, essenziale, si direbbe proprio… beethoveniana nello spirito, l’interpretazione del Tjek, accolta da convinti applausi. 

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Il tempo per rinforzare adeguatamente i ranghi dell’orchestra ed ecco il Tjek cimentarsi con uno dei brani più inflazionati (e spesso pure… bistrattati) del panorama sinfonico del tardo ‘800: Mahler e la Prima Sinfonia in RE maggiore, concepita probabilmente fin dal 1884-85 (insieme o poco dopo le canzoni del ciclo dei fahrenden Gesellen, due delle quali vi sono scopertamente richiamate); poi venuta alla luce nel 1886-89 a Budapest come Poema Sinfonico; e ancora rivista più volte dal 1893 ad Amburgo - compresa la comparsa e successiva rimozione del discutibile riferimento a Titan - fino alla definitiva versione, come Sinfonia, appunto, del 1899.

Per pura curiosità, ecco come la interpretava papà Loris con l’Orchestra Filarmonica della sua Armenia, a Yerevan (purtroppo una registrazione davvero… di fortuna).

Che dire della prestazione di ieri? Un inizio davvero seducente, con il LA in armonico degli archi davvero straordinario, poi però una defaillance dei corni ha un po’ rotto l’incantesimo e, purtroppo, si ripeterà anche più avanti nel corso della serata.

Ho trovato da perfezionare l’amalgama fra le sezioni, in specie nei tutti, che spesso risultavano piuttosto, come dire… un po’ rozzi, ecco. Questo nei primi due movimenti, meglio le cose sono andate nel finale.

Il meglio si è avuto nel Feierlich und gemessen, con il meraviglioso attacco del contrabbasso di Michele Sciandra, e poi il sognante Lied del tiglio con Santaniello. Rimarchevole anche la resa, nel finale, del romantico passaggio quasi… chopiniano.

Ma insomma, penso che si potesse fare meglio, per ieri non andrei oltre un voto 6-7, ecco. Spero proprio che domani le cose migliorino assai. 

In ogni caso il foltissimo pubblico non ha mancato di sommergere tutti con applausi ritmati e ovazioni, segno che il feeling con il Tjek è in continuo crescendo.

17 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.26 – Ceccherini-Filidei-Tamestit

È frutto della consueta collaborazione de laVerdi con MilanoMusica il concerto che va in onda questa settimana all’Auditorium, diretto da Tito Ceccherini. Concerto che ha il suo pezzo forte nella prima esecuzione italiana di una composizione di Francesco Filidei (cui è intitolata la celebre rassegna milanese di quest’anno).

Del compositore, di cui abbiamo potuto vedere, ascoltare ed apprezzare di recente alla Scala la nuovissima opera teatrale - Il nome della rosa – è stato presentato il Concerto per viola e orchestra, composto quasi contemporaneamente all’opera nel 23-24, su commissione della Radio Bavarese, di MilanoMusica e della francese SACEM.

Ad interpretarlo Antoine Tamestit, dedicatario e primo esecutore in assoluto del brano (12 aprile 2024 a Monaco di Baviera, Radio Bavarese).

Di Filidei proprio qui in Auditorium avevamo ascoltato circa 11 anni orsono una composizione (Fiori di fiori) ispirata a Frescobaldi e in realtà ai rumori che il complesso meccanismo dell’organo (Filidei è nato organista) produce per… produrre i suoi suoni. Era ancora il Filidei ricercatore nel campo rumoristico, ecco.

Oggi la sua evoluzione estetica lo ha portato a rivalutare anche il valore del suono in quanto tale, e ciò si è potuto constatare nella recente opera (e per la verità anche nelle due precedenti, Giordano Bruno e L’inondation) e in questo Concerto dalla struttura classica in tre movimenti, ottenuto rielaborando precedenti composizioni. Certo anche qui non manca la ricerca di effetti speciali, chiedendo agli strumenti imprese… bizzarre, come (per far solo un esempio riguardante i contrabbassi) farli suonare su corde allentate, in modo da ottenere un effetto di sfarfallio, oppure prescrivere di passare l’archetto sulle corde fra il ponte e l’ancoraggio…

Ma nel brano non mancano squarci di pura diatonia: nell’iniziale I giardini di Vilnius si ascoltano passaggi su perfette triadi di LA, SOL, FA#, REb maggiore! Nel centrale Tuttomondo (una sorta di Scherzo ispirato a Falstaff) prevale chiaramente il DO maggiore, mentre il conclusivo e languido What is a Flower? si muove in prevalenza in LA minore.

Tamestit ha mostrato tutta la sua abilità tecnica, messa davvero a durissima prova da Filidei, che chiama il solista a imprese davvero impossibili, e il pubblico ha ripagato lui, come pure Ceccherini e l’Autore salito sul palco, con interminabili battimani e ovazioni.

