Di
tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio
per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen,
Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca
nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine
ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia
verdiana a Piacenza, con
Lanzillotta.]
Sul
podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio,
con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro,
che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico,
oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e
par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.
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Giusto
per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi
dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha
suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno)
pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un
soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è
ancora fargli un panegirico…
Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse
il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in
cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone
quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche
eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.
Protagonisti sono due maschi (il Conte di
Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto
che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la
presenza in scena come minimo di un triangolo
di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste).
Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure
perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di
solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.
Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che
il baritono sia persona di potere ed
anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto
di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di
grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro
il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina,
pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di
difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono.
E così il libretto di Cammarano ci presenta il
baritono nei panni del Conte di Luna,
ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre
così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora
è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro
insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche
idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e
dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).
Le
considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà
definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano
necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del
fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli
(salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando
racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la
cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e
sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto
dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo
della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in
culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del
Conte.
Invece
qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto
rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza
precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño)
è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due
anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una
gitana harapienta y quintañona.
Quanto all’età dei due al tempo
dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato
che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece
Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata,
che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre
lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo
coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non
di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?
Se dobbiamo giudicare tutta la questione
dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran
lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza
con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse
in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi
della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver
più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del
fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.
Infine, non è da trascurare l’effetto (su
cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito
(Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato
dettava legge…
Insomma, il rispetto delle regole
del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente
assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano)
imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei
protagonisti!
Veniamo adesso a qualche critica sulla
plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente
Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.
Comincio dalla quarta scena della prima giornata
di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre
protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte
decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del
complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso)
per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora
quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le
finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo
scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui
suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo
scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino.
Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non
vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa
regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto
con cui Verdi va a nozze!!
La suspense che
grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della
Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo
Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la
storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a
Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo
appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno
dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo
proprio suo figlio!
E qui abbiamo una delle infinite
inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre
la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede
ingenuamente: e chi son io, chi
dunque? Dopodichè accetta come
nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare
il suo racconto!
Ma subito dopo è proprio lui a
raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero
incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora:
ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un
gelido brivido gli scuote le membra… mentre
un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”
Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una
rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero
lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne
di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima
occasione manderà il Conte al creatore!
Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più
tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico
durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news,
mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato
miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di
Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera
con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina
a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di
irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena
madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare
la festa al rivale!
Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di
Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla
madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e
cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come
arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di
distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.
Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto
l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da
zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi
catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare
al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col
risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.
Altro schizofrenico comportamento nella prigione:
dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne;
quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo
fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli
(Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!
Gratuita anche la circostanza relativa
all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio
tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio
del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi
che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente
prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.
Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici
dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il
suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità
strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.
Ecco:
il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un
capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità
superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!
___
DO di petto o
SI di frodo?
Non può mancare ora il
tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E
ripete o no l’esposizione?
Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo
di mezzo (intervento di Leonora, in DO
minore);
riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui
lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):
battute
|
agogica
|
voci
|
verso
|
1-32
|
Allegro
|
Manrico
|
Di quella pira…
|
33-39
|
Più vivo
|
|
…e teco almen…
|
39-49
|
|
Leonora
|
Non reggo a colpi
|
50-81
|
Allegro
|
Manrico
|
Di quella pira…
|
82-88
|
Più vivo
|
|
…e teco almen…
|
88-124
|
Poco più mosso
|
Ruiz-Coro / Manrico
|
All’armi! All’armi! /
Madre infelice
|
124-131
|
|
Cadenza
orchestrale
|
La nota più alta toccata dal
tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal
tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).
Beh, dove sta il
problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata
la tradizione
esecutiva di tenori
dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della
ri-esposizione e sul finale all’armi!,
il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al
massimo a tollerare il secondo…)
Dopodichè a qualcuno fare
due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo
rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di
Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.
Ma non è finita qui: la
tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha
cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il
DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si
arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!):
tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che
facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle
pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito
un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere
a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono,
portandola al SI!
Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il
bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale,
si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio
dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un
semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è
visto!
Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche…
adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il
Topone e il sommo sacerdote HvK!
A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il
LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima
diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco
il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del
truffaldino SI che prepara la cabaletta.
Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo
peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente
cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si
sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!
In memoriam… ascoltiamo
invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore
Licitra (con Frittoli e il
filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì
ai DO e SI di petto…]