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Ha degnamente chiuso la serata Claude Debussy con i suoi celeberrimi Trois Nocturnes presentati in integrale (tre e non soltanto due, appunto) grazie alla presenza del Coro I Giovani di Milano diretto da Maria Teresa Tramontin, che ha reso possibile eseguire come-si-deve anche Sirènes.

Questi Nocturnes costituiscono una particolare variante di musica-a-programma. Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso.  

L’incipit di clarinetti e fagotti ricorda vagamente il Dies-Irae, mentre subito dopo il corno inglese espone un nuovo tema ricorrente, che sembra quasi una reminiscenza delle prime battute del Tristan. Pur non essendo un seguace dell’atonalismo, Debussy cerca di affrancarsi dai classici e rigidi schemi della tonalità, impiegando accordi imperfetti, o inquinando quelli perfetti con note armonicamente distanti: in questo brano in particolare, ciò concorre in modo estremamente efficace a creare quell’atmosfera indefinita e instabile che lo caratterizza. Nella sezione centrale Debussy fa anche uso di una scala pentatonica, di chiara matrice orientale, che sembra anticipare di 10 anni altre nuvole, quelle del Lied von der Erde di Mahler

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes è un brano che è davvero raro ascoltare in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): come anticipato, è un merito de laVerdi averci fatto – non è la prima volta - questo bel regalo. Ieri le 23 ragazze (14 soprani + 9 mezzosoprani) erano dislocate in orchestra, fra i legni e gli ottoni, proprio quasi fossero strumenti… umani.

Per tutti grandi applausi da parte di un pubblico abbastanza folto e soprattutto impreziosito da una nutrita rappresentanza di giovani e giovanissimi, il che fa sempre un gran piacere.


15 maggio, 2025

Chailly-Brook fanno trionfare Weill-Brecht alla Scala

Dopo il Dittico del 2021 in piena era Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.

Come allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre si perde quella di Harris.

Irina Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford) con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali che caratterizzano proprio i giorni nostri.

Il finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua utopia…

Si parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti diversi (danzatori e cantanti).

Completato da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni, rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali. 

Magari dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in tutti i peccati capitali!

Un aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto) su temi politico-socio-etico-esistenziali.

Bene, Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena (sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento. Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri componenti della famiglia delle ragazze. Una multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di… rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della natia Louisiana.

Vi vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!

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Con Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures americane.

Tre delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares), testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!

La scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio, praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate. 

Emblematica la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?) 

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Dopo l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo – in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì sogna di approdare l’anima dell’Uomo.

Irina Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio. Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi, come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che interpretano le canzoni, più altre sei comparse.

La chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?

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La musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo stilare classifiche e dare voti.

Un’osservazione mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.

Niente da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro, che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con una propria, personale sensibilità swing

Forse temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico neo in una prestazione di eccellenza.

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Pubblico non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique Meyer.

10 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.25 – Varga-Goerner

Dopo il lungo intervallo pasquale, riprende la stagione con questo concerto impregnato di Ungheria, ma con un intermezzo di italico romanticismo.  È ungherese il 73enne Direttore, Gilbert Varga, figlio d’arte, e ungheresi sono tre dei quattro compositori eseguiti.

Si parte con Threnos, breve brano di Sándor Veress, composto nel 1945 a pochi mesi dalla morte di Béla Bartók e a costui quindi dedicato.

La struttura del brano è tripartita: a due sezioni che presentano – nello stile del folklore popolare - altrettanti canti di lamentazione funeraria, con crescendo di dolorosa intensità seguiti da repentine e disperanti cadute di tensione, segue la parte conclusiva, che riprende temi delle due precedenti per muoversi su un lungo arco che sale e poi scende lentamente verso una rassegnata serenità.

A dispetto della sua brevità, il brano è una costruzione assai complessa, sia dal punto di vista melodico che armonico, come eloquentemente spiegato in questo dettagliato studio di Miklós Fekete dell’Università di Cluj-Napoca (scaricabile previa iscrizione al sito).

Altre caratteristiche peculiari del brano sono la sua poliritmicità e politonalità e la frequente alternanza di metro ad evocare le sconfortate lamentazioni in ricordo del defunto.

Varga dirige con gesto prevalentemente composto, con qualche cedimento ad enfasi e platealità. Ma sempre con squisito stile… austro-ungarico. Comunque, a giudicare dal tributo riservatogli dall’orchestra alla fine del concerto, si direbbe che sia piaciuto anche ai suonatori, oltre che al pubblico.

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È poi la volta di Nelson Goerner, 56enne pianista argentino, di sedersi alla tastiera per interpretare il celeberrimo Primo Concerto di Franz Liszt. (Qui alcune mie note in proposito).

Prestazione di alto livello (qualche leggera svirgolata è sempre da perdonarsi in brani come questo, che hanno passaggi invero impervi). Equilibrato impego del rubato, grandiosità delle perorazioni (gli strepitoso che costellano la partitura) e un costante ottimo amalgama con l’orchestra sono alcuni aspetti rimarchevoli della sua interpretazione. 

Accolta con entusiasmo dal pubblico discretamente folto dell’Auditorium, che Nelson ripaga con Rachmaninov (il quarto dei dieci Preludi dell’op.23, qui a 7’29”). 

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Un altro brano breve apre la seconda parte della serata, interrompendo momentaneamente il percorso tutto magiaro del concerto: è il Notturno n°1 di Giuseppe Martucci, versione orchestrata nel 1901 dal compositore dall’originale per pianoforte composto dieci anni prima.

Brano tipicamente tardoromantico, dalla struttura assai semplice (tonalità SOLb maggiore con divagazione alla sottodominante DOb) che richiama atmosfere oniriche, un po’ decadenti o nordiche, che si ritrovano in analoghi brani di Liadov, Sibelius, Grieg… ecco. 

L’orchestra davvero smagrita (per dire, 10 soli fiati: 4 legni e corni a 2) ne ha efficacemente messo in risalto le qualità delicatamente miniaturistiche.

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La serata si chiude proprio con Bartók, di cui ascoltiamo la Suite da Il mandarino meraviglioso (o miracoloso che dir si preferisca, traducendo il nativo csodálatos).

Suite che in realtà presenta buona parte della musica dell’originale Pantomima (poi trasformata in Balletto dopo l’ostracismo subito a seguito delle prime rappresentazioni del 1929) come chiarisco nella tabella in Appendice, che mostra come la Suite sia stata derivata per semplice sottrazione di tutto il movimentato (ma poi… trasfigurante) finale. Intelligente la decisione di proiettare sui due schermi che sovrastano il palco i testi (inglese e italiano) delle didascalie originali che in partitura segnalano i tratti salienti dell’azione che ispira la musica.

Dove, nell’introduzione, si evoca il logorio della vita moderna (copyright Cynar…) e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti della ragazza, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui. Asfissiante la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) che chiude la Suite con gran trambusto e fracasso (l'integrale della Pantomima chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba). 

Gran trionfo per Varga, che ha l’ha diretta a memoria, e per l’orchestra tutta che, aizzata con… il piede dalla spalla Dellingshausen, spinge il pubblico ad un applauso ritmato per il Direttore, che ringrazia tutti e in particolare le prime parti, chiamate a difficili interventi solistici. Insomma, una bella serata di musica. 

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Appendice. Il Mandarino di Bartók.

Pantomima (Balletto)
Suite
Tempo
Azione
Allegro
Introduzione strumentale - Sipario
 

 

Il 1° malvivente rovista le sue tasche in cerca di denaro… senza successo. Non trova nulla.
Il 2° malvivente cerca nel cassetto del tavolo. Non trova nulla.
Il 3° malvivente si alza dal letto, va verso la ragazza e le ordina di affacciarsi alla finestra e di adescare i passanti, che verranno poi derubati.
Meno mosso
La ragazza si oppone. I tre malviventi ribadiscono l’ordine.
Eliminato (14 battute)
Vivo; Moderato
La ragazza si arrende e va ciondolando alla finestra.
 
Rubato
Primo adescamento. Si fa vivo un uomo.
Più mosso
Sale le scale. I malviventi si nascondono.
Comodo; Più lento
Si fa avanti un vecchio e trasandato cavaliere, con movenze comiche.
Comodo; Lento
La ragazza: hai denaro? Il vecchio cavaliere: il denaro è irrilevante. Essenziale è l’amore! Si fa sempre più invadente.
Vivace
I tre malviventi balzano fuori dal nascondiglio, afferrano il vecchio cavaliere e lo scaraventano fuori. Si volgono arrabbiati alla ragazza e la obbligano a tornare nuovamente alla finestra.
Più mosso
Secondo adescamento. La ragazza scorge ancora qualcuno. (I malviventi si nascondono.)
Sostenuto; Più mosso; Ancora più mosso
Un timido giovane si affaccia alla porta. Fatica a mascherare l’imbarazzo. La ragazza lo accarezza per incoraggiarlo e intanto gli palpa le tasche (non ha un soldo).
Allegretto
Lo tira a sé e inizia una danza dapprima quasi timida.
Più mosso
La danza si fa più agitata e appassionata.
Vivace
Ma i malviventi saltano fuori, afferrano il giovane e lo sbattono fuori. Si volgono alla ragazza: Sii dunque ragionevole. Procuraci un uomo adatto.
Sostenuto; Agitato
Terzo adescamento. Si scorge con raccapriccio sulla strada una figura poco raccomandabile. Lo si ode salire le scale. I malviventi si nascondono.
Maestoso
Il Mandarino si fa avanti. Resta come immobile sulla porta, la ragazza fugge inorridita nella parte opposta della stanza.
Non troppo vivo
Spavento generale. I tre malviventi accennano di nascosto dal loro nascondiglio alla ragazza di iniziare ad avvicinarsi un poco al Mandarino per ammaliarlo. La ragazza vince il proprio ribrezzo e grida al Mandarino:
Eliminato (41 battute)
Meno mosso
Vieni più vicino! Perché te ne stai lì così immobile a fissarmi? Il Mandarino fa due passi. La ragazza: Più vicino! Siediti sulla sedia.
Tranquillo
Il Mandarino si siede.
Vivo; Meno vivo
La ragazza è indecisa. Torna ad inorridire. Alla fine vince la sua ritrosia e inizia timidamente una danza.
(A poco a poco la danza, accompagnata da una musica adeguata, audacemente…    
Lento
… culminerà alla fine in danza selvaggiamente erotica.) Durante la danza il Mandarino guarda fissamente la ragazza in modo che il divampare della sua passione diventa percettibile.
 
Allegretto; Adagio; Valse; Allegro
La ragazza abbassa il petto verso il Mandarino. Lui comincia a fremere in febbrile eccitazione.
Più allegro
Però la ragazza rabbrividisce al suo abbraccio… vuole staccarsi da lui…
Sempre vivace; Marcatissimo
…ciò che finalmente le riesce. Comincia ora una caccia sempre più selvaggia da parte del Mandarino alla ragazza che continua a fuggire.

Sempre vivace

Il Mandarino inciampa, ma si rialza di scatto e prosegue la sua caccia ancor più selvaggiamente. Raggiunge la ragazza. Lottano l’un contro l’altra.
14 battute in più solo per la Suite, che termina qui.
Sempre vivo
I malviventi saltano fuori, bloccano il Mandarino, lo trascinano lontano dalla ragazza. Gli strappano i gioielli e il denaro. Dopo che è stato depredato, si sente dire: Cosa ce ne facciamo adesso?

Maestoso
Dobbiamo ammazzarlo, soffocarlo nel letto sotto i cuscini! Viene trascinato verso il letto e quivi gettato…  
Pesante
…ricoperto di cuscini, coperte, e di qualunque altro oggetto pesante. Uno dei malviventi gli si siede persino sopra.
Più sostenuto
Si attende qualche istante. Poi il malvivente scende dal letto. Tutti e tre si allontanano un poco. Ora dovrebbe essere soffocato!
Adagio
Improvvisamente la testa del Mandarino emerge dai cuscini, lui guarda ardentemente la ragazza. Le quattro persone inorridiscono, restano lì sconvolti.
Più mosso; Allegro molto
I malviventi riflettono. Afferrano il Mandarino, lo trascinano fuori dai cuscini e lo tengono ben stretto. Si chiedono come poterlo uccidere.
Vivacissimo
Uno dei malviventi ha un’idea, cerca una vecchia spada arrugginita e la immerge per tre volte nel corpo del mandarino.
Ritenuto; Vivo; Meno mosso
Lasciano libero il Mandarino trafitto… lui barcolla, incespica, sembra quasi crollare, ...
Lento
…improvvisamente si rimette ritto e si getta sulla ragazza.
Agitato molto: Lento
I tre malviventi glielo impediscono e lo afferrano ancora saldamente. Il Mandarino immobilizzato guarda ardentemente verso la ragazza.
Agitato
I malviventi spaventati si domandano nuovamente come potersi liberare del Mandarino.
Più mosso
Impicchiamolo!
Grave
Trascinano il Mandarino recalcitrante al centro della stanza e lo impiccano al lampadario.
Più lento e rallentando
La lampada cade a terra.
Molto moderato
Il corpo penzolante del Mandarino comincia ad illuminarsi di verde e azzurro; i suoi occhi sono fissi sulla ragazza. I tre malviventi e la ragazza guardano il Mandarino pieni di terrore. Finalmente la ragazza ha un pensiero risolutivo. Fa segno ai tre malviventi: Tirate giù il Mandarino. I tre malviventi esaudiscono la sua richiesta.
Più mosso
Il Mandarino cade al suolo e si rovescia verso la ragazza.
Vivo; meno vivo
La ragazza non gli si oppone più, entrambi si abbracciano.
Lento
L’anelito del mandarino è ormai placato, le sue ferite incominciano a sanguinare, diventa sempre più debole e muore